LE
MIGRAZIONI BARBARICHE
Incontro
con il prof. Alessandro Barbero
Dopo aver ringraziato
il numeroso pubblico e naturalmente il relatore, che CircolarMente si onora di
presentare dal momento che è da tutti apprezzato per la sua straordinaria
capacità di unire la competenza di studioso alla passione espositiva del
narratore, Massima Bercetti esplicita la proposta dell’associazione che
attraverso il tema delle migrazioni barbariche – un’emergenza del passato –
vuole mettere a fuoco alcune caratteristiche delle emergenze attuali, fidando nel
potere chiarificatore ed evolutivo della memoria storica. Per molti dei
presenti sicuramente questo tema richiama alla memoria una dicotomia, quella
fra Romani e Barbari, visti come se ci fosse fra questi due termini un’antitesi
insuperabile - ordine e caos, luce e ombra, civiltà e rozzezza: qualcosa
insomma che non può mai sussistere insieme, tanto è vero che quando sono
arrivati i barbari l’impero si è sfasciato. Tuttavia il prof. Barbero, che su
questo tema ha pubblicato nel 2010 per Laterza il testo ”Barbari. Immigrati,
profughi, deportati nell’impero romano”, ci mostrerà una realtà più complessa e
sfaccettata, facendoci vedere come fra questi due poli non ci sia stato sempre
un rapporto di esclusione reciproca, bensì una relazione per molto tempo anche proficua.
Sarà dunque importante per tutti noi cogliere i termini di questa relazione e
analizzarne con il prof. Barbero le modalità, individuando in particolare gli
errori e le inefficienze che hanno contribuito a determinarne la rottura.
1.
Attualità del tema
e sue
diverse interpretazioni nel tempo:
Nell’aprire
la sua conversazione, il prof. Barbero osserva come il modo diverso con cui il
capitolo delle migrazioni barbariche è stato analizzato e interpretato dagli
storici sia quanto mai significativo per farci capire l’oggi. Pensiamo per
esempio a come veniva letto e raccontato a inizio novecento, quando gli stati
europei si preparavano ad affrontarsi sul campo di battaglia con la loro carica
di esaltazione nazionalista. Nel caso dell’Italia, prevalendo allora l’idea
della superiorità etica e spirituale della razza latina, era facile
identificare il nemico germanico con quei rozzi barbari che avevano distrutto
la grande civiltà romana, e pertanto quelle che oggi gli storici definiscono
come “migrazioni” venivano viste come
“invasioni”, eccitando gli animi alla
necessità della resistenza verso un nemico portatore di ogni nequizia.
Diversa
è la lettura che ne facciamo oggi, spiega il prof. Barbero, non già perché gli
storici possano ignorare a loro piacere una certa realtà fattuale, ma perché
nella congerie dei fatti esiste pur sempre la scelta che si opera a partire da
dove siamo collocati, e che ci spinge ad illuminarne alcuni piuttosto che
altri, approfondendo certe analisi, rivalutando aspetti prima ignorati. Ora,
per quanto possano esserci occasionali frizioni col mondo germanico,
nessuno porrebbe più il tema di uno scontro di civiltà fra i nostri due popoli:
il problema che dobbiamo fronteggiare come europei è piuttosto quello di un
mondo che si è fatto globale e complesso, e in cui c’è una parte più ricca e
più organizzata che si sente accerchiata da popoli minacciati dalla fame e
dalla guerra, le cui condizioni di vita sono profondamente diverse dalle
nostre.
La
lettura degli storici tende dunque oggi a ragionare maggiormente sul fatto che
prima della vera e propria invasione c’era stata una lunga fase migratoria in
cui i barbari erano stati positivamente accolti e integrati, indagando pertanto
sia sulle modalità di assorbimento controllato di cui l’impero aveva saputo
dare prova, che sugli errori e sulle inefficienze che ad un certo punto hanno
permesso l’apertura di una crepa irreparabile.
2.
Romani e Barbari:
una
dicotomia assoluta?
Giustamente,
osserva il prof. Barbero, Massima Bercetti nella sua introduzione ha messo in
rilievo quanto sia forte, ancora oggi, la percezione di una profonda dicotomia
fra questi due termini, che poggia sulla nostra tendenza a dividere il mondo
fra NOI e gli ALTRI dotando i primi di tutte le qualità positive (i più civili,
i più giusti, in altre parole: i migliori). Nel definire come barbari quelli
che a nostro giudizio non possiedono queste alte qualità – qualunque siano i
termini con cui le decliniamo – siamo sicuramente eredi del mondo greco, che
come tutti sappiamo è stato il primo a chiamare “barbari” coloro che non erano greci e la cui lingua suonava
balbettante e scomposta alle loro orecchie (il termine ha evidenti origini
onomatopeiche).
E’su
questa differenza, del resto, che essi si definivano come portatori di valori
unici, leggendo la propria storia come la storia epica di coloro che avevano
lottato, come uomini “nati liberi”,
contro un impero di sudditi e di schiavi. Un modo di autodefinirsi per
opposizione che abbiamo fatto in parte nostro, nonostante avesse un corollario
non troppo edificante, se persino un filosofo come Aristotele poteva
considerare del tutto lecita la schiavitù per coloro che per natura fossero “nati schiavi”...
Poi,
come sappiamo, questa civiltà raffinata che aveva inventato il concetto di
“barbaro” e che aveva saputo opporsi ai barbari d’oriente, cade alla fine sotto
il dominio dei Romani, a cui fu gioco forza sottomettersi anche se in cuor loro
i greci consideravano altrettanto barbari questi rozzi vincitori – cosa che del
resto i latini ben sapevano, accettando in generale, nonostante qualche fiera
resistenza (vedi Catone) di farsi “civilizzare” da un popolo vinto. Cose note,
certamente, anche se il prof. Barbero fa notare che non solo i greci riuscirono
ad ottenere uno statuto di autonomia per le loro poleis, ma che la parola
barbaro cambiò di segno, passando ad indicare chi non era né greco né romano
(tanto è vero che alcuni storici non parlano di impero romano, ma di impero
greco-romano). Restava dunque l’idea di un confine fra sé e l’altro, ma si
spostava di segno.
3. Una
politica pragmatica di inclusione ragionata:
Inizia
in questo modo, continua il prof. Barbero, un movimento che proseguirà nel
tempo via via modificandosi, anche perché una dicotomia statica strideva
concettualmente con l’idea inclusiva che i romani avevano rispetto al loro
progetto di conquista (per fare un
esempio, dopo le sanguinose guerre di Giulio Cesare, i Galli vennero
“incorporati”: restavano barbari, ma barbari-di-dentro, contrapposti ai
barbari-di-fuori…).
Si
veniva così a definire una situazione che può essere rappresentata secondo uno
schema bipolare:
-
da un lato, i cittadini romani, a cui spettava l’assoluta prevalenza (essi
erano al di sopra di tutti gli altri, e venivano sottoposti solo alla
giurisdizione dell’imperatore)
-
dall’altro, i barbari interni, sudditi
dell’impero (potremmo definirli barbari “indigeni”) per cui viene pensata
un’apposita categoria giuridica, quella dei “peregrini”
C’è
naturalmente una differenza enorme fra le due categorie: il “peregrinus” è uno che non è padrone a
casa sua, un forestiero che viene semplicemente tollerato.
Per
esemplificare la forza di questa distinzione, il prof. Barbero ricorda un
episodio significativo, quello della cattura di Paolo di Tarso al tempo della
sua predicazione a Gerusalemme, citata da una fonte autorevole (Gli atti degli
apostoli).
Racconta dunque il
testo che Paolo, denunciato dai sacerdoti ebrei, viene arrestato e condotto nel
palazzo del governatore romano per essere sottoposto a giudizio. Qui viene
incatenato e legato al palo per essere fustigato, a mo’ di pena preliminare, ma
la tortura non avrà mai luogo dal momento che Paolo si rivolge ai suoi aguzzini
con una frase che diventerà celebre: “Cives romanus sum!” Panico assoluto: si chiama in gran fretta il
governatore che accorre, presumibilmente trafelato a sua volta. Il dialogo fra
i due uomini, che sulle tracce del prof. Barbero riproduciamo in questo modo,
risulta decisamente surreale:
“E’ vero quanto mi
dicono? Sei davvero un cittadino romano?”
“Sì, lo sono, e di
nascita!” (notiamo che Paolo era originario dell’Asia Minore…)
“Io invece la
cittadinanza l’ho acquistata, e a caro prezzo!”
Capiamo bene infatti
che si è venuta a creare una situazione alquanto confusa per l’asimmetria dei
due personaggi: il prigioniero è cittadino per nascita, il suo giudice un
cittadino acquisito. Al di là di questo, su cui torneremo, il possesso della
cittadinanza cambia radicalmente la situazione: bisogna sospendere tutto,
scrivere subito a Roma, perché un cittadino romano è soggetto solo alla
giurisdizione imperiale. Può dunque cavarsela, Paolo, perlomeno in questa
occasione, mentre così non è stato per Gesù, che nell’impero era solo un
“peregrinus” …
Ora,
prosegue il prof. Barbero, se lo esaminiamo con attenzione questo episodio
evidenzia non solo la nettezza della distinzione fra cittadini e no, ma anche
l’esistenza di una terza categoria che rende in un certo senso “tripolare” lo
schema di cui sopra: quella cioè dei cittadini romani non per nascita, ma
per acquisizione. La cittadinanza dunque era qualcosa che si poteva
ottenere, se venivano riconosciuti particolari meriti. Veniva accordata per
esempio a chi nelle province conquistate si era dimostrato disponibile alla
collaborazione, in specie se apparteneva a famiglie influenti, o ancora a chi
si fosse arruolato nei reparti ausiliari dell’esercito (le legioni erano
destinate ai soli cittadini romani) e vi avesse trascorso onorevolmente il
lungo servizio previsto (25 anni!).
Al
congedo gli “indigeni” ricevevano infatti la cittadinanza romana, corredata da
un diploma onorifico detto “missio
emerita” (il prof. Barbero cita il
caso di un veterano originario della Pannonia, che aveva dato ai suoi figli
rispettivamente il nome di Emeritus ed Emerita, a indicare l’orgoglio per la
posizione conquistata) e da nuovo nome romanizzato, con un premio in denaro
che consentiva loro di trasformarsi in piccoli agricoltori, diventando pilastri
dello stato.
Quella
romana era insomma una politica pragmatica di inclusione ragionata che veniva
applicata generalmente con successo, anche se suscitava in qualche caso delle
resistenze da parte dei fautori della supposta purezza romana:
Il prof. Barbero cita
il caso di una proposta di legge davvero molto inclusiva che l’imperatore
Claudio sottopose al Senato (come sappiamo, pur essendo l’imperatore
praticamente onnipotente era tenuto a dimostrare almeno un formale rispetto per
questo organo) e che prevedeva la possibilità di accedere alla carica
senatoriale anche per coloro che erano di origine barbara.
Sembrò davvero troppo,
a molti senatori (“Dove si andrà a finire? Ci sono limiti che non possono
essere varcati!”), ma secondo quanto racconta Tacito Claudio li rintuzzò con un
discorso veemente, che Barbero ha rievocato per noi più o meno con queste
parole:
“Voi che temete di
inquinare il vostro sangue, non siete forse stati, prima che romani, etruschi o
sabini, un tempo nemici di Roma? Noi non siamo greci! Siamo romani, e siamo
forti proprio per questo, perché accogliamo fra noi i nemici sconfitti!”
N.B. = ricordiamo che
nel mondo greco si era cittadini solo per diritto di sangue
Da
segnalare inoltre il fatto che la concessione della cittadinanza non riguardava
solo i singoli individui, ma poteva essere concessa a intere comunità e financo
a popoli (regnando Traiano, che era di
origini spagnole, fu concessa tout-court a tutti gli spagnoli: si trattava
anche allora – commenta il prof. Barbero ricorrendo scherzosamente ad
un’espressione contemporanea - di ottenere consenso, allargando la propria base
elettorale…).
In
questa politica di concessione della cittadinanza, che rispondeva ad un preciso
calcolo politico, costituirà un evento particolarmente significativo un editto
emanato nel 212 d.C. dall’imperatore Marco Aurelio Antonino Caracalla, con
il quale si concedeva la cittadinanza romana a tutti coloro che vivevano entro
i confini dell’impero.
Possiamo
ben immaginare quale sia stato allora l’impatto di questa decisione, che
riguardava un numero altissimo di beneficiati:
(da qui, racconta il
prof. Barbero, deriva il fatto che moltissimi dei nuovi cittadini portassero
come primo nome quello stesso dell’imperatore, come richiesto dal beneficio ma
anche in segno di autentico orgoglio e riconoscenza. Fra i vari documenti che
lo attestano, abbiamo ad esempio un’iscrizione in cui un certo Marco Aurelio
Zozimo cita se stesso come “colui che si chiamava solo Zozimo, prima del sacro
nome”….
Sacro in primo luogo
perché era di emanazione imperiale, e quindi assimilabile ad un dono della
divinità, e in secondo luogo perché era effettivamente foriero di grazia, “così
che appartenesse a tutti ciò che prima era di pochi”, come dice sant’Agostino,
facendo di Roma “l’unica città dove nessuno è straniero”)
4. I
Barbari esterni e la questione immigrazione:
Quello
romano era dunque un mondo dove le diverse identità non venivano conculcate, ma
in cui tutte erano per così dire assorbite in un’identità superiore e
aggregante.
Ciò
detto – prosegue il prof. Barbero – non possiamo non chiederci che cosa succedeva
ai barbari veri, quelli che non stavano dentro i confini dell’impero ma fuori,
ai margini. Sappiamo che spesso erano loro in prima persona a chiedere di
entrare, mentre in altri casi venivano sollecitati a farlo per esigenze interne
all’impero, che aveva bisogno di contadini per i vasti latifondi o di reclute
per l’esercito (anche per riempire i vuoti lasciati dalle epidemie, che erano
assai frequenti). Quando parliamo di sollecitazione, intendiamo dire che al
bisogno i romani, che notoriamente non andavano troppo per il sottile,
organizzavano spedizioni in quello che chiamavano il “barbaricum” per andare
direttamente a prenderseli, o attraverso accordi pacifici con i capi, oppure
bruciando un po’ di villaggi a scopo dimostrativo….
Nel
passare ad esaminare la condizione giuridica degli immigrati, il prof. Barbero
fa ancora alcune considerazioni sull’editto di Caracalla, su cui gli storici si
sono interrogati per capire se in qualche modo l’imperatore, concedendo la
cittadinanza a tutti coloro che erano dentro l’impero, si fosse già posto il
problema del fuori, guardando in qualche modo al futuro. Purtroppo non ci sono
risposte precise a riguardo, perché il papiro egiziano con testo in greco che
lo riporta è lacunoso proprio in alcuni punti salienti. Sappiamo però da altre
fonti che per i lavoratori immigrati non era prevista alcuna concessione di
cittadinanza: essi venivano considerati semplicemente “dediticii”, con un termine che implicava il darsi all’imperatore,
il mettersi nelle sue mani. Da notare però che essi non erano schiavi: se
impiegati nei latifondi, erano contadini liberi, che affittavano le terre e
pagavano le tasse; se era l’esercito a richiederli, compivano il servizio
militare come previsto.
Naturalmente,
per gestire l’afflusso continuo di immigrati, c’erano strutture governative e
intere prefetture con uffici e funzionari che avevano il compito di
accoglierli, registrarli, distribuirli nei distretti a seconda delle richieste
del governo centrale a cui spettava ogni decisione politica. Esisteva dunque
un’organizzazione capillare ed efficace, ma certo non mancavano episodi di
corruzione:
(ad un certo punto,
racconta infatti il prof. Barbero, scoppiò un vero e proprio scandalo, quando il governo centrale si rese
conto che sotto la dicitura “acquisto delle reclute” e “compravendita degli
immigrati” avvenivano cose strane: ad esempio, si facevano degli accordi
sottobanco fra i centurioni che dovevano reclutare uomini per l’esercito e i
latifondisti che preferivano pagare piuttosto che sacrificare la preziosa mano
d’opera; dopo di che gli stessi centurioni acquistavano gli uomini necessari a
minor prezzo dai capi barbari, trattenendo per sé la differenza. Una volta
appurato il giochetto, il governo centrale cominciòovviamente a provvedere da
sé a questi acquisti…)
In
generale peraltro le cose procedevano con sufficiente beneficio per tutti e
l’immigrazione fluiva senza scosse, con le istituzioni preposte che regolavano
i flussi a seconda dei bisogni interni. Si
calcola che fra il 4° e il 5° secolo l’esercito romano fosse composto quasi
interamente da barbari, figli di immigrati o addirittura nati all’esterno
dell’impero (cosa che a inizio novecento,
quando si ragionava senza pudore in termini razzisti, veniva interpretata come
una delle cause del suo crollo…). Potevano esserci frizioni occasionali, ma
nella maggior parte dei casi l’integrazione di tutti questi immigrati non
comportava particolari problemi e il valore dei barbari del nord, del resto
convertiti al cristianesimo - la chiesa naturalmente lavorava per
l’assimilazione, avendo una prospettiva universalistica - veniva spesso
riconosciuto (benché fossero prevalentemente alti e biondi: segno certo, per i
latini, di una indubbia inferiorità genetica!).
L’immigrazione
finiva così per diventare una sorta di ideologia dell’impero, di cui il prof.
Barbero ha dato alcuni divertenti assaggi
citando un certo numero di scritti in elogio dell’imperatore di turno, in cui
pur facendo la tara al tono adulatorio che era davvero poco evitabile in questo
genere di produzioni, veniva espresso un autentico orgoglio per questa capacità di assimilazione rispetto ai
popoli sconfitti, attraverso la quale si assicurava a tutti il diritto di poter
godere della “felicità romana”.
Questo
naturalmente non implicava, da parte degli autori, il porre romani e barbari
sullo stesso piano, ma si riconosceva comunque il valore politico forte della
loro integrazione:
(per fare un esempio,
in uno di questi scritti, indirizzato all’imperatore Teodosio da un certo
Temischio, un politicante greco di Costantinopoli, ben si sottolineava come i
Germani e i Goti rappresentassero con la loro rozzezza l’antitesi dei civili e
razionali Romani. Nondimeno l’autore mostrava di considerarli educabili alla
civiltà, esaltando dunque la scelta imperiale di non eliminare il popolo dei
nemici bensì di proteggerli, dopo averli sottomessi, facendoli diventare parte
dell’impero. In fondo, aggiungeva curiosamente “non proteggiamo forse noi anche
gli animali feroci, così che si conservi la specie, e non scompaiano gli
elefanti dalla Libia e gli ippopotami dal Nilo? Questi poi sono uomini, e
pertanto meritano ancora di più la nostra protezione!”)
5.
L’inizio della fine: un racconto drammatico,
foriero
di insegnamenti preziosi
Dopo
di che, prosegue il prof. Barbero, è inevitabile chiedersi che cosa successe
poi e come avvenne che dopo aver gestito con successo la questione immigrazione
per più di due secoli essa cominciò a sfuggire di mano, per una serie di
concause fra le quali è importante a suo giudizio indicare tutta una serie di
inefficienze e di gravi errori che emergono con drammatica evidenza in un
episodio specifico, avvenuto nel 376 D.C.
(N.B.
= su di esso il prof. Barbero ha imbastito una narrazione tanto significativa
quanto avvincente, che cercheremo qui di riportare il più possibile per esteso
perché rientra perfettamente nel tema che CircolarMente ha voluto proporre per
l’anno in corso)
-la
pressione dei Goti sulla frontiera danubiana
e il dilemma: farli o non farli entrare?
Siamo dunque nel 376
D.C.
Alla frontiera
dell’impero romano d‘oriente, che costeggia il Danubio, preme un intero popolo
barbaro che si sta spostando dalle sue sedi per l’incalzare di tribù nomadi ancora
più barbare, quelle degli Unni, che con le loro scorrerie saccheggiano e
terrorizzano mettendo i villaggi a ferro e a fuoco. I Goti non sono certo
sconosciuti ai Romani: molti di quelli che abbiamo chiamato “barbari di dentro”
sono originari di questo popolo, hanno dato contadini ai campi dei latifondisti
e reclute all’esercito, spesso salendo i gradini del comando. Questi che arrivano,
certo, sono ancora “barbari di fuori”, ma le loro intenzioni non sono ostili,
anzi: chiedono riparo e protezione all’interno del forte e organizzato impero e
sono del tutto disponibili a diventare a loro volta contadini e soldati,
facendone pacificamente parte.
Pur tuttavia, sono
davvero tanti e gli ufficiali di servizio sul confine non vogliono prendersi la
responsabilità di farli entrare senza l’avvallo del governo centrale. Si dà il
caso però che l’imperatore Valente, cristiano, si trovi a circa 2.000
chilometri di distanza, presso la frontiera con la Persia a cui si accinge a
far guerra (vecchia ossessione occidentale, commenta Barbero…). Quando i
messaggeri finalmente lo raggiungono, subito viene convocato il Concistoro –
una specie di Consiglio dei Ministri – il cui parere è decisamente favorevole:
i Goti sono ottimi guerrieri, gente preziosa in tali circostanze.
Succede però che quando
i messi sono di ritorno con la risposta, la situazione al confine si sia fatta
decisamente tesa: i Goti premono sempre di più, col terrore di sentirsi addosso
gli zoccoli scalpitanti dei cavalli degli Unni; alcuni hanno tentato di varcare
la frontiera senza permesso e c’è scappato un morto, o più di uno (può essere
interessante, secondo il prof. Barbero, quanto racconta un cronista che scrive
di questi avvenimenti alcuni anni più tardi, quando si sa già come è andata a
finire, e che in più è pagano, non è quindi interessato a mettere sotto una luce favorevole il cristiano
Valente: e cioè che dopo l’arrivo dell’ordine gli ufficiali che avevano negato
l’ingresso erano finiti sotto processo per abuso d’autorità).
-il
drammatico passaggio del Danubio:
inefficienze,
errori, rapacità
Ora che
l’ordine di farli entrare è giunto, bisogna comunque organizzare il passaggio,
ma non è cosa semplice e le cose in effetti volgeranno subito al peggio. Il
Danubio è in piena, e il vecchio ponte costruito da Costantino (guarda caso,
proprio per muovere guerra ai Goti) è crollato da tempo e non è mai stato ricostruito.
Per traghettare intere famiglie, con masserizie, bestiame e un nugolo di
bambini, si devono utilizzare mezzi di fortuna. Possiamo solo immaginare il
caos totale (e certo l’abilità narrativa del prof. Barbero ce lo rende facile):
famiglie che si perdono, persone che affogano, bambini che rimangono senza
protezione…
Una situazione confusa
e drammatica che rende di fatto impossibile agli impiegati preposti il
procedere alla registrazione ordinata di questi richiedenti asilo.
Poi, cominciano a succedere
cose altamente rischiose: da un lato i capi Goti, a cui è stato richiesto come
di consueto di consegnare le armi, riescono a corrompere le sentinelle evadendo
l’ordine, mentre dall’altro lato molti ufficiali romani - ci sono testimonianze
inoppugnabili a riguardo – non esitano a prendersi come schiavi, approfittando
dell’abbondanza, bambini e ragazzi rimasti senza genitori. Senza contare che
non appena si sparge la notizia che i Romani hanno aperto il confine, altri
Goti arrivano e la marea sembra ormai inarrestabile.
A questo punto la
situazione è davvero critica e i Romani decidono di chiudere nuovamente il
confine procedendo alla ripartizione di coloro che sono riusciti ad entrare nei
distretti dove è richiesta la forza lavoro, come si è sempre fatto in passato.
Il problema è che c’è stato un grosso vuoto di responsabilità amministrativa e
non c’è nessun piano di ripartizione pronto all’uso, per cui si crea gioco
forza una sorta di campo profughi per trattenere provvisoriamente questa massa
di gente che comunque va custodita e nutrita. Neanche questo sarebbe un
problema insuperabile, in effetti, perché il governo ha stanziato i fondi necessari
per l’acquisto di razioni militari sufficienti per sfamare queste persone:
succede però che gli ufficiali, invece di distribuirle gratuitamente ai Goti,
si facciano pagare, così questi poveracci sono costretti dopo un po’ a vendersi
tutto, prima il bestiame e alla fine anche i figli (raccontano i cronisti
dell’epoca che tutti i mercanti di schiavi dell’impero d’oriente affluivano lì,
perché si potevano fare grossi affari).
Una situazione alla
lunga insostenibile, anche perché si protrae per troppo tempo aizzando da un
lato il risentimento dei Goti per le condizioni penose di vita e per la
sensazione di stare subendo un’ingiustizia (non sono arrivati con intenzioni
ostili: i loro capi hanno fatto accordi che sono stati disattesi) e dall’altro
facendo allignare nell’animo dei Romani la paura. Si decide dunque di procedere
scortando i Goti nell’interno del paese, ma mentre il lungo corteo si mette
finalmente in marcia, con un dispiego impressionante di truppe da parte dei
romani, dal lato del confine ormai sguarnito una massa altrettanto grande di
nuovi arrivati comincia a passare, senza chiedere il permesso a nessuno…
-il
disastroso epilogo
Ma torniamo al corteo
che ora è nei pressi di una città dove sia i soldati che i Goti vorrebbero
sostare, per riposarsi e rifocillarsi. L’ingresso tuttavia viene consentito ai
soli ufficiali romani e ai capi dei Goti (le città godono infatti di piena
autonomia, e i suoi abitanti non hanno certo voglia di trovarsi fra i piedi i
soldati romani né tantomeno i Goti).
A questo punto, come
racconta uno storico coevo, Ammiano Marcellino, i generali romani presero una
decisione che dovette sembrare molto astuta, ma che si ritorse su di loro:
quella di invitare i capi ad un banchetto, farli ubriacare e poi farli fuori
– presupponendo ovviamente che le armi
fossero state consegnate a suo tempo – nella speranza che il popolo decapitato
dei suoi capi diventasse più docile da maneggiare.
La trappola peraltro
non scattò, intanto perché risultò molto meno facile del previsto far ubriacare
i goti, e inoltre perché nel campo esterno, mentre il banchetto andava per le
lunghe, scoppiò un tafferuglio e la
scorta fu sopraffatta. A questo punto i capi, avvertiti dal clamore, corsero
fuori urlando al tradimento e disconoscendo all’istante tutti gli accordi. Poi,
diedero mano libera ai saccheggi che devastarono il paese.
Quando l’imperatore
giunse a Costantinopoli, rientrando precipitosamente al nord dalla sua guerra
persiana, trovò una città in preda al panico e un contado devastato. Fu
giocoforza per lui uscire con le truppe e affrontare questa massa immensa di
Goti carichi di bottino, a cui peraltro era ancora estranea l’idea di
“invasione” e che pertanto si dimostrarono disponibili ad un accordo, s’intende
a condizioni molto più favorevoli di prima.
Il seguito è noto.
Senza un motivo preciso, nel 378 D.C. il conflitto latente divenne palese e
nella battaglia che ne derivò i Goti annientarono letteralmente l’esercito
dell’impero romano d’oriente. Ci fu ancora spazio per la negoziazione, a cui il
nuovo imperatore Teodosio (Valente era scomparso nella battaglia) si acconciò
non avendo altra scelta, ma a questo punto le condizioni erano completamente
diverse: i Goti non accettarono più di essere divisi, e rivendicarono il
diritto, conquistato con la spada, di vivere all’interno dell’impero secondo le
proprie leggi e usanze.
Finì così, con questa
novità davvero inaudita, questa fase delle migrazioni barbariche, da cui il
prof. Barbero (applauditissimo dal folto pubblico, dopo questa esposizione
calorosa e coinvolgente) ritiene si possano trarre insegnamenti ancora utili
per noi: cosa che a nostra volta, come “CircolarMente”, condividiamo pienamente.
Relazione
a cura di
“CircolarMente”