Il capitalismo nostrano
che non fece l'impresa
Esiste ancora il
capitalismo italiano? Da tempo questa domanda è ricorrente come l'avvicendarsi
delle stagioni nella storia del paese. Questa volta però è più urgente ed è in
parte legata al passato che già si conosce, in parte al futuro che si vuole o
più esattamente si deve costruire per riappropriarsi di un posto e di un ruolo
in un mondo profondamente cambiato sotto la spinta di nuovi attori che
estromettono i vecchi. A porsela è Giuseppe Berta, storico e sociologo della
Bocconi e la sua risposta è no se la forma di capitalismo è quella che abbiamo
conosciuto negli anni Sessanta del secolo passato e che di fatto è stata
smontata tra la fine del Novecento e l'inizio del Duemila senza che ad essa sia
sopravvissuto un modello economico capace di offrire una prospettiva. Insomma,
Olivetti, Fiat, Pirelli, Iri sono un altro mondo consegnato agli archivi al
quale potrebbe subentrare un altro tipo di capitalismo, quello fatto dalle
tante aziende virtuose la cui caratteristica è quella di «enfatizzare le
condizioni peculiari in grado di animare una crescita magari più lenta, ma
costante e solida».
È una scommessa e un
atto di coraggio. Nel suo ultimo saggio, edito da il Mulino, con il titolo Che
fine ha fatto il capitalismo italiano? Berta mostra di crederci e spiega in
maniera accattivante questo suo prendere partito in un paese che tende a
inseguire soluzioni improbabili per i suoi tanti mali, compreso il declino
economico. Quel che viene fuori è il racconto della transizione dal capitalismo
del Novecento basato sulla fabbrica e la produzione di beni che il lavoratore
poteva acquistare in quanto possessore di un reddito che glielo consentiva a
quello di una capitalismo del low cost dove l'illusione di prendervi parte
svanisce con la feroce tendenza a pagare poco il lavoro ignorando o
sottovalutando l'effetto perverso di andare incontro a un mercato fatto di
consumatori deboli. E c'è posto anche per un rilettura del ruolo dell'Iri.
E poiché ogni buon
saggio per essere tale deve indicare una "via d'uscita" Berta non si
sottrae a questo impegno e nel sostenere che «l'Italia economica ha più che mai
urgenza di uno sguardo realistico rivolto a se stessa, che la sottragga, al
contempo, alla retorica e alla decadenza», invita a prendere atto che le nostre
imprese «non sono e non possono essere le incarnazioni di un capitalismo che
oggi si muove con rapidità estrema e con la mobilitazione di capitali immensi,
fuori dalla portata degli operatori italiani». Cosa che, a suo dire, non
equivale a sminuire o sottovalutare la loro qualità. Quindi nessuna nostalgia
del «secolo manifatturiero, dell'Italia del triangolo industriale, dei capitani
di industria». Quella è storia passata, Berta dice «una parentesi», mentre oggi
occorre pensare a un capitalismo leggero fatto di piccole e medie imprese
proiettate verso le lontananze del mercato globale. Che per lui non è un
"downgrading autoimposto" ma semplicemente l'ultima frontiera del
made in Italy.
Che fine ha fatto il
capitalismo italiano? di Giuseppe Berta
( Il Mulino, pagg.
160, euro 14)
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