INDAGINE SULLA MUTAZIONE
BARBARI,
POLLICINE E ALTRI MUTANTI...
PRIMA PARTE
BARBARI, POLLICINE ED ALTRI MUTANTI - INDAGINE
SULLA MUTAZIONE
All’interno del
percorso di riflessione che CircolarMente presenta per l’anno in corso, volto
ad esplorare il complesso rapporto fra l’emergenza (intesa in senso letterale
come ciò che emerge, che si manifesta) e la memoria, entro la quale possono
stare le premesse di questo accadere, abbiamo dato particolare rilievo al tema
delle sfide che le nuove tecnologie pongono, con il loro continuo evolvere,
alla nostra percezione della realtà, ai processi cognitivi, alle relazioni
sociali. Per affrontarlo in modo adeguato, abbiamo concordato per il mese di
novembre un primo incontro con due formatori della scuola Holden di Torino, che
ci aiuteranno a comprendere i comportamenti, le aspettative e i valori di
quella che possiamo chiamare “la Generazione Google”, e più in generale ad
analizzare l’incidenza della trasformazione digitale sulle nostre vite. Data la
complessità del tema, i relatori ci hanno fornito una prima se pur parziale
bibliografia, di cui ci siamo avvalsi per preparare alcuni materiali di studio
propedeutici all’incontro. Ci siamo permessi di intitolarli in modo scherzoso,
prendendo spunto dalle originali intuizioni dei due autori - Alessandro Baricco
e Michel Serres – a cui abbiamo assegnato una posizione centrale, riassumendone
ampiamente i testi, per aprire poi a ventaglio la presentazione di quelli che
abbiamo considerato complementari. Il lavoro così formulato si presenta
pertanto suddiviso in due parti:
-
PRIMA PARTE: I BARBARI
“I Barbari. Saggio sulla mutazione”, di
Alessandro Baricco – Feltrinelli 2008
“Il nuovo Barnum”, sempre di Baricco –
Feltrinelli 2016
“Per l’alto mare aperto. La modernità e il
pensiero danzante”, di Eugenio Scalfari – Einaudi 2010
In
questa prima parte entrano in scena quei particolari “mutanti” forniti di
branchie di cui Baricco ha seguito le mosse, interpretando il cambiamento non come
un semplice passaggio generazionale, bensì come un vero proprio cambio di
civiltà in cui tutti siamo in qualche modo coinvolti, con maggiori o minori
resistenze. Al riassunto del suo testo seguono alcune notazioni sul confronto
fra Baricco e Scalfari, e una breve presentazione di una miscellanea di
articoli che compongono una sorta di paesaggio del mondo visto da Baricco con
qualche attitudine “barbarica”, affiancata da una rivisitazione della modernità
condotta da Scalfari attraverso i suoi esponenti filosofici e letterari più
significativi
- SECONDA
PARTE LE POLLICINE E GLI ALTRI MUTANTI…
“Non è un mondo per vecchi”, di Michel Serres
– ed. Bollati Boringhieri 2013 (questo
testo è stato aggiunto da noi in bibliografia)
“Internet ci rende stupidi?”, di Nicholas Carr
– ed. Raffaello Cortina 2011
“Perché la rete ci rende intelligenti”, di
Howard Rheingold – ed. Raffaele Cortina 2013 “Immersi nelle storie”, di Frank
Rose – ed. Codice 2013
In questa seconda parte entrano invece in
scena quei “nativi digitali” così abili a muovere i pollici sui loro
smartphone, a cui Serres ha dedicato un pamphlet di grande successo immaginando
con molto ottimismo un futuro in cui l’apprendimento, grazie a queste “teste”
poste fuori dal corpo, potrebbe diventare una gioiosa avventura all’interno di
una società più partecipativa e connessa. A seguire, un serrato confronto fra
due analisti della rivoluzione digitale che valutano in modo opposto i suoi
effetti sul piano cognitivo e comportamentale e
in ultimo il testo in cui un
antropologo digitale ci presenta altri
mutanti non meno degni di interesse…
Per CircolarMente Enrica Gallo
ENTRIAMO,
CON ALESSANDRO BARICCO,
NEL MONDO DEI “BARBARI”
“…
quelli che chiamiamo barbari sono una specie nuova, che ha le branchie dietro
le orecchie e ha deciso di vivere sott’acqua. Ovvio che da fuori noi, coi
nostri polmoncini, ne caviamo l’impressione di una catastrofe imminente. Dove
quelli respirano, noi moriamo. E quando
vediamo i nostri figli guardare
vogliosi l’acqua, temiamo per loro, e ciecamente ci scagliamo contro ciò che solamente riusciamo
a vedere, e cioè l’ombra di un’orda
barbarica in arrivo. Intanto, i
suddetti figli, sotto le nostre ali, già respirano da schifo, grattandosi
dietro alle orecchie, come se ci fosse qualcosa, là, da liberare…”
Il saggio che presentiamo è stato scritto e pubblicato a
puntate nel 2006 su“Repubblica”, raccolto poi in volume con qualche
aggiunta per “La Biblioteca di Repubblica”col titolo “I barbari” ed edito
successivamente da Fandango Libri e da Feltrinelli nel 2008 col titolo attuale. Le illustrazioni
sono di Gipi. (ricordiamo che su You Tube è disponibile un’ampia presentazione del
saggio, fatta dallo stesso autore al Cinema Anteo di Milano nel 2008)
Presentazione
e riassunto del testo
Chi sono i Barbari
che danno il titolo a questo intrigante saggio di Baricco? Se diamo un’occhiata
alla curiosa immagine di copertina – una sorta di uomo-pesce in attesa di
immergersi in mare, o forse dell’arrivo di un’onda anomala da cavalcare con la
sua tavoletta da surf – possiamo subito escludere che siano coloro che da
sponde lontane cercano di raggiungere il territorio che chiamiamo “occidente”
attraverso un movimento migratorio ormai epocale, interpretato e temuto, da
alcuni, come una vera e propria “invasione” foriera di distruzione e di
contaminazioni insopportabili. Non si tratta di questo, evidentemente, anche se
il termine usato suggerisce pur sempre qualcosa che può essere percepito come
minaccia, oppure visto con interesse, a seconda della nostra maggiore o minore
lontananza da quell’acqua, e da quelle branchie… In effetti il sottotitolo
recita “Saggio sulla mutazione”, perché l’intenzione dell’autore è proprio
quella di capire, procedendo per indizi, una serie di eventi che si stanno
verificando nella pur ristretta porzione di mondo in cui si trova ad abitare e che sommandosi gli uni
agli altri vanno a disegnare, secondo la sua interpretazione, una vera e
propria svolta epocale: non un semplice passaggio generazionale, dunque, anche
se esso può esservi compreso, ma qualcosa di più ampio destinato a produrre un
vero e proprio “cambiamento di mappa”, e non solo uno spostamento della
posizione degli attori sociali nel controllo della mappa stessa. Lo fa,
naturalmente, da par suo, con l’abilità che non si può non riconoscergli,
alternando il registro saggistico a quello narrativo e utilizzando, arricchito
da alcune brillanti metafore, un linguaggio colloquiale che riduce la
complessità dell’argomentazione senza banalizzarla. Riesce così ad intrigare il
lettore e a trascinarlo con sé nei luoghi in cui questo passaggio di civiltà
acquista una plastica evidenza, rendendo a poco a poco visibile, con una
strategia molto accorta (conosce bene i trucchi del mestiere!) la figura di
questo nuovo tipo umano destinato ad incarnare un diverso modo di abitare il
mondo. Seguiamolo dunque nel suo discorso, che procede per grandi tappe.
(N.B. = abbiamo
riprodotto i titoli del vari capitoli, con una breve aggiunta riassuntiva)
“… quelli che chiamiamo barbari sono una
specie nuova, che ha le branchie dietro le orecchie e ha deciso di vivere sott’acqua. Ovvio che da fuori noi, coi nostri polmoncini, ne caviamo
l’impressione di una catastrofe imminente. Dove quelli respirano, noi moriamo.
E quando vediamo i
nostri figli guardare vogliosi
l’acqua, temiamo per
loro, e ciecamente ci
scagliamo contro ciò che solamente riusciamo a vedere, e cioè
l’ombra di un’orda barbarica
in arrivo. Intanto, i suddetti
figli, sotto le nostre ali, già respirano da schifo, grattandosi dietro alle
orecchie, come se ci fosse qualcosa, là, da liberare…”
SACCHEGGI
le tecniche di
invasione – (dove la commercializzazione spinta si coniuga con l’ampliamento
dell’accesso)
In questa prima
sezione Baricco ci fa entrare in alcuni dei villaggi dove i barbari hanno già
lasciato tracce evidenti di saccheggio. Questo ci permetterà di osservare le
loro tecniche di invasione, di vedere come combattono, che cosa lasciano sul
campo dopo il loro passaggio: cosa essenziale, a suo giudizio, per arrivare a
capire chi sono, perché sono così, e se c’è una logica dietro la loro furia
devastatrice (qual è – se vogliamo tornare alla metafora iniziale – l’acqua che
cercano). I villaggi che sceglie di mostrarci sono sicuramente periferici e
circoscritti (il mondo del vino, del calcio, dell’editoria), ma si riveleranno
molto utili per capire le mosse dei barbari prima di vederli in piena luce nel
luogo dove la mutazione ha avuto inizio.
A titolo di esempio, vediamo che cosa è successo nel villaggio del vino
– un villaggio di grandi e millenarie tradizioni - a partire dall’anno (il 1966) e dal luogo
(Oakville, in California) in cui un tal Mondavi si mise in testa di produrre
vino in una zona dove nessuno aveva mai neanche lontanamente supposto di farlo,
proponendolo ad un pubblico, quello americano, che praticamente non lo aveva
mai bevuto. Occorreva dunque mettere a punto un vino bello da vedere e facile a
bersi (un vino hollywoodiano “rotondo e senza spigoli”, come dice Baricco) per
palati non avvezzi alle raffinatezze nostrane, e combinabile con abitudini
alimentari del tutto peculiari. Una scommessa forte, sicuramente, che risultò
vincente, comportando per questo tipo di vino un successo planetario con tutto
quello che segue - commercializzazione spinta, ecc… -, per cui in tutto il
mondo ora si producono vini che per i
nostri maestri vinai sono degni tutt’al
più di un’alzata di spalle (vini senz’anima, potremmo dire, che non hanno
dietro di sé una storia, un sapere, una cultura del vino) Un perfetto atto barbarico, dunque, che
invece di liquidare con sdegnoso distacco dovremmo, secondo Baricco, analizzare
nei suoi movimenti senza inchiodare quelli che per convenzione narrativa si è
deciso di chiamare “barbari” all’idea di un’anima che si perde per effetto di
una commercializzazione spinta e di un surplus di spettacolarità. L’atto
barbarico è piuttosto da vedere a suo giudizio come un punto in cui passano
delle correnti nuove di energia, a cui concorrono certamente delle innovazioni
tecnologiche (nel caso del vino, il fatto di poter condizionare gli ambienti in
cui avviene la fermentazione) e linguistiche, non meno significative delle
precedenti (sempre nel caso del vino, l’ingresso in scena di persone che ne
scrivono senza utilizzare un linguaggio esoterico per iniziati, arrivando
perfino – orrore orrore - a dare voti al vino…) ma che comporta un fatto nuovo,
e positivo: e cioè l’accesso di molte persone ad un gesto che prima era loro
precluso. Certo, possiamo provare la tentazione di storcere il naso di fronte
al primato della logica mercantile che osserviamo in questo come negli altri
campi in cui Baricco ci conduce, passando dal mondo del calcio, in cui prevale
la spettacolarizzazione spinta rispetto alla relativa sobrietà dello sport di
un tempo, a quello dell’editoria: ben vediamo infatti come le librerie dove era
possibile relazionarsi con cultori appassionati
del leggere cedano progressivamente
il campo ai megastore giganteschi dove si vendono libri insieme a CD,
film e computer – senza parlare dei supermercati dove il libro è semplice merce
fra altre merci - mentre siamo sommersi da pubblicità strabordanti che tirano
la volata all’ultimo best-seller, destinato a prevalere rispetto a prodotti di
qualità che si fanno strada a fatica… E però, secondo Baricco, non è tanto su
questo che occorre puntare la nostra attenzione (anche perché secondo lui la
frattura fra prodotti di qualità e prodotti commerciali è frutto in realtà di
un’illusione ottica, dal momento che la realtà sociale di un tempo limitava il
raggio d’azione degli oggetti più sofisticati alle fasce della popolazione che
potevano accedervi, ma chiunque scrivesse desiderava, allora come ora,
raggiungere il pubblico più vasto possibile). Dovremmo piuttosto cogliere un
sommovimento diverso che ci porta molto più vicini a comprendere il principio
fondamentale che anima i barbari, e cioè il fatto che sempre più spesso i libri
partono da un punto esterno al mondo dei libri: sono libri da cui hanno tratto
un film, libri scritti da personaggi celebri, libri abbinati al giornale o alle
riviste, come se fosse necessario, per dar loro valore, che essi si offrano
come tessere di un’esperienza più ampia, segmenti di una sequenza che viene
generata altrove e che andranno a loro volta a generare altri segmenti, facendo transitare il senso. Un’idea
discutibile, se vogliamo – Baricco ne conviene - ma in cui sta indubbiamente un
principio di energia, che attribuisce valore soprattutto al movimento e che ci
consente pertanto di intravedere il mutante che stiamo cercando, l’animale in
corsa, se pure ancora nascosto dalle fronde del bosco. Per vederlo in piena luce occorrerà infatti
entrare in quello che non è un altro villaggio periferico, bensì il luogo barbarico
per eccellenza, quello da cui ha avuto inizio la mutazione: è qui che potremo
davvero scoprire, secondo l’autore, il modo diverso in cui i barbari respirano.
RESPIRARE
CON LE BRANCHIE DI GOOGLE
la conoscenza come
surfing- (dove la densità del se nso viene cercata non nella profondità ma
nell’estensione)
Baricco ci invita
dunque a fissare la nostra attenzione su quel momento aurorale - siamo nel 1996
- in cui due giovani studenti dell’università di Stanford, Sergey Brin e Larry
Page, inventarono quel motore di ricerca di Google che non solo ha reso
miliardari loro, ma consente a tutti noi di accedere in pochi secondi a
qualsiasi informazione. C’erano già naturalmente alcuni motori di ricerca,
peraltro abbastanza rudimentali, in cui si procedeva dando valore alle
ripetizioni: se si cercavano, ad esempio, informazioni sulle lasagne, quanto
più una pagina conteneva questa parola tanto più saliva in prima posizione (si
dava dunque per scontato che il sapere è ciò che si trova dove lo studio è più
approfondito e articolato). I risultati erano comunque discutibili - un saggio
sulle lasagne veniva prima di una semplice ma utile ricetta- e per risolvere il problema si era pensato,
con una mossa chiaramente pre-barbarica, di attivare dei revisori esperti nelle
varie discipline che mettessero le pagine in ordine di rilevanza. Poi,
arrivarono i due barbari, e le cose ebbero un profondo cambiamento di
prospettiva. Brin e Page intuirono infatti l’importanza dei link (le parole
sottolineate che comparivano nei vari siti, di cui allora nessuno sapeva ancora
bene cosa fare) vedendo in essi il principio dinamico della rete, attraverso il
quale si poteva derivare un nuovo sistema di valutazione stabilendo la
rilevanza delle pagine dal numero dei link che puntano su di esse (in effetti,
come spiega Baricco, i due studenti avevano in mente il modello delle riviste
scientifiche, in cui il valore di una ricerca viene dedotto dal numero di
citazioni che ne fanno altre ricerche, considerando dunque i link alla stregua
di citazioni); aggiunsero poi a questa prima intuizione l’idea –
complementare – che il valore dei saggi che contengono una citazione è a sua
volta determinato dal numero dei link che ad essi puntano. E’ su questo principio che si basa il motore
di ricerca di Google, tradotto poi in un algoritmo da Page, la mente matematica
dei due: un principio chiaramente barbarico, perché cambia il concetto stesso
di qualità. In altri termini, ciò che otteniamo digitando le nostre richieste è
il risultato di una traiettoria scavata dai link, di una serie di passaggi, di
contatti, di incontri: non è necessariamente la cosa più vera, e neanche quella
che è fatta meglio, ma è comunque, come dice Baricco con abile sintesi, “la
cosa più vicina alla verità che sia possibile esprimere in una lingua
comprensibile al maggior numero di persone” . Ci scandalizza, che un pezzo di
verità vada perduto rispetto ad un surplus di comunicazione? Forse sì. Ma
questa mutazione è già avvenuta, e oggi per una parte rilevante della
popolazione il sapere che conta è questo, un sapere che è in grado di entrare in
contatto con gli altri saperi producendo senso attraverso il movimento. E’
possibile dunque intravedere una logica dietro ai saccheggi barbarici, prosegue
l’autore avviandosi a stringere le fila di questo capitolo centrale nel testo:
c’è la convinzione, forse più istintiva che appoggiata a riflessioni teoriche
ma nondimeno potente, che l’essenza delle cose non sia un punto ma una
traiettoria, c’è l’idea che capire e sapere non siano il risultato di una
strenua indagine nel profondo, verso una supposta fonte originaria (un’idea di
cui Baricco non disconosce certo la
bellezza, pur ritenendo che essa stia morendo come quel tipo di civiltà che
l’ha fatta sua eleggendola a mito fondativo) ma al contrario qualcosa di affine al surfing, un navigare
veloce sulla superficie delle cose guadagnando in estensione ciò che si perde
in profondità. Un paesaggio nuovo, non c’è dubbio, dove troviamo la superficie
al posto della profondità, i viaggi al posto delle immersioni, il gioco al
posto della sofferenza: è del tutto normale dunque che esso ci sgomenti e ci
induca a domandarci che cosa avverrà, e in particolare che ne sarà di quella
che siamo abituati a chiamare “esperienza”, intendendola come una sorta di
condensazione del reale in un nucleo trasformativo della persona. Certo sarà
qualcosa di molto diverso da come la pensiamo noi che non siamo nati barbari, e
guardiamo sconcertati i nostri figli smanettare sui loro smartphone mentre
mangiano, ascoltano musica, fanno i compiti, giocano col gatto, senza fermarsi
profondamente su una sola di queste cose, anche se li invitiamo a farlo. E
però, secondo Baricco, dobbiamo arrenderci all’evidenza, accettando il fatto
che per questi barbari-mutanti l’esperienza sta proprio lì, nel trascorrere con
un unico gesto sistemi passanti che generano movimento in questo passaggio,
secondo il modello formale che abbiamo visto all’opera su Google (traiettorie
di link che corrono in superficie). E’ solo così infatti che respirano, con le
branchie di Google…
PERDERE
L’ANIMA
dalla dimensione
verticale a quella orizzontale - (dove si cerca in altro modo l’intensità del
mondo)
Ora che abbiamo finalmente visto l’animale
mutante allo scoperto, e compreso la logica che presiede a saccheggi altrimenti
imputabili a mera violenza o a ragioni puramente mercantili, possiamo riuscire
a vedere, secondo Barico, come la distruzione operata dai barbari
dell’architettura che presiedeva a quanto, nella nostra civiltà, potevamo
chiamare “villaggio”, sia in realtà funzionale alla costruzione di un habitat
completamente diverso: l’unico, a quanto pare, in cui essi possono respirare
liberamente. Pur tuttavia, non possiamo esimerci dal chiederci se questa
mutazione comporti qualcosa che alcuni giudicano come una “perdita di anima”, e
ancora, se questa parola ha davvero senso, per i barbari. Prima di rispondere
direttamente, Baricco invita il lettore a domandarsi se quello che in generale
intendiamo per anima, prescindendo dal significato religioso del termine (e
cioè l’idea che ci sia nell’uomo una tensione verso l’infinito, la presenza in
lui di una dimensione spirituale che lo eleva rispetto alla natura animale) sia
per così dire astorica e atemporale o non sia invece il portato di una
particolare concezione del mondo
(N.B.= intendiamo bene che è qui, più che nella
descrizione di una mutazione che è ormai largamente sotto i nostri occhi, la
parte del libro destinata maggiormente a far discutere).
Secondo Baricco
infatti questa concezione di “anima”, che pure risale all’umanesimo, diventa
dominante soltanto nell’ottocento, tanto da poterla definire come il portato
storico di una borghesia ormai pronta a conquistare il proprio spazio e
consapevole di doverlo trovare in se stessa, non potendo derivarla dal sangue
né dal decreto divino, come l’aristocrazia che per lunghissimo tempo aveva
stabilito su questo la sua supremazia; una borghesia che troverà poi in tutto
quel complesso di idee, di scritti, di mode, che chiamiamo “romanticismo”, la
sua aristocrazia del sentire. E’ indubbio, dice Baricco, che se per anima
intendiamo quanto accennato in precedenza – e lui non dubita che sia così,
perché di questa concezione siamo in parte eredi e figli - vedremo nei gesti
barbarici una insopportabile perdita di anima
e faremo fatica ad immaginare che l’uomo possa essere considerato degno
al di fuori di questo schema per cui il senso
è il premio della fatica e la raffinatezza – virtù suprema – è
attingibile solo dopo un lungo percorso di concentrazione assoluta (la
verticalità, potremo dire). Eppure quel tanto di barbarico che Baricco sente in
sé lo spinge ad ipotizzare che il rifiuto dei barbari delle nostre liturgie
borghesi non sia soltanto dovuto all’avversione alla fatica, ma alla
consapevolezza che l’intensità del mondo sia raggiungibile anche in altro modo,
non immergendosi nella contemplazione immobile dell’oggetto, bensì vagando
orizzontalmente sulla pelle del mondo. E’ possibile, ancora, che a favorire questo
nuovo sentire non sia solo la constatazione di una sproporzione sempre più
accentuata fra l’immensità del deposito culturale e la fatica immane necessaria
a districarsene prima che possa emanare bellezza e vita, ma anche il sospetto
(che lui ipotizza presente nei barbari, magari a livello di sensazione
epidermica più che di matura consapevolezza) che tutto quel parlare di
elevazione spirituale, quella cultura “verticale”, quella raffinatezza estetica
non solo non abbiano fornito alcun antidoto ad evitare le tragedie immani del
novecento, ma che in qualche misura –
defluendo verso il basso, dall’individuo al popolo - abbiano prodotto proprio alcuni di quei miti perversi che ne furono all’origine.
RITRATTI
questioni in gioco-
(dove si mettono in discussione certe gerarchie di valori)
Nella quarta
parte del testo Baricco tocca diversi punti, provando ad applicare ad alcuni
elementi già evidenziati come tipici del gusto barbarico questo modello del
fare esperienza basata sulla logica dei sistemi passanti e sull’idea che
l’intensità del mondo non vada cercata secondo una traiettoria verticale,
scendendo nel profondo, ma piuttosto muovendosi velocemente secondo un tragitto
orizzontale sulla superficie dell’esistente. Accade così che alcuni di essi
possano essere visti, secondo questa diversa prospettiva, in una nuova luce: la
spettacolarità, ad esempio, che in molti di noi provoca fastidio come qualcosa
che altera la sostanza o ne copre la pochezza, come accade a certi ornamenti
che consideriamo “kitch”, diventa qualcosa su cui il barbaro può arrampicarsi e
rimbalzare traendone energia; allo stesso modo, nei roboanti bockbuster su cui
magari noi storciamo il naso, i barbari vedono stazioni intermedie di viaggi
che riassumono altri viaggi moltiplicando la possibilità di fare esperienza (se
guardi Pulp Fiction, per seguire l’esempio che fa Baricco, oltre al film ti
porti a casa in aggiunta un bel pezzo di storia del cinema...) Sicuramente il
paesaggio che loro disegnano per se stessi è per certi versi inquietante:
vediamo bene ad esempio come siano disinvolti nel maneggiare quel passato che
molti di noi considerano una sorta di tesoro da far affiorare con un lavoro
paziente di scavo, portando la massima attenzione alla collocazione precisa
nell’asse del tempo, mentre diventa per loro un semplice materiale d’uso da
combinare a caso quando affiora (anche se non sono del tutto immuni, osserva
Baricco, dalla nostalgia – la nostalgia che conserva il pesce di quando viveva
sulla terraferma - e da sottili sensi di colpa: le mutazioni sono sempre dolorose, anche per
chi le compie…) E ancora ci può certo infastidire il fatto che siano alquanto
noncuranti delle nostre gerarchie di giudizio, mostrando di considerare molto
sopravvalutati certi autori – se
vogliamo rimanere nel campo della letteratura – che per noi sembrano
indiscutibili (non parliamo certo di Omero, di Shakespeare, di quelle vette,
dice Baricco, che paiono avere la singolare capacità di rimanere tali in tutti
i paesaggi, ma magari, tanto per fare un esempio, di Thomas Mann, che molti
barbari considerano tutt’al più vetta
locale, magari alta ma non separabile da un certo tempo, un certo spazio). Del
resto a suo giudizio non c’è nulla di sorprendente in questo, perché ogni
civiltà giudica i sui predecessori secondo la rilevanza che hanno avuto nel
creare gli abiti mentali di quella presente, riconoscendo in loro dei padri
fondatori (è un po’, dice, come la pala di un’elica, che si allarga o si
assottiglia a seconda di come siamo piazzati). A questo dunque occorre essere
preparati: uno smottamento sarà inevitabile, che ci piaccia o no. Bisogna del
resto capire che se noi dobbiamo affrontare una situazione indubbiamente
spiazzante, anche quella vissuta dai barbari è per certi versi schizofrenica.
Pensiamo per esempio ad un qualunque ragazzo a cui viene richiesto al mattino a
scuola di impadronirsi dei rudimenti della nostra civiltà, per gradi successivi
di complessità – cosa che lo obbliga ad usare solo i polmoni, se ce la vuole
fare - e che poi al pomeriggio, appena
rientra a casa, mette in azione le branchie per dedicarsi al suo barbarico
multitasking: più che ad un barbaro,
osserva Baricco, ci fa pensare ad un anfibio mentale, che naviga fra due mondi fra cui non c’è nessuna
connessione che possa determinare un sovrappiù di significato per
entrambi. Non si tratta qui di proporre
un semplice e magari furbesco adeguamento “modernista” della scuola e delle
altre istituzioni culturali (per usare le sue parole, come sempre incisive e divertenti,
“non si trasforma un nomade in agricoltore sedentario facendogli delle case a
forma di tenda e coltivandogli tu il campo”), bensì di trovare un modo diverso
di salvare il passato perché viva ancora nel presente, aiutando i ragazzi a non
lasciarsi sedurre troppo facilmente da
quanto di puramente mercantile c’è attorno a loro: non dobbiamo infatti
dimenticare che in gioco c’è la nostra democrazia, i cui principi verrebbero
fatalmente corrotti se passasse l’idea che ai barbari “comuni” vanno bene cose
di bassa lega, mentre la cultura alta, rivissuta e trasformata, sarebbe
privilegio di pochi. Come possiamo notare, con queste considerazioni il
discorso di Baricco si allarga, passando dalla fenomenologia della mutazione
agli interrogativi su cosa deve fare chi barbaro non è, ma guarda senza paura e
con curiosità a quanto sta accedendo, non ignorandone le criticità. E’ da qui
che parte, per l’appunto, l’ultimo capitolo del testo.
EPILOGO
La
Grande Muraglia – (dove si parla di scelte possibili che toccano a noi)
Abbiamo certo già
potuto cogliere alcuni indizi del sentimento di comprensione che l’autore prova
verso questi strani mutanti che si stanno staccando dalla terraferma per
diventare pesci, con accenni decisamente critici su modalità di resistenza a
parer suo inefficaci, se non dannose, da parte di chi cerca di opporsi alla
mutazione. Tuttavia, è solo in quest’ultimo capitolo che Baricco esplicita la
sua posizione servendosi dell’immagine della Grande Muraglia Cinese (su cui in
effetti stava davvero camminando mentre pensava a concludere idealmente il
libro), a cui attribuisce un valore metaforico nel simboleggiare il rapporto
che una civiltà ossessionata dalla paura dell’invasione intrattiene con i
barbari. Eretta nel corso di due secoli
dalla dinastia Ming, questa sterminata costruzione era infatti intesa ad
impedire che le tribù nomadi, rozze e bellicose, potessero invadere la ricca ed
evoluta terra cinese, anche se dal punto di vista militare si rivelò del tutto
inefficace, rappresentando più che altro, secondo Baricco, una sorta di
risposta “filosofica” all’ossessione identitaria. Quando una civiltà sceglie
una delle opzioni possibili per rapportarsi ai barbari, decidendo se
annientarli (cosa non sempre facile), se commerciare con loro (accettando così
una sorta di contaminazione) o alzare muri che si suppongono impenetrabili
(chiudendosi dunque all’interno), racconta fatalmente se stessa, e nel caso
della Grande Muraglia noi vediamo letteralmente scritta sulla pietra l’idea di
una civiltà che traccia una divisione fra quello che viene considerato “mondo”
e quanto ne è fuori concettualmente, il “non mondo”. Più che segnare un
confine, essa rappresentava secondo la sua analisi l’invenzione del confine:
più che proteggere la civiltà, la definiva.
E qui veniamo al punto che ci riguarda. Per Baricco non ci si difende
dai barbari alzando i muri, tanto più che non ci troviamo di fronte ad una
invasione proveniente dall’esterno, ma ad una
mutazione che è stata generata nel nostro stesso interno, per effetto
tanto di una serie di innovazioni tecnologiche che hanno quasi azzerato lo
spazio e il tempo della comunicazione quanto dall’apparire sulla scena di molti
che prima se ne stavano discosti, ma che ora vogliono farne parte a modo loro,
profondamente trasformandola per farla diventare generatrice di quell’energia di cui hanno
bisogno per sopravvivere. Non serve ritrarci sdegnati, secondo Baricco, ma
piuttosto riconoscere che questo nuovo modo di abitare il nostro mondo non è
mortifero, nasce anzi da un bisogno forte di vita e di respiro; poggia su una diversa idea di esperienza e un diverso
modo di cercare senso nelle cose, da cui derivano le conseguenze che sono già
state evidenziate (“la superficie al posto della profondità, la velocità al
posto della riflessione, le sequenze al posto dell’analisi, il surf al posto
dell’espressione, il multitasking al posto della specializzazione, il piacere
al posto della fatica”) e porta inevitabilmente alla messa in discussione della
nostra cultura borghese e al misconoscimento
di alcune cose a cui noi attribuiamo un valore sacrale. E’ una mutazione
profonda, questa, in cui i barbari stanno perfettamente a loro agio ma che in
qualche misura trascina noi tutti verso l’acqua, mettendo in una situazione
confusa non solo coloro che proprio non riescono a vedersi come pesci, ma anche
coloro che dall’acqua in qualche misura sono attratti. Non è detto però,
aggiunge Baricco, che si debba aderire alla mutazione senza problematizzarla,
rinunciando totalmente a lasciare in essa “l’orma del nostro passo” come dice
con una espressione molto intensa, così che questa nostra navigazione “sappia
ancora di rotta e di sapienza marinara”. Ma lasciamo la parola direttamente a
lui, a conclusione del discorso: “ Non c’è mutazione che non sia governabile.
Abbandonare il paradigma dello scontro di civiltà e accettare l’idea di una
mutazione in atto non significa che si debba prendere quel che accade così
com’è, senza lasciarci l’orma del nostro passo. Quel che diventeremo continua
ad essere figlio di ciò che vorremo diventare. Così diventa importante la cura
quotidiana, l’attenzione, il vigilare. Tanto inutile e grottesco è il ristare
impettito di tante muraglie avvitate su un confine che non esiste, quanto utile
sarebbe piuttosto un intelligente navigare nella corrente, capace ancora di
rotta, e di sapienza marinara. Non è il caso di andare giù come sacchi di
patate. Navigare, sarebbe il compito. Detto in termini elementari, credo che si
tratti di essere capaci di decidere cosa, del mondo vecchio, vogliamo portare
fino al mondo nuovo. Cosa vogliamo che si mantenga intatto pur nell’incertezza
di un viaggio oscuro. I legami che non vogliamo spezzare, le radici che non
vogliamo perdere, le parole che vorremmo ancora e sempre pronunciare, e le idee
che non vogliamo smettere di pensare. E’ un lavoro raffinato. Una cura. Nella
grande corrente, mettere in salvo ciò che ci è caro. E’ un gesto difficile
perché non significa, mai, metterlo in salvo dalla mutazione, ma, sempre, nella
mutazione. Perché ciò che si salverà non sarà mai quel che abbiamo tenuto al
riparo dai tempi, ma ciò che abbiamo lasciato mutare, perché ridiventasse se
stesso in un tempo nuovo.”
………………………………………………….
E ORA,
FACCIAMO SPAZIO AL CONFRONTO:
ALESSANDRO BARICCO
- EUGENIO SCALFARI

N.B. = Diamo qui alcuni ragguagli su di un interessante scambio epistolare fra Baricco e Scalfari (allora direttore, oltre che fondatore di Repubblica), pubblicato nell’estate del 2010. Tutto parte da un articolo in cui Baricco ribadisce, con una più vivace tensione polemica e aprendosi in modo ancora più netto alla mutazione, la sua critica all’esaltazione della “profondità“ come unico mezzo per produrre sapere e senso. Gli risponde Scalfari, che pur non negando la fine della modernità e la possibilità che in futuro una nuova civiltà barbarica possa davvero svilupparsi, afferma che essa è ancora molto al di là del suo compiersi, mentre sono visibili i segni di un autentico “imbarbarimento”. Chiude il carteggio la risposta di Baricco.
BARICCO
“ Anno 2026, la vittoria dei barbari” 26 agosto 2010
Un titolo intrigante
per questo articolo in cui Baricco, con un abile artificio retorico, fa mostra
di riesaminare a vent’anni di distanza e a mutazione compiuta i suoi scritti di
un tempo, che a molti erano apparsi come incaute aperture di credito verso
degli invasori alieni e per certi versi spaventevoli. Certo non rimpiange,
nonostante le critiche che gli sono piovute addosso, di aver ingaggiato una strenua
tenzone contro i difensori della cosiddetta “profondità”, convinti che il senso
ultimo delle cose debba necessariamente trovarsi solo nell’immobilità senza
tempo di un luogo segreto, accessibile solo “alla pazienza, alla fatica,
all’indagine ostinata”. Non che sia sbagliato cercare significati nella propria
vita, nelle cose, nel sapere sul mondo: l’errore sta piuttosto nel presumere di
trovarli solo in questo luogo, per effetto di quella che a suo giudizio è stata
una vera e propria illusione ottica. Non esiste infatti un luogo siffatto: esso
è semplicemente “una traduzione in termini spaziali e morali di un desiderio
legittimo: collocare ciò che abbiamo di più prezioso (il senso) in un luogo
stabile, al riparo dalle contingenze, accessibile solo a sguardi selezionati,
attingibile solo attraverso un cammino selettivo”. Sicuramente non è stato
facile, per chi non era nato barbaro, scoprire di aver riposto così tante
aspettative in qualcosa di inconsistente, prima di riuscire a comprendere che
la mutazione barbarica non aveva rinunciato né al senso né all’esperienza,
cercandoli bensì sulla superficie del mondo dove la possibilità di ricomporli, dice, “non coincideva più con una
discesa ascetica nel sottosuolo, regolata da una élite di sacerdoti, ma da una collettiva
abilità nel registrare e collegare le tessere del reale” Così vivono infatti i
barbari vittoriosi in cui lui ormai afferma di riconoscersi completamente
(tanto da passare alla prima persona plurale): viaggiando, senza radici e senza
pesi, ma non vuoti né indifferenti alla memoria, più attenti in realtà allo star bene del mondo di quanto
non lo siano stati tanti cultori della profondità, concentrati sul tracciare
confini fra alto e basso, fra civilizzazione e barbarie e di fatto incapaci di
fermare la barbarie – quella vera – che ha funestato i tempi della
modernità. Ci sono stati dei rischi – è
innegabile – perché anche a chi ha cercato fin da subito di cogliere il
positivo del mutamento non mancava la consapevolezza del fatto che smascherare
il mito ambiguo della profondità poteva aprire la strada all’insignificante, e
che si sarebbe potuta compiere una pericolosa confusione fra la superficie, che
riguarda la dimensione orizzontale del mondo, e la superficialità, che implica
stupidità e pochezza. E però anche di rischi affrontati è fatto, secondo
Baricco, il passo del futuro, che è comunque sempre frutto delle nostre scelte,
del talento e della velocità delle nostre intelligenze. E’ ben lieto pertanto
di averlo corso, dando fin dall’inizio fiducia a questi barbari che tendono a
muoversi verso creazioni collettive, sovrapersonali, e che per questo gli
ricordano la moltitudine dei copisti medioevali: in un certo senso infatti
anche essi, a suo giudizio, stanno copiando la grande biblioteca del passato in
una lingua nuova, mettendo a disposizione di tutti “un’impaginazione del mondo adatta agli occhi
che abbiamo, un design mentale appropriato ai nostri cervelli, e un plot della
speranza all’altezza dei nostri cuori”
SCALFARI
“I barbari non ci leveranno la nostra profondità” 20 settembre 2010
La risposta di Scalfari non si fa attendere,
con un articolo dal titolo altrettanto netto ma ispirato ad un ben diverso
sentire, anche se l’autore riconosce non pochi punti di vicinanza con lo
scrittore che si professa “barbaro” senza infingimenti: concorda infatti con
lui sul fatto che la modernità sia giunta ormai alla fine del suo ciclo, e che
tocchi ad uomini nuovi, non gravati dal suo peso, trovare nuovi significati e
nuovi linguaggi. Ma è davvero questo, che sta accadendo? Il contrasto con
Baricco non riguarda infatti in modo specifico il tema della profondità
contrapposta all’estensione, come si potrebbe supporre sapendo come Scalfari
sia uomo di cultura ampia e profonda, intensamente intrecciata con le esperienze
di vita e professionali: egli ricorda infatti come anche Calvino, nelle sue
“Lezioni Americane”, abbia celebrato la leggerezza e la rapidità, oltre
all’esattezza e alla consistenza, come elementi fondanti del nuovo millennio.
Profondità e superficie sono del resto sempre convissute in ogni epoca, e per
questo Scalfarii non crede che il valore dato all’estensione rispetto alla
profondità sia una conquista e un avanzamento.
La sua risposta tocca invece un punto più incisivo e cioè il fatto che
la supposta civiltà barbarica, di cui Baricco intende celebrare il compiuto
avvento, in realtà è ancora di là da
venire, mentre ciò che dal suo
osservatorio Scalfari vede intorno a sé è piuttosto un diffuso
“imbarbarimento”: non tanto un nuovo linguaggio, un nuovo pensiero, una nuova
visione del mondo, ma la degenerazione e l’azzeramento di quei valori che la
modernità, nonostante gli errori compiuti, ha accumulato e che andrebbero
preservati da chi in essa si è formato, proprio per aprire al futuro. E’ questo dunque l’invito che rivolge a Baricco,
riconoscendo in lui non un barbaro, ma un intellettuale che si è nutrito della
sua stessa cultura, che è parimenti
intriso di memoria storica, e che in quanto tale è fra coloro che meglio
possono opporsi all’imbarbarimento che rischia di sovrastarci: una battaglia,
dice, che non riguarda i barbari, dal momento che essi stanno ancora cercando
se stessi, ma tutti coloro che si pongono il problema del senso e dei valori,
pur non opponendosi in linea di principio ad una loro diversa dislocazione.
BARICCO “Non dobbiamo resistere” 21 settemre 2010
Barbari e
imbarbariti, dunque. La risposta di Baricco arriva, per così dire, a stretto
giro di posta, e affronta subito il tema posto da Scalfari mostrando di
considerare l’imbarbarimento, che è innegabile, niente più che uno sgradevole
effetto collaterale di una civiltà che si sta disfacendo, mentre un’altra compie il movimento opposto: una specie di
“scarico chimico” che la fabbrica del futuro non può fare a meno di produrre –
per usare le sue parole, come sempre incisive - e come tale sempre presente
nella storia ogni qual volta si è dato futuro (a suo parere sono stati
sicuramente barbari, per esempio, Diderot
e D’Alembert, mentre erano invece imbarbariti gli aristocratici che
continuavano ad officiare i loro riti ormai privi di senso nel tempo in cui
l’illuminismo stava nascendo). Baricco conviene sul fatto che possiamo certo
considerare segno di imbarbarimento, per venire all’oggi, le folle che
riempiono i centri commerciali o i reality show, ma non sono loro, i barbari a
cui ha dedicato la sua analisi e che già hanno modificato il nostro modo di
comunicare e di pensare (pensiamo, dice, a Brin e a Page, o a Steve Jobs, e
ancora a molti altri meno noti ma che pure coltivano una certa idea di
bellezza, anche se fondano il loro ragionamento su principi nuovi mettendo in
atto quello che a suo giudizio può
costituirsi come un nuovo umanesimo adatto al nostro tempo). Diversi, certo, da
Scalfari e da Baricco stesso, che pur essendo di una generazione più giovane si
riconosce come figlio della stessa civiltà morente, come diversi sono da noi i
nostri figli che tuttavia meritano un’apertura di credito, senza che per questo
si debba rinunciare ad arginare l’imbarbarimento. E’ però fondamentale, secondo
il suo sentire, “non scambiare questa battaglia con una dannosa resistenza alla
barbarie, intesa come intrusione del radicalmente nuovo, come forza della
mutazione, e come metamorfosi ultima dell’intelligenza”. E’
indubbio, aggiunge, che richieda un certo sforzo non confondere le due
cose, ma neanche la certezza di sbagliarsi spesso riesce a farlo disamorare di
questo che ha assunto come compito, e insieme come piacere.
Posizioni
inconciliabili? Passiamo la domanda ai
nostri lettori, offrendo un ultimo spunto di discussione con un articolo
recente da cui si può evincere la posizione attuale di Baricco, più sfumata,
sul tema della competenza ...
BARICCO “ Un negozio di ferramenta in Wyoming” 10 novembre 2016
Dopo l’elezione di
Trump e la Brexit, esce su Repubblica un articolo in cui Baricco, partendo da
un riferimento scherzoso all’ immaginario proprietario di un negozio di
ferramenta dell’America profonda (che
presumibilmente quando è stato
eletto Obama si sarà chiesto se il mondo era impazzito - cosa che molti di noi
avranno fatto nel caso di Trump), mostra di considerare questi eventi come
l’esito non previsto, ma pure non del tutto imprevedibile, di una sorta di
“mossa animale” che noi umani abbiamo compiuto all’incirca trent’anni fa.
Abbiamo infatti ipotizzato allora che le mediazioni non fossero più necessarie,
avviandoci verso una mutazione culturale e forse anche antropologica di
notevole portata, da cui poi sono derivati i vari Wikipedia, Amazon, ecc…: e
cioè che se sostituiamo al parere
di un esperto quello di una molteplicità
di gente inesperta, possiamo arrivare più velocemente e spendendo meno a
qualcosa che ci porta abbastanza vicini alla verità, con in più una certa idea
di libertà... Una mossa geniale, certo - Baricco non fa marcia indietro, o
almeno non del tutto – sottolineando però come possa diventare rovinosa, una
volta lasciata andare senza controllo: ha portato infatti ad una progressiva
svalutazione della competenza e del ruolo delle élite culturali, considerate
irrilevanti prima, e poi responsabili di ogni sorta di mali. Naturalmente,
continua Baricco, per spiegare come “una boutade dei Simpson sia diventata
realtà” (Trump alla Casa Bianca!) e il fatto che gli inglesi siano diventati degli
extracomunitari occorre tener conto di diversi elementi, tuttavia resta
dell’opinione che all’origine di tutto ci sia proprio quella mossa lì e
pertanto occorrerà a suo giudizio trarre da questi due eventi una lezione
fondamentale: essi infatti ci dicono, con grande chiarezza, che “se lo lasci
andare, il gesto che elimina le mediazioni non si ferma e va fino in fondo,
usando il combustibile del risentimento nei confronti delle élite”. Per alcuni
questo non è un rischio, per altri invece sì. La sua posizione, in questa
partita che si preannuncia ad uno dei tavoli di gioco dell’Occidente, è chiara.
Non si può tornare indietro sul salto delle mediazioni, questo è certo, ma
bisognerà trovare una sorta di linea rossa che non bisogna varcare, “il punto
esatto in cui ci conviene mantenere una élite, formarla, curarla: fidarsi di
lei”. Punto non facilissimo da trovare, ne conviene, ma certo non è il momento
di scansarsi, né lui ha intenzione di farlo...
N.B. = dopo questa serie di articoli
complementari alla lettura de “I Barbari”, passiamo a presentare alcuni dei
testi proposti dai relatori
PROPOSTE
DI LETTURA:
“un lungo libro che
parli del nostro tempo lo sto scrivendo
eccome, da anni,
ma sui giornali,
a colpi di
articoli. Se devo scrivere
quel che mi succede intorno, non
so, non mi viene
da usare la forma romanzo, mi viene da scrivere
articoli, di andare
dritto allo scopo, ecco.
E’ una cosa che faccio ormai da un sacco
d’anni. Dato che ho cominciato scrivendo una rubrica che si
chiamava Barnum (il mondo mi sembrava allora un festivo
spettacolo di freaks, pistoleri
e illuministi), mi sono
abituato a quel
nome, e adesso qualsiasi cosa
scriva sui giornali
per me finisce
bene
PRESENTAZIONE:
Fin dal lontano 1995
(anno in cui esce la prima raccolta di articoli con questo nome, a cui seguirà
nel 98 “Barnum 2” e nel 2016 “Il Nuovo Barnum”), Baricco ha usato come titolo
per i suoi interventi giornalistici questa parola-immagine che simboleggia lo
spettacolo del circo, traendo il nome da quel Phileas Taylor Barnum che è
stato, nella seconda metà dell’800, il più importante e famoso impiegato circense.
In queste miscellanee in cui c’è in effetti un po’ di tutto, senza ordine
cronologico né precisa ripartizione categoriale – dai racconti di viaggio ai
resoconti di eventi sportivi, dalle recensioni
di testi letterari o di eventi musicali alle notazioni su fenomeni di grande impatto mediatico – si viene
esposti inevitabilmente ad un effetto di rimbalzo, come avviene al circo dove
domatori, equilibristi e clown si alternano contendendosi l’attenzione degli spettatori
senza concedere loro un attimo di respiro.
Sembra in effetti che non ci sia nulla, nel variegato spettacolo del
mondo, che l’occhio curioso di Baricco non ritenga degno di attenzione, sempre
cogliendovi qualche dettaglio significativo che dà a questi scritti d’occasione
un che di non meramente occasionale, anche se non sono volti in modo esplicito
a fornire al lettore una pista di orientamento, lasciandogli il piacere di
istituire collegamenti o di disegnare le sue personali mappe. Chi scrive ora
questa relazione non è in grado di dire, essendo a sua volta una lettrice solo
occasionale dei testi di Baricco, se è da queste incursioni sulle varie
figurazioni del mondo che trae la sua linfa il saggio sulla mutazione
presentato in precedenza. Si possono nondimeno ipotizzare alcuni collegamenti,
che giustificano la presenza di questo secondo testo nella bibliografia
presentata dai due relatori. Notiamo, per esempio, come nella esibita
indistinzione fra alto e basso, per cui si può passare da un articolo
sul bowling in America a considerazioni sull’11 settembre, dai tori di Pamplona
alla maratona beethoveniana dei Berliner diretti da Abbado, si possa leggere il
preludio del commosso omaggio che
Baricco farà, nel primo capitolo de “I Barbari”, a Walter Benjamin, uno dei più
importanti pensatori del novecento (un autore che era capace di chinarsi, per
così dire, su cose diversissime – dalla poesia di Baudelaire ai passages di
Parigi, dai racconti di Kafka a Micky Mouse - per capire che cosa il mondo
stava diventando, nell’idea, che Baricco sintetizza mostrando di condividerla in pieno, che ”il
DNA di una civiltà si costruisce non soltanto nelle curve più alte del suo
sentire ma anche, se non soprattutto, nelle sue sbandate apparentemente più
insignificanti).
un lungo libro che parli del nostro tempo lo sto scrivendo eccome,
da anni, ma
sui giornali, a
colpi di articoli.
Se devo scrivere quel che mi succede
intorno, non so, non mi
viene da usare la
forma romanzo, mi viene da
scrivere articoli, di
andare dritto allo
scopo, ecco. E’ una
cosa che faccio ormai da
un sacco d’anni. Dato che ho cominciato scrivendo una rubrica che si
chiamava Barnum (il mondo mi sembrava allora un festivo spettacolo di freaks,
pistoleri e illuministi),
mi sono abituato
a quel nome, e adesso qualsiasi cosa
scriva sui giornali
per me finisce
bene o male sotto a quell’ombrello...”
E ancora, viene
spontaneo cogliere in Barnum la natura alquanto “barbarica” di questo surfare
veloce dell’autore sulla superficie del mondo, non certo privo di cultura e di
acume, anzi, ma non insistito, come se davvero egli si proponesse di viaggiare
leggero e senza pesi come i suoi amati mutanti. Nello stesso tempo non possiamo
evitare di chiederci – Scalfari insegna - se davvero è possibile, per chi non
si sia prima nutrito di una cultura tanto estesa quanto approfondita, possedere
una capacità di discriminazione tale che consenta di distinguere, nello spettacolo
del mondo, i momenti in cui ci si trova di fronte ad una enorme stupidità o ad
una forma diversa e non volgare di bellezza: è questa infatti che l’autore
cerca, coinvolgendo il lettore in grazia
di una scrittura estremamente accattivante nel senso letterale del
termine.
“… Né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né il debito amore
lo qual dovea Penelope far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto”
Inferno, canto XXVI
PRESENTAZIONE: Su questo testo di uno dei più importanti
giornalisti e intellettuali italiani, edito nel 2010 col sottotitolo “La
modernità e il pensiero danzante”, si
possono trovare on line recensioni interessanti, come quella di Antonio Gnoli a
cui rimandiamo, preferendo attenerci qui alle parole stesse con cui l’autore
via via lo accompagna. Vorremmo peraltro evidenziare come esso si presenti
nella nostra lettura, al di là delle diverse posizioni culturali, come un
ideale complemento dell’analisi di Baricco sulla mutazione barbarica.
Ritorniamo dunque a quanto Baricco scrive, con accenti di forte e intenso
monito, nella parte finale de “I Barbari”, ricordando il dovere intellettuale
di mettere in salvo, non dalla mutazione ma nella mutazione, ciò che ci è caro:
i legami che non vogliamo spezzare, le parole che vogliamo ancora pronunciare,
le idee che non vogliamo smettere di pensare. Quali, non dice (non è questo
evidentemente lo scopo del libro, anche se possiamo supporre, conoscendo i suoi
interessi musicali e artistici, che egli voglia conservare soprattutto una
certa idea di bellezza ). Lo fa invece Scalfari, invitandoci ad un viaggio in
quel territorio mentale, più ancora che
storico, a cui diamo il nome di “modernità” e che pur aprendosi geograficamente
con la scoperta dell’ America ha inizio culturalmente, secondo la sua
ricostruzione, dalla pubblicazione degli “Essais” di Michel de Montaigne. Con
la sua messa in discussione delle verità assolute, questo pensatore appartato
apre infatti la strada ad un’epoca che attraversa quattro secoli, segnata da
cesure e mutamenti profondi ma sempre tesa a sperimentare, ad andare oltre,
fedele in questo senso al mito di quell’Ulisse dantesco che riconosce nel
viaggio e nell’ardore della conoscenza il suo destino. Un viaggio in cui
Scalfari sceglie come moderno Virgilio, nella parte iniziale del testo, quel
Diderot che più di ogni altro, per la sua spregiudicatezza intellettuale e per
la capacità di collegare uomini e idee culminata nella costruzione
dell’Encyclopédie, rappresenta ai suoi occhi un punto apicale di un percorso
culturale che dall’Illuminismo al Romanticismo, dalle avanguardie al
nichilismo, dall’esaltazione della ragione al riconoscimento delle
pulsioni ha visto confrontarsi passione
e ragione, intuizione e logica, impegno
artistico e civile.
Un percorso che Scalfari tratteggia come se
fosse una sorta di itinerario dello spirito, scegliendo, fra gli autori che
meglio lo hanno rappresentato, quelli che sono entrati con lui in particolare
risonanza, più che seguire un ordine cronologico o strettamente concettuale.
Così, ai grandi filosofi che hanno dato il tocco e la chiave di lettura del
mondo moderno - Cartesio e Spinoza, Kant ed Hegel - seguono nella sua
appassionata rievocazione Chateaubriand e Leopardi, dal momento che a definirne
il timbro nel variare delle sensibilità sono stati non solo i filosofi e gli
uomini d’azione, ma anche i romanzieri e i poeti (Scalfari dedica infatti
pagine molto intense al Faust di Goethe,
che rappresenta ai suoi occhi la sintesi perfetta fra illuminismo e
romanticismo, al recupero proustiano del passato, ai romanzi variamente
intessuti di metafisica di Tolstoi e Dostoevskij, aprendo un capitolo
importante sulle Elegie Duinesi di Rilke, attraverso le quali ha incontrato nei
suoi anni giovanili il sentimento del tempo, così alieno dalle esaltazioni
guerresche del fascismo…). Un viaggio, quello compiuto dall’autore, in un tempo
non certo privo di chiaroscuri, ma che a suo giudizio ha dato alla storia umana
qualcosa il cui valore non può e non deve essere ignorato. Certo è innegabile
che la modernità, dopo aver vissuto
quello che Scalfari definisce il suo “ gran finale” nel pensiero incendiario e danzante di Nietzsche,
sia andata declinando in un lungo tramonto, inquinandosi con apporti culturali
dissonanti, per morire tragicamente nei campi di battaglia del novecento e
nella Shoah: pur non collegando la modernità con l’emergere dei totalitarismi,
come hanno fatto altri analisti (ricordiamo a questo proposito le affermazioni
alquanto puntute dello stesso Baricco) Scalfari non nega a priori che questo
ventesimo secolo di tenebre profonde possa essere il risultato dei fermenti
positivi e negativi che si sono accumulati nel quattro secoli precedenti.
Ritiene peraltro che non si possa disconoscere come la modernità sia stata
anche, e principalmente, un’epoca dotata di spirito dinamico e propulsivo,
capace “di allargare il respiro delle generazioni, di modificare l’identità
senza perdere la memoria, senza impoverire il lascito che è passato di mano in
mano, contestato ma custodito ... conquistando così nuovi spazi di libertà e
nuovi metri per misurare il passo delle generazioni”. Un lascito che ora viene
rifiutato, barbaricamente, e questo sembra davvero un cattivo auspicio agli
occhi di Scalfari, che ricorda come anche le avanguardie, che pure hanno messo
duramente in discussione i sistemi incartapecoriti del loro tempo, fossero
comunque imbevute della cultura dei padri, e di questo consapevoli. Non che egli tema l’apertura di un nuovo
mondo: così è sempre accaduto, dice, e sempre avverrà “fino a che la nostra
specie saprà avvalersi della mente di cui dispone e guardare il cielo stellato
sopra di sé”, ma la perdita di memoria può pregiudicarne il positivo avvento.
E’ proprio per questo motivo, dice, che ha scritto questo libro, nato non tanto
per libera scelta ma per necessità, perché ha sentito fortemente il dovere di
testimoniare la nascita, il declino, la fine di qualcosa che gli è sembrato “un
sabba, non di diavoli e streghe ma di anime e di stelle danzanti”. Non ci sembra irrilevante – se possiamo
aggiungere una notazione personale – che Scalfari abbia scelto come titolo un
verso di straordinaria bellezza che contiene in sé l’idea di un navigare disteso
e ampio in acque profonde, che possiamo vedere in contrapposizione (non
sappiamo se voluta o no dall’autore) a quello scivolare leggero sull’acqua,
quel “surfare” di onda in onda che Baricco attribuisce al mondo barbarico. Per
questo il libro di Scalfari, proposto da Cascone e Ongaro, ci sembra davvero un
indispensabile completamento alla lettura di “I Barbari”.
……………………………………………..
SECONDA PARTE
BARBARI,
POLLICINE
E
ALTRI MUTANTI…

Un percorso di
riflessione sui cambiamenti innestati dalla rivoluzione digitale a partire da
alcuni testi proposti da Vincenzo Cascone e Lorenzo Ongaro insegnanti della Scuola Holden di Torino
ENTRIAMO, CON
MICHEL SERRES,NEL MONDO DELLE
“POLLICINE”
Michel Serres (1930), filosofo ed
epistemologo, è uno dei più importanti intellettuali francesi; è stato per
molti anni professore di Storia
della scienza alla Sorbona e alla Stanford University ed è tuttora Accademico
di Francia. Il saggio che
presentiamo, il cui titolo francese recita “ Petite Poucette” (Pollicina),
è stato pubblicato da Bollati
Boringhieri nel 2012.Fra i suoi testi più recenti, ricordiamo “Le gaucher
boiteux” (Il mancino zoppo), che è stato presentato dall’autore al Salone
del libro di Torino nel maggio 2014 (su You Tube si può trovare la
registrazione dell’intervista condotta in questa occasione da Corrado
Augias, che ne riassume egregiamente i temi ).
|
Chi sono, le
Pollicine e i Pollicini a cui l’ultraottantenne Michel Serres ha dedicato, come
a nuovi e straordinari “mutanti”, questo pamphlet appassionato?
Non tanto, come
saremmo indotti a ipotizzare, quei bambini che hanno popolato le nostre fiabe
infantili, alti un soldo di cacio ma capaci con vivida intelligenza di avere la
meglio su minacciosi e giganteschi orchi di meno brillante intelletto (anche se
in effetti qualche rimando sarebbe possibile…): non è a loro infatti che pensa
l’autore, quanto ad esseri nuovi, le cui dita – molto meno maldestre delle
nostre - si muovono con straordinaria
velocità e destrezza sulle tastiere dei loro tablet e smartphone e quant’altro la tecnologia
digitale mette loro a disposizione.
Nasce da questa
constatazione il tenero appellativo con cui Serres ha scelto di nominarli
(privilegiando il femminile perché convinto che saranno proprio le ragazze ad
incarnare al meglio le possibilità che si aprono), guardando con affettuosi
occhi di filosofo-antropologo questi nuovi nati, che non hanno più sicuramente
lo stesso rapporto col mondo dei loro genitori e dei loro nonni. Del resto, non
è sorprendente che sia così: formattati fin dall’infanzia dai media e dalla
pubblicità, cui spesso gli adulti li hanno esposti senza mediazione educativa,
connessi con tutti e con ogni luogo grazie ai loro GPS, essi non abitano più
nel nostro stesso spazio metrico, misurato dalla distanza, e parimenti diverso
è il loro tempo, tutto incentrato sul presente.
Allo stesso modo,
del tutto inconfrontabile con la nostra è la loro storia, perché diverse le
loro esperienze e diverso il loro stesso corpo, non più uso alla fatica e alle
privazioni, mentre la loro condotta morale, non più stretta nelle maglie
austere del principio del dovere e delle rigide appartenenze ma spesso lasciata
senza guida, li ha resi in un certo senso più esposti, più fragili, più
bisognosi di quei nuovi legami che i social media mettono loro a disposizione.
Radicalmente Altri
da noi, dunque.
…………………………………………………
UNA
TESTA FUORI DAL CORPO:
LE
POLLICINE “ DECOLLATE”
……………………………………………………
Eppure, osserva
Serres, nonostante questa abissale diversità non molti commentatori hanno
davvero colto il segno della cesura così profonda ed evidente che si è
verificata nel passaggio generazionale, solo paragonabile, a suo giudizio, a
quelle che si sono verificate nel neolitico, all’inizio dell’era cristiana,
alla fine del Medioevo e del Rinascimento.
Un mutamento per cui
dovremmo chiederci, con urgenza, se abbiano ancora un senso i modi con cui
trasmettiamo il sapere e i contesti in cui lo facciamo, e se le riforme che via
via si sono succedute in ambito scolastico si siano rivelate tutte ugualmente
fallimentari proprio perché incapaci di discostarsi da modelli ormai desueti.
Occorrerebbe invece, dice Serres, “escogitare
novità inimmaginabili”, fuori dai quadri che condizionano ancora i nostri
comportamenti, i nostri media, i nostri progetti, perché questi ragazzi non
parlano più la nostra stessa lingua, non scrivono più nello stesso modo, e
radicalmente diversa è la loro testa: non solo perché l’uso della Rete, come ci
spiegano le scienze cognitive, mette in azione diversi meccanismi neuronali, ma
perché è toccata loro in sorte la straordinaria avventura di avere una testa
fuori dal corpo, come accadde al Vescovo Dionigi:
Se diamo fede al racconto di Iacopo da
Varagine sullo straordinario miracolo avvenuto a Lutetia, durante le
persecuzioni di Diocleziano, questo vescovo, dopo essere stato imprigionato e
torturato, fu condannato ad essere decapitato sulla cima della collina che
verrà poi chiamata Montmartre. La sentenza fu invece eseguita a metà percorso,
per pigrizia dei soldati. Prontamente rialzatosi, il vescovo”decollato”
raccolse la testa caduta, si fermò presso una fonte per ripulirla dal sangue e
proseguì il cammino fino all’attuale chiesa di San Denis (cosa accadde poi, la
storia non racconta, se non che fu canonizzato)
Quando Pollicina
accende il computer, prosegue Serres, ha davanti a sé una vera e propria testa
esterna al corpo, per cui non vale più a suo giudizio il consiglio di Montaigne
sull’opportunità di puntare, dopo l’invenzione della stampa, su di una testa
“ben fatta” piuttosto che su una testa “ben piena”: questa nuova scatola
cognitiva oggettivata è infatti tanto ben piena – perché le sue riserve
informative sono enormi – che ben fatta, contenendo essa tutto quello che noi
intendiamo come facoltà intellettuali: memoria, immaginazione, logica…
Una testa decollata
che lascia sulle spalle della nostra Pollicina (e qui davvero Serres passa
dalla prosa argomentativa ad una sorta di poesia immaginifica) uno spazio dove
possono entrare
“ aria, vento, quella luce che vi dipinse
Léon Bonnat, l’esponente dell’art pompier, quando raffigurò il miracolo di San
Dionigi su una parete del Pantheon, a Parigi…. un vuoto traslucido, una brezza
giocosa in cui può trovare rifugio la sua intelligenza inventiva, la sua
soggettività cognitiva”
…………………………………….
VERSO
UN PENSIERO
DISTINTO
DAL SAPERE?
………………………………………..
Un vero miracolo,
senza dubbio, o meglio una rivoluzione, che pone una domanda: sarà la fine
dell’era del sapere come l’abbiamo conosciuto – quello basato sul libro e sulla
trasmissione dal maestro all’allievo? Prima di rispondere l’autore apre un
inciso sulla dittatura della pagina scritta, che ha condizionato fino ad oggi,
con il suo formato, il modo con cui accediamo al sapere:
Nonostante il termine “rivoluzione” sia
generalmente collegato a cose “dure” (le macchine tangibili, le tecniche, che
indubbiamente esercitano una forte azione sulle cose del mondo), non bisogna
sottovalutare il portato di quelle
legate a segni “dolci”, come l’invenzione della scrittura e del libro,
che hanno avuto un effetto dirompente sulle culture e sulle collettività. Senza
la scrittura, dice Serres, “ci saremmo
forse riuniti in città, avremmo formulato un diritto, fondato uno stato,
concepito il monoteismo e la storia, inventato le scienze esatte, istituito la
paideia...?”
Possiamo davvero dirci figli del libro e
nipoti della scrittura, quindi, e ancora oggi la pagina scritta ci domina, con
i suoi reticolati e i suoi bordi che ricordano il “pagus” dei nostri antenati
ispirando la stessa architettura delle città, oltre ai luoghi deputati al
sapere: pensiamo ai campus universitari, concepiti come il “castrum”
dell’esercito romano, segnato da solchi perpendicolari, diviso in coorti
quadrate….
Le stesse nuove tecnologie sembrano non
essere ancora uscite dalla dittatura della pagina: in fondo il computer si apre
come un libro, e digitiamo sulla tastiera usando le dita come quando scriviamo…
E però non dobbiamo
fermarci all’apparenza. In realtà queste tecnologie, esternalizzando messaggi e
operazioni che circolano nel sistema neurale, ci costringono ad uscire dal
formato spaziale del libro e della pagina; rendono desuete le note a piè di
pagina e le imponenti bibliografie, che cadono, dice Serres, “sotto
il colpo di grazia degli aguzzini di San Dionigi”; fanno sì che la
conoscenza, almeno in parte, “tolga gli
ormeggi” lasciando prendere il largo ad un tipo di pensiero distinto dal
sapere, verso un’ intelligenza inventiva che si misura addirittura rispetto
alla distanza dal sapere stesso.
E’ questo che
accade, o può accadere, sopra i colli mozzati del Santo come sopra quelli delle
Pollicine e dei Pollicini di oggi, aprendo il varco ad una nuova autonomia
dell’intelletto, a cui fanno eco “movimenti
corporei senza vincoli e un brusio di voci…”
In effetti i nostri
ragazzi, da sempre costretti ad una immobilità silenziosa di fronte a maestri o
a professori che dall’alto della pedana si facevano portavoce di un sapere
tratto da un libro, rifiutano oggi la nostra offerta formativa, non più legata
alla loro domanda: chiacchierano, si muovono, non ascoltano, producono in coro,
dice Serres, “un rumore di fondo che
sovrasta il megafono della scrittura”.
Di questo peraltro non possiamo rimproverarli, perché il sapere che noi
proponiamo ce l’hanno già, non più conservato in luoghi segreti e inaccessibili, ma compresso in quei piccoli
aggeggi che portano nelle loro tasche.
E’ giunto dunque, secondo il filosofo, il tempo di liberarli:
E’
ORA
*che i corpi escano
dalla caverna dove li abbiamo imprigionati e che i ragazzi possano ritrovare la
gestualità di un corpo che ormai si è abituato a guidare, e non può più
continuare a fare il passeggero; che lo spazio dei nostri campus universitari,
mutuato dai campi trincerati dell’esercito romano, si trasformi in un luogo
aperto e arioso, atto ad ospitare un sapere non più frazionato e segmentato
sotto discipline separate, ridiventando un fiume dove sia davvero possibile
navigare in modo avventuroso…
*
che l’ordine lasci il posto al disparato, che ha virtù che l’ordine non
conosce: l’ordine è certamente pratico e veloce, ma può ingabbiare; favorisce
il movimento, ma lo congea anche; è indispensabile all’azione, ma rischia di
sterilizzare la scoperta. Nel disordine
invece, dice Serres, “entra
l’aria, come in un congegno che ha del gioco. E il gioco induce invenzione…”
*
che si dia spazio a nuovi oggetti di conoscenza, ridando dignità a ciò che è
concreto, ai racconti, agli esempi, alle singolarità: anche essi hanno virtù
che l’astratto non conosce, perché “fa da tappo” e non permette al pensiero
arioso di farsi strada nei giovani corpi
e nelle giovani menti delle Pollicine e dei Pollicini, a cui solo si addicono
luoghi di conoscenza fatti ad intarsio, mosaici di pezzi diversi senza soluzioni di
continuità…
…………………………………………………..
PER
UNA NUOVA “PRIMAVERA”
DELL’OCCIDENTE
…………………………………………………..
Ad alcuni farà
certamente paura questa nuova destinazione della parola, autenticamente
democratica: a chi trova sospetta l’idea di un virtuale immanente giova però
ricordare, secondo Serres, che almeno il
virtuale evita le politiche di morte a cui parole più solide, appartenenze più
ferrose, astrazioni più bellicose (“esercito,
nazione, chiesa, popolo, classe, proletariato, famiglia, mercato…”) ci
hanno portato.
Nondimeno, c’è un
altro argomento, ancora più subdolo, che viene utilizzato per opporsi a
questa che l’autore vede come una “nuova primavera dell’occidente”, e cioè
quello della semplicità: quelli che lo brandiscono si chiedono infatti, apparentemente
preoccupati, come sarà possibile gestire questo complesso caleidoscopio di
parole e di voci che si profila all’orizzonte.
Ora, a parte il
fatto che le società semplici si addicono al mondo animale, dominato dalla
legge del più forte, piuttosto che a quello umano, e il fatto altrettanto
evidente che questi fautori della semplicità non sembrano poi prodigarsi più di
tanto per la semplificazione, Serres fa osservare che la complessità è parte
integrante di una società democratica, dove crescono insieme “l’individualismo,
le esigenze delle persone e dei gruppi e la mobilità dei siti”. Tuttavia, a suo giudizio se ne può ridurre il
costo, basta volerlo sul serio.
SI
PUO’ FARE:
* si può passare, ad
esempio, dal paradigma della complessità al paradigma informatico, capace di
conservare quelle figure a reti intrecciate che la topologia chiama
“simplessi”, ma di percorrerli più velocemente, evitando ingorghi e scontri
* si può mettere al
servizio delle nostre pratiche il pensiero algoritmico e procedurale,
appannaggio un tempo solo dell’arte medica e forense (capaci, non a caso, di
mettere insieme malato e malattia, giurisdizione e giurisprudenza, concreto e
astratto, particolare e universale), ma ora, fatto proprio dalla biochimica,
dalle teorie dell’informazione e dalle nuove tecnologie, finalmente avviato a
diventare parte integrante di una società dove cresce l’accesso al sapere: la
stessa dove tutte le Pollicine padroneggiano, con i loro “pollici pulsanti”, giochi e motori di ricerca, mettendo all’opera
campi cognitivi che su queste modalità
di pensiero si fondano
Così facendo,
continua Serres, si andrà finalmente incontro ad una cultura più sintetica e
concreta: è in questa prospettiva che ha voluto coniare un nome in codice,
capace di fare da ponte fra il particolare e il generale. “Pollicina” indica
infatti non un individuo in astratto, ma una persona unica, che esiste “in quanto individuo, in quanto persona, non
come astrazione”. Una cultura connessa e collaborativa su cui
la filosofia non ha creduto utile interrogarsi, perdendo la capacità di
comprendere la contemporaneità, e di cui Serres ha scelto invece di farsi cantore,
convinto della sua bellezza intrinseca che vorrebbe rendere a tutti evidente
compiendo con l’amico Michel Augier un gesto eclatante e immaginifico:
PIANTARE UN ALBERO, ACCENDERE
UN FUOCO
proprio davanti a
quella ferrosa Torre Eiffel, emblema
del potere e di un mondo statico, e di lì invitare ognuno ad inserire nel
computer la propria immagine reale e virtuale,
in modo che una luce laser, sprigionandosi colorata da terra, faccia
apparire “l’immagine
turgida della collettività”, creando
una ben diversa torre, fatta di scintille colorate e cangianti, atta a
rappresentare il collettivo connesso e capace di sparare “mille lingue di
fuoco contro il mostro di ieri e contro il nostro tempo, immobile e duro”.
Una torre che certo
piacerà a Pollicina, anche se certamente, dice Serres, troverà un po’ troppo
“vecchi” i due pensatori che hanno immaginato di piantare questo albero
volatile a Parigi, mentre in tutto il
mondo esso dovrà ardere…
N.B. = L’inserimento di questo testo di Serres ha
risposto da parte nostra più a ragioni compositive che argomentative, anche se
nella sua appassionata apertura verso le nuove tecnologie digitali, portatrici
a suo giudizio di straordinarie possibilità cognitive e partecipative, non
mancano ragioni di interesse (nonostante qualche evidente eccesso). Abbiamo
infatti voluto privilegiare una sorta di simmetria fra le due parti della
nostra “passeggiata” saggistica, facendo
corrispondere ai Barbari di Baricco, con il loro nuovo modo di fare esperienza
e di cercare senso nell’estensione piuttosto che nella profondità, le Pollicine
di Serres, che cercano spazi di creatività delegando molte attività cognitive
alle loro teste digitali esterne al corpo (così almeno li immaginano i due
autori: noi lasciamo il giudizio ai lettori). Allo stesso modo, così come
abbiamo posto in relazione contrastiva il testo di Baricco con quello di
Scalfari, che difende i valori della modernità di fronte all’emergere di una
mutazione i cui tratti ancora confusi possono generare inquietudine,
contrapporremo a Serres due analisti della Rete, a testimoniare punti di
vista diversi delle tecnologie
digitali rispetto alle capacità
cognitive. Presenteremo in seguito due ultime proposte di lettura, la prima
delle quali ci farà conoscere dei nuovi e interessanti “mutanti”.
E ORA, LASCIAMO
SPAZIO AL CONFRONTO:
Nonostante i titoli dei testi che stiamo per presentare,
per molti aspetti riduttivi rispetto all’effettivo contenuto, non siamo qui di
fronte all’ennesimo scontro fra coloro che siamo soliti definire
“apocalittici”, perché di fronte ad ogni novità tecnologica profetizzano
sventure, e i cosiddetti “integrati”, che le assumono invece in modo acritico
come portatrici di magnifiche sorti e progressive. Non nega infatti, il primo autore, i molti
benefici del Web, ma ci invita a riflettere sulle conseguenze della sua
crescente, ubiqua ed ambigua influenza sulle nostre modalità di pensiero, che
diventano sempre più frammentate; allo stesso modo il secondo non ignora i
rischi di un uso superficiale delle nuove tecnologie, anche se è convinto che
esse possano sprigionare importanti energie intellettuali e comunicative, se
sostenute con un opportuno addestramento.
Appurata la solidità degli argomenti che gli autori
presentano a conforto delle loro tesi, pur dissonanti, abbiamo pensato di dare
conto in prima battuta dei rilievi
critici di Nicholas Carr, per proporre poi un confronto con Howard Rheingold.
Il
punto di vista di
un critico della Rete
Nicholas Carr è uno scrittore statunitense
ha indagato le conseguenze economiche
e sociali della crescita di Internet nel testo
“Il lato oscuro della Rete” (2008), volgendo
poi la sua attenzione al rapporto fra l’uso
di Internet e le abilità intellettuali nel testo
che presentiamo, edito in Italia nel 2011
da Raffaello Cortina editore.
Attualmente è membro dell’Editorial Board
of Advisors dell’Encyclopaedia Britannica
A detta dell’autore,
questo libro nasce dal fatto di aver sperimentato personalmente, dopo anni di
scanzonato utilizzo di tutti i servizi della Rete, una notevole difficoltà a
concentrarsi su testi lunghi: come se la sua mente, essendosi abituata a
ricevere informazioni nel modo tipico della Rete – un flusso di particelle in
rapido movimento – lo avesse trasformato “da un subacqueo nel mare delle parole … ad
un ragazzino in acquascooter, che passa a grande velocità sulla superficie” (parole, queste, che sicuramente richiameranno alla
nostra mente il “surfare” veloce dei
barbari di Baricco, contrapposto al “navigare
per l’alto mare aperto” di
Scalfari).
Dal momento che
amici e conoscenti manifestavano le stesse difficoltà, Carr ha cominciato a
chiedersi se in questo momento ci troviamo di fronte ad un vero e proprio punto
di svolta fra due modalità di pensiero, e se ciò che stiamo barattando per i
benefici abbondanti della Rete non sia la perdita di quella mente duttile e
penetrante che è stata, nella modernità, il fulcro dell’arte e della scienza,
“la mente ricca di immaginazione del
Rinascimento e la mente asettica e razionale dell’Illuminismo, la mente piena
d’inventiva della Rivoluzione industriale e anche la mente sovversiva
dell’epoca moderna”(anche
queste parole ci faranno ripensare all’appassionata difesa che Scalfari fa
della modernità…).
A suo parere questo
è un interrogativo fondamentale che viene oscurato nel dibattito pubblico dalla
discussione sui contenuti del Web, dimenticando la lezione di McLuhan, secondo
il quale nel lungo periodo il contenuto di un medium ha molta meno importanza
del medium stesso nell’influenzare il modo in cui pensiamo e agiamo (con una
efficace metafora, il contenuto di un medium è per lui paragonabile “a un succoso pezzo di carne con il quale un
ladro cerchi di distrarre il cane da guardia dello spirito”).
Per dimostrare il
suo assunto, Carr apre una digressione molto ampia sul modo in cui storicamente
il cervello e la mente sono stati pensati, per dare poi ragione delle scoperte più recenti.
…………………………………………..
IL
CERVELLO E’ PLASTICO,
MA NON
ELASTICO!
….………………………………………
Dal fronte degli
studi sul cervello e dalle neuroscienze, osserva Carr, arrivano sicuramente
buone notizie. E’ ormai assodato infatti come il cervello, e in generale il
nostro sistema neurologico, sia dotato di un alto grado di plasticità: noi
siamo pressoché per tutta la vita in grado di adattarci a situazioni nuove, di
apprendere nuove abilità, di compensare in buona misura delle perdite.
Nondimeno, se pure
la neuroplasticità ci fornisce una via d’uscita da quel determinismo genetico
che per lungo tempo ha dominato le idee sul cervello e sulla mente, essa impone
a sua volta una propria forma di determinismo al nostro comportamento. Quando
alcuni circuiti del nostro cervello si rafforzano, attraverso la ripetizione di
un’attività fisica o mentale, tendono infatti a trasformarla in un’abitudine,
affinando questa nuova capacità mentre altre meno utilizzate vengono lasciate
fuori, cosa che finisce col rinchiuderci in comportamenti rigidi.
Carr chiarisce bene
infatti che “plastico”
non vuol dire “elastico”: i nostri circuiti, una volta deviati, non ritornano
allo stato precedente come fa un nastro di gomma, ma rimangono nello stato
alterato. Se noi smettiamo di esercitare alcune facoltà mentali, il loro spazio
viene occupato da altre che svolgiamo con più continuità, secondo un principio
che uno dei neuroscienziati citati da Carr ha espresso sinteticamente come “la sopravvivenza
del più impegnato”.
Ora è ben chiara,
per lui, la conseguenza di questo discorso. Se passiamo una grande quantità del
nostro tempo ad usare quello che alcuni considerano erroneamente un mero
strumento (dimenticando che nessuna tecnologia lo è, tanto più una così
invasiva come quella digitale), veniamo sollecitati ad una continua
frammentazione dell’attenzione, ed è pertanto molto facile che si perda quel tipo di abilità mentale che
dopo l’invenzione della scrittura e ancor più quella della stampa è stata
“forgiata” in noi:
(in un ampio capitolo del testo,
rendendo conto dell’annoso dibattito fra
gli strumentalisti, per cui i dispositivi che usiamo sono sotto il nostro
controllo perché siamo noi a decidere come usarli, e i deterministi, che invece
considerano le tecnologie delle vere e proprie forze che agiscono per dare
nuove forme all’attività stessa, Carr assume posizione a favore dei secondi,
mostrando come l’apparire di nuove tecnologie abbia via via sollecitato nuove
abilità mentali.
In particolare si sofferma sugli apporti
dati alla mente, e di conseguenza alla cultura, dalla scrittura e dalla
lettura, in specie dopo Gutemberg: richiedendo e allo stesso tempo favorendo
l’abilità di concentrarsi su di un compito determinato, liberando la propria
mente dagli stimoli esterni, la tecnologia del libro ha favorito non solo
l’astrazione del pensiero, ma anche la capacità di percepire più acutamente il
mondo fisico, dando vita ad una vera e propria
“etica intellettuale” che si è riversata
tanto nell’ambito letterario
quanto in quello scientifico)
……………………..……………………….
UN
MEDIUM DI NATURA GENERALE
CHE
INGLOBA E RIMODELLA
………………………………………….………………………….
Questa perdita,
osserva ancora Carr, non è avvenuta con la prima ondata dei media elettrici ed
elettronici (la radio, il cinema, il fonografo, la televisione) perché essi
potevano scalfire, ma non rimpiazzare la pagina scritta, ciò che invece questo
nuovo strumento può fare assieme ad un’infinità di altre cose.
La Rete, costituita
da milioni di computer e di banche dati interconnessi, è infatti una macchina
di smisurata potenza che sta inglobando la stragrande maggioranza delle altre
tecnologie intellettuali diventando, come scrive Carr, ”la nostra macchina da scrivere e il
nostro torchio tipografico, la nostra mappa e il nostro orologio, la nostra
calcolatrice e il nostro telefono, l’ufficio postale e la biblioteca, la radio
e la TV…. “
Rispetto alla macchina
di Turing, da cui ha avuto origine, essa non ha più l’effetto limitante della
velocità e si è evoluta in modo accelerato. E’ come se in pochi decenni si
fossero compressi centinaia di anni dell’intera storia dei media, da cui
peraltro si differenzia per un aspetto di primaria importanza – la
bidirezionalità – che l’ha trasformata in un’arteria di grande traffico tanto
per gli affari e per il commercio che per gli scambi personali, facendola
diventare letteralmente il luogo di ritrovo del mondo.
Ora, prosegue Carr,
l’utilità che ne ricaviamo è tale da farci accettare senza riserve, anzi con
soddisfazione, l’ininterrotto ampliamento del suo raggio d’azione, senza
chiederci che cosa succede a ciò che viene inglobato, come pure ai media
tradizionali. Se lo facessimo, scopriremo ancora una volta che aveva ragione
McLuhan quando asseriva che “ un nuovo
medium non è mai un’aggiunta al vecchio e non lascia il vecchio in pace. Non
cessa mai di opprimere i media precedenti fin quando non trova per loro forme e
posizioni nuove…”.
Così è a tutti gli
effetti per la Rete che quando ingloba un medium, dice Carr, ne dissolve la
forma fisica introducendovi i link, ne spezza il contenuto in frammenti che si
possono reperire online, lo circonda con i contenuti dei media già assorbiti,
alterando così profondamente il modo in cui lo usiamo.
Pensiamo, ad esempio, alla pagina di un
testo online, che può sembrare del tutto simile al testo stampato su carta.
Le differenze peraltro sono notevoli.
Intanto, i gesti che facciamo per leggerla sono diversi e influenzano il grado
di attenzione che dedichiamo al testo (le esperienze sensoriali non sono
irrilevanti, la lettura è tattile oltre che visiva). Se poi a questo elemento
di base aggiungiamo la presenza dei link, la situazione cambia ulteriormente.
Solo all’apparenza infatti i link possono essere apparentati alle vecchie note
a piè di pagina, perché di fatto non si limitano a indicarci collegamenti
possibili, ma ci spingono verso di essi, distogliendo la nostra attenzione dal
testo con la promessa di un ampliamento della comprensione che di fatto non si
verifica.
I ricercatori che hanno messo a confronto
lettura su carta e lettura online, e anche, nella lettura online, testi con
molti link e altri meno affollati, hanno rilevato infatti che la comprensione è
maggiore su carta e nella lettura online diminuisce in relazione con l’aumento
dei link, perché essi determinano una sorta di sovraccarico cognitivo lasciando
meno risorse allo sforzo di capire che cosa si sta leggendo.
In effetti, ogni
volta che accendiamo un computer ci tuffiamo in una sorta di “ecosistema di tecnologie dell’interruzione“, come lo ha
argutamente definito un blogger e
scrittore di fantascienza, Cory Doctorow. Questo non avviene sempre nostro
malgrado: Carr sa bene, avendolo sperimentato personalmente, che Internet non
sta cambiando le nostre abitudini intellettuali contro la nostra volontà,
perché ci piace spostarci fra lettura, ascolto e visione senza doverci alzare,
accendere altri dispositivi, scovare nel mucchio di riviste o dischi quelli che
ci interessano; e ancora, trovare i dati che ci servono istantaneamente senza
dover smistare tutti i materiali inutili, restare in contatto con amici,
familiari, colleghi…
E’ innegabile che
sono proprio queste caratteristiche di interattività, ricercabilità, multimedialità, possibilità
di collegamenti ipertestuali –
assieme ad altre funzioni che si stanno rendendo via via possibili - ad aver reso Internet così desiderabile. Tutto questo però sta cambiando il modo in
cui pensiamo e agiamo, anche perché tutta la società dei media tradizionali è
stata costretta a riorganizzarsi in sintonia col Web per non essere spinta ai
margini del sistema culturale e produttivo.
Questo avviene tanto
nel mondo della carta stampata (articoli che vengono abbreviati, sommari
concisi, pagine piene di finestre pubblicitarie e di didascalie facili da
consultare, titoli sovradimensionati e frasi ad effetto…) quanto in quello della
televisione e del cinema (canali tematici che consentono agli spettatori di
guardare diversi programmi in contemporanea usando il telecomando come una
sorta di mouse, DVD che si sincronizzano con gli account di Facebook in modo
che gli utenti possano scambiarsi commenti in tempo reale).
La profezia di
McLuhan è quindi confermata. Il Web trasforma tutto ciò che tocca, e tende a
trasformare tutti i media in media sociali. Questo vale anche per l’oggetto
libro:
A dire il vero, osserva Carr, fra tutti i media
il libro è quello che si è dimostrato più resistente, affrontando con molta
lentezza il salto verso l’era digitale.
La situazione peraltro ha cominciato a
cambiare da quando sono apparsi i lettori digitali di nuova generazione, che
non solo permettono di svolgere tutte le funzioni tradizionali (scriverci su,
sottolineare ecc…) con in più la possibilità di allargare i caratteri a
piacere, ma hanno in aggiunta una straordinaria capacità di archiviazione, così
che con un solo lettore diventa possibile avere una biblioteca personale
potenzialmente illimitata.
A partire dal Kindle di Amazon, presentato
nel 2007, essi consentono inoltre di avere una connessione ad Internet
senza fili incorporati e sempre disponibile, facendo diventare il libro
qualcosa di simile ad un sito Web in cui le parole possono essere estrapolate,
estratte dalle pagine e incorporate nel contesto della Rete. Quando questo
accade, osserva Carr, il libro viene a perdere i suoi contorni: la sua
linearità viene frantumata, dissolvendosi in una sorta di oceano virtuale.
Ai cambiamenti nelle modalità di lettura
vengono poi a corrispondere quelli nella scrittura dei testi, per cui molti
autori ed editori hanno già cominciato
ad adeguarsi alle nuove aspettative: si scrivono libri sui telefoni cellulari,
si pubblicano romanzi elettronici con video incorporati nelle loro pagine
virtuali, si progettano pagine indipendenti mettendo in discussione il modello
della narrazione come principio organizzativo, si adeguano le parole alle
esigenze dei motori di ricerca…
Ma soprattutto, osserva Carr, sta
cominciando a prevalere quello che possiamo chiamare il principio della
“gruppità”, che risponde al desiderio di molte persone di servirsi della
lettura per trovare un senso di appartenenza, rendendo obsoleta la pratica
della lettura privata.
Ora, c’è chi non
appare particolarmente turbato da quello che Carr definisce il crepuscolo della
mente letteraria, lineare e gerarchica – a cui potrà seguire una vera e propria
eclisse; molti guardano anzi con favore a questo nuovo mondo pervasivo e
connesso, in cui i significati emergono da contesti perennemente in movimento
(i barbari di Baricco, sicuramente!). Ritengono anzi che la mente letteraria
sia stata alquanto sopravvalutata, dando così copertura intellettuale al
cambiamento in atto con l’evidenziare il suo carattere “liberatorio” (Carr fa
riferimento in particolare ad uno studioso dei media digitali, che nel rilevare
come ben pochi, oggi, leggano “Guerra e pace” di Tolstoi, ha sentenziato:
“E’
troppo lungo, e alla fin fine non così interessante!”).
Secondo Carr invece
sarebbe proprio il caso di riflettere su ciò che perdiamo se mettiamo da parte
la tradizione di concentrazione solitaria e focalizzata per diventare dei
“giocolieri”, e a questo scopo apre un interessante capitolo:
…………………………………..………………
INTERNET E
IL
CERVELLO DEL GIOCOLIERE
………………………………..…………….
Che cosa dice, la
scienza cognitiva, sugli effetti reali che Internet produce nelle nostre menti?
C’è concordanza, per
intanto, nel ritenere che esso rappresenti una potente tecnologia di
alterazione della mente, anche se alcuni ricercatori mettono in luce
principalmente le potenzialità positive, mentre altri, senza negarle,
evidenziano piuttosto i rischi e le possibili perdite. Sintetizziamo qui per
grandi punti il discorso di Carr, che adotta questa seconda strada.
Internet, dunque
* coinvolge tutti
i nostri sensi in modo simultaneo
(eccezion fatta,
almeno fino ad ora, per tatto e gusto)
* ci coinvolge
emotivamente
(in specie, se lo
usiamo in un contesto sociale)
* cattura la nostra attenzione con insistenza
(costringendoci ad
elaborare un flusso continuo di informazioni che sovraccaricano il cervello)
L’interattività
della rete ci offre strumenti molto potenti per trovare informazioni, per
esprimerci, per conversare con altri, dandoci dei continui rinforzi positivi. E
però, dice Carr “ci trasforma anche in cavie da laboratorio che continuamente
schiacciano leve per ricevere minuscole pillole di nutrimento sociale e
intellettuale”. Inoltre il multitasking impone ai nostri processi cognitivi una
continua commutazione. Se consideriamo che per cambiare i propri obiettivi e
bloccare le interferenze cognitive provenienti dal compito precedente il
cervello deve impiegare tempo ed energia, capiamo bene che la commutazione non
è senza costi, perché aumenta la
probabilità che alcune cose ci sfuggano (che poi noi si desideri essere interrotti, perché non vogliamo perdere
nulla di ciò che ci arriva, e che si accetti questo sparpagliamento in nome
dell’abbondanza delle informazioni, è certamente possibile, ciò non toglie che
il nostro cervello possa esserne sovraffaticato).
* è una macchina
potente di dispersione dell’attenzione
In effetti, secondo
Carr, questo è uno dei paradossi di Internet, che cattura la nostra attenzione solo per
disperderla. Non si tratta naturalmente di demonizzare la distrazione, che anzi
può avere una funzione positiva (se ci concentriamo troppo intensamente su di
un problema, il pensiero può anche restringersi e bloccarsi, mentre il distogliere momentaneamente da esso la nostra
attenzione ci dà il tempo di elaborarlo, di trovare soluzioni) Tuttavia il Web lo fa imponendoci i suoi tempi e i
suoi modi, non dandoci il tempo di ravvivare davvero il pensiero.
* cambia radicalmente l’approccio alla lettura e alla
ricerca
(potenziando il
cosiddetto “browsing meccanico”)
Chi legge in Rete
adotta generalmente modalità di lettura non lineari, muovendosi rapidamente fra
titoli, contenuti delle pagine, riassunti… Raggiunge così una gamma più ampia
di argomenti, ma a livello superficiale. Naturalmente, osserva Carr, non c’è
nulla di sbagliato di per sé nello scorrimento veloce; saper “scremare” un
testo è altrettanto importante del saperne fare una lettura approfondita. Il
problema, a suo giudizio, consiste nel fatto che questo scorrimento veloce sta
diventando la modalità privilegiata per
raccogliere informazioni e dare loro un
senso, a detrimento di altre modalità di lettura e di ricerca. E’ come se
stessimo sperimentando in senso metaforico, dice, un’inversione di tendenza
rispetto al percorso iniziale della civiltà:
“da
coltivatori di conoscenza personale ci stiamo evolvendo a cacciatori e raccoglitori
nella foresta elettronica”
Non c’è dubbio che
ci siano anche aspetti positivi, che sarebbe ingiusto sottovalutare. Quando ci
muoviamo in rete scorrendo testi o facendo ricerche, noi stimoliamo
un’alterazione delle cellule cerebrali e un rilascio di neurotrasmettitori che
gradualmente rafforzano nuovi tracciati neurali (attivando in particolare le
regioni associate alle decisioni e alla risoluzione di problemi). Navigare in Rete può davvero “allenare” il cervello,
anche in tarda età. Il problema sta nel
fatto che altre aree (in particolare quelle che presiedono al linguaggio, alla
memoria e all’elaborazione di stimoli visivi) restano sottostimolate, e sono
proprio quelle che la lettura approfondita dei testi promuove. In altri
termini, non è solo quello che facciamo in Rete a riconfigurare i nostri
cervelli, ma anche quello che rinunciamo a fare, dedicando tutto il nostro
tempo ad attività che ci paiono più gratificanti…
* rende più
difficile il consolidamento del ricordo
(sottoponendo ad un
carico eccessivo la memoria di lavoro)
Carr adotta qui la
posizione degli studiosi secondo i quali la profondità dell’intelligenza è
direttamente legata alla capacità di trasferire le informazioni dalla memoria a
breve termine, o memoria di lavoro, alla memoria a lungo termine, e di
inserirle in schemi concettuali. Ora, se consideriamo che la memoria di lavoro
– una sorta di imbuto – non può gestire troppe informazioni in contemporanea, e
che queste inoltre spariscono rapidamente se non vengono riattivate con la
ripetizione, risulta evidente come i media, regolando in modo diverso la
velocità e l’intensità del flusso informativo, possano esercitare una notevole
influenza.
Quando siamo in
Internet, spiega Carr, è come se ci trovassimo di fronte a molti rubinetti
informativi che vanno tutti a pieno regime, facendolo traboccare il piccolo
ditale che abbiamo a disposizione per riempire la vasca della nostra memoria a
lungo termine, mentre quando leggiamo un libro dobbiamo fare fronte solo ad uno sgocciolamento regolare, che possiamo
controllare attraverso il flusso della nostra lettura. Quando il carico
cognitivo eccede la capacità della mente di elaborare i dati, noi non siamo in
grado di attuare questo trasferimento, e di fatto non tratteniamo le
informazioni nella memoria.
* ci spinge ad
esternalizzare la memoria
(con conseguenze
pericolose per l’identità personale)
Da tutti questi
elementi possiamo già inferire, secondo Carr, come l’uso intensivo di Internet
abbia conseguenze neurologiche, riconfigurando i nostri cervelli. Quello che
peraltro egli mostra di temere maggiormente è l’affidamento della memoria a
banche dati esterne, perché questo comprometterebbe a suo giudizio la nostra
identità, che non può essere scissa dal ricordo. In effetti l’ultimo capitolo
del testo, intitolato “Memoria e ricordo”, è segnato da una appassionata
perorazione volta ad evitare che si faccia diventare Mnemosine una macchina.
Per questo Carr
inizia col mettere in discussione l’idea che avere a nostra disposizione una
memoria elettronica molto più capiente della nostra possa sgomberare uno spazio
prezioso nel nostro cervello, da dedicare ad attività più significative (che è
poi, come abbiamo visto, l’idea di Michel Serres).
Essa poggia infatti
su di una concezione della memoria
come una specie di disco fisso,
che archivia i bit di dati entro posizioni prestabilite e li serve poi come input
per i calcoli del cervello: una lunga serie di studi dimostrano invece che la
nostra memoria biologica è il prodotto di un processo naturale estremamente
complesso, governato da segnali biologici, chimici, elettrici e genetici
altamente variabili e dotati di una quantità quasi infinita di sfumature e in
perenne mutamento.
La nostra memoria, e
il nostro cervello, sono il frutto di una straordinaria ricchezza di
connessioni a cui secondo Carr non dobbiamo rinunciare, perché quelle del web
non sono e non saranno mai le nostre (è vero che il Web è una rete di
connessioni, ma i link sono soltanto degli indirizzi, delle etichette software,
non hanno nulla della ricchezza e della sensibilità delle nostre sinapsi…).Quando affidiamo parte della nostra memoria ad una macchina, conclude Carr, noi le affidiamo anche una parte molto importante del nostro intelletto e persino della nostra identità, non solo personale. La memoria personale infatti modella e conferma quella collettiva, pertanto esternalizzare la memoria rischia davvero da farci diventare, svuotati del nostro patrimonio culturale, “pancake people” (secondo l’incisiva metafora dell’artista Richard Foreman), e cioè “larghi, distesi e sottili”…
……...…………………….…………………..
Il
punto di vista di un ottimista “pragmatico”
............................................
statunitense, specializzato nelle applicazioni
culturali, sociali e politiche dei nuovi media.
Ha coniato, fin dal lontano 1987, il termine
“comunità virtuali”, vedendo
in esse uno
strumento di democrazia decentrata.
Fra le sue opere, “La realtà virtuale” ( 93)
e “Smart mobs. Tecnologie senza
fili, la
rivoluzione sociale prossima ventura”( 2003).
Il testo che presentiamo è
uscito nel 2012
negli Stati Uniti, ed è stato pubblicato in Italia
l’anno successivo da Raffaello Cortina Editore.
|
Presentazione
e riassunto del testo:
Questo libro nasce
da una domanda che uno studioso del calibro di Howard Rheingold, da sempre
appassionato utilizzatore della Rete, non può certo evitare di porsi: e cioè
come sia stato possibile che quegli stessi strumenti tecnologici nati con
l’ambizione di espandere la conoscenza e l’intelligenza umana siano oggi
accusati non solo di non aumentarla, ma addirittura di ridurla drasticamente,
diminuendo le nostre capacità di attenzione, di concentrazione e di memoria; e
ancora, come sia avvenuto che attraverso quella Rete da cui sicuramente si
sprigionano nuove e straordinarie possibilità comunicative, volte a promuovere
una maggiore partecipazione democratica, escano sovente “fiumane di disinformazione, pubblicità,
spamming, pornografia, rumore e banalità…”
Riconoscere gli
aspetti inquietanti che si riscontrano nell’utilizzo dei media digitali non
vuol dire peraltro rinunciare ad agire: tutti noi, dice Rheingold, discendiamo
da antenati che, mentre i loro contemporanei tendevano a rassegnarsi con
realismo ad una situazione disperante, non riuscivano a smettere di pensare: “Ci deve essere
un modo per venirne fuori”. Anche se non abbiamo garanzie sul
futuro, aggiunge, sappiamo che senza conoscenza e impegno non otterremo nulla.
…………………………………………………………….
L’ALFABETIZZAZIONE
TECNOLOGICA
COME
ELEMENTO EVOLUTIVO
PER
L’INDIVIDUO E PER LA SOCIETA’
……………………………………………………………
E’ proprio in
quest’ottica che l’autore, invece di restringere la sua esplorazione al lato
oscuro della Rete – cosa che è già stata fatta da altri, con cui si confronterà
nel corso del libro - ha preferito chiedersi come essa possa essere usata in
modo intelligente, consapevole e veramente “umano”.
Le capacità
necessarie per farlo non sono infatti automatiche, ma devono essere oggetto di
un progetto di costruzione, che Rheingold ritiene indispensabile non solo per
il miglioramento individuale che ne può derivare (se si impara a dirigere la
propria attenzione fra i vari media, a controllare la credibilità delle
informazioni, a collaborare on line, si possono allargare i propri orizzonti e
dirigere meglio il proprio progetto di vita), ma per far evolvere la nostra stessa civiltà: vivere
come cittadini consapevoli e attivi
nella cybercultura può infatti dare vita, a suo giudizio, a nuove e più
sane forme economiche, politiche e sociali.
Per ottenere questi
risultati occorrerà indubbiamente lo sforzo di molte persone, che siano tanto
competenti quanto motivate a costruire comunità virtuali in cui le informazioni
siano utili e affidabili, le discussioni civili e produttive, e la
collaborazione on line capace di generare quello che l’autore chiama ”il capitale sociale” (intendendo con
questo termine il prodotto dell’azione
di individui e di gruppi che possono operare al di fuori delle
istituzioni canoniche, servendosi della struttura non gerarchica della Rete). Oggi non è così, o perlomeno non
ancora, e l’uso dei media digitali vede una forte sperequazione non solo fra
coloro che sono capaci di usare le nuove tecnologie e quelli che non lo sono,
ma soprattutto fra quelli che nell’usarle si dirigono verso il bene comune e
quelli che le usano a proprio esclusivo vantaggio.
Dal suo punto di
vista, peraltro, le tecnologie non sono responsabili di questi esiti.
Rheingold non
condivide infatti l’idea che esse siano propense, per la loro stessa natura, a
generare mostri, come sostengono i catastrofisti della rete, ma d’altra parte
il suo entusiasmo per le loro possibilità evolutive è temperato dalla
consapevolezza delle difficoltà che il loro utilizzo consapevole e positivo
presenta, e che possiamo superare solo se siamo disposti ad apprendere quelli
che nel testo vengono chiamati “gli alfabeti” della Rete. Ad ognuno di
essi l’autore dedica un ampio capitolo, intrecciando riflessioni perspicaci di
carattere generale a consigli pratici che derivano dalla sua esperienza di
studioso e di insegnante, oltre che di attivo utilizzatore delle tecnologie
digitali.
Qui ci limitiamo a
indicarne gli elementi più rilevanti, non prestandosi il discorso ad un
riassunto più articolato.
………..……………………………….
I CINQUE
ALFABETI
DELLA RETE
……………………………………..
1) L’attenzione:
Nell’analisi degli
alfabeti della Rete Rheingold parte dall’attenzione, ritenendo che il controllo
di un mezzo in cui la stessa ricchezza di stimoli è potenzialmente distraente
dipenda strettamente dalla nostra capacità di dirigerla. In questo primo
capitolo l’autore si confronta particolarmente con Nicholas Carr, che sulla
natura dispersiva di Internet aveva scritto alcuni articoli di grande impatto
mediatico, facendoli poi confluire nel testo che abbiamo presentato in
precedenza (N.B. = renderemo conto più oltre di questo confronto, immaginando
con qualche libertà compositiva una sorta di botta e risposta fra i due
autori).
2) La capacità di filtrare ciò che è rilevante da ciò
che è accessorio o falso (le “bufale”):
Con l’aumentare
delle persone che hanno cominciato ad affidarsi al Web per cercare informazioni
importanti, la mancanza di una competenza diffusa sul consumo critico delle
risorse trovate in rete è diventata, a giudizio di Rheingold, un vero pericolo.
Proprio per questo nel secondo capitolo le esemplificazioni sono numerose, come
pure i consigli pratici su come effettuare quei procedimenti di
“triangolazione” indispensabili per verificare l’affidabilità delle fonti,
attivando come principio metodologico basilare un atteggiamento di sano
scetticismo (senza pensare cioè che le informazioni in rete siano sempre
ingannevoli, ma neanche il contrario…).
3) Il potere della partecipazione:
E’ soltanto partendo
dalle capacità analizzate in precedenza che si può promuovere una valida
cultura della partecipazione, a cui possono collaborare tutti coloro
che usano i media per esprimersi socialmente. L’autore insiste molto
sull’importanza che ogni cittadino impari a sviluppare le proprie competenze
sociali on line (magari cominciando da attività relativamente semplici –
mettere un tag o un like - fino a creare un blog o ad organizzare una comunità
virtuale), per evitare che una porzione relativamente piccola ma influente
“passi” la propria idea di cultura ad una maggioranza di fruitori passivi.
Rheingold trae dalla
propria esperienza possono davvero diventare preziosi. All’interno del capitolo
Rheingold apre un’ampia parentesi su Twitter, che pur essendo tutto sommato un
social “leggero”, passibile di essere usato in modo banale e autopromozionale,
consente di avere a disposizione un flusso continuo di titoli selezionati, con
link che rimandano ai vari articoli, diventando così un possibile sostituto
della prima pagina dei quotidiani. Giovano a questo risultato, secondo Rheingold,
alcune caratteristiche positive di immediatezza e di apertura (Twitter è
davvero una finestra aperta su ciò che
sta accadendo nel mondo nel preciso momento in cui lo utilizziamo), l’estrema
varietà delle informazioni (con effetti talora disturbanti, ma evitabili, di
rumore di fondo), a cui si aggiunge la reciprocità: il fatto cioè che le
persone chiedono le informazioni di cui hanno bisogno e si mettono a loro volta
a disposizione, entrando in contatto sia con coloro che condividono i loro
interessi che con persone nuove (con effetti in questo caso molto desiderabili
di ampliamento di orizzonti).
Naturalmente, come
per ogni social, per esprimere al meglio le sue potenzialità Twitter richiede
all’utente di mettere a punto e affinare la propria Rete, e qui i consigli
d’uso che
4) Il know-how digitale, con l’arte e la scienza
dell’intelligenza collettiva:
In questo capitolo
Rheingold amplia ulteriormente il discorso affrontando il tema della
collaborazione on line e della gestione delle comunità virtuali, che richiedono
un insieme di saperi teorici e di conoscenze pratiche assieme alla capacità di
comunicare e negoziare. Capacità fondamentali, secondo l’autore, perché è da
esse che possono nascere forme via via più evolute di intelligenza collettiva,
nell’accezione indicata da Pierre Lévy (“Intelligenza
collettiva. Per una antropologia del
cyberspazio”) e cioè come un insieme di competenze, comprensione e
conoscenza che può essere favorito dai nuovi dispositivi digitali. Essi
consentono infatti di condividere ciò che sappiamo e di aggregare i nostri
contributi in grandi depositi di conoscenza (vedi Wikipedia); tutti insieme,
dice infatti Lévy, siamo più intelligenti che da soli. In questo peraltro non c’è nulla di radicalmente
nuovo, osserva Rheingold: l’avvento del Web ha semplicemente accelerato il
corso e aumentato la portata di quel processo di sviluppo di strumenti sempre
nuovi che è iniziato con l’invenzione della scrittura da parte dei Sumeri…
Anche in questo
caso, naturalmente, è necessario creare una sinergia fra i contributi
individuali e quelli collettivi, e vengono date
come sempre alcune indicazioni pratiche a riguardo.
5) La forma del sociale:
Questo capitolo ha
un taglio più dichiaratamente sociologico, perché Rheingold presenta gli studi
su come si strutturano i legami in Rete e sul rapporto fra gruppi comunitari
tradizionali e gruppi virtuali. Secondo le ricerche di Barry Wellman, che ha
condotto una ricerca empirica e di ampio periodo sulla sociologia della vita
online, è possibile dare risposte rassicuranti alla paura, fortemente diffusa,
che le relazioni sociali tradizionali possano venir meno col passaggio dalle
comunità di vicinanza spaziale a quelle virtuali. Tutti gli studi concordano infatti
nell’asserire che le Reti non entrano in conflitto con le altre comunità, ma si
integrano con esse, pur trasformando il rapporto “da casa a casa a persona a persona”. La tecnologia mette anzi più
fortemente al centro l’individuo – per questo Wellman ha coniato il termine di
“individualismo interconnesso” ,
permettendogli di fare affidamento su di una
molteplicità di persone e risorse.
Naturalmente non è
da sottovalutare il rischio che questo nuovo potere dell’individuo venga
assorbito da interessi commerciali, nondimeno le reti consentono di stabilire
molti tipi di legami - forti o deboli a
seconda della quantità di tempo e di intensità emotiva che poniamo in essi
- che possono tornare utili (spesso anzi
sono proprio quelli deboli a permetterci di cercare nuove informazioni,
stimolando innovazione). L’importante, secondo Rheingold, è che siano il più
possibile diversificati, e che si creino “ponti” fra tutte le reti a piccolo
mondo.
Sempre in questo
capitolo, l’autore ci invita in modo particolare (facendo riferimento al lavoro
di uno dei più importanti studiosi delle reti, Manuel Castells) a riflettere
sul fatto che ormai le reti virtuali abbracciano tutto lo spazio pubblico,
determinando il modo in cui ci informiamo, apprendiamo, comunichiamo. Nel
farlo, esercitano un potere diverso da quello delle élites tradizionali, ma non
meno significativo: possono controllarle e in molti casi contrastarle (pensiamo
alla primavere arabe), ma non possiamo aspettarci che tutti i cambiamenti
operati dalle reti siano promotori di democrazia o ispirati al bene comune.
Nondimeno, è fondamentale per tutti noi sapere che cosa sta succedendo e quali
sono le forze spesso invisibili che stanno guidando molti dei fenomeni
economici e sociali a cui stiamo assistendo.
In questo capitolo
Rheingold apre un’ampia parentesi su Facebook, assumendo una posizione molto
netta. A suo giudizio, sapere bene come funziona questo social network che ha
ormai colonizzato mezzo mondo non è più un optional, perché esso mette in gioco
questioni cruciali che riguardano l’identità, la privacy, la reputazione, la
socialità. Se lo si usa bene, funziona come una sorta di lubrificante
sociologico, amplificando la possibilità di mettersi in contatto, di creare
ponti, di coltivare e raccogliere capitale sociale. Nondimeno, il suo uso è
disseminato di trappole per evitare le quali, dice Rheingold, non esiste un
prontuario facile e pronto all’uso, anche se da parte sua cercherà di dare
tutte le indicazioni possibili per evitarle, perché Facebook cambia
continuamente le linee di condotta sulla privacy e le modalità che usa per
consentire o forzare i suoi membri a interagire.
Spesso coloro che usano questo social con superficialità tendono ad ignorare il
problema della persistenza (quello che diciamo ci resta appiccicato
addosso), della rintracciabilità (è molto facile essere trovati, anche
quando non lo desideriamo) e della replicabilità
(non abbiamo il controllo di ciò che un “amico” potrebbe mostrare a un “non
amico”): un problema serio, quest’ultimo, dice Rheingold, specie per quanto
riguarda i fenomeni di bullismo.
In Facebook inoltre i confini fra pubblico e privato sono
estremamente labili, con implicazioni sociali e culturali assai rilevanti.
IN CONCLUSIONE
Benché il testo sia
notevolmente “denso” (questo riassunto si limita davvero ad indicarne alcuni
elementi), secondo Rheingold nessuna delle conoscenze che ha cercato di
trasmettere è a suo parere particolarmente difficile da mettere in pratica,
anche se può essere abbastanza complicato farlo da soli, perché occorre
combinare insieme conoscenze alquanto disparate per poter crescere nella
cultura digitale senza perdere la propria umanità, anzi arricchendola. Per questo ha cercato di offrire il
contributo dei suoi studi personali, del confronto con altri ricercatori, della
sua ormai lunga esperienza di utilizzatore della rete.
Si rende peraltro
ben conto che non sarà comunque sufficiente lavorare su questi alfabeti, perché
per diventare cittadini davvero consapevoli e attivi nel consesso democratico
occorre essere forniti di intelligenza sociale ed emotiva, oltre che di solide
competenze scientifiche (tanto più necessarie oggi, osserva, quando assistiamo
al tentativo di oscurare gli ideali illuministici basati sulla ragione e sul
metodo scientifico); non ignora, inoltre, il fatto che spesso il livello di
istruzione familiare risulta ancora determinante, per quanto le istituzioni culturali
e scolastiche possano sforzarsi di tenere il passo con le nuove esigenze.
Nonostante la
consapevolezza dei problemi, Rheingold è convinto che sia possibile promuovere
una sfera pubblica interconnessa e positiva; spera anzi che le conoscenze e il
know –how digitale si diffondano on line “con
la velocità e la pervasività di un video virale”. Sa bene di attirarsi le accuse di eccesso di
ottimismo, ma le respinge facendo mostra di considerarsi piuttosto un realista
pragmatico, che ha scelto di vedere “il
bicchiere mezzo pieno”.
Conclude pertanto il
testo invitando ciascuno dei suoi lettori a entrare senza paura nella Rete, che
rappresenta l’estensione dei gruppi sociali tradizionali senza porsi in
alternativa con essi, e che soprattutto, se usata in modo consapevole, può
davvero contribuire ad estendere le nostre potenzialità intellettuali e sociali.
RHEINGOLD versus CARR
Le tecnologie digitali La
responsabilità della superficialità
favoriscono la superifialità è personale
(dice Carr) ( risponde Rheingold)
Come si può
facilmente evincere da questa pur breve presentazione, la posizione di
Rheingold è molto diversa da quella di Carr. Non sarebbe giusto peraltro
definirla totalmente antitetica, perché Rheingold in realtà fa sue molte delle
preoccupazioni manifestate dai critici della Rete: anche per lui è un dovere
essenziale chiedersi che cosa stia succedendo alle nostre menti, al nostro
linguaggio, alle nostre relazioni sociali.
Su alcune questioni
peraltro la posizione di Carr gli sembra viziata da un determinismo psicologico
che da parte sua rigetta nettamente.
Poniamo, ad esempio,
il tema della distrazione, che secondo Carr è indotta dalle tecnologie digitali
attraverso la multimedialità e il design dell’interfaccia grafica (le finestre
che continuamente si aprono e che rappresentano, secondo lui, frammenti
incompleti e fuorvianti rispetto alla concentrazione).
Per Rheingold invece
i link da cui Carr appare ossessionato sono come nuclei di conoscenza che
possono aprire connessioni importanti senza necessariamente distrarci dal
nostro compito, perché noi siamo sempre in grado di scegliere, a livello
individuale e sociale, come vogliamo istruirci.
Può essere certo
vero che le usuali modalità di ricerca in Rete non offrano molti incentivi
verso l’approfondimento e che possano dare risultati superficiali, tuttavia “il pensare in
modo superficiale e pigro”, dice Rheingold, non dipende dal mezzo, ma da noi: se
le nostre domande e le nostre motivazioni sono superficiali, attiveranno
risposte superficiali. La chiave di tutto, per lui, è il fattore umano…
Del resto, osserva
ancora Rheingold utilizzando abilmente il discorso di Carr sull’estrema
plasticità del cervello, ma rovesciandone il segno, se i nostri cervelli sono
così flessibili e facilmente condizionabili dall’uso della tecnologia, potremo
senza troppa difficoltà cambiare le nostre abitudini di pensiero sviluppando a
livello sociale e istituzionale una pedagogia dell’attenzione (che è poi quello
che l’autore fa nei suoi corsi). Per salvare il tesoro di quella che Carr
definisce “la mente letteraria” non è necessario rinunciare ai media, come a
quanto pare ha fatto questo studioso per scrivere il suo libro (qui Rheingold,
che è in generale assai rispettoso delle posizioni diverse dalla sua, si
permette una battutina ironica, osservando che invece di trasferirsi sulle
montagne del Colorado per sfuggire alla connessione, lo scrittore avrebbe anche
potuto limitarsi a coltivare una disciplina interiore…): basterebbe “mettere un po’ di sabbia nei
meccanismi dell’attenzione”, evitando di procedere in automatico.
Assumere punti di
vista estremi, come ha fatto Carr, funziona bene come espediente letterario, ma
implica per Rheingold la rinuncia alla domanda fondamentale: “Possiamo
rinunciare a trasformare i nuovi modi di pensare in una qualità positiva di
Internet, come abbiamo fatto con la cultura alfabetica – contro cui Platone
aveva messo in guardia – grazie a regole e istruzione?”*
…………………………………………..
Il
multitasking
E’ vero, ma si possono imparare
sovraccarica il cervello
strategie correttive
(dice Carr) (risponde Rheingold)
Sul tema del multitasking, altro oggetto del contendere fra i due studiosi, Rheingold si confronta con la ricercatrice Linda Stone, che ha cominciato ad occuparsi dell’influenza dell’uso dei social media sul corpo identificando la cosiddetta “apnea da email” (il fatto che molte persone, compresa lei stessa, tendano a trattenere il respiro quando scrivono o leggono mail): una constatazione che l’ha spinta a considerare il respiro come un importante regolatore dell’attenzione, che può aiutarci a frenare le nostre reazioni irriflesse.
Sul tema del
multitasking la Stone ha osservato che nelle persone impegnate
contemporaneamente nella comunicazione e nella ricerca di informazioni si
manifesta una sensazione artificiosa di
crisi, che può ostacolare sia la riflessione che le relazioni sociali, con
risultati negativi sulla salute (in quella che
lei definisce ”attenzione parziale
continua” c’è infatti un’alternanza disturbante fra simultaneità e
sovrapposizione delle connessioni, a seconda delle diverse circostanze sociali
in cui siamo immersi).
Su questo punto
peraltro Stone e Rheingold concordano: per entrambi non si tratta di fare
crociate contro il multitasking, ma di imparare a gestire l’attenzione – anche,
ma non solo, regolando il respiro – per rendere la mente più flessibile e
capace di adottare strategie diversificate (far diventare l’attenzione una vera
e propria disciplina scolastica? Forse sarebbe utile, dice Rheingold, insegnare
ai futuri cittadini digitali questa capacità già nei primi anni di scuola…)
…………………………………….
l’uso di SMS e di email impoverisce il linguaggio, Rheingord concorda, ma in gioco c’è sempre l’elemento umano, e le relazioni, che può correggere i suoi errori (dicono Baron e altri…)
Su questo tema
Rheingold si confronta non tanto con Carr (benché questi abbia espresso nel suo
testo la preoccupazione per l’influenza che i media esercitano sulla scrittura,
favorendo l’uscita di testi pensati per adeguarsi alle esigenze di lettori ben poco
propensi ad alimentare una “mente
letteraria”), ma più in particolare con Naomi Baron, una studiosa che ha
analizzato le conseguenze dell’uso di quelli che definisce “l’email e i suoi discendenti”.
Rimpiazzando gli
scambi orali con parole scritte, le mail e ancor più gli SMS hanno favorito
l’uso delle abbreviazioni, e in generale una scrittura in cui l’aumento della
quantità è andata a scapito della qualità. Le mail ci consentono inoltre di
modulare a nostro piacere “la manopola
del volume” (cioè di decidere con chi, quando, per quanto tempo vogliamo
interagire), con effetti che l’autrice, e ancor più un’altra studiosa del
fenomeno, Sherry Turkle, considera distorcenti sul piano della relazione
sociale. Molte persone infatti tendono
sempre più a mandare mail o SMS per controllare le loro relazioni, dimenticando
che queste comunicazioni sono inadatte, a giudizio delle due studiose, a
sperimentare una reale affinità fra le persone.
Anche secondo
Rheingold, che ne ha fatto personalmente esperienza, è molto pericoloso
limitarsi a fare parte di comunità in cui si può entrare o uscire con un clic,
ma ancora una volta ribadisce la sua convinzione che la scelta sia nostra e che
possiamo imparare ad equilibrare queste comunicazioni con le altre in cui ci si
incontra viso a viso. Per questo fa sue le osservazioni di un altro studioso,
Clay Shirty, che in risposta a Carr osserva come quella che siamo vivendo oggi
non sia che l’ultima di una serie di sfide che l’umanità ha dovuto via via
affrontare con l’ingresso di nuove tecnologie comunicative, che hanno richiesto
sempre tempi lunghi di adattamento. I contorni di questo passaggio, dice
Shirty, “non sono scritti nella pietra”:
tutto è ancora in evoluzione. Siamo ancora lontani dall’essere capaci di tenere
testa e di plasmare quella che considera comunque una rivoluzione feconda di
possibilità creative.
………………………………….
Internet
ci coinvolge un rischio reale emotivamente dandoci rinforzi positivi ma non è la macchina ad usare
noi che alimentano il bisogno siamo noi a decidere di essere
sempre “connessi” se vogliamo usarla o
essere usati… (Carr, Turkle e
altri…) Rheingold non demorde… )
Riconosciamo certo
nella prima affermazione una delle tesi di Carr, anche se Rheingold su questo
punto si confronta ancora con Sherry Turkle, che nel testo “Insieme ma soli” concentra la sua
attenzione sui rischi di alienazione e sulla perdita della capacità di stare da
soli. Un rischio, questo, che non corrono solo le nuove generazioni, ma anche
molti adulti il cui bisogno di controllare continuamente la posta o Twitter può
assumere caratteristiche patologiche.
In effetti, ammette
Rheingold, alcuni dei nostri comportamenti in Rete hanno spesso “una sgradevole somiglianza con una forma di compulsione”, simile del resto a
quella del cibo o del sesso, in cui può entrare in gioco anche una componente
ormonale (alcuni studi dimostrano infatti che il comportamento di controllo
potrebbe essere rinforzato dalla sensazione di contatto, mediato chimicamente
dall’ossitocina).
Nondimeno, pur
condividendo la preoccupazione di molti studiosi per gli effetti potenzialmente
destabilizzanti dei media,
Rheingold rifiuta l’idea che sia
la macchina stessa a controllare il modo in cui usiamo il meccanismo: la sua
posizione resta fino all’ultimo quella di un illuminista, persuaso che la
ragione umana abbia in sé tutte le possibilità di controllare l’oscurantismo, e
che le capacità decisionali siano strettamente legate al libero arbitrio del
soggetto.
E ancora, per
concludere:
CARR E
RHEINGOLD
VERSUS SOCRATE
E PLATONE…
In entrambi i testi
esaminati troviamo un riferimento al Fedro platonico, il dialogo in cui Socrate
discute dell’amore, della bellezza e dell’arte retorica, affrontando attraverso
un mito il tema della parola scritta che stava allora sostituendo lentamente la
cultura orale come pratica per esprimere il pensiero (se pure in una parte
ancora minoritaria della popolazione). Prima di vedere come i due autori si
confrontano con il testo platonico, ricordiamo la posizione di Socrate a questo
riguardo, che è molto netta:
Secondo il racconto che Socrate fa a Fedro, il dio
Theuth, inventore del calcolo, della geometria, dell’astronomia e
dell’alfabeto, venne un tempo presso il re dell’Egitto Thamus per illustrargli
i benefici delle varie arti, sostenendo la convenienza nel farne dono al
popolo.
Quando si trattò della scrittura, Theuth sostenne che
questa scienza avrebbe reso gli egiziani più sapienti, arricchendo la loro
memoria. Di diverso avviso fu peraltro il re, secondo il quale l’alfabeto “ingenererà
oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria
perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più
dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei “. E ancora, aggiunse, la sapienza che il dio
offre ai suoi scolari è soltanto apparente “perché
essi, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno
d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro
sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti”.
Proseguendo il discorso con Fedro, Socrate mostra di
condividere la posizione di Thamus: spiega infatti all’amico che le parole
scritte possono apparire permanenti solo agli ingenui. Al massimo esse “possono rinfrescare la memoria a chi sa le cose di cui tratta lo
scritto ” senza contare che “una
volta messo in iscritto, ogni discorso arriva alle mani di tutti, tanto di chi
l’intende tanto di chi non ci ha nulla a che fare; né sa a chi gli convenga
parlare e a chi no. Prevaricato ed offeso oltre ragione esso ha sempre bisogno
che il padre gli venga in aiuto, perché da solo non può difendersi né
aiutarsi”.
Socrate sostiene
dunque che la dipendenza dall’alfabeto non solo non aumenterà la sapienza e la
memoria, ma finirà col deteriorarle entrambe ingenerando superficialità e
supponenza: solo il passaggio diretto fra maestro e allievo può infatti a suo giudizio portare ad una vera maturazione intellettuale
e morale.
Carr
versus Socrate:
Veniamo ora a Carr.
Sicuramente abbiamo potuto notare, analizzando il suo testo, un’eco del
discorso di Socrate nelle appassionate perorazioni di questo autore sui
pericoli dell’esternalizzazione della memoria resa possibile dalle nuove
tecnologie digitali, come nell’impianto complessivo del discorso, tutto teso a
sottolineare i rischi della transizione dall’era del libro all’era di Internet.
Tuttavia, per
comprendere in che termini esattamente avvenga il confronto, occorre tornare al
capitolo del testo in cui Carr, passando in rassegna le tecnologie
intellettuali che hanno influenzato il modo in cui pensiamo e ci rapportiamo al
mondo, evidenzia il ruolo fondamentale dell’invenzione dell’alfabeto fonetico
greco, che ha costituito a suo giudizio una delle più radicali e proficue
rivoluzioni della nostra storia intellettuale col passaggio dalla cultura orale
a quella scritta.
Una transizione non
priva di criticità su cui Platone si è interrogato, condividendo da un lato le
preoccupazioni del suo maestro, anche se dall’altro – come fa notare Carr esaminando passi diversi e in
parte contradditori contenuti nella Repubblica – non poteva non riconoscere le
potenzialità della scrittura, che del resto sono evidenti nel suo stesso
sistema filosofico la cui struttura analitica, secondo alcuni autori da lui citati (Hawelock, Ong e altri classicisti) discende
direttamente dall’influenza della scrittura sui processi mentali.
In effetti, anche se
la cultura orale dei nostri antenati possedeva probabilmente delle profondità
emotive e intuitive che non siamo più in grado di apprezzare, Carr ritiene che
essa fosse dal punto di vista intellettuale più superficiale della nostra. A
suo giudizio infatti la scrittura, affrancando il sapere dai vincoli della
memoria individuale e liberando il linguaggio dalle strutture ritmiche e
convenzionali necessarie per la memorizzazione e la recitazione, ha aperto
nuove frontiere, con conseguenze profonde
e positive sul nostro linguaggio e sulla nostra mente (soprattutto da
quando l’invenzione della stampa ha potuto unire la registrazione delle
informazioni con la loro accessibilità di massa): cosa che non possiamo
aspettarci invece dalle nuove tecnologie
digitali, che andranno secondo Carr ad azzerare tutto questo, facendoci
retrocedere.
Ci sono nondimeno
alcuni elementi di contraddizione, nel suo trasferire pari pari nei confronti
di Internet gli argomenti di Socrate contro la scrittura, ritenendo d’altro
lato che essa abbia portato un enorme surplus di valore nella storia
intellettuale umana: molti dei suoi critici ritengono infatti che la
rivoluzione digitale, aggiungendo l’elaborazione automatica delle informazioni
alla loro registrazione, si situi in un certo senso nella stessa direzione
delle precedenti, anche se l’estrema velocità in cui si sta realizzando
rappresenta un problema su cui davvero conviene interrogarsi. In effetti è
quanto fa un’autrice citata da Rheingold, a cui diamo ora spazio.
Rheingold versus Socrate:
Rheingold non si
confronta direttamente con il dettato platonico, al di là del breve riferimento
che abbiamo evidenziato. Lo fa peraltro indirettamente, chiamando in causa una
studiosa verso cui nutre grande stima, Maryanne Wolf, direttrice del Center for
Reading and Language Research alla Tufts University.
Nel testo intitolato
“Proust e il calamaro” la Wolf spiega che l’apprendimento della lettura è
stato possibile solo grazie alla neuroplasticità del cervello, che sfruttando
strutture neuronali preesistenti (non siamo “nati per leggere”) ha impostato
nuovi collegamenti, permettendo un avanzamento del processo di
alfabetizzazione. La neuroplasticità funziona dunque a nostro favore, ma
bisogna ricordare che il processo necessario alla costruzione dei meccanismi necessari
alla lettura – come del resto quello richiesto dal pensiero stesso - ha avuto
bisogno di tempi molto lunghi:
“
le capacità intellettuali – scrive
infatti Wolf – “sono fiorite a causa del misterioso dono del tempo per
pensare che sta nel cuore dell’architettura
del cervello che legge”.
Per questo è più che
necessario comprendere le dinamiche che stanno alla base dell’incontro fra il
nostro cervello e il Web, perché ora ci troviamo di fronte ad una tecnologia che ha impresso una forte
accelerazione al processo, e pertanto secondo questa studiosa l’invito alla
cautela di Socrate va tenuto ben
presente. In fondo, dice la Wolf, quello che Socrate temeva non era tanto la
lettura, ma la comprensione superficiale, e questo è anche il suo timore:
esiste infatti, a suo giudizio, un ben concreto
pericolo, e cioè “che i nostri
figli rischino di diventare proprio ciò da cui Socrate ci aveva messi in
guardia – una società di decodificatori di informazioni, la cui falsa
impressione di conoscenza li distrae dall’impegnarsi a valorizzare fino in fondo il loro potenziale
intellettuale”.
Perché questo non
avvenga, e qui le opinioni di Rheingold
e Wolf coincidono, occorre istruirli
bene, nella consapevolezza della sfida che le nuove tecnologie intellettuali
pongono: il che significa, secondo Wolf
(il cui interesse per la didattica nasce anche dall’essersi confrontata
direttamente col problema di aiutare il proprio figlio dislessico
nell’apprendimento della lettura, e nell’aver studiato scientificamente la
dislessia), insegnare ai bambini ad essere sia bitestuali che multitestuali,
cioè capaci di analizzare i testi in modo flessibile cogliendone tutti gli
aspetti inferenziali, ovviamente con modalità diverse ad ogni stadio di
sviluppo.
Una proposta, la
sua, che Rheingold accoglie con grande favore, giudicandola del tutto in linea
con la sua pedagogia dell’attenzione e della consapevolezza.
……………………………………………………….
ALTRE
PROPOSTE DI LETTURA:

Frank Rose, giornalista e scrittore,
si
definisce “un antropologo digitale”
occupandosi di new media e del loro
impatto sulla società e studiando in
particolare
i fenomeni più importanti
della cultura pop contemporanea.
Collabora
con riviste di tendenza
come
“Wired”, “Magazine”, “Fortune”
e
“Rolling Stone”.
Il
libro che presentiamo è stato
pubblicato nel 2013.
|
PRESENTAZIONE:
Fra i testi
consigliati dai due relatori, quello che ora presentiamo è sicuramente uno dei
più interessanti e come tale meriterebbe un’analisi approfondita. Qui peraltro
ci limiteremo a qualche breve accenno volto a chiarire il particolare approccio
scelto dall’autore e il contributo che la lettura del libro può dare a questa
nostra “indagine sulla mutazione”.
E’ infatti in un
mondo dove molte cose si stanno muovendo – quello dello storytelling nell’era di Internet - che Frank Rose ci
conduce come una sorta di antropologo digitale, muovendo dall’assunto che gli
esseri umani, nel loro bisogno di dare
senso al mondo e di condividerlo con gli altri, sono a qualunque latitudine e
longitudine e in qualunque tempo dei
”cacciatori di storie”. In effetti essi non smettono mai di crearle, di
raccontarle, di immergersi in esse, via via conservandole o trasformandole, pur
adottando modalità diverse a seconda dei vincoli o delle opportunità offerte
dalle tecnologie intellettuali che ogni cultura in un dato momento storico
offre, e che rappresentano l’unica variabile reale.
E’ appunto sulla
variabile introdotta dalle nuove tecnologie digitali che l’autore si interroga,
introducendoci via via, da una posizione privilegiata – cioè da dietro le
quinte - tanto nel mondo di coloro che
influenzano e governano oggi il nostro immaginario (i creatori di serie
TV come Mad Man o Lost, i registi che hanno dato vita agli universi fantastici
di Avatar e alle saghe epiche di Guerre Stellari, gli ideatori di videogames …)
quanto nel mondo parallelo della generazione social, che sfruttando le
possibilità di interazione e di immersione offerte dai nuovi media
vuole assumere un ruolo sempre più attivo nella costruzione delle storie stesse
(non poi troppo diversamente, osserva Rose, di quanto facevano i lettori dei
romanzi a puntate di Dickens, di cui lo scrittore doveva pure tenere conto,
modificando spesso gli sviluppi della trama in base alle loro reazioni…).
Questo accenno alla
continuità non implica però il fatto che non si stiano già manifestando dei
cambiamenti sostanziali, la cui portata spesso non è stata nettamente percepita
nella fase iniziale neanche dagli stessi ideatori, quando non occultata ad arte
secondo l’accorta strategia messa in atto in tempi assai diversi da Daniel De
Foe (“Questa è una storia vera”, diceva infatti del suo Robinson, per far prendere
sul serio quello che di fatto era un romanzo a lettori che sarebbero stati
altrimenti diffidenti verso nuove
modalità narrative). Così, pure essi potevano dire “Questa è solo una storia, oppure questo è solo un gioco” mentre la
canonicità della narrazione lineare stava già cominciando a sgretolarsi, dal
momento che le storie e i giochi non si muovevano più in uno spazio dai precisi
confini, separabile e perimetrabile.
D’altro lato, e
connesso a questo, la possibilità di interazione degli spettatori/ agenti sta
creando una crisi di autorialità. Nel
mondo modellato sullo schema che Rose definisce “command
and control”, a raccontare una storia e a detenerne
la legittima proprietà intellettuale è l’autore: le cose cambiano però se il pubblico è libero di entrare a suo
piacere nel mondo fittizio delle storie, appropriandosi di pezzi della trama e variamente
ricomponendoli. Non è fantascienza, è già realtà: Rose racconta infatti che nel
2008, all’inizio della terza stagione di Mad Man (una serie Tv che mette in scena il mondo dei pubblicitari
newyorkesi negli anni 60 e 70) alcune persone cominciarono a twittare
firmandosi con i nomi dei vari personaggi e imbastendo trame complementari o
parallele.
I loro account
furono poi sospesi, ma intanto questo esperimento aveva reso evidente che si
stava passando ad un modello diverso, quello del “sense and repond”. Oggi, dice
Rose, la comunicazione non va più nella direzione dell’uno ai molti, anche se
un autore può ancora parlare a milioni di persone: Internet ha cambiato la
rotta, rendendo gli spettacoli
televisivi e cinematografici dei catalizzatori dell’attenzione,
piuttosto che prodotti per “couch
potatoes”…
Nondimeno, è necessario
porre alcuni distinguo. Intanto, perché la transizione non è del tutto
compiuta, e le due modalità della cultura pop – quella che vede l’autore
distinto dallo spettatore, e quella in cui lo spettatore può entrare nella
storia e diventarne agente – sono ancora compresenti, senza contare che in
qualche caso, come dimostrano molti esempi forniti dall’autore, la natura
partecipativa dell’esperienza è più illusoria che reale. Ma soprattutto non è
ancora possibile individuarne con tutta sicurezza la direzione, perché Internet
di fatto è ancora “giovane”.
Scrive infatti Rose:
“il
futuro chiama, ma per ora ne abbiamo inventato solo la metà. Il profilo di una
nuova forma d’arte è già visibile, ma le sue regole sono labili e sfuggenti
come quelle del cinema un secolo fa”.
Un futuro che
l’autore trova sicuramente affascinante (facendoci partecipe, con la sua
scrittura brillante, di questa sua posizione aperta), senza sottovalutare gli
aspetti che possono generare inquietudine. Non sappiamo ancora, dice, fino a che
punto diventeranno immersivi i mondi che si stanno costruendo, e se è vero che
come lettori e spettatori siamo sempre stati disponibili a sospendere
temporaneamente la nostra incredulità (“temiamo la finzione, ma non vediamo l’ora di immergersi in
essa”), bisogna anche chiederci come ce la caveremo quando il
confine fra realtà e finzione diventerà ancora più labile: sarà bene, dice
scherzando, fare come il protagonista del film di Christopher Nolan “Interceptor” – Leonardo di Caprio - che
dovendosi infilare nei sogni degli altri
porta sempre con sé una piccola trottola, che smette di girare solo
quando ritorna nel mondo reale…
Allo stesso modo,
dobbiamo sapere bene quali sono i meccanismi motivazionali e biochimici che si
attivano quando siamo immersi in una storia, tenendoci incollati allo schermo,
perché solo conoscendo le nostre vulnerabilità e le concrete possibilità di
essere manipolati emotivamente potremo agire come individui liberi.
Simon O. Sinek, britannico,
è relatore motivazionale
In questa veste
ha elaborato
dei modelli di
comunicazione
basati sulla
biologia del
processo
decisionale umano.
Alcuni dei suoi
testi sono stati
tradotti e pubblicati di recente
dall’editore Franco
Angeli:
“Partire dal Perché”
e
“Ultimo viene
il leader”
|
PRESENTAZIONE:
Mentre il testo di
Rose ci conduce in alcuni dei luoghi della mutazione contemporanea, mettendo in
scena quei particolari “mutanti” del cyberspazio animati dalla brama di
immergersi in storie che accadono in un universo fittizio (apparentandosi, in
questo, con le indagini di Baricco e di Serres), il testo che adesso
presentiamo – pur nella lettura parziale che ne abbiamo fatto – può essere
visto invece come un completamento e una risposta ad alcuni problemi sollevati
da Rheingold.
Certo ricordiamo che
questo autore, opponendosi a Carr e all’idea di una incompatibilità fra
Internet e la mente profonda, esprime la sua convinzione che la superficialità
non stia nel mezzo, ma eventualmente nel nostro modo di rapportarsi con esso,
nel perché lo usiamo, da come poniamo le nostre domande. Ora il testo di Sinek
affronta proprio in modo specifico
questo aspetto (che Rheingold non approfondisce), partendo esso pure da una
domanda:
perché
alcune persone – e alcune aziende – sono più influenti ed efficaci di altre?
Attraverso un ampio
ventaglio di casi personali e aziendali, senza peraltro limitarsi ad esaminare
il tema in un mero contesto di marketing e di business (muovendosi piuttosto
come una sorta di etologo o di antropologo culturale, quale in effetti è), Sinek
spiega che ogni scelta che compiamo dipende dal tipo di domanda che poniamo a
monte, ed è ispirata da una motivazione profonda, quasi inconscia, difficile da
spiegare a parole. E questo sostanzialmente perché nel processo decisionale
entrano in gioco due sezioni ben distinte del cervello umano: la neo-corteccia
ed il sistema limbico.
La neo-corteccia è
la parte esterna, che circonda il nostro cervello ed è responsabile del
pensiero razionale e analitico: questa sezione ha anche proprietà di linguaggio
per cui, ogni qual volta ci troviamo a prendere una decisione basata puramente
sulla logica, siamo perfettamente in grado di spiegare il processo di scelta
svolto. Il sistema limbico si trova invece al centro del cervello ed è l’area
responsabile dei nostri sentimenti e delle decisioni istintive: volendo
semplificare la questione, è l’area più irrazionale e, al contrario della
neo-corteccia, non è dotata di proprietà di linguaggio.
In questa ottica,
comprendiamo che la neo-corteccia, la parte più esterna, è quella che ci
permette di “fare cose”, ma è il sistema limbico, il centro, che offre
la reale motivazione delle nostre scelte. Nel mezzo tra “cosa” e “perchè” c’è il “come”, ossia
le modalità organizzative.
Partendo da queste
considerazioni, Sinek ha elaborato un modello di comunicazione ispirato non
tanto alla psicologia quanto alla biologia del processo decisionale umano, che
definisce “The Golden Circle”.
Esso consiste
semplicemente nell’iniziare ogni comunicazione partendo dal “perché”,
facendolo seguire dal “come” e dal “cosa” (l’esempio che porta è
il modello comunitivo impostato da Steve Jobs per Apple, radicalmente diverso
da quello seguito in precedenza dalle altre aziende del settore, e risultato
pertanto straordinariamente efficace).
Sinek ritiene che
questa modalità possa essere applicata a qualsiasi realtà, e sia in grado di
spiegare la differenza, in termini di efficacia, tra chi punta solo al “cosa”
e chi invece agisce mosso da un “perché” chiaro e preciso: essere
innovativi, secondo Sinek, non richiede infatti un talento particolare, ma
metodo e disciplina, come evidenziano i percorsi di coloro che più di altri
sono stati fortemente animati da un “perché” (Sinek fa l’esempio di
Steve Jobs, di Marter Luther King, dei fratelli Wright: personaggi diversissimi,
ma che avevano questo comune denominatore).
…………………………………………
N.B.
= In questo excursus sui testi proposti
dai due relatori manca quello di Zygmunt Bauman ((Vita liquida), che avrebbe
richiesto un’analisi più approfondita.
Nella scelta di riassumere i testi si è
cercato di privilegiare quanto più possibile la modalità argomentativa degli
autori, pur nella consapevolezza dell’impossibilità di renderne il particolare
stile e allo stesso modo di superare la parzialità interpretativa connessa
inevitabilmente ad ogni atto riassuntivo: per questo motivo, la
compilatrice si assume la responsabilità
di eventuali errori e fraintendimenti
per “CircolarMente”
Gallo Enrica – Enrietti Nives – Bosio Daria
Nessun commento:
Posta un commento