martedì 15 novembre 2016

Relazione sul seminario di Gianluca Cuozzo: “La memoria fra filosofia e letteratura”
                      (a cura di Enrica Gallo)

Col seminario sulla memoria fra filosofia e letteratura CircolarMente ha inteso proseguire un discorso iniziato con la riflessione dello storico Giovanni De Luna sulla costruzione della memoria pubblica nel nostro paese, che si vuole ora allargare allo statuto stesso della memoria riaffrontando, con uno sguardo disciplinare diverso, quel nodo del rapporto fra passato e futuro che rappresenta uno dei problemi fondamentali della contemporaneità. Un tema sicuramente complesso, che può peraltro avvalersi con Gianluca Cuozzo di un relatore d’eccezione, capace di coniugare passione espositiva e ampiezza di sguardo: i suoi studi infatti attingono, pur partendo dallo specifico filosofico, alla letteratura, alle arti visive, al mondo dei media, per individuare le coordinate di questo nostro presente immemore.
Perché è così che si presenta, nella riflessione critica di questo filosofo, un mondo in cui mostra ormai di prevalere una disaffezione generale rispetto all’esercizio della memoria: un costante obliare che nasce direttamente dall’imperativo del consumo, votato all’obsolescenza programmata dei prodotti come allo scioglimento dei legami libidici che intratteniamo con gli oggetti stessi, al fine di volgerci verso nuovi investimenti affettivi che ci permettano di riconoscerci in quel consesso dei consumatori che ha poi nelle discariche il suo luogo del rimosso, la sua minacciosa Ombra. Sempre nuovi al mondo, dunque, come il protagonista di un racconto di Paul Auster che si sveglia ogni giorno immemore di sé e che rappresenta per Cuozzo un perfetto simbolo di quel tempo puntiforme e spezzato di cui parla Zygmunt Bauman, impossibilitato a creare quella continuità personale e storica in cui possono nascere progetti trasformativi. L’azione politica eticamente impostata presuppone infatti a suo giudizio uno sguardo vigile in cui trovi posto il contenimento delle azioni passate, perché solo attraverso di esso possiamo davvero prendere le distanze dall’ideologia dominante che si cela sotto il bagliore luccicante delle merci.
E’ dunque su questo sfondo, delineato con accenni incisivi anche se forzatamente limitati dall’economia del discorso, che il relatore ha impostato la sua indagine sullo statuto della memoria, scegliendo alcuni autori la cui riflessione ha dato vita a paradigmi concettuali assai diversi, pur muovendosi da una comune consapevolezza della natura enigmatica di questa potenza dell’anima, ravvisabile in  una sorta di “eccedenza” della memoria rispetto al soggetto stesso che ricorda.

*  il paradigma del rimpatrio teomorfico del soggetto:    la memoria come approdo nel divino

A mettere in luce con insuperabile profondità e con accenni ricchi di pathos questa sproporzione fra l’Io che ricorda e il mare infinito della memoria è stato sicuramente Agostino nelle sue “Confessioni”. Quando ricordo, dice il grande filosofo cristiano, io mi addentro in un immenso edificio in cui percepisco l’eco dei miei passi comprendendo di essere in realtà “compreso” da qualcosa di molto più grande di me che mi sovrasta: una sensazione spiazzante che potrebbe provocare sgomento, se non sentissi che questi passi esitanti mi riportano all’origine di quella Verità che abita all’interno dell’uomo e in cui posso trovare il mio riconoscimento come soggetto e insieme la mia destinazione, così che l’edificio della memoria diventa un sacro tempio. In questo mare in cui è possibile perdersi esiste dunque per Agostino un approdo, un porto sicuro cui ritornare: nonostante la grazia divina rimanga inesplicabile, il nostro errare avverrà comunque all’interno di una dimensione di verità.
Un paradigma concettuale che secondo il relatore trova in un autoritratto giovanile di Durer (“Autoritratto con pelliccia”) una singolare corrispondenza. In esso infatti il pittore si rappresenta in situazione frontale, con lo sguardo ieratico e le mani, poste ad unire i lembi del mantello, ambiguamente benedicenti, dando vita ad una sorta di sovrapposizione fra un volto umano presentato con tratti di bellezza e nobiltà e il volto del Cristo, a simboleggiare la possibilità di trovare in esso la garanzia di un pieno riconoscimento di sé come soggetto dotato di un potere creativo che deriva direttamente dal grande artefice divino.

             * il paradigma dell’erranza senza riconoscimento:                 la memoria come frammento e labirinto 

Nessun rimpatrio è invece possibile per uno scrittore contemporaneo come Paul Auster, che pur rifacendosi in modo esplicito ad Agostino e alla sua indagine sull’enigma di una memoria tanto vasta quanto eccedente al soggetto che ricorda ne stravolge poi l’esito, vedendola non come luogo di approdo ma come terra di esilio, di erranza senza riconoscimento. Nel suo romanzo autobiografico “L’invenzione della solitudine”, e in particolare nella prima parte del testo in cui cerca di ricostruire la figura di un padre che anche in vita è stato assente al figlio come a se stesso, lo scrittore si trova infatti di fronte ad un caleidoscopio di immagini contradditorie, e lo stesso accade quando l’oggetto della  riflessione diventa il suo stesso percorso di vita. Nell’edificio della memoria, dove i passi di Agostino suscitano echi che rimandano all’infinito, Auster trova solamente le linee di un reticolo spaesante, simile al sistema circolatorio umano o ad una città tentacolare dove le coordinate per orientarsi non sono visibili o mutano al mutare dei passi, rendendo impossibile un vero riconoscimento del soggetto. Non è possibile per l’uomo contemporaneo ricostruire il passato alla ricerca della continuità personale, perché la cifra di questo mondo, secondo  questo scrittore che Cuozzo considera uno degli interpreti più interessanti del pensiero postmoderno, sta nel frammento, nel gioco fra gli specchi riflettenti di quelle “città di vetro” che danno il titolo ad  uno dei suoi libri più noti.
Così accade anche in una tela di René Magritte, il pittore surrealista che il relatore accosta ad Auster in questa concezione dell’impossibilità di riconoscimento dell’io. Nella “Reproduction interdite” vediamo infatti un uomo che si specchia cercando la sua immagine ma che si trova la strada sbarrata dal proprio osso occipitale, mettendoci di fronte  ad un enigmatico ritratto senza volto.
Quella che si delinea in questo secondo paradigma concettuale, di segno opposto a quello agostiniano, è dunque una memoria condannata ad una peregrinazione senza approdo e pertanto impossibilitata alla ricostruzione dell’integrità del soggetto: una memoria che trova una significativa torsione allucinatoria nei personaggi di Kafka come nelle illustrazioni delle Carceri di Piranesi, in cui al posto  delle città tentacolari di Auster incontriamo spaventosi incubi notturni. Gli spazi inabitabili e labirintici tracciati dal bulino di rame di questo incisore settecentesco, in cui scorgiamo figure disperse e schiacciate come in un gigantesco Panopticon in cui si viene costantemente osservati senza avere mai la possibilità di ricambiare lo sguardo, corrispondono, secondo la suggestiva interpretazione del relatore, agli immensi corridoi del tribunale e ai tanti luoghi spaesanti del mondo angoscioso di Kafka. Anche in esso infatti si aggirano personaggi sperduti, resi estranei a se stessi dall’impossibilità di trovare i fili della propria innocenza, perché hanno dimenticato ciò che sono stati e che proprio per effetto di questo oblio vengono esposti ad una colpa senza nome e senza possibile redenzione. 

     *il paradigma della memoria come archeologia del             residuale

Ma non è solo questo, la memoria. Non dobbiamo necessariamente pensarla, secondo Cuozzo, come imprigionata senza scampo nell’alternativa concettuale fra il paradigma dell’approdo al divino e quello dell’erranza nella frammentazione dell’io, perché altri paradigmi interpretativi sono possibili (pensiamo alla memoria involontaria  descritta magistralmente da Proust…). Quello che il relatore oggi ha scelto di illustrarci assume peraltro a suo giudizio una particolare significanza rispetto a quell’agire etico-politico cui abbiamo fatto prima accenno, offrendoci nel contempo un’alternativa molto interessante rispetto ai due paradigmi precedenti. 
Attraverso la suggestione di un dipinto del 17°secolo (una delle tante “Gallerie dell’antiquario”, che porta con sé un riferimento biografico - l’autore che Cuozzo presenta apparteneva ad una famiglia alto borghese di antiquari ebrei - oltre ad alludere ad una concezione della memoria in cui la capacità conservativa si coniuga con il suo potenziale trasformativo) incontriamo pertanto un ultimo paradigma, elaborato nelle sue “Tesi sul concetto di storia” da Walter Beniamin: uno dei più originali pensatori del novecento, che ha vissuto in prima persona la tragedia del nazismo, rimanendone schiacciato (si suiciderà infatti al termine di una disperato tentativo di sottrarsi alla cattura).
Per Benjamin la memoria non è soltanto un’attività volta a scoprire la Verità, come in Agostino, e per quanto la vastità del male non le sia sconosciuta, non si risolve negli incubi kafkiani. Allo stesso modo non è qualcosa di essenzialmente impolitico, che appartiene unicamente alla sfera individuale, ma afferisce tanto alla storia del soggetto quanto a quella della comunità, operando nella storia in senso trasformativo. Per questo pensatore infatti il ricordo è la capacità di riprendere dal passato quegli elementi che avrebbero potuto rappresentare una chance decisiva per cambiare le modalità dell’esistenza collettiva a cui siamo stati indotti dal nostro dimenticare; rappresenta l’unica occasione di uscire da una concezione della storia mitica, in cui tutto accade secondo una necessità intrinseca, e insieme il fermento indispensabile per svincolarci da quella falsa utopia a cui siamo stati condotti dal connubio fra un capitalismo prevaricatore e l’idea illuministica del progresso (ricordiamo che per Benjamin ciò che ne risulta è quella tempesta che impedisce all’Angelo della Storia – una delle sue figure di pensiero più note, ispirata ad un piccolo acquerello di Paul Klee che gli era particolarmente caro – di raccogliere e redimere le macerie della storia, verso cui pure si volge il suo sguardo compassionevole).

Solo l’inversione del tempo, solo a partire dal ricordo di ciò che gli uomini hanno vissuto e sofferto, solo riscoprendo la storia dalla parte dei vinti e cogliendo quelle “schegge messianiche” dense di valore profetico che si celano nelle pieghe del passato il futuro può essere ripensato e modificato: e questo, se possiamo aggiungere una nota sul relatore, è anche il pensiero che Cuozzo esprime in molti dei suoi scritti, condividendo l’idea di Benjamin che la storia vada “spazzolata contropelo” attraverso una memoria consapevole che ci permetta di uscire dal cerchio magico di un presente ibernato. 

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