Pubblichiamo qui di seguito un breve articolo di Massimo Recalcati, La Repubblica del 07 Settembre, a commento di un corrispondente articolo che riassume i risultati di uno studio, coordinato dal gruppo Open Science Collaboration e pubblicato sulla rivista Science, che evidenzia la notevole mutabilità degli esperimenti condotti nell'ambito di ricerche psicologiche. In questa disciplina solo il 36% degli esperimenti ripetuti ha ottenuto risultati analoghi agli originali, i quali spesso erano stati utilizzati per sostenere affermazioni e teorie psicologiche. La fragilità degli esperimenti condotti in campo psicologico (ma non solo, la stessa incertezza sperimentale vale per altre discipline quali, ad esempio, la medicina) cozza con il principio fondamentale degli esperimenti in campo scientifico: la riproducibilità. Ciò che vale per le scienze "dure", fisica e chimica, non sembra essere applicabile alle discipline "umanistiche". La psicologia deve allora essere posta sotto processo in quanto "antiscientifica"? La questione è ovviamente complessa e si collega ad un dibattito che da sempre anima il campo dell'epistemologia (studio sui metodi e sui principi della conoscenza). Questa che segue è la replica "a caldo" di Recalcati
Ma
la vita psichica non si spiega con i numeri
IL nostro tempo è assillato dal culto
della cifra: tutto dovrebbe essere misurato, pesato, tradotto in numeri,
quantificato. Il mito dell'oggettività al di là di ogni interpretazione non
anima solo alcune recenti correnti filosofiche, ma sembra essere diventato una
sorta di imperativo "morale" diffusosi in tutte le aree del sapere.
Nemmeno la psicologia può sfuggire a questa tendenza. Anzi, essa sembra sposare
con sempre più determinazione l'idea propria delle scienze "dure" —
come la matematica o la fisica — che una ricerca per essere considerata degna
di scientificità non solo debba galileianamente essere riproducibile in termini
sperimentali ma, soprattutto, produrre numeri, percentuali, cifre attendibili.
Nemmeno la dimensione labirintica della vita psichica deve costituire una
eccezione al nuovo impero dell'oggettività. L'impeto della valutazione — oggi
diffuso in tutti gli ambiti del sapere — sospinge gioco forza la psicologia
verso la psicometria: misurare atteggiamenti, conoscenze, abilità, credenze,
sentimenti, personalità. L'intera classificazione delle malattie mentali
proposta dai vari Dsm, per esempio, si fonda su un principio descrittivo basato
su ricorrenze statistiche. Nelle Università, non solo italiane, la psicologia
tende sempre più ad abbandonare il campo delle cosiddette scienze umane per
scivolare verso quello delle scienze obbiettive, ispirate al criterio della
quantificazione dei risultati. Una tesi di laurea che non sia corredata da
sequenze di numeri, grafici matematici, curve statistiche, oltre che da
"inglesismi" di ogni genere, viene ormai considerata, a priori, come
una tesi di serie B. Anche il fenomeno che più di tutti esalta la soggettività
umana, com'è quello dell'innamoramento, viene spiegato dalle neuroscienze come
un fenomeno determinato dall'effetto biochimico dell'azione della dopamina su
alcune zone del cervello e destinato fatalmente a spegnersi tra i sei e gli
otto mesi. In un recente congresso scientifico interazionale sui disturbi
dell'alimentazione al quale ho partecipato ho ascoltato esterrefatto relazioni
di colleghi nord-americani che avevano letteralmente dissolto la soggettività
del paziente in dati statistici, numeri, procedure anonime, percentuali. Del
paziente, della sua anamnesi, della sua storia clinica, delle sue particolarità
più proprie, non restava più nulla. Il feticismo della cifra e della
generalizzazione protocollare aveva semplicemente inghiottito quello che ogni
scienza medica dovrebbe invece rispettare: l'incomparabilità assoluta del
soggetto. Il problema è scottante: esiste davvero la possibilità di misurare la
vita psichica? E come non vedere che questa domanda trascina con sé la tendenza
insidiosa — segnalata con forza da Michel Foucault e da Franco Basaglia — di
una medicalizzazione violenta della vita umana? La spinta feticistica alla
misurazione vorrebbe, infatti, cancellare il carattere singolare e irripetibile
della soggettività umana segregando come "vita malata" quella che si
trova fuori dalla media statistica stabilita che definisce la normalità. È
questa la dimensione più politica che è al fondo della riduzione della
psicologia alla psicometria: quello che devia da una supposta normalità è una
deviazione statistica che deve essere trattata affinché ritorni nel suo alveo
mediano. E se allora si gettasse nel lazzaretto dell'anormalità anche il
pensiero critico, non omologato, quello deviante dalla universalità della
norma? Ma, ancora, non è forse in questa devianza che dovremmo definire
l'unicità irripetibile dell'esistenza come tale? L'esistenza, in altre parole,
non è sempre una deviazione dalla norma?
La psicoanalisi offre alla
psicologia un modello di scienza che non può essere ridotto al furore
scientista della quantificazione. Ogni caso è per lo psicoanalista unico, non
riproducibile, non comparabile. Eppure la pratica clinica della psicoanalisi
non può essere senza principi, non è una improvvisazione irrazionale. Essa
offre, piuttosto, il modello di una pratica epistemica che invita a diffidare
di ogni generalizzazione per considerare l'"uno per uno", la
singolarità deviante della vita umana.
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