La chiave a stella
L’importanza
del lavoro
nell’opera di Primo Levi.
nell’opera di Primo Levi.
Articolo
(tratto dalla rivista
on-line “La Tascabile”) di Demetrio Paolin vive e lavora a Torino.
Ha pubblicato il romanzo Il mio nome è Legione (Transeuropa, 2009), i saggi Una
tragedia negata. Il racconto degli anni di piombo nella narrativa italiana (il
Maestrale, 2008) e Non fate troppi pettegolezzi (LiberAria, 2014) e diversi
studi critici su Primo Levi. Ha collaborato con il “Corriere della Sera” e “il Manifesto”.
La chiave a stella come molte delle altre opere leviane si nutre di un perpetuo dialogo con gli
altri suoi testi. Quando affrontiamo uno scritto di Levi, ci viene alla mente
l’immagine del formicaio (una felice definizione di Alberto Cavaglion) ovvero
di una serie di testi che sono uniti gli uni agli altri e che comunicano
profondamente. Non sto, in questa sede, sostenendo che Levi abbia scritto
sempre lo stesso libro o un solo libro declinato in modo diverso, ma che esiste
nell’autore torinese una precisa tensione interna a tenere insieme tutta la sua
bibliografia. Tornando al romanzo, in esso si raccontano alcuni episodi della
vita di Libertino Faussone, montatore di gru che si trova, in una remota
provincia della Unione Sovietica, a dividere le giornate libere con un chimico
italiano, che non si fatica a riconoscere come Levi. Parlare di questa opera
che come semplice racconto del “lavoro” non dà l’idea della complessità del
testo, che nella migliore tradizione dello scrittore torinese è in primo luogo
un ritratto a tutto tondo di un uomo, a partire della sua parlata. La lingua di
Faussone non è una semplice riduzione scritta del parlato piemontese (gli
anacoluti, le costruzioni del parlato riportate nello scritto) ma è anche
l’irruzione del linguaggio tecnico nell’ordine del discorso, come ad esempio
“smerigliare”, “bavature”, “bombé” etc etc. E questo non deve stupire perché
fin da Se questo è uomo Levi è stato ammaliato dalle lingue parlate e da
quel senso di babelica confusione che si respirava nel lager. Un uomo si
descrive in primo luogo dalla lingua che usa e dal modo in cui esso la usa e,
infatti, non è un caso che il suo interlocutore, Levi stesso, dica: “Ha un
vocabolario ridotto e si esprime spesso attraverso luoghi comuni, che forse gli
sembrano arguti e nuovi”. Faussone ama raccontare le storie, ma il suo modo di
raccontarle non è un modo letterario o narrativo, tutt’altro. Non obbedisce
alla regole della buona narrazione: “Non è un grande raccontatore: è anzi
piuttosto monotono, e tende alla diminuzione e all’ellissi come se temesse di apparire
esagerato, ma spesso si lasica trascinare, ed allora esagera senza rendersene
conto”. Imperfezioni che generano simpatia, condivisione: Levi non lascia nulla
al caso. Anche il cognome del protagonista contiene una serie di suggestioni.
Alle nostre orecchie, abituate alla parlata piemontese, la parola “faussone”
suona simile a “faus” ovvero un aggettivo molto usato nel dialetto per
significare “falso” o “finto”. Questa spia linguistica è molto interessante
perché introduce il tema dell’impostura, che è uno dei nodi nevralgici
dell’opera leviana. Si pensi solo a una poesia come Cuore di Legno, in
cui viene descritto un ippocastano che vive nei piccoli spazi di un corso di
Torino e conduce una esistenza di impostura, fingendo di vivere come il suo
fratello di montagna, ma che in realtà produce frutti non buoni da mangiare. Il
vivere in vece di tornerà fortissimo ne I sommersi e salvati (nel
capitolo La vergogna), quando Levi metterà sotto la sua spietata lente
d’ingrandimento quel sentimento del male di sopravvivere, ovvero di quello che
vivono molto sopravvissuti che si sentono liberi ma non redenti. A questo punto
anche il nome di battesimo di Faussone Libertino assume una diversa
connotazione per il lettore, quasi a segnare l’idea non solo di una libertà
falsa o sbagliata, ma proprio diminuita. Ci sono almeno due racconti, dei tanti
dell’epopea di Faussone, che descrivono questa sorta di inquietudine, legata a
quando le cose vanno male. Il primo è il capitolo introduttivo intitolato Meditato
con malizia (che riprende un verso di Eliot) e un altro intitolato Il
Ponte, che tra l’altro riprende il tema di una poesia coeva al libro. Ne Il
Ponte come altre volte Faussone ha fatto il suo lavoro al meglio e ne è
molto orgoglioso e così insieme agli altri lavoratori guarda l’opera della sua
fatica.
Ero anche io sul punto, a metà della prima campata, e oltre al fresco ho
sentito due altre cose che mi hanno fatto restare lì bloccato come un cane da
caccia quanto punta ho sentito il ponte che mi vibrava sotto i piedi, e ho
sentito come una musica […]. Mi sono sentito inquieto, […]: forse sarà anche
questo un effetto del nostro mestiere, ma le cose che vibrano a noi ci
piacciono poco.
C’è inquietudine in
queste parole, una sorta di maleficio – il termine malizia, con cui si apre il
libro, è ripetuto molte volte e indica proprio il momento in cui l’opera di
ribella al montatore –, che anche Faussone non può far a meno di registrare.
Noi lettori la percepiamo come un’angoscia che ogni cosa nel mondo prova su di
sé e che Levi definisce come vergogna, un sentimento complesso simile
all’angoscia primigenia, che pervadeva il cosmo come raccontata nei Sommersi
e i salvati. Questo continuo andirivieni di temi coincidenti tra la
narrazione del lager e queste storie di lavoro, ci interroga su quanto di Levi
ci sia in Faussone. È chiaro che l’interlocutore che non viene mai nominato sia
appunto Levi, e nel corso del libro più volte vengono chiariti alcuni aspetti
della vita di questo secondo uomo, che senza alcun dubbio ce lo fanno riconoscere
come l’autore. Mi sembra però interessante questo gioco di specchi, perché è
ovvio che l’autore veda in Faussone qualcosa di suo, lo senta vicino e
portatore di qualcosa che lo riguarda. Levi ha sempre amato molto Conrad e
nella sua auto-antologia La ricerca delle radici, a proposito di Conrad,
parla dell’angoscia di dire “io” e di come da questa angoscia abbia costretto
l’autore a creare Marolw che in un certo senso lo esonera da usare la prima
persona. Levi è affascinato da questo sdoppiamento: e La chiave a stella
è proprio il tentativo di costruire qualcosa di speculare. Non è un caso che ad
un certo punto anche Levi racconti a Faussone qualcuna delle sue avventure e in
una tiri in ballo Tiresia l’indovino. Tiresia, per dirla con Levi, incappa in
qualcosa di più grande di lui e la sua sapienza lo porta essere uomo e donna, a
essere cieco ma profeta. È scisso come Levi stesso quando compone questo libro,
indeciso se lasciare il vecchio mestiere (il chimico) per il nuovo (lo
scrittore). Levi scrittore ha voluto, quindi costruirsi un alter ego, e
ha giocato sul nome proprio come quando esordì nei racconti firmandoli con le
pseudonimo di Malabalia. Faussone, Malabalia, la maggior parte delle scelte
nominali di Levi sono all’insegna di un area semantica negativa. Se “Faussone”
abbiamo detto fa pensare al falso, al finto e all’impostore, “Malabalia”
significa cattiva balia, ha in sé l’idea di una madre cattiva, di latte andato
a male, che ha nutrito qualcosa che è marcito (si ricordi l’accenno all’ippocastano
e ai suoi frutti marci). E quale è la possibile salvezza che Levi oppone a
visione di un mondo meditato con malizia? La sua visione e risposta sono molto
piemontesi. A questo male lo scrittore oppone l’etica del lavoro ben fatto. Se
pensiamo a quando è uscito il romanzo, comprendiamo come la tesi di Levi strida
con le sirene e le riflessioni sull’operaismo che andavano di moda in quegli
anni.Questa idea, che comunque un lavoro se si fa lo si deve fare bene, torna
anche in uno dei racconti più enigmatici di Levi dal titolo Il ritorno di
Lorenzo (contenuto nella raccolta Lilit). È un racconto, ambientato
nel lager (ecco ritorna quel concetto di formicaio dell’opera leviana di opere
che si parlano le une con le altre e in un certo senso si completano). In
questa novella il protagonista è un personaggio molto simile a Faussone,
Lorenzo infatti “non era sposato, era sempre stato solo; il suo lavoro che
aveva nel sangue, lo aveva invaso fino ad ostacolarlo nei rapporti umani.”
Eppure questa sua qualità, questa dedizione al lavoro, lo rende umano:
“Nell’ambiente violento ed abietto di Auschwitz, un uomo che aiutasse altri
uomini per puro altruismo era incomprensibile, estraneo, come un salvatore
venuto da cielo”. È chiaro quindi che l’idea di lavoro esposta da Levi nei suoi
racconti e ne La chiave a stella sia completamente estranea ai dibattiti
del lavoro che erano presenti in quegli anni nel panorama culturale. Il lavoro
non solo definisce l’uomo, ma lo salva, è un mestiere (termine molto
connotato in piemontese, quasi a indicare una totale sovrapposizione tra la
mansione e la persona). Non è forse un caso che Levi parli del mestiere di
scrivere, mettendo in paragone le attività di Faussone e le sue attività come
scrittore:
Nel mestiere di scrivere la strumentazione e i segnali di allarme sono
rudimentali: non c’è neppure un equivalente affidabile della squadra e del filo
a piombo. Ma se una pagina non va se ne accorge chi legge, quando ormai è
troppo tardi, e allora si mette male: anche perché quella pagina è opera tua e
solo tua, non hai ne scuse né pretesti, ne rispondi appieno.
In queste poche righe,
che suonano come una risposta all’incipit del libro in cui Faussone parla delle
storie come se fossero una gru da montare, si intravede un altro tema
fondamentale del romanzo e della visione del mondo di Levi, ovvero il concetto
etico della responsabilità. Concepire il proprio lavoro come un mestiere porta
a sentire su di sé la responsabilità di quello che si crea. Non c’è differenza
tra opera di ingegno e opera di ingegneria: per entrambe a rispondere è il
singolo. In anni in cui si parlava di masse operaie, in cui si rifletteva su
concetti legati alla collettività, Primo Levi consegna al lettore una diversa
visione del mondo in cui conta il singolo, l’opera della sua schiena e delle
sue braccia. Levi ha visto come si può ridurre un uomo in collettività, e la
sua opera narrativa è il tentativo di descrivere non l’uomo, ma un
uomo. Un’ultima cosa riguarda il titolo del libro del romanzo, perché solo
alla fine di questa disamina, credo che risulti più chiaro e comprensibile.
Abbiamo visto che l’intero testo è dominato da una sorta di tensione tra
linguaggio letterario e gergo del lavoro. Ovvio che “la chiave a stella” ci
porti alla mente il cacciavite che ognuno di noi possiede per i piccoli lavoretti
di casa: il titolo indica chiaramente e programmaticamente il tema del libro.
Quando ho letto sul blog l'articolo su ‘La chiave a stella’ di Levi mi è ritornato in mente il libro di Ermanno Rea ‘La dismissione’. In effetti ambedue i testi, anche se in modi narrativi differenti, descrivono la parabola discendente di quella che veniva definita ‘l’aristocrazia operaia’. Attraverso i due personaggi principali, pur così diversi - Faussone piu ironico e distaccato, Buonocore più malinconico - ho potuto rivisitare quel mondo imperniato sulla grande fabbrica che ho avuto la fortuna ma anche la sfortuna di conoscere nel suo lento declino.
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