lunedì 6 novembre 2017

Sintesi delle due relazioni tenute nel corso della conferenza del 25 Ottobre 2017


“LA TRAGICA ANDATA
E IL DIFFICILE RITORNO



Deportati e profughi tra Europa e Val di Susa
durante e dopo la Seconda guerra mondiale





Introduzione di Massima Bercetti:



Dopo aver ringraziato, a nome di CircolarMente, il folto pubblico, Massima Bercetti sottolinea l’importanza di incontrarsi in una situazione come quella che stiamo vivendo e in cui sono in gioco, a suo giudizio, le stesse basi della convivenza democratica. L’uso dell’immagine di Anna Frank per insultare gli avversari calcistici non può infatti essere derubricato a episodio marginale, ascrivibile agli eccessi delle tifoserie, e pertanto non è sufficiente rivolgere le proprie scuse alla comunità ebraica: se non si fa udire la propria voce manifestando il proprio dissenso, si mostra di ignorare il fatto che quando si lede la dignità di alcuni, è la dignità di tutti che viene offesa.

L’incontro di stasera si colloca all’interno di un progetto che ha come titolo “Emergenza e memoria”. Siamo davvero oggi più che mai di fronte al dovere della memoria, sostenuto dalla percezione di una emergenza attuale che può essere meglio compresa alla luce delle emergenze passate. Certamente gli scenari cambiano, ma riflettere sui rischi che sono stati corsi può contribuire a farci individuare meglio i pericoli che si profilano all’orizzonte.

E’ per questo motivo che  CircolarMente ha posto particolare attenzione alla figura di Primo Levi,  attraverso due distinte proposte che hanno visto una partecipazione davvero sorprendente: in particolare, è stata molto apprezzata la passeggiata sui luoghi della sua permanenza ad Avigliana, cui ha dato un buon contributo l’amministrazione comunale e che è stata preparata da un complesso lavoro di ricostruzione condotto dalla prof.ssa Antonietta Fonnesu, con la collaborazione di alcuni validi testimoni e di persone esperte delle vicissitudini della Duco Montecatini e del Dinamitificio Nobel; altrettanto condiviso è stato poi un secondo incontro, in cui diversi relatori si sono confrontati con  il tema della memoria riferito a Levi.

Gli interventi di stasera si inseriscono in questo stesso ambito, mettendo a tema la questione dei profughi ebrei che non potendo o non volendo ritornare nei paesi d’origine avevano necessità di essere accolti in attesa che fosse possibile trovare per loro un nuovo approdo. Introdurrà la dott.ssa Franca Mariano, che pur di formazione filosofica ha sempre nutrito interessi storici, occupandosi in particolare del fenomeno della Resistenza nelle valli di Lanzo e cercando di salvare dall’oblio i percorsi e le storie: la stessa cosa farà per noi, aprendo una pagina di storia poco conosciuta che ha avuto luogo anche ad Avigliana. Sarà poi Claudio Vercelli, ricercatore dell’Istituto Salvemini e docente all’Università Cattolica, oltre che titolare del corso di Storia contemporanea all’’Università Popolare, a illustrarci il fenomeno delle deportazioni, sul quale ha pubblicato di recente un testo molto esauriente (“Il dominio del terrore. Deportazioni, migrazioni forzate e stermini nel novecento”)



INTERVENTO DELLA DOTT. MARIANO



Per gentile concessione della dott.ssa Mariano, il testo integrale della sua relazione è stato messo a disposizione sul blog di “CircolarMente”. In questa relazione ci limitiamo pertanto a indicare brevemente come il discorso specifico sulla costituzione in vari paesi europei di campi di raccolta, fattorie collettive e kibbutz in cui i profughi ebrei poterono trovare non solo rifugio temporaneo, ma strumenti per poter affrontare la nuova vita che li attendeva, è stato inserito in un discorso più ampio e dettagliato sulle difficoltà che i sopravvissuti allo sterminio dovettero affrontare dopo la liberazione: passarono infatti molti e molti mesi prima che prendesse corpo un’efficace rete di protezione, sotto la gestione dell’ONU e con il concorso attivo delle organizzazioni sioniste.

Alle letture tratte dal testo “Se non ora quando”, in cui Levi rievoca l’arrivo dei profughi ebrei in Italia, la dott.ssa Mariano ha affiancato documenti giornalistici e di archivio attraverso i quali abbiamo potuto confrontarci con una pagina di storia scarsamente conosciuta: ben pochi di noi in effetti avevano avuto notizia del fatto che anche Avigliana  avesse ospitato, a partire dalla fine del 1945 fino al 47, una “Casa della Gioventù Ebraica” che sorgeva nell’area dell’ex convento agostiniano e ospitava molti giovani scampati alle deportazioni o sopravvissuti ai campi.

Erano fortunatamente presenti, nel pubblico, alcune persone che  hanno potuto fornire un ulteriore contributo, offrendoci conoscenze o ricordi di prima mano: in particolare, Giovanni Genta, che ha avuto la possibilità di consultare di recente nell’archivio storico di Avigliana alcuni dei  documenti cui ha fatto riferimento la dott.ssa Mariano, ne sottolinea il valore, avendoli a sua volta  giudicati meritevoli di un riscontro pubblico (riferisce inoltre di una visita ad Avigliana da parte di un gruppo di studenti israeliani, interessati ad avere una documentazione sul periodo che alcuni dei loro congiunti vi hanno trascorso); fornisce in aggiunta alcuni ricordi personali molto vivi, risalenti al tempo in cui – bambino decenne – era solito intrufolarsi con alcuni compagni nella zona occupata dai profughi ebrei, che si stendeva allora dalla collina al corso Laghi, osservando – immaginiamo con un interesse tutto particolare – la presenza fra i vari laboratori anche di “percorsi di guerra” in cui i futuri pionieri potevano compiere esercitazioni militari. Non c’erano peraltro, a sua memoria, contatti diretti fra i residenti e il resto della popolazione, anche se non gli è mai capitato di cogliere segni di malanimo verso gli ebrei (a questo proposito, Elena Allais ricorda che l’unica famiglia ebrea di Avigliana, i Segre, furono salvati dalla deportazione proprio dai partigiani della zona).

Ad offrirci il ricordo più divertente è stato peraltro il signor Uberto Franchino, che ci ha spiritosamente restituito l’immagine delle belle ragazze ebree che sfilavano, in occasione di un grande raduno sindacale svolto ad Avigliana il 1° maggio 47, con le loro divise che il dodicenne di allora, e ancor più l’amico diciottenne che lo accompagnava, aveva mostrato di apprezzare, per via dei pantaloncini corti…. Ma ancora ricorda la presenza nel corteo di molti ebrei, e il discorso appassionato di uno di essi, vecchio d’aspetto per età o per sofferenze patite, che esprimeva con toni accorati la speranza di trovare presto una nuova patria in Palestina. Parole che si sono scolpite nel cuore del ragazzo di allora, a cui né la scuola fascista né le molte ore di catechismo avevano mai permesso di conoscere questo popolo…

Rimandiamo dunque chi volesse approfondire l’argomento al nostro blog, dando qui uno spazio maggiore all’intervento del prof. Vercelli che abbiamo registrato e trascritto quasi integralmente, data l’importanza dell’argomento che dalla ricostruzione del passato apre davvero squarci sul presente.  





INTERVENTO DEL PROF. VERCELLI



Nel suo intervento, inteso a mettere in rilievo alcuni passaggi che ci permettano di inserire le vicende illustrate dalla dottoressa Mariano in un costrutto storico più generale, il prof. Vercelli parte da una considerazione la cui fondatezza viene spesso sottovalutata, e cioè dal fatto che migrare è un esercizio comune nella vicenda umana. Noi tendiamo a considerarci come stanziali, ma se solo volessimo provare a ricostruire la nostra storia familiare - cosa che gli ebrei per comprensibili motivi hanno sempre fatto, ma che è abbastanza comune anche nel mondo protestante - scopriremo infatti di avere tutti, dal più al meno, un’origine alquanto babelica….

La migrazione ebraica come “cartina di tornasole”

per comprendere le caratteristiche generali dei processi migratori

Ciò assodato, può essere utile a suo giudizio fare alcune riflessioni sui processi migratori che hanno caratterizzato la storia ebraica contemporanea a partire dalle rivoluzioni borghesi, perché essi costituiscono un antecedente importante per comprendere come mai, nei campi in cui molti sopravvissuti ebrei hanno trovato dopo la guerra un rifugio temporaneo, fossero prevalenti quelli provenienti dall’Europa orientale.

In effetti si è operata allora una divaricazione forte fra i due rami dell’ebraismo europeo: mentre a occidente gli ebrei hanno potuto, almeno in linea generale, inserirsi come individui all’interno delle società di appartenenza attraverso un percorso di emancipazione e di parificazione dei diritti, nel mondo ebraico orientale le sofferenze e le insofferenze si sono tradotte, a partire dalla seconda metà dell’800, in una forte accentuazione dei processi migratori diretti verso l’America o verso l’Europa occidentale (non senza creare frizioni, per la diversità di cultura e di abitudini di vita).

Anche la Palestina naturalmente era vissuta fra le mete desiderabili, non sempre con un dichiarato intento politico, benché esso fosse presente in una parte dei migranti: essere ebrei, ha sottolineato infatti il prof. Vercelli, non vuol dire essere automaticamente sionisti, ma seguire i percorsi che la vita ci consegna e se per alcuni il progetto politico era stato fin dall’inizio esplicito, molti altri si sono acconciati alle circostanze più diverse, al pari della maggior parte dei migranti.

Al di là di alcune specificità della migrazione ebraica, ci sono infatti in essa degli elementi comuni a tutti i fenomeni migratori: la migrazione ha in effetti quasi sempre un carattere coatto – non si abbandona un luogo dove si sta bene -  e spesso è determinata da una situazione di guerra.

Non possiamo infatti far mostra di ignorare come fra le molte funzioni della guerra vi sia quella di redistribuire le popolazioni, ridisegnando le strutture demografiche dei paesi coinvolti. Un dato incontrovertibile, secondo il prof. Vercelli, sia in riferimento alle guerre passate che a quelle che sono oggi in atto, in forme più o meno dichiarate (pensiamo ai sommovimenti nell’Africa subsahariana, che coinvolgono pesantemente interi popoli, o ancora alla Siria, dove un’intera classe sociale di piccola e media borghesia operosa, la cui condizione di vita non era molto diversa da quella occidentale, è stata letteralmente spazzata via o costretta alla fuga).

In quest’ottica, il fenomeno migratorio determinato dalla seconda guerra mondiale è stato davvero impressionante: si calcola che alla fine della guerra ci fossero in Europa 40 milioni di profughi, benché alcune ricerche recenti condotte da Antonio Ferrara e Cesare Pianciola spostino molto più in su questa stima. Sono state migrazioni forzate che hanno coinvolto un intero mondo, non solo quello ebraico, anche se gli eventi catastrofici che hanno riguardato gli ebrei ci consentono, secondo il prof. Vercelli, di utilizzare la migrazione ebraica come cartina di tornasole per cogliere alcune caratteristiche dei processi migratori che è bene mettere in luce, particolarmente oggi.

 La risposta “sospettosa” al dramma della perdita

Nella migrazione ebraica successiva alla seconda guerra mondiale non troviamo infatti solo il percorso drammatico di coloro che venivano strappati dai territori d’origine e lanciati in quei luoghi di cui ora sappiamo molto, ma che hanno rappresentato per loro un’esperienza totalmente sconosciuta oltre che spaventosa. C’era anche la perdita traumatica di tutto ciò che in precedenza possedevano: i familiari, gli amici, i beni, magari modesti e proprio per questo ancora più insostituibili. Assieme a questo, di non minore importanza era la perdita di ciò che ovunque e in ogni luogo conferisce un principio di riconoscibilità, e cioè la cittadinanza. Per i sopravvissuti era divenuto di fatto impossibile certificare la propria origine, perché la giurisdizione tedesca, che aveva tolto loro, quando non la vita, questo status fondamentale, continuava ad essere vigente anche dopo la sconfitta della Germania.

Questa incertezza giuridica contribuiva a rendere ancora più difficoltoso il loro accoglimento, sempre soggetto ad un possibile “sospetto”, come è già stato messo in luce dalla dott. Mariano. Era del resto inevitabile che questo avvenisse:

Pensiamo, osserva infatti il prof. Vercelli, alle condizioni del paese accogliente – in questo caso l’Italia: un paese reduce da vent’anni di dittatura, appena uscito da una guerra disastrosa, che aveva subito l’occupazione tedesca prima, e quella angloamericana poi (certo liberatoria, ma non priva in altri versanti di alcuni elementi vessatori); un paese sconfitto su cui pesava l’onta del tradimento e che poteva solo rimettersi alla clemenza dei vincitori. Era dunque comprensibile che di fronte al sovraccarico di profughi provenienti da ogni parte d’Europa le reazioni delle istituzioni governative fossero, a dir poco, caute, e che in alcuni casi ci fosse un vero e proprio “vuoto” normativo (come nei riguardi degli ex militari internati, malvisti sia dai vincitori, come forze lavoro non utilizzabili, e sgraditi anche ai vinti, perché rappresentavano in un certo senso il simbolo della sconfitta. Solo molto più tardi fu in effetti loro riconosciuto lo status di vittime).

Era innegabile infatti che in questa massa di profughi poteva esserci di tutto, dai profittatori ai veri e propri criminali (e questo, osserva il prof. Vercelli, ci porta all’oggi: il problema principale di coloro a cui spetta di predisporre l’accoglienza è sempre quello di separare nella massa di coloro che cercano rifugio i veri profughi dagli scafisti, dai criminali, dagli uomini dei servizi segreti che vi si possono infiltrare…).

Pesava inoltre, sui sopravvissuti, una sorta di ombra, un marchio indelebile che essi stessi percepivano come se la loro stessa vita costituisse una colpa verso i molti che erano stati annientati (pur senza entrare nelle singole storie, il prof. Vercelli ritiene che non sia casuale il fatto che molti dei grandi testimoni dell’universo concentrazionario si siano poi suicidati, in qualche caso ad anni di distanza, come se la stazione terminale dell’elaborazione di un lutto collettivo fosse necessariamente la loro autosoppressione).

La latitanza degli stati, fra l’indifferenza della collettività e la generosa solidarietà dei singoli

Di fronte a queste difficoltà, era fatale che la storia dei sopravvissuti ai campi di sterminio non attirasse sempre la considerazione che meritava, anche se già allora non era ignota la natura dei campi di  concentramento tedeschi: luoghi illegittimi e illegali, dove venivano imprigionate e in molti casi soppresse, in deroga alle stesse leggi vigenti in Germania, persone che non avevano altra colpa se non quella che il partito nazista attribuiva loro, ritenendole a vario titolo “indesiderabili” vuoi per convinzioni politiche, vuoi per inclinazioni sessuali, vuoi per motivi razziali (l’esistenza di questi campi non era infatti stata tenuta nascosta dalle stesse autorità: il prof. Vercelli ricorda  a questo proposito che l’istituzione nel 1933 di  uno dei primi campi, quello di Dachau, era stata celebrata con grande enfasi dal regime appena instaurato, come una sorta di omaggio all’ordine e alla sicurezza dei cittadini).

Certamente c’erano, allora come oggi, persone ed enti che a vario titolo si prendevano cura per quanto possibile dei rifugiati, vuoi per spirito di fratellanza, vuoi per investimento umanitario o economico: ma gli stati, e in generale le autorità preposte a dare risposte, erano alquanto latitanti. Del resto questa latitanza era apparsa già ben evidente prima della guerra, nella conferenza di Evian (luglio 38), in cui era stata data una risposta negativa alle richieste della Germania di essere “sollevata” dalla gestione degli ebrei tedeschi attraverso una sorta di redistribuzione negli altri paesi occidentali (ciò avrebbe costituito un precedente, si disse allora, benché il numero dei possibili ingressi non fosse certo esorbitante). Le porte dell’America, prima molto aperte all’immigrazione, si stavano infatti richiudendo, non necessitando più il paese di ulteriori forze lavoro, senza contare che i nuovi immigrati non avrebbero potuto portare con sé i propri beni e non avevano dunque niente da offrire.

E’pur vero che nel 38 il sistema sterminazionistico non era ancora stato messo a punto, e pertanto le potenze europee, lavandosi le mani del problema ebraico, potevano tranquillizzare la loro coscienza; allo stesso tempo, si pensava ancora  di poter evitare la guerra con quello che sarebbe diventato di lì a poco il nemico da battere, ma che per lunghi anni era stato visto come un deterrente rispetto al propagarsi   dell’ideologia comunista e alle mire espansionistica dell’Unione Sovietica. Una sorta di “incantamento”, osserva il prof. Vercelli, da cui Churchill sarà il primo a riscuotersi dopo aver guardato inizialmente con simpatia i nuovi regimi fautori di un “ritorno all’ordine” antibolscevico, comprendendo che essi avrebbero divorato alla fine lo stesso liberalismo.

Il ritorno impossibile

Secondo il prof. Vercelli, questi scenari che si alternano e si intersecano costituiscono un antecedente indispensabile per capire quanto accadrà nel dopoguerra, quando sarà invece l’Unione Sovietica (uscita prostrata ma comunque vittoriosa dal conflitto e in qualche modo “beatificata” dall’enorme tributo di sangue versato) ad essere percepita come il nuovo nemico, non più da battere militarmente ma da arginare geopoliticamente. La spaccatura che si determinerà allora fra est e ovest, ancora più netta di quella precedente fra le potenze liberali e quelle fasciste, sarà infatti determinante rispetto ai problemi che sono stati evidenziati dalla dottoressa Mariano, perché in essa rimarranno stritolate intere popolazioni, aumentando a dismisura il numero dei profughi e in particolare di quelli ebrei, impossibilitati ad un ritorno.

In un quadro di questo genere, non era infatti pensabile, per gli ebrei dell’est, rientrare in paesi in cui spesso erano stati catturati con il concorso attivo delle milizie nazionaliste e collaborazioniste locali, senza contare che per essi c’era solo terra bruciata, se mai lo avessero desiderato. La maggior parte di loro sapeva bene che avrebbe dovuto scontare l’ostilità della popolazione non ebraica (il pogrom avvenuto in Polonia nel 46 è davvero emblematico, secondo il prof. Vercelli, in quanto il massacro di ebrei era stato tollerato dalle autorità e dal partito operaio unificato, che si andava organizzando e cominciava a controllare allora il territorio).

Mentre l’ebraismo italiano, sia pure con gravissime perdite, conservava dopo la guerra un nucleo da cui ripartire all’interno delle varie comunità*, l’ebraismo orientale era stato completamente azzerato, non solo nei corpi, nelle case, nelle attività artigiane o commerciali, ma anche nelle memorie: tutti i segni identitari erano stati cancellati, a partire dai registri anagrafici. Come si poteva dunque tornare in quel vuoto, di cui si aveva cognizione? (le voci corrono, nei campi, osserva il dottor Vercelli…). Quali possibilità rimanevano?



*Su questa differenza fondamentale, il prof. Vercelli considera emblematico il confronto avvenuto a distanza fra due grandi testimoni della Shoah, l’italiano Primo Levi e il rumeno Elie Wiesel. Per quanto difficile fosse stato anche per Levi il ritorno, aveva trovato ad attenderlo la sua casa, la sua famiglia, mentre il secondo aveva perduto tutto e dovette forzatamente emigrare in America, passando per Israele.

Il nesso con la vicenda palestinese

Non essendoci alcuna possibilità di ritorno, agli ebrei dell’est sopravvissuti rimanevano solo due strade percorribili, prosegue il prof. Vercelli: quella verso le Americhe, dove ci si scontrava peraltro con vincoli e limiti robusti di ordine amministrativo e politico, e quella verso la Palestina.

Qui peraltro non esisteva ancora lo stato d’Israele, ma solo qualcosa che andava lentamente definendosi, un insieme di istituzioni, di gruppi, di cooperative agricole e rurali: 600.000 persone circa che sarebbero raddoppiate nel giro di un anno, dopo la costituzione nel 48 del nuovo stato, per via dell’espulsione delle comunità ebraiche da parte dei paesi arabi (anche qui, fa notare il prof. Vercelli, per effetto di un rimescolamento geopolitico e demografico).

Era dunque un paese piccolo e fragile quello che si stava allora formando in un contesto molto problematico, con una guerra civile fra due parti della stessa corporazione araba ed ebraica: non aveva pertanto molti strumenti da offrire a chi arrivava lì nel 46/47 riuscendo a sfuggire al controllo degli inglesi, che esercitavano allora un protettorato sulla Palestina (spesso si finiva catturati e deportati nelle varie isole dell’Egeo, o riportati in Europa). L’accoglienza era forzatamente ridotta al minimo e l’integrazione resa faticosa dal fatto di non parlare la stessa lingua (gli ebrei dell’Europa orientale parlavano prevalentemente yiddish: una vera e propria lingua che aveva in sé elementi dell’ebraico liturgico e del tedesco, oltre che delle lingue slave. L’ebraico moderno era per loro del tutto sconosciuto, e del resto la stessa cosa sarebbe successa con gli ebrei provenienti dai paesi vicini, che erano prevalentemente arabofoni). Occorreva darsi da fare, e diventare  velocemente non solo agricoltori e artigiani, ma anche combattenti.

L’ antifascismo oggi: una questione aperta ma imprescindibile

Concludendo la sua ricostruzione, il prof. Vercelli osserva che erano davvero molti gli elementi ad entrare in gioco come effetto dinamico legato alle deportazioni. Mentre sappiamo tutto, o quasi tutto, sulla deportazione, soltanto da poco tempo la ricerca storica si è indirizzata a ricostruire il tema della ricezione degli ebrei sopravvissuti, anche attraverso ricerche negli archivi locali come quella esposta dalla dottoressa Mariano, che contribuiscono in modo significativo a ricostruire il quadro generale   aiutandoci a dare un senso a tematiche che sono di fatto molto attuali. La maggior parte di noi non ha infatti nessuna cognizione diretta di questi avvenimenti, e in particolare della difficile condizione dell’Italia nel dopoguerra e del duro sforzo che è stato necessario per rimettere in piedi un paese completamente “imballato”.

Eppure è davvero necessario a suo giudizio fermarsi a riflettere sulla situazione davvero spaventosa in cui l’Italia è stata condotta da un regime disastroso e disastrante, incapace di fare scelte politiche più accorte che avrebbero consentito all’Italia di uscire dalla guerra in modo ben diverso. Certo la storia non si fa con i “se” e con i “ma”, nondimeno possiamo ben pensare che l’antifascismo avrebbe assunto una diversa tonalità e che certi aspetti problematici della post-resistenza non si sarebbero generati senza l’alleanza con la Germania, che ha condotto l’Italia in quegli sconvolgimenti funesti che l’hanno devastata per due lunghi anni. E’questo, dice il prof. Vercelli, il lascito importante del ’45, che ci consegna un paese in cui non solo la fame era ancora un’esperienza concreta per molti, ma che era completamente analfabeta dal punto di vista politico e non solo e in cui le vecchie classi dirigenti – a parte quella fascista, liquidata con un colpo di stato – erano compromesse e scarsamente attendibili.

Se non ragioniamo su quel lunghissimo lavoro di tessitura che si è reso necessario per costruire, più che per ricostruire, un tessuto sociale democratico, non si comprende l’attualità dell’antifascismo e si cade nell’errore di vederlo soltanto come la faccia opposta del fascismo, come se fossero state soltanto due opinioni diverse che si confrontavano. Dal suo punto di vista occorre invece tenere presenti due situazioni completamente diverse: da un lato quella della catastrofe e della compromissione totale, dall’altro quella del tentativo di costruire un tracciato di vita democratica. Tuttavia non è facile mettersi in quest’ottica, soprattutto per le nuove generazioni. Chi ha sempre respirato l’aria della libertà non ha esperienza di cosa voglia dire esserne privati, e la parola “dittatura” rischia di perdere il suo significato, mentre portava allora con sé un’atmosfera di sospetto che avvelenava e incancreniva i rapporti sociali.

E’ pertanto attività non solo legittima ma fondamentale, a giudizio del prof. Vercelli, ricordare gli avvenimenti che stasera sono stati messi al centro del discorso: conoscere le difficili vicende dei profughi, sapere che molti, pur nella difficoltà di allora, si mossero per accogliere e per favorire la possibilità di un futuro per quei giovani i cui volti e la cui storia, nelle immagini e nei documenti mostrati dalla dottoressa Mariano, sono emersi stasera dall’ombra ( sono già stati ricordati i portuali di Genova e di La Spezi e la CGL, che allora era un sindacato unitario, oltre i molti che pur avendo ben poche risorse da spartire aiutavano comunque chi era maggiormente  in difficoltà).

Ma soprattutto è necessario interrogarsi in maniera non astratta ma molto concreta, attraverso la radicalità di quelle storie che dal passato ci portano al presente, sul significato che può assumere, oggi come allora, il possesso della cittadinanza, senza la quale la civiltà deperisce e muore. E ancora, riflettere sul bisogno di progettare il futuro. I ragazzi e le ragazze di allora avevano perso tutto, compreso il loro nome, ma puntavano sul futuro e qui ad Avigliana come in altri luoghi di sosta lo preparavano, con fatica ma con entusiasmo. Tuttavia, per pensare il futuro, conclude il prof. Vercelli, occorre conoscere il passato, non per fermarsi ossessivamente in esso, ma per trarne quei principi dinamici che ci consentono di comprendere meglio ciò che siamo e soprattutto volgere lo sguardo a ciò che dovremmo di nuovo voler essere.



                                               …………………………………………………………………. 



Avigliana, 25 ottobre 2017

Relazione a cura di “CircolarMente”

Quelle che seguono sono alcune fotografie relative al Campo Profughi allestito in Avigliana nel periodo 1946 - 1948 (ci scusiamo per la loro scarsa qualità visiva)














Nessun commento:

Posta un commento