mercoledì 2 novembre 2016

"Che fine ha fatto il capitalismo italiano'" - saggio di Giuseppe Berta, presentazione di Salvatore Tropea (LaRepubblica 01/11/16)


Il capitalismo nostrano
 che non fece l'impresa

Esiste ancora il capitalismo italiano? Da tempo questa domanda è ricorrente come l'avvicendarsi delle stagioni nella storia del paese. Questa volta però è più urgente ed è in parte legata al passato che già si conosce, in parte al futuro che si vuole o più esattamente si deve costruire per riappropriarsi di un posto e di un ruolo in un mondo profondamente cambiato sotto la spinta di nuovi attori che estromettono i vecchi. A porsela è Giuseppe Berta, storico e sociologo della Bocconi e la sua risposta è no se la forma di capitalismo è quella che abbiamo conosciuto negli anni Sessanta del secolo passato e che di fatto è stata smontata tra la fine del Novecento e l'inizio del Duemila senza che ad essa sia sopravvissuto un modello economico capace di offrire una prospettiva. Insomma, Olivetti, Fiat, Pirelli, Iri sono un altro mondo consegnato agli archivi al quale potrebbe subentrare un altro tipo di capitalismo, quello fatto dalle tante aziende virtuose la cui caratteristica è quella di «enfatizzare le condizioni peculiari in grado di animare una crescita magari più lenta, ma costante e solida».
È una scommessa e un atto di coraggio. Nel suo ultimo saggio, edito da il Mulino, con il titolo Che fine ha fatto il capitalismo italiano? Berta mostra di crederci e spiega in maniera accattivante questo suo prendere partito in un paese che tende a inseguire soluzioni improbabili per i suoi tanti mali, compreso il declino economico. Quel che viene fuori è il racconto della transizione dal capitalismo del Novecento basato sulla fabbrica e la produzione di beni che il lavoratore poteva acquistare in quanto possessore di un reddito che glielo consentiva a quello di una capitalismo del low cost dove l'illusione di prendervi parte svanisce con la feroce tendenza a pagare poco il lavoro ignorando o sottovalutando l'effetto perverso di andare incontro a un mercato fatto di consumatori deboli. E c'è posto anche per un rilettura del ruolo dell'Iri.
E poiché ogni buon saggio per essere tale deve indicare una "via d'uscita" Berta non si sottrae a questo impegno e nel sostenere che «l'Italia economica ha più che mai urgenza di uno sguardo realistico rivolto a se stessa, che la sottragga, al contempo, alla retorica e alla decadenza», invita a prendere atto che le nostre imprese «non sono e non possono essere le incarnazioni di un capitalismo che oggi si muove con rapidità estrema e con la mobilitazione di capitali immensi, fuori dalla portata degli operatori italiani». Cosa che, a suo dire, non equivale a sminuire o sottovalutare la loro qualità. Quindi nessuna nostalgia del «secolo manifatturiero, dell'Italia del triangolo industriale, dei capitani di industria». Quella è storia passata, Berta dice «una parentesi», mentre oggi occorre pensare a un capitalismo leggero fatto di piccole e medie imprese proiettate verso le lontananze del mercato globale. Che per lui non è un "downgrading autoimposto" ma semplicemente l'ultima frontiera del made in Italy.

Che fine ha fatto il capitalismo italiano? di Giuseppe Berta
( Il Mulino, pagg. 160, euro 14)

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