“LA TRAGICA ANDATA
E IL DIFFICILE RITORNO”
Deportati e profughi
tra Europa e Val di Susa
durante e dopo la
Seconda guerra mondiale
Introduzione
di Massima Bercetti:
Dopo aver ringraziato,
a nome di CircolarMente, il folto pubblico, Massima Bercetti sottolinea
l’importanza di incontrarsi in una situazione come quella che stiamo vivendo e
in cui sono in gioco, a suo giudizio, le stesse basi della convivenza
democratica. L’uso dell’immagine di Anna Frank per insultare gli avversari
calcistici non può infatti essere derubricato a episodio marginale, ascrivibile
agli eccessi delle tifoserie, e pertanto non è sufficiente rivolgere le proprie
scuse alla comunità ebraica: se non si fa udire la propria voce manifestando il
proprio dissenso, si mostra di ignorare il fatto che quando si lede la dignità
di alcuni, è la dignità di tutti che viene offesa.
L’incontro di stasera
si colloca all’interno di un progetto che ha come titolo “Emergenza e memoria”.
Siamo davvero oggi più che mai di fronte al dovere della memoria, sostenuto
dalla percezione di una emergenza attuale che può essere meglio compresa alla
luce delle emergenze passate. Certamente gli scenari cambiano, ma riflettere
sui rischi che sono stati corsi può contribuire a farci individuare meglio i
pericoli che si profilano all’orizzonte.
E’ per questo motivo
che CircolarMente ha posto particolare
attenzione alla figura di Primo Levi, attraverso due distinte proposte che hanno
visto una partecipazione davvero sorprendente: in particolare, è stata molto
apprezzata la passeggiata sui luoghi della sua permanenza ad Avigliana, cui ha
dato un buon contributo l’amministrazione comunale e che è stata preparata da
un complesso lavoro di ricostruzione condotto dalla prof.ssa Antonietta Fonnesu,
con la collaborazione di alcuni validi testimoni e di persone esperte delle
vicissitudini della Duco Montecatini e del Dinamitificio Nobel; altrettanto condiviso
è stato poi un secondo incontro, in cui diversi relatori si sono confrontati
con il tema della memoria riferito a Levi.
Gli interventi di
stasera si inseriscono in questo stesso ambito, mettendo a tema la questione
dei profughi ebrei che non potendo o non volendo ritornare nei paesi d’origine
avevano necessità di essere accolti in attesa che fosse possibile trovare per
loro un nuovo approdo. Introdurrà la dott.ssa Franca Mariano, che pur di
formazione filosofica ha sempre nutrito interessi storici, occupandosi in
particolare del fenomeno della Resistenza nelle valli di Lanzo e cercando di
salvare dall’oblio i percorsi e le storie: la stessa cosa farà per noi, aprendo
una pagina di storia poco conosciuta che ha avuto luogo anche ad Avigliana.
Sarà poi Claudio Vercelli, ricercatore dell’Istituto Salvemini e docente
all’Università Cattolica, oltre che titolare del corso di Storia contemporanea
all’’Università Popolare, a illustrarci il fenomeno delle deportazioni, sul
quale ha pubblicato di recente un testo molto esauriente (“Il dominio del terrore. Deportazioni, migrazioni forzate e stermini nel
novecento”)
INTERVENTO
DELLA DOTT. MARIANO
Per
gentile concessione della dott.ssa Mariano, il testo integrale della sua
relazione è stato messo a disposizione sul blog di “CircolarMente”. In questa
relazione ci limitiamo pertanto a indicare brevemente come il discorso
specifico sulla costituzione in vari paesi europei di campi di raccolta,
fattorie collettive e kibbutz in cui i profughi ebrei poterono trovare non solo
rifugio temporaneo, ma strumenti per poter affrontare la nuova vita che li
attendeva, è stato inserito in un discorso più ampio e dettagliato sulle
difficoltà che i sopravvissuti allo sterminio dovettero affrontare dopo la
liberazione: passarono infatti molti e molti mesi prima che prendesse corpo
un’efficace rete di protezione, sotto la gestione dell’ONU e con il concorso
attivo delle organizzazioni sioniste.
Alle
letture tratte dal testo “Se non ora quando”, in cui Levi rievoca l’arrivo dei
profughi ebrei in Italia, la dott.ssa Mariano ha affiancato documenti
giornalistici e di archivio attraverso i quali abbiamo potuto confrontarci con
una pagina di storia scarsamente conosciuta: ben pochi di noi in effetti
avevano avuto notizia del fatto che anche Avigliana avesse ospitato, a partire dalla fine del 1945
fino al 47, una “Casa della Gioventù Ebraica” che sorgeva nell’area dell’ex
convento agostiniano e ospitava molti giovani scampati alle deportazioni o
sopravvissuti ai campi.
Erano
fortunatamente presenti, nel pubblico, alcune persone che hanno potuto fornire un ulteriore contributo,
offrendoci conoscenze o ricordi di prima mano: in particolare, Giovanni Genta, che
ha avuto la possibilità di consultare di recente nell’archivio storico di
Avigliana alcuni dei documenti cui ha
fatto riferimento la dott.ssa Mariano, ne sottolinea il valore, avendoli a sua
volta giudicati meritevoli di un
riscontro pubblico (riferisce inoltre di
una visita ad Avigliana da parte di un gruppo di studenti israeliani,
interessati ad avere una documentazione sul periodo che alcuni dei loro
congiunti vi hanno trascorso); fornisce in aggiunta alcuni ricordi
personali molto vivi, risalenti al tempo in cui – bambino decenne – era solito
intrufolarsi con alcuni compagni nella zona occupata dai profughi ebrei, che si
stendeva allora dalla collina al corso Laghi, osservando – immaginiamo con un
interesse tutto particolare – la presenza fra i vari laboratori anche di
“percorsi di guerra” in cui i futuri pionieri potevano compiere esercitazioni
militari. Non c’erano peraltro, a sua memoria, contatti diretti fra i residenti
e il resto della popolazione, anche se non gli è mai capitato di cogliere segni
di malanimo verso gli ebrei (a questo
proposito, Elena Allais ricorda che l’unica famiglia ebrea di Avigliana, i
Segre, furono salvati dalla deportazione proprio dai partigiani della zona).
Ad
offrirci il ricordo più divertente è stato peraltro il signor Uberto Franchino,
che ci ha spiritosamente restituito l’immagine delle belle ragazze ebree che
sfilavano, in occasione di un grande raduno sindacale svolto ad Avigliana il 1°
maggio 47, con le loro divise che il dodicenne di allora, e ancor più l’amico
diciottenne che lo accompagnava, aveva mostrato di apprezzare, per via dei
pantaloncini corti…. Ma ancora ricorda la presenza nel corteo di molti ebrei, e
il discorso appassionato di uno di essi, vecchio d’aspetto per età o per
sofferenze patite, che esprimeva con toni accorati la speranza di trovare
presto una nuova patria in Palestina. Parole che si sono scolpite nel cuore del
ragazzo di allora, a cui né la scuola fascista né le molte ore di catechismo
avevano mai permesso di conoscere questo popolo…
Rimandiamo
dunque chi volesse approfondire l’argomento al nostro blog, dando qui uno
spazio maggiore all’intervento del prof. Vercelli che abbiamo registrato e
trascritto quasi integralmente, data l’importanza dell’argomento che dalla
ricostruzione del passato apre davvero squarci sul presente.
INTERVENTO
DEL PROF. VERCELLI
Nel
suo intervento, inteso a mettere in rilievo alcuni passaggi che ci permettano
di inserire le vicende illustrate dalla dottoressa Mariano in un costrutto storico
più generale, il prof. Vercelli parte da una considerazione la cui fondatezza viene
spesso sottovalutata, e cioè dal fatto che migrare è un esercizio comune nella
vicenda umana. Noi tendiamo a considerarci come stanziali, ma se solo volessimo
provare a ricostruire la nostra storia familiare - cosa che gli ebrei per
comprensibili motivi hanno sempre fatto, ma che è abbastanza comune anche nel
mondo protestante - scopriremo infatti di avere tutti, dal più al meno,
un’origine alquanto babelica….
La migrazione ebraica
come “cartina di tornasole”
per comprendere le
caratteristiche generali dei processi migratori
Ciò
assodato, può essere utile a suo giudizio fare alcune riflessioni sui processi
migratori che hanno caratterizzato la storia ebraica contemporanea a partire
dalle rivoluzioni borghesi, perché essi costituiscono un antecedente importante
per comprendere come mai, nei campi in cui molti sopravvissuti ebrei hanno
trovato dopo la guerra un rifugio temporaneo, fossero prevalenti quelli provenienti
dall’Europa orientale.
In
effetti si è operata allora una divaricazione forte fra i due rami
dell’ebraismo europeo: mentre a occidente gli ebrei hanno potuto, almeno in
linea generale, inserirsi come individui all’interno delle società di
appartenenza attraverso un percorso di emancipazione e di parificazione dei
diritti, nel mondo ebraico orientale le sofferenze e le insofferenze si sono
tradotte, a partire dalla seconda metà dell’800, in una forte accentuazione dei
processi migratori diretti verso l’America o verso l’Europa occidentale (non
senza creare frizioni, per la diversità di cultura e di abitudini di vita).
Anche
la Palestina naturalmente era vissuta fra le mete desiderabili, non sempre con
un dichiarato intento politico, benché esso fosse presente in una parte dei
migranti: essere ebrei, ha sottolineato infatti il prof. Vercelli, non vuol
dire essere automaticamente sionisti, ma seguire i percorsi che la vita ci
consegna e se per alcuni il progetto politico era stato fin dall’inizio
esplicito, molti altri si sono acconciati alle circostanze più diverse, al pari
della maggior parte dei migranti.
Al
di là di alcune specificità della migrazione ebraica, ci sono infatti in essa degli
elementi comuni a tutti i fenomeni migratori: la migrazione ha in effetti quasi
sempre un carattere coatto – non si abbandona un luogo dove si sta bene - e spesso è determinata da una situazione di
guerra.
Non
possiamo infatti far mostra di ignorare come fra le molte funzioni della guerra
vi sia quella di redistribuire le popolazioni, ridisegnando le strutture
demografiche dei paesi coinvolti. Un dato incontrovertibile, secondo il prof.
Vercelli, sia in riferimento alle guerre passate che a quelle che sono oggi in
atto, in forme più o meno dichiarate (pensiamo
ai sommovimenti nell’Africa subsahariana, che coinvolgono pesantemente interi
popoli, o ancora alla Siria, dove un’intera classe sociale di piccola e media
borghesia operosa, la cui condizione di vita non era molto diversa da quella
occidentale, è stata letteralmente spazzata via o costretta alla fuga).
In
quest’ottica, il fenomeno migratorio determinato dalla seconda guerra mondiale
è stato davvero impressionante: si calcola che alla fine della guerra ci
fossero in Europa 40 milioni di profughi, benché alcune ricerche recenti
condotte da Antonio Ferrara e Cesare Pianciola spostino molto più in su questa
stima. Sono state migrazioni forzate che hanno coinvolto un intero mondo, non
solo quello ebraico, anche se gli eventi catastrofici che hanno riguardato gli
ebrei ci consentono, secondo il prof. Vercelli, di utilizzare la migrazione
ebraica come cartina di tornasole per cogliere alcune caratteristiche dei
processi migratori che è bene mettere in luce, particolarmente oggi.
La risposta “sospettosa” al dramma della
perdita
Nella
migrazione ebraica successiva alla seconda guerra mondiale non troviamo infatti
solo il percorso drammatico di coloro che venivano strappati dai territori
d’origine e lanciati in quei luoghi di cui ora sappiamo molto, ma che hanno
rappresentato per loro un’esperienza totalmente sconosciuta oltre che spaventosa.
C’era anche la perdita traumatica di tutto ciò che in precedenza possedevano: i
familiari, gli amici, i beni, magari modesti e proprio per questo ancora più
insostituibili. Assieme a questo, di non minore importanza era la perdita di
ciò che ovunque e in ogni luogo conferisce un principio di riconoscibilità, e
cioè la cittadinanza. Per i sopravvissuti era divenuto di fatto impossibile
certificare la propria origine, perché la giurisdizione tedesca, che aveva
tolto loro, quando non la vita, questo status fondamentale, continuava ad
essere vigente anche dopo la sconfitta della Germania.
Questa
incertezza giuridica contribuiva a rendere ancora più difficoltoso il loro
accoglimento, sempre soggetto ad un possibile “sospetto”, come è già stato
messo in luce dalla dott. Mariano. Era del resto inevitabile che questo
avvenisse:
Pensiamo, osserva
infatti il prof. Vercelli, alle condizioni del paese accogliente – in questo
caso l’Italia: un paese reduce da vent’anni di dittatura, appena uscito da una
guerra disastrosa, che aveva subito l’occupazione tedesca prima, e quella
angloamericana poi (certo liberatoria, ma non priva in altri versanti di alcuni
elementi vessatori); un paese sconfitto su cui pesava l’onta del tradimento e
che poteva solo rimettersi alla clemenza dei vincitori. Era dunque
comprensibile che di fronte al sovraccarico di profughi provenienti da ogni
parte d’Europa le reazioni delle istituzioni governative fossero, a dir poco,
caute, e che in alcuni casi ci fosse un vero e proprio “vuoto” normativo (come
nei riguardi degli ex militari internati, malvisti sia dai vincitori, come
forze lavoro non utilizzabili, e sgraditi anche ai vinti, perché
rappresentavano in un certo senso il simbolo della sconfitta. Solo molto più
tardi fu in effetti loro riconosciuto lo status di vittime).
Era
innegabile infatti che in questa massa di profughi poteva esserci di tutto, dai
profittatori ai veri e propri criminali (e
questo, osserva il prof. Vercelli, ci porta all’oggi: il problema principale di
coloro a cui spetta di predisporre l’accoglienza è sempre quello di separare
nella massa di coloro che cercano rifugio i veri profughi dagli scafisti, dai
criminali, dagli uomini dei servizi segreti che vi si possono infiltrare…).
Pesava
inoltre, sui sopravvissuti, una sorta di ombra, un marchio indelebile che essi
stessi percepivano come se la loro stessa vita costituisse una colpa verso i
molti che erano stati annientati (pur
senza entrare nelle singole storie, il prof. Vercelli ritiene che non sia
casuale il fatto che molti dei grandi testimoni dell’universo concentrazionario
si siano poi suicidati, in qualche caso ad anni di distanza, come se la
stazione terminale dell’elaborazione di un lutto collettivo fosse
necessariamente la loro autosoppressione).
La latitanza degli
stati, fra l’indifferenza della collettività e la generosa solidarietà dei
singoli
Di
fronte a queste difficoltà, era fatale che la storia dei sopravvissuti ai campi
di sterminio non attirasse sempre la considerazione che meritava, anche se già
allora non era ignota la natura dei campi di
concentramento tedeschi: luoghi illegittimi e illegali, dove venivano
imprigionate e in molti casi soppresse, in deroga alle stesse leggi vigenti in
Germania, persone che non avevano altra colpa se non quella che il partito
nazista attribuiva loro, ritenendole a vario titolo “indesiderabili” vuoi per
convinzioni politiche, vuoi per inclinazioni sessuali, vuoi per motivi razziali
(l’esistenza di questi campi non era
infatti stata tenuta nascosta dalle stesse autorità: il prof. Vercelli ricorda a questo proposito che l’istituzione nel 1933
di uno dei primi campi, quello di
Dachau, era stata celebrata con grande enfasi dal regime appena instaurato,
come una sorta di omaggio all’ordine e alla sicurezza dei cittadini).
Certamente
c’erano, allora come oggi, persone ed enti che a vario titolo si prendevano
cura per quanto possibile dei rifugiati, vuoi per spirito di fratellanza, vuoi per
investimento umanitario o economico: ma gli stati, e in generale le autorità
preposte a dare risposte, erano alquanto latitanti. Del resto questa latitanza
era apparsa già ben evidente prima della guerra, nella conferenza di Evian
(luglio 38), in cui era stata data una risposta negativa alle richieste della
Germania di essere “sollevata” dalla gestione degli ebrei tedeschi attraverso
una sorta di redistribuzione negli altri paesi occidentali (ciò avrebbe
costituito un precedente, si disse allora, benché il numero dei possibili
ingressi non fosse certo esorbitante). Le porte dell’America, prima molto
aperte all’immigrazione, si stavano infatti richiudendo, non necessitando più
il paese di ulteriori forze lavoro, senza contare che i nuovi immigrati non
avrebbero potuto portare con sé i propri beni e non avevano dunque niente da
offrire.
E’pur
vero che nel 38 il sistema sterminazionistico non era ancora stato messo a
punto, e pertanto le potenze europee, lavandosi le mani del problema ebraico,
potevano tranquillizzare la loro coscienza; allo stesso tempo, si pensava
ancora di poter evitare la guerra con
quello che sarebbe diventato di lì a poco il nemico da battere, ma che per
lunghi anni era stato visto come un deterrente rispetto al propagarsi dell’ideologia comunista e alle mire
espansionistica dell’Unione Sovietica. Una sorta di “incantamento”, osserva il
prof. Vercelli, da cui Churchill sarà il primo a riscuotersi dopo aver guardato
inizialmente con simpatia i nuovi regimi fautori di un “ritorno all’ordine”
antibolscevico, comprendendo che essi avrebbero divorato alla fine lo stesso
liberalismo.
Il ritorno impossibile
Secondo
il prof. Vercelli, questi scenari che si alternano e si intersecano costituiscono
un antecedente indispensabile per capire quanto accadrà nel dopoguerra, quando
sarà invece l’Unione Sovietica (uscita prostrata ma comunque vittoriosa dal
conflitto e in qualche modo “beatificata” dall’enorme tributo di sangue
versato) ad essere percepita come il nuovo nemico, non più da battere
militarmente ma da arginare geopoliticamente. La spaccatura che si determinerà
allora fra est e ovest, ancora più netta di quella precedente fra le potenze
liberali e quelle fasciste, sarà infatti determinante rispetto ai problemi che
sono stati evidenziati dalla dottoressa Mariano, perché in essa rimarranno
stritolate intere popolazioni, aumentando a dismisura il numero dei profughi e
in particolare di quelli ebrei, impossibilitati ad un ritorno.
In
un quadro di questo genere, non era infatti pensabile, per gli ebrei dell’est, rientrare
in paesi in cui spesso erano stati catturati con il concorso attivo delle
milizie nazionaliste e collaborazioniste locali, senza contare che per essi
c’era solo terra bruciata, se mai lo avessero desiderato. La maggior parte di
loro sapeva bene che avrebbe dovuto scontare l’ostilità della popolazione non
ebraica (il pogrom avvenuto in Polonia nel 46 è davvero emblematico, secondo il
prof. Vercelli, in quanto il massacro di ebrei era stato tollerato dalle
autorità e dal partito operaio unificato, che si andava organizzando e
cominciava a controllare allora il territorio).
Mentre
l’ebraismo italiano, sia pure con gravissime perdite, conservava dopo la guerra
un nucleo da cui ripartire all’interno delle varie comunità*, l’ebraismo
orientale era stato completamente azzerato, non solo nei corpi, nelle case,
nelle attività artigiane o commerciali, ma anche nelle memorie: tutti i segni
identitari erano stati cancellati, a partire dai registri anagrafici. Come si
poteva dunque tornare in quel vuoto, di cui si aveva cognizione? (le voci
corrono, nei campi, osserva il dottor Vercelli…). Quali possibilità rimanevano?
*Su questa differenza
fondamentale, il prof. Vercelli considera emblematico il confronto avvenuto a
distanza fra due grandi testimoni della Shoah, l’italiano Primo Levi e il rumeno
Elie Wiesel. Per quanto difficile fosse stato anche per Levi il ritorno, aveva trovato
ad attenderlo la sua casa, la sua famiglia, mentre il secondo aveva perduto
tutto e dovette forzatamente emigrare in America, passando per Israele.
Il nesso con la vicenda
palestinese
Non
essendoci alcuna possibilità di ritorno, agli ebrei dell’est sopravvissuti rimanevano
solo due strade percorribili, prosegue il prof. Vercelli: quella verso le
Americhe, dove ci si scontrava peraltro con vincoli e limiti robusti di ordine
amministrativo e politico, e quella verso la Palestina.
Qui
peraltro non esisteva ancora lo stato d’Israele, ma solo qualcosa che andava
lentamente definendosi, un insieme di istituzioni, di gruppi, di cooperative
agricole e rurali: 600.000 persone circa che sarebbero raddoppiate nel giro di
un anno, dopo la costituzione nel 48 del nuovo stato, per via dell’espulsione
delle comunità ebraiche da parte dei paesi arabi (anche qui, fa notare il prof.
Vercelli, per effetto di un rimescolamento geopolitico e demografico).
Era
dunque un paese piccolo e fragile quello che si stava allora formando in un
contesto molto problematico, con una guerra civile fra due parti della stessa
corporazione araba ed ebraica: non aveva pertanto molti strumenti da offrire a
chi arrivava lì nel 46/47 riuscendo a sfuggire al controllo degli inglesi, che
esercitavano allora un protettorato sulla Palestina (spesso si finiva catturati
e deportati nelle varie isole dell’Egeo, o riportati in Europa). L’accoglienza
era forzatamente ridotta al minimo e l’integrazione resa faticosa dal fatto di
non parlare la stessa lingua (gli ebrei
dell’Europa orientale parlavano prevalentemente yiddish: una vera e propria
lingua che aveva in sé elementi dell’ebraico liturgico e del tedesco, oltre che
delle lingue slave. L’ebraico moderno era per loro del tutto sconosciuto, e del
resto la stessa cosa sarebbe successa con gli ebrei provenienti dai paesi
vicini, che erano prevalentemente
arabofoni). Occorreva darsi da fare, e diventare velocemente non solo agricoltori e artigiani,
ma anche combattenti.
L’ antifascismo oggi:
una questione aperta ma imprescindibile
Concludendo
la sua ricostruzione, il prof. Vercelli osserva che erano davvero molti gli
elementi ad entrare in gioco come effetto dinamico legato alle deportazioni. Mentre
sappiamo tutto, o quasi tutto, sulla deportazione, soltanto da poco tempo la
ricerca storica si è indirizzata a ricostruire il tema della ricezione degli
ebrei sopravvissuti, anche attraverso ricerche negli archivi locali come quella
esposta dalla dottoressa Mariano, che contribuiscono in modo significativo a
ricostruire il quadro generale aiutandoci a dare un senso a tematiche che
sono di fatto molto attuali. La maggior parte di noi non ha infatti nessuna
cognizione diretta di questi avvenimenti, e in particolare della difficile
condizione dell’Italia nel dopoguerra e del duro sforzo che è stato necessario
per rimettere in piedi un paese completamente “imballato”.
Eppure
è davvero necessario a suo giudizio fermarsi a riflettere sulla situazione
davvero spaventosa in cui l’Italia è stata condotta da un regime disastroso e
disastrante, incapace di fare scelte politiche più accorte che avrebbero
consentito all’Italia di uscire dalla guerra in modo ben diverso. Certo la
storia non si fa con i “se” e con i “ma”, nondimeno possiamo ben pensare che
l’antifascismo avrebbe assunto una diversa tonalità e che certi aspetti
problematici della post-resistenza non si sarebbero generati senza l’alleanza
con la Germania, che ha condotto l’Italia in quegli sconvolgimenti funesti che
l’hanno devastata per due lunghi anni. E’questo, dice il prof. Vercelli, il
lascito importante del ’45, che ci consegna un paese in cui non solo la fame
era ancora un’esperienza concreta per molti, ma che era completamente
analfabeta dal punto di vista politico e non solo e in cui le vecchie classi
dirigenti – a parte quella fascista, liquidata con un colpo di stato – erano
compromesse e scarsamente attendibili.
Se
non ragioniamo su quel lunghissimo lavoro di tessitura che si è reso necessario
per costruire, più che per ricostruire, un tessuto sociale democratico, non si
comprende l’attualità dell’antifascismo e si cade nell’errore di vederlo
soltanto come la faccia opposta del fascismo, come se fossero state soltanto
due opinioni diverse che si confrontavano. Dal suo punto di vista occorre
invece tenere presenti due situazioni completamente diverse: da un lato quella
della catastrofe e della compromissione totale, dall’altro quella del tentativo
di costruire un tracciato di vita democratica. Tuttavia non è facile mettersi
in quest’ottica, soprattutto per le nuove generazioni. Chi ha sempre respirato
l’aria della libertà non ha esperienza di cosa voglia dire esserne privati, e
la parola “dittatura” rischia di perdere il suo significato, mentre portava
allora con sé un’atmosfera di sospetto che avvelenava e incancreniva i rapporti
sociali.
E’
pertanto attività non solo legittima ma fondamentale, a giudizio del prof.
Vercelli, ricordare gli avvenimenti che stasera sono stati messi al centro del
discorso: conoscere le difficili vicende dei profughi, sapere che molti, pur
nella difficoltà di allora, si mossero per accogliere e per favorire la possibilità
di un futuro per quei giovani i cui volti e la cui storia, nelle immagini e nei
documenti mostrati dalla dottoressa Mariano, sono emersi stasera dall’ombra ( sono già stati ricordati i portuali di
Genova e di La Spezi e la CGL, che allora era un sindacato unitario, oltre i
molti che pur avendo ben poche risorse da spartire aiutavano comunque chi era
maggiormente in difficoltà).
Ma
soprattutto è necessario interrogarsi in maniera non astratta ma molto
concreta, attraverso la radicalità di quelle storie che dal passato ci portano
al presente, sul significato che può assumere, oggi come allora, il possesso
della cittadinanza, senza la quale la civiltà deperisce e muore. E ancora, riflettere
sul bisogno di progettare il futuro. I ragazzi e le ragazze di allora avevano
perso tutto, compreso il loro nome, ma puntavano sul futuro e qui ad Avigliana
come in altri luoghi di sosta lo preparavano, con fatica ma con entusiasmo. Tuttavia,
per pensare il futuro, conclude il prof. Vercelli, occorre conoscere il
passato, non per fermarsi ossessivamente in esso, ma per trarne quei principi
dinamici che ci consentono di comprendere meglio ciò che siamo e soprattutto
volgere lo sguardo a ciò che dovremmo di nuovo voler essere.
………………………………………………………………….
Avigliana,
25 ottobre 2017
Relazione
a cura di “CircolarMente”
Quelle che seguono sono alcune fotografie relative al Campo Profughi allestito in Avigliana nel periodo 1946 - 1948 (ci scusiamo per la loro scarsa qualità visiva)
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