Relazione sulla
conferenza di Viviana Premazzi
“Donne musulmane nel
contesto migratorio: sfide e opportunità”
Come secondo momento della collaborazione al
progetto “Impronte”, organizzato dall’Assessore alle Pari Opportunità di
Avigliana, dott.ssa Rossella Morra, come punto di raccordo di varie iniziative
volte a prevenire e a contrastare la violenza di genere, CircolarMente ha
voluto mettere a fuoco, nella prospettiva di una riflessione più ampia sul
complesso rapporto fra la modernità occidentale e il mondo islamico, l’elemento
trasformatore che può essere rappresentato dalle donne musulmane nel contesto
migratorio, in particolare da quelle appartenenti alla seconda generazione che
si affacciano ora sulla scena pubblica italiana.
Il compito di introdurci in una realtà di cui in
effetti conosciamo solo gli aspetti più eclatanti è stato affidato ad una
ricercatrice dell’Università di Torino, la dott.ssa Viviana Premazzi, il cui
ambito di studio e di lavoro sul campo ha riguardato dapprima la presenza
femminile nella teologia della liberazione in Brasile e il ruolo delle donne
nella ricostruzione postbellica in Afghanistan, per poi focalizzarsi –
attraverso l’esperienza svolta al FIERI (Forum italiano ed europeo ricerche
sull’immigrazione) - sull’analisi dei processi migratori e sul ruolo
trasformativo delle donne.
Ad ascoltarla, un pubblico ampio ed eterogeneo che
poteva contare sulla presenza di persone che a vario titolo sono coinvolte in
attività di integrazione e di sostegno, sia nell’ambito scolastico che in
quello socio-assistenziale.
* una sfida generazionale
all’interno
delle comunità islamiche in Italia
Prima di condividere col pubblico di CircolarMente i
risultati delle sue ricerche, la relatrice ha voluto sottolineare come nel
mondo islamico, che noi europei tendiamo a considerare come uniforme, si stia
svolgendo una grande sfida che non si gioca solo sullo storico contrasto fra la
maggioranza sunnita e gli sciiti, che
sta vivendo per complessi motivi geopolitici una drammatica
accelerazione, ma riguarda più in generale due diverse visioni dell’Islam:
quella che possiamo definire “essenzialista” e che lo considera come una sorta
di monolite, compatto e inamovibile, incardinato in un corpus di testi sacri e
di rituali non passibili di alcuna interpretazione modernista, e una più
flessibile ed aperta che pur non prescindendo affatto dal rispetto dei testi è
disponibile a misurarsi con un contesto mutato, soprattutto nei paesi europei in cui vivono moltissimi uomini e donne di fede musulmana.
E ancora, all’interno e trasversalmente a queste due
visioni, la sfida non meno importante, pur se meno avvertita nell’immagine
pubblica, che si gioca invece fra le generazioni: un confronto non sempre
facile, che vede da un lato quei padri e quelle madri cresciuti in una cultura
relativamente omogenea in cui la fede religiosa era incardinata nella cultura
stessa e nella società, e dall’altro lato i figli, che vivono in un contesto in
cui cultura e religione non sono sovrapponibili (si parla infatti per loro di
“religione senza cultura”, per citare la definizione di uno dei più noti
studiosi del rapporto fra la modernità occidentale e il mondo islamico, il
sociologo francese Oliver Roy). Ragazzi e ragazze per cui l’appartenenza
religiosa, pur trasmessa inizialmente dalla famiglia, si configura in modo più
marcato come frutto di una scelta, che può metterla in discussione o altrimenti
riscoprirla e farla propria con modalità personali e con una più intensa
consapevolezza, come accade ogni qual volta una cosa non viene vissuta come
ovvia o scontata.
* la fede come scelta, piuttosto che come destino:
nuove
modalità di pratica religiosa nelle seconde generazioni
Questo scollamento, non certo privo di
contraddizioni ma che la relatrice configura in linea generale come portatore
di potenzialità positive, risulta evidente in primo luogo nella pratica
religiosa, in particolare nella frequentazione della moschea, che come sappiamo
rappresenta per i musulmani il luogo deputato alla preghiera e allo studio dei
testi sacri e insieme lo spazio della condivisione comunitaria. Se per gli
immigrati di prima generazione, che erano in prevalenza uomini soli, essa
costituiva soprattutto un’occasione fondamentale di riconoscimento fra simili e
di riaffermazione del legame che si intendeva mantenere con il luogo di
origine, acquisendo in tal modo caratteristiche “geografiche” (per restare alla
realtà torinese, la moschea di via Saluzzo era frequentata in prevalenza da
egiziani, mentre quella di via Chivasso da marocchini), non è più così per i
figli.
Il loro legame con il paese dei genitori si è
indebolito, e in qualche caso è del tutto assente, mentre può essere forte e
vitale quello con il paese in cui sono cresciuti, in cui hanno frequentato le
scuole stringendo spesso amicizie con ragazzi e ragazze di diversa origine, o
di altra fede: nella moschea, e in generale nelle associazioni (la dott.ssa
Premazzi fa riferimento in modo particolare ai “Giovani musulmani d’Italia”),
dove il legame non è più geografico ma soprattutto culturale, essi cercano
prevalentemente l’occasione di riflettere sulla loro fede, sulle modalità più
opportune per viverla, affinandola e ripensandola, su come presentarsi e agire
nello spazio pubblico entrando in contatto con le istituzioni, dialogando con
la città e con le altre fedi.
Sull’impatto di queste frequentazioni rispetto al
modo con cui i giovani vivono il rapporto fra uomini e donne, l’amore, la
sessualità, il matrimonio, la relatrice apre una parentesi significativa,
sottolineando peraltro come l’attenzione dei media sia a suo giudizio fin
troppo focalizzata su questo tema (in particolare fa riferimento ad una serie
di interviste condotte da Gad Lerner in
cui le domande vertevano quasi unicamente su questi aspetti).
Certamente la moschea e le associazioni
costituiscono da un lato uno spazio protetto verso il quale la paura di molti
genitori musulmani rispetto alla possibile “presa” sui figli delle abitudini di
vita occidentali può allentarsi, ma dall’altro esse offrono ai giovani
l’occasione di confrontarsi e di interagire ripensando la propria mascolinità o
femminilità in forme diverse da come l’hanno vissuta i padri e le madri: più
aperte, meno vincolate ad una tradizione che naturalmente può in altri casi
essere riaffermata come propria (l’esito di un confronto non è ovviamente
stabilito a priori…). Un’occasione di crescita, per le giovani donne, in cui
possono affermare di non sentirsi “sottomesse” non solo quando decidono di
rifiutare i simboli di appartenenza religiosa ma anche quando scelgono invece
di farli propri, senza che in molti casi ci sia costrizione da parte delle
famiglie, per orgoglio identitario o per affermare un’adesione profonda alla
fede. Allo stesso modo il velo può
diventare un elemento di femminilità seduttiva e autonoma (da qui il recente
interesse della moda per le donne che vogliono sentirsi “belle e musulmane”…)
* la fede come domanda
e le
varie modalità della ricerca
Quello che è importante sottolineare, per la
relatrice, è piuttosto il fatto che in questi contesti i giovani riflettono sui
fondamenti della loro fede chiedendosi, per esempio, se privilegiare i valori
rispetto ai riti, la sostanza rispetto alla forma, o ponendosi il problema di
farli più strettamente coincidere.
Una fede che pone domande, dunque, soprattutto nel
passaggio cruciale dall’adolescenza alla giovinezza, quando i ragazzi e le
ragazze escono dall’ambiente protetto della scuola per entrare in contesti
lavorativi o all’università, in luoghi cioè che stimolano un confronto più
ampio e dove essi sono spesso sollecitati a dare ragione di una diversità non
ancora ben metabolizzata a livello sociale – in modo particolare da quando l’esplosione del terrorismo di
matrice islamista ha provocato fenomeni di rigetto, fra diffidenza e paura.
Domande che affrontano a livello individuale, rivolgendosi a tutti i luoghi
dove esse possono essere poste e trovare risposta: non solo nella moschea o
nelle associazioni, ma nei tanti forum che Internet offre e dove lo scambio
avviene prevalentemente fra coetanei. Frequentazioni multiple, con aspetti
positivi che la relatrice ha sottolineato ma dove non mancano le criticità: il
fare della propria fede una sorta di “bricolage fai da te” o altrimenti quello
di esporsi al rischio di una radicalizzazione che può spingere alcuni giovani a
rifiutare ogni forma di “contaminazione”
con un mondo occidentale considerato decadente e privo di valori (pensiamo alle
sirene suadenti dell’Isis, che sollecitando quel desiderio di eroismo e martirio
che può fare presa sui giovani maschi incerti di sé e del proprio posto nel mondo, e nelle
giovani donne un’attitudine al discorso umanitario e sociale verso quelle che
vengono considerate le vittime dell’occidente, hanno spinto molti giovani
cresciuti in occidente a partire per i teatri di guerra come “foreign
fighters”: non moltissimi quelli italiani – circa ottanta – ma comunque segno di un’incrinatura da non
sottovalutare).
Domande, ancora, che portano i giovani a seguire
nuovi maestri, come Tariq Ramadan, un intellettuale svizzero che ha molto
seguito fra i giovani musulmani desiderosi di costruire un Islam rinnovato ed
europeo, e in cui talvolta trovano posto, secondo l’esperienza della relatrice,
anche incontri significativi con i testi della cristianità, da cui emergono
nuove possibilità di dialogo interreligioso (ricordiamo che i musulmani
considerano Gesù un grande
profeta, e che nel Corano la figura di Maria è tenuta in grande
considerazione); non mancano inoltre tentativi di reinterpretare,
valorizzandole, le figure femminili della storia sacra, come del resto è
avvenuto anche nel mondo cristiano.
E’ una generazione che sta crescendo, dunque, quella
che la dott.ssa Premazzi ci ha mostrato: ragazze e ragazzi che cercano vie
nuove in un contesto non facile e in cui ha un peso di non poco conto, a suo
giudizio, la mancata adozione di una legge sulla cittadinanza che faccia dei
figli dell’immigrazione, italiani per socializzazione ma spesso ancora
stranieri per passaporto, dei veri cittadini (un tema, questo, di cui si
parlerà in modo approfondito in un seminario che Circolarmente ha già
predisposto per il mese di marzo e in cui interverrà la prof. Roberta Ricucci,
docente di sociologia dell’Islam all’Università di Torino, che si è occupata in modo particolare dei
percorsi di inserimento scolastico e lavorativo e di definizione
identitaria dei giovani stranieri).
* lo
spazio del dibattito
Del momento di confronto fra la relatrice e il
pubblico indichiamo in particolare alcuni interventi che hanno assunto il
valore di testimonianze: da quella dell’insegnante che ha sottolineato
l’importanza della scuola come luogo fondamentale di educazione interculturale,
che chiede a chi ci lavora un impegno sicuramente faticoso ma estremamente
stimolante, a quella della donna musulmana che ha voluto affermare con forza la
necessità di andare oltre gli schemi, acquisendo la capacità di vedere le
persone e riconoscerne la dignità al di là del colore della pelle,
dell’abbigliamento, delle pratiche religiose e abbandonando in particolare il
pregiudizio che considera le donne musulmane incapaci di una libera
determinazione di sé (cosa che può consentire, come a lei è accaduto, di poter
stringere rapporti di autentica amicizia e grande solidarietà reciproca con
donne italiane, alcune delle quali sono presenti per confermare la possibilità
e la fecondità di questi legami).
Naturalmente sono anche state segnalate delle
criticità, rispetto al mondo islamico, che non erano oggetto specifico
dell’incontro ma che sono pur sempre sullo sfondo: in particolare, il permanere
di uno statuto di inferiorità per le donne, con un evidente regresso da cui non
sono esclusi quei paesi dove i codici di famiglia erano stati impostati in modo
più evoluto o comunque le donne potevano godere di più ampia libertà (si fa
l’esempio dell’Egitto, che ha conosciuto nella seconda parte del novecento un
incontro non irrilevante con la modernità ma che ora attraversa una lunga e
sempre più evidente fase regressiva). Senza eludere la problematicità del tema,
la relatrice fa presente il peso determinante della crisi economica protratta,
che negli ultimi decenni ha costretto molti uomini egiziani ad emigrare in
cerca di lavoro in Arabia Saudita, diventando permeabili ad ideologie religiose
più retrive.
Ci si interroga inoltre sulle effettive possibilità
che anche nel mondo islamico si possa attuare quella separazione fra ambito
religioso e ambito politico da cui è derivata la secolarizzazione occidentale:
un tema importante, che richiederebbe uno spazio di discussione più ampio di
quanto la serata prossima al termine possa consentire (si fa presente peraltro
che sono già stati previsti dal programma di CircolarMente degli incontri
mirati ad alcuni dei temi che emergono dal dibattito, ed altri potrebbero
seguire in momenti successivi).
Segnaliamo in ultimo una domanda posta alla
relatrice che entra invece in modo più specifico sull’oggetto del suo discorso
e sulle caratteristiche del suo lavoro, e cioè su quali siano le effettive
capacità di presa sulla realtà di ricerche che vengono condotte all’interno del
mondo musulmano da operatori di
estrazione religiosa e formazione culturale diversa, se sia possibile cioè che
questo fatto non ne distorca il senso facendo prevalere, anche indirettamente,
il punto di vista del ricercatore.
In effetti, spiega la dott.ssa Premazzi, questo è il
problema fondamentale di ogni ricerca: essa non chiede al ricercatore di
“spogliarsi” di sé – cosa in effetti impossibile - ma di mettere in atto tutta una serie di
metodologie che assicurino la correttezza del procedimento e che fanno quindi
parte della formazione professionale di
ogni studioso.
N.B. = come le
relazioni precedenti, anche quest’ultima non si basa su di una trascrizione
letterale dell’intervento ma lo riassume: il redattore si assume quindi la
responsabilità di eventuali dimenticanze o errori interpretativi.
Ho seguito con attenzione e interesse la conferenza della Dott.ssa Premazzi cercando di conciliare il quadro presentato nella relazione, incoraggiante in senso ampio e già positivo per alcuni aspetti, con quello che del mio possedevo - ricavato dalle cronache, da commenti e da molte letture sul tema – decisamente meno confortante. Si parla di tematiche profonde che investono milioni di individui ed è ovvio che esistano grandi diversità di atteggiamento e comportamento, ma, cercando il più possibile di evitare grossolane semplificazioni, siamo in una fase storica di difficile transizione che impone di guardare soprattutto verso le questioni più problematiche al fine di capire quali percorsi possano essere attuati per gestirle e superarle. In questo senso la relazione ed il successivo dibattito non hanno del tutto colmato le mie curiosità ed i miei dubbi, ma, come ricaduta positiva, mi hanno sicuramente stimolato ad ulteriori approfondimenti. Mi limito nello spazio di questo commento a indicare i temi che di più, a mio personale avviso, spiegano le mie perplessità.
RispondiElimina• la stessa relazione ha confermato ed evidenziato il persistente ruolo fondamentale dell’ umma, della “comunità mussulmana”, punto di riferimento costante e fondamentale per ogni mussulmano. Ciò stante diventano problematici i percorsi di confronto a livello individuale o di piccoli gruppi e/o associazioni. Su quali basi, con quali modalità è possibile il dialogo con l’umma, indispensabile per la gestione delle problematiche, anche per le varie forme che essa assume?
• in questo quadro qual è il reale peso della volontà dell’umma, delle varie umme, sui percorsi individuali? Come regolarsi in quelle situazioni nelle quali l’umma diventa strumento potente di controllo, di gestione dei conflitti generazionali e familiari, fino all’accertata presenza di informali “tribunali islamici” attivamente operanti nelle stesse società europee?
• è stato opportunamente ricordata la diversità di appartenenza religiosa, e culturale (non mi convince per nulla la distinzione di Oliver Roy fra religione e cultura, la vicenda controversa di Tarik Ramadam lo dimostra) fra le generazioni dei padri e dei figli dei mussulmani qui da noi immigrati. E si è evidenziato come possa essere più viscerale quella dei figli fino al rischio di estremismo religioso. Resta da capire quali aspetti della cultura occidentale siano giudicati così negativamente pervasivi da indurre a tale più intensa i appartenenza religiosa, ossia, guardando la questione dal verso opposto, quali motivi di conforto identitario essa possa offrire. Credo che attorno a questo si giochi buona parte della partita, e temo che incidano troppo gli eccessi per un verso di fuorvianti preconcetti e per un altro di cautele nel valutare il sentire religioso
• un passaggio esemplare in questo senso è la maggiore e migliore comprensione delle motivazioni che possono indurre ragazze mussulmane, non sollecitate o indotte, ad adottare determinati abbigliamenti. Aspetto citato nella relazione come positivo perché frutto di libere scelte. Ma quale concezione della donna, del suo corpo, del suo modo di stare e muoversi nel mondo esprimono queste scelte? C’è ancora proprio tanto da capire e da discutere.
I media hanno dato la triste notizia della scomparsa di Paolo Prodi, incidentalmente fratello del più noto Romano Prodi, Professore emerito di Storia Moderna dell’Università di Bologna e autore di numerosi saggi incentrati in particolare sull’evoluzione delle forme di potere. Caso ha voluto che proprio il giorno della sua scomparsa io abbia iniziato a leggere il suo ultimo saggio, scritto a quattro mani con Massimo Caciari, dal titolo “Occidente senza utopie”. I due autori ripercorrono la parabola discendente della capacità dell’Occidente, dell’Europa, di esprimere concetti e valori, molto spesso “rivoluzionari”, in grado di rappresentare, fatte salve le opportune contestualizzazioni, punti di riferimento universali. Lo fanno attraverso la lente di due parole chiave: “utopia” per Caciari, “profezia” per Paolo Prodi. Perché la profezia? Perché le forme di potere democratiche sono nate e cresciute partendo dalla possibilità che il popolo dell’Occidente si è progressivamente conquistata di esprimere “profezie”, ossia messaggi che prefigurano un ordine nuovo delle cose, sottraendola dalla sua detenzione esclusiva da parte del potere teologico e regale. Ciò è stato possibile perché la cultura prima ebraica e poi cristiana ha portato la “parola” fuori dal puro contesto divino per renderla “carne”, ossia materia storica viva. Perché cito questo saggio di Paolo Prodi in un commento alla conferenza della Dott. Premazzi? Perché sono stato colpito leggendo in un passaggio del saggio l’affermazione che l’evoluzione della profezia non vale per l’Islam. Questo passaggio, che qui riporto integralmente, a me pare esemplarmente utile a meglio comprendere la difficoltà della cultura mussulmana a “evolversi” verso la modernità……..Il primo grande rifiuto dell’incarnazione della “parola” è quello che avviene nel VII secolo con la fondazione dell’Islam. Dio non si incarna. Cristo è un profeta e anche Maometto si sdoppia in una figura umana, il profeta, e in una parola immobile: il Corano. Spesso nelle dispute attuali si imputa al mondo islamico – dividendolo fra moderati e non – di non applicare al Corano i metodi critico-esegetici che nel mondo ebraico-cristiano con fatica si è imparato ad applicare alla Bibbia, ma non si comprende che sotto questo rifiuto vi è un problema teologico che è la sostanza stessa dell’Islam: la non incarnazione della Parola . Di qui il rifiuto stesso della Chiesa come profezia istituzionalizzata, l’Islam si definisce così non come “un’altra religione” ma come la più grande delle eresie cristiane che hanno caratterizzato il tramonto dell’antichità…….
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