Con riferimento alla "Parola del mese" - BUFALA - abbiamo ricevuto da Tissia la segnalazione di un interessante articolo sul tema. Ringraziamo Tissia per il suggerimento e pubblichiamo come post (troppo lungo per essere un commento) l'articolo di Mario Pireddu (Docente di Scienza della Comunicazione - Università Roma Tre)
Storia
naturale della post-verità
Articolo di Mario
Pireddu – DoppioZero Blog
“Le verità
vere sono quelle che si possono inventare”, scriveva Karl Kraus circa un secolo
fa. Lo scrittore e polemista austriaco, celebre anche per i suoi aforismi,
amava dire che chi esagera ha buone probabilità di venir sospettato di dire la
verità, e chi inventa addirittura di passare per ben informato. Più o meno
nello stesso periodo, lo scrittore anarchico statunitense Ambrose Bierce
definiva così il termine verità nel suo splendido Dizionario del
diavolo: “ingegnoso miscuglio di apparenze e utopia”. Veritiero nel
libro di Bierce equivale così a “ottuso, stolto, analfabeta”. Con tutt’altro
approccio, nel 1967 Guy Debord scriveva che “nel mondo realmente rovesciato, il
vero è un momento del falso”. Il filosofo Baudrillard, riprendendo il Qōhelet,
ci ha informati invece della scomparsa della realtà, sostituita dalla realtà
dei simulacri. Nel corso della nostra lunga storia europea siamo stati
messi in guardia più volte sui pericoli della manipolazione del senso comune,
delle verità e delle informazioni di qualsiasi tipo. La notizia più recente
riguarda però l’elezione di “post-truth” (post verità)
a parola dell’anno per l’Oxford Dictionary: dopo un lungo dibattito la scelta è
caduta su post-verità come termine che definisce le circostanze in cui,
per la formazione dell’opinione pubblica, i fatti oggettivi sono meno
influenti degli appelli all’emozione e alle convinzioni personali. Tra le
motivazioni della scelta vi è l’elevata frequenza d’uso del termine nell’ultimo
anno, con particolare riferimento al referendum britannico sulla Brexit e alle
elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Da qui l’uso più frequente del
termine nell’accezione di post-truth politics, passata in brevissimo
tempo a essere usata senza più bisogno di spiegazioni o definizioni
chiarificatrici. È lo stesso Oxford Dictionary a ricordare che il concetto di post-truth
esiste da tempo, e l’origine viene fatta risalire a un saggio pubblicato nel
1992 sul magazine The Nation dal drammaturgo serbo-americano Steve
Tesich. In quel testo, riporta il sito dell’Oxford Dictionary, l’autore faceva
riferimento allo scandalo Iran-Contra di qualche anno prima e ai traffici
illegali di armi tra gli Stati Uniti e l’Iran, e arrivava a prendere atto di
una generale “libera scelta di vivere in una sorta di mondo della post-verità”.
Se si cerca “post-truth” nel
Ngram Viewer, strumento messo a disposizione da Google per
effettuare ricerche testuali all’interno dell’enorme database di libri
digitalizzati di cui l’azienda dispone, si nota che il termine compare già dal
1988.L’Oxford Dictionary avverte però che l’uso del termine nella nuova
accezione la verità diventa irrilevante, e non quindi “in seguito
alla scoperta della verità” – è attestato solo a partire dal saggio di Tesich,
e in particolar modo dopo la pubblicazione del libro The Post-truth Era
di Ralph Keyes, nel 2004. La maggior parte dei commentatori che nelle
ultime settimane ha scelto di utilizzare il concetto di post-truth senza troppe
esitazioni lo ha fatto sottolineando il ruolo dei social media e in particolare
dei social network nella diffusione di fake news (notizie finte/false ovvero bufale). In sintesi, la tesi
prevalente è la seguente: siamo in un mondo che non distingue più il vero dal
falso, e le notizie false si diffondono grazie ai social media. Lo ha sostenuto
a modo suo e in più occasioni anche Barack Obama, che pure fu tra i primi a
fare uso politico intenso dei social media, attribuendo ai media digitali la
creazione di un mondo dove “tutto è vero e niente è vero”. A preoccupare Obama
e molti altri è il ruolo dei siti di “bufale” a sfondo anche politico e dei bot che
su Twitter e altri ambienti ne hanno favorito la diffusione. David Simas, il
political director della Casa Bianca, spinge l’analisi più in là e sostiene
che attraverso i social network ora ci siano una tolleranza e persino una
accettazione prima impensabili nei confronti dei discorsi portati avanti da
Donald Trump. Dunque, e in sintesi, saremmo davanti a diversi problemi: da una
parte i social media che creano ecosistemi informativi “meno veritieri”,
dall’altra l’accettazione sociale di ciò che prima era in qualche modo tenuto
ai margini. A sostegno della prima tesi diversi commentatori aggiungono il
riferimento alla teoria delle echo chambers (lett. camere dell'eco), gli spazi chiusi e
autoreferenziali a cui darebbero vita i social media spingendoci ad avere a che
fare soltanto con persone che la pensano come noi. Teoria affascinante e che
richiama quella delle cosiddette filter bubble (bolla filtro), ovvero gli ecosistemi di
informazione personali soddisfatti da algoritmi che non ci esporrebbero a punti
di vista conflittuali – e che ci isolerebbero appunto in personali bolle di
informazioni. A una analisi più attenta, però, il fascino di queste teorie cede
il passo a considerazioni più approfondite: la teoria delle camere dell’eco
sarebbe per molti analisti essa stessa “post-fattuale” e non supportata dai
dati, così come la teoria delle filter bubble sarebbe costruita intorno a una
rappresentazione ideale distante dalle pratiche reali. Da una recente ricerca del Pew
Research Center sul rapporto tra discussione politica e social media
negli Stati Uniti emerge infatti un quadro più complesso: gli utenti, invece di
restare chiusi in spazi autoreferenziali privi di differenze, incontrano
costantemente contenuti politici con cui sono in disaccordo, e soltanto una
minima parte dichiara di essere connessa con persone dalle opinioni simili. Ci
sono utenti che filtrano e bloccano contatti per via delle differenze politiche
(il che, se da una parte potrebbe spingere a pensare alle camere dell’eco,
dimostra anche che l’automatismo degli algoritmi evidentemente non funziona
così bene), e utenti che arrivano a cambiare posizioni politiche in seguito a
interazioni con altre persone sui social media. Quel che emerge dalle ricerche
più recenti è dunque l’aumentata disponibilità di tutte le informazioni
e le argomentazioni di tutte le parti politiche. Se qualcosa di simile
alle camere dell’eco esiste, è probabile che abbia un qualche effetto
unicamente per quel che riguarda le posizioni politiche più estreme, e in
singoli ambienti mediali più che per il complesso dei social media. Difficile
insomma che un attivista gay nero abbia un ruolo in un forum di suprematisti
bianchi, o che un ateo possa essere bene accolto in un gruppo facebook di
creazionisti cristiani. Qualcosa di molto simile a quel che avveniva prima
dei social media.Insomma, dietro queste teorie si cela ancora una volta un’idea
distorta e in qualche modo determinista dei media digitali: lungi dall’essere
un luogo di democrazia e uguaglianza (ma perché mai avrebbero dovuto
esserlo?), gli spazi delle reti creano isolamento, assenza di
confronto e una realtà post-fattuale. Se però a essere post-fattuale
– o, meglio, poco fondato sui fatti – è il determinismo di questo tipo di
teorie, cosa cambia realmente con l’utilizzo diffuso dei social media? C’è un
qualche scarto rispetto alla società dei mass media, che sappiamo con
ragionevole certezza non essere stata una società della verità informativa? O
rispetto a quelle che l’hanno preceduta? E dato che pare fondato non ritenere
che papato e monarchie assolute garantissero maggiore diffusione della verità,
è possibile stabilire il grado di verità delle società nella storia? Chi oggi
lamenta un ingresso nella post-truth politics compie un’operazione
evidentemente nostalgica di revisionismo storico, attribuendo agli ecosistemi
informativi precedenti la capacità di garantire un maggior grado di verità
diffusa, e a quello attuale la sola propagazione delle notizie false. Il fatto
è però che – così come accadde per la stampa e in generale per la
democratizzazione di altri media – ad aumentare oggi è l’intero spettro delle
possibilità comunicative. Il Digital News
Report del Reuters Institute mostra come gli utenti dei social media
utilizzino più fonti differenziate rispetto ai non utenti (e il ricordo va
anche al singolo giornale che si acquistava la mattina per informarsi, o al
telegiornale preferito). La quantità di notizie “vere” e verificate, fondate sui
fatti, sulla scienza e sul debunking oggi disponibile era impensabile solo
pochi anni fa. Se Donald Trump ha vinto le elezioni presidenziali (pur
prendendo meno voti rispetto alla rivale Clinton, va ricordato), o se in
Inghilterra la maggior parte dei votanti ha deciso di esprimersi per l’uscita
dall’Europa non è “colpa di Internet” o dei social media. Sarebbe certamente
più semplice ridurre tutto ai minimi denominatori e al ritrovamento di un capro
espiatorio (oggi i social media, ieri i videogame, la tv, il cinema e persino i
libri): ragionamenti più attenti ci portano però a dire che le ragioni per
questo tipo di scelte dei cittadini – non tutti riducibili al ruolo di automi
non pensanti – sono tante e hanno a che fare anche con economia, paure, immaginari
di riferimento, percezione del ruolo delle élite, etc.
Post-verità
somiglia quindi alla reductio ad hitlerum delle discussioni in rete:
quando qualcosa non ci piace, non riusciamo a capirla o non va come vorremmo,
troviamo gli epiteti migliori per denigrarla in toto. Eppure, se si pensa alle
ricerche portate avanti dagli psicologi sociali negli ultimi decenni, ci si
accorge che la tendenza a ignorare i fatti, a non mettere in discussione i
nostri pregiudizi e a non cambiare opinione anche davanti all’evidenza è
riscontrata da tempo, e pare avere a che fare con il fatto che da sempre
siamo esseri mossi dalle emozioni più che dalla ragione. Per provare a
rispondere alle domande poste qualche riga più sopra, però, uno scarto tra il
mondo dei mass media e quello attuale esiste ed è riscontrabile nella perdita
di autorità delle istituzioni tradizionali che strutturavano la nostra vita
sociale e politica: famiglia, chiese, partiti politici, sindacati,
corporations. È quel che sostiene tra gli altri Francis Fukuyama quando
parla di declino della fiducia: il facile accesso a spazi informativi
online ha contribuito a rendere quelle istituzioni più trasparenti, e ora
sempre più persone le apprezzano meno nonostante non siano cambiate poi molto.
L’esempio che fa Fukuyama è quello degli omicidi commessi dalla polizia,
diminuiti negli anni ma percepiti ora in maniera diversa perché il fenomeno è
reso più visibile grazie alla produzione di video e contenuti digitali da parte
di cittadini comuni. Lo riconosce anche l’Economist,
pur con un approccio parzialmente sbilanciato sulla post-truth politics, nel
sottolineare che il monopolio delle grandi istituzioni nel diffondere
informazioni è stato seriamente intaccato. L’Accademia della Crusca, come da
copione, gioca sulla
lingua e parla di post-verità e “verità dei post”. C’è chi dice che
una volta scomparsa l’autorevolezza chiunque si ritiene in grado di esprimere
giudizi su qualunque tema, e da qui emergerebbero le post-verità. In realtà
questo processo viene da lontano: qualche decennio fa i desideri e i bisogni
dei singoli passavano in secondo piano rispetto a norme e a ruoli
precostituiti, e gradualmente norme e ruoli sono diventati secondari rispetto
all’affermazione di sé, al soddisfacimento di bisogni e alla realizzazione dei
desideri. Ma quali sono le cause reali della perdita di autorevolezza delle
agenzie tradizionali? Se pensiamo al giornalismo, per esempio, è possibile che
un ruolo lo abbia avuto un modo di operare e delle routine non proprio consoni
ai nobili principi ai quali dovrebbe ispirarsi? Se Repubblica pubblica come vera
una notizia creata dal sito satirico Lercio, la responsabilità è dei
social network? E se sulla home page dello stesso quotidiano viene pubblicata
come vera la notizia di una dichiarazione di Trump contro la statua
della libertà che è invece frutto della satira di un professore di giornalismo
della Indiana University? Se il giornalismo intende realmente aggredire il
problema delle fake news, dovrebbe partire da se stesso prima che dalla
condanna dei social network e dei siti di bufale. È quanto sta provando a fare
in Francia il quotidiano Le Monde
ricercando una partnership con il Ministère de l'Éducation nationale, e in
Italia lo staff di Valigia Blu con un lavoro
eccezionale su metodi e approfondimenti che potrebbero essere utili per fare
realmente la differenza. Jennifer Hochschid, studiosa di politiche governative
a Harvard, rileva
un parallelo tra la partigianeria dei media del XVIII e XIX secolo e di quelli
attuali. Insomma, a tutt’oggi il principale risultato del dibattito sulle fake
news sembra essere a sua volta una fake news, e se continuiamo così non
riusciremo mai ad aggredire il problema. Allo stesso modo, c’è da stare attenti
alle richieste
di un controllo della verità da parte di soggetti come Facebook e Google:
appaltare alle corporation la distinzione tra vero e falso non è forse la cosa
migliore che possiamo fare, per giunta in epoca di mass surveillance. Mark
Zuckerberg non usa il termine fake news ma parla di misinformation, e ha
dichiarato che l’azienda che ha creato sta lavorando da tempo su questi
problemi: chiedergli di diventare media company e dunque editore a tutti gli
effetti e attore nella “prevenzione della menzogna” potrebbe però generarne
altri ben più grandi, con conseguenze ben più difficili da gestire in termini
di libertà informativa. Alcune possibili
soluzioni arrivano da app esterne realizzate da studenti, ma il tema
del rischio di un controllo eterodiretto (e dell’incentivazione della pigrizia
mentale) resta aperto. Ecco perché, in conclusione, il problema come sempre non
è solo tecnologico ma anche culturale: la quantità di dati che viene prodotta e
diffusa influenza e influenzerà sempre più la qualità delle nostre relazioni e
delle visioni del mondo che creiamo continuamente. “Troppe cose da conoscere in
troppo poco tempo”, scriveva David Weinberger qualche anno fa, ricordando che
questa sensazione accompagna l’uomo sin dall’antichità ma sembra essersi
ingigantita a dismisura con l’arrivo di Internet. Quel che più manca è allora
un’educazione all’uso e alla gestione più consapevole di dati e informazioni:
se abbiamo un problema lo abbiamo con l'uso del senso critico più che con la
tecnologia, ed è un problema che abbiamo sempre avuto. Molti quotidiani hanno
riportato la notizia della pubblicazione di una ricerca della Stanford
University svolta tra il 2015 e il 2016 su un campione di circa
ottomila studenti, che conferma quel che già sappiamo: i cosiddetti “nativi
digitali” sanno usare Facebook e Instagram ma non riescono a valutare
correttamente le informazioni e a distinguerne la credibilità. Il fatto è che a
questa porzione di verità ne va aggiunta un’altra: neanche gli adulti riescono
spesso a valutare correttamente informazioni e fonti, e in molti casi neanche
quegli adulti che per mestiere dovrebbero essere più critici e consapevoli. E
sì, mi riferisco ai giornalisti ma anche ai docenti della scuola e
dell’università, ai formatori e a tutti quelli che hanno a che fare con la
gestione e la produzione di informazioni e conoscenza. Come si chiede Giovanni
Boccia Artieri nel commentare
la scelta della presidente della Camera dei Deputati di mostrare nomi e cognomi
di chi la insulta sui social network: qual è il confine tra educare la
cittadinanza all’espressione nel digitale e incentivare ciò che si vorrebbe
contrastare? Il discorso vale per l’odio sociale e l’hate speech come per la
diffusione di fake news, spesso operata anche da chi ricopre cariche che
dovrebbero essere “autorevoli”. Esiste un conversational divide che
caratterizza gli ambienti online e la capacità di gestire consapevolmente
notizie e disintermediazioni? Se sì, perché trovare un colpevole nella
tecnologia e non riflettere invece sullo scarso livello di responsabilità
sociale che abbiamo prodotto negli anni? Qualche anno fa, durante una lezione
dedicata al passaggio dai mass media ai media digitali, dissi agli studenti che
i primi sistemi di videochiamata furono sperimentati già alla fine degli anni
venti del secolo scorso (facevo riferimento all’ikonophone e a Herbert
E. Ives). Dopo qualche minuto Emanuela, studentessa sempre molto attenta e
seduta in prima fila con il laptop aperto, esclamò: “è vero!”. Aveva
controllato su google per verificare la veridicità della mia affermazione. Il
problema non è l’essere sottoposti a fact-checking e criticare chi dubita
dell’autorità, ma non averne timore e al contrario promuovere lo
scetticismo, la verifica delle informazioni e l’affidabilità delle fonti come
prassi regolare – anche quando quelle fonti siamo noi.
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