lunedì 13 novembre 2017

Indagini sulla mutazione - a cura di Gallo Enrica-Enrietti Nives-Bosio Daria


INDAGINE SULLA MUTAZIONE
BARBARI,  POLLICINE E  ALTRI  MUTANTI... 





 Un percorso di riflessione sui cambiamenti innestati dalla rivoluzione digitale, a partire da alcuni testi proposti da Vincenzo Cascone e Lorenzo Ongaro, insegnanti della Scuola Holden di Torino



PRIMA PARTE 
  

BARBARI, POLLICINE ED ALTRI  MUTANTI  - INDAGINE  SULLA  MUTAZIONE

All’interno del percorso di riflessione che CircolarMente presenta per l’anno in corso, volto ad esplorare il complesso rapporto fra l’emergenza (intesa in senso letterale come ciò che emerge, che si manifesta) e la memoria, entro la quale possono stare le premesse di questo accadere, abbiamo dato particolare rilievo al tema delle sfide che le nuove tecnologie pongono, con il loro continuo evolvere, alla nostra percezione della realtà, ai processi cognitivi, alle relazioni sociali. Per affrontarlo in modo adeguato, abbiamo concordato per il mese di novembre un primo incontro con due formatori della scuola Holden di Torino, che ci aiuteranno a comprendere i comportamenti, le aspettative e i valori di quella che possiamo chiamare “la Generazione Google”, e più in generale ad analizzare l’incidenza della trasformazione digitale sulle nostre vite. Data la complessità del tema, i relatori ci hanno fornito una prima se pur parziale bibliografia, di cui ci siamo avvalsi per preparare alcuni materiali di studio propedeutici all’incontro. Ci siamo permessi di intitolarli in modo scherzoso, prendendo spunto dalle originali intuizioni dei due autori - Alessandro Baricco e Michel Serres – a cui abbiamo assegnato una posizione centrale, riassumendone ampiamente i testi, per aprire poi a ventaglio la presentazione di quelli che abbiamo considerato complementari. Il lavoro così formulato si presenta pertanto suddiviso in due parti:  

-      PRIMA PARTE: I BARBARI

 “I Barbari. Saggio sulla mutazione”, di Alessandro Baricco –  Feltrinelli 2008

 “Il nuovo Barnum”, sempre di Baricco – Feltrinelli 2016

 “Per l’alto mare aperto. La modernità e il pensiero danzante”, di Eugenio Scalfari – Einaudi 2010 

In questa prima parte entrano in scena quei particolari “mutanti” forniti di branchie di cui Baricco ha seguito le mosse, interpretando il cambiamento non come un semplice passaggio generazionale, bensì come un vero proprio cambio di civiltà in cui tutti siamo in qualche modo coinvolti, con maggiori o minori resistenze. Al riassunto del suo testo seguono alcune notazioni sul confronto fra Baricco e Scalfari, e una breve presentazione di una miscellanea di articoli che compongono una sorta di paesaggio del mondo visto da Baricco con qualche attitudine “barbarica”, affiancata da una rivisitazione della modernità condotta da Scalfari attraverso i suoi esponenti filosofici e letterari più significativi

-  SECONDA PARTE LE POLLICINE E GLI ALTRI MUTANTI…

 “Non è un mondo per vecchi”, di Michel Serres – ed. Bollati Boringhieri 2013   (questo testo è stato aggiunto da noi in bibliografia)

 “Internet ci rende stupidi?”, di Nicholas Carr – ed. Raffaello Cortina 2011

 “Perché la rete ci rende intelligenti”, di Howard Rheingold – ed. Raffaele Cortina 2013 “Immersi nelle storie”, di Frank Rose – ed. Codice 2013

 In questa seconda parte entrano invece in scena quei “nativi digitali” così abili a muovere i pollici sui loro smartphone, a cui Serres ha dedicato un pamphlet di grande successo immaginando con molto ottimismo un futuro in cui l’apprendimento, grazie a queste “teste” poste fuori dal corpo, potrebbe diventare una gioiosa avventura all’interno di una società più partecipativa e connessa. A seguire, un serrato confronto fra due analisti della rivoluzione digitale che valutano in modo opposto i suoi effetti sul piano cognitivo e comportamentale e  in ultimo il testo  in cui un antropologo digitale ci presenta   altri mutanti non meno degni di interesse… 



Per CircolarMente Enrica Gallo  



            ENTRIAMO,
                CON ALESSANDRO  BARICCO,  
              NEL MONDO DEI “BARBARI”



“… quelli che chiamiamo barbari sono una specie nuova, che ha le branchie dietro le orecchie e ha deciso di vivere sott’acqua. Ovvio che da fuori noi, coi nostri polmoncini, ne caviamo l’impressione di una catastrofe imminente. Dove quelli respirano, noi moriamo.  E quando vediamo i nostri   figli guardare vogliosi l’acqua, temiamo per loro, e ciecamente ci   scagliamo contro ciò che solamente riusciamo a vedere, e cioè l’ombra di un’orda  barbarica in  arrivo. Intanto, i suddetti figli, sotto le nostre ali, già respirano da schifo, grattandosi dietro alle orecchie, come se ci fosse qualcosa, là, da liberare…”


Il saggio che presentiamo è stato scritto e pubblicato a puntate nel 2006 su“Repubblica”, raccolto poi in volume con qualche aggiunta  per “La Biblioteca  di Repubblica”col titolo “I barbari” ed edito successivamente da Fandango Libri e da Feltrinelli  nel 2008 col titolo attuale. Le illustrazioni sono di Gipi. (ricordiamo che su You Tube è disponibile un’ampia presentazione del saggio, fatta dallo stesso autore al Cinema Anteo di Milano nel 2008) 

Presentazione e riassunto del testo

Chi sono i Barbari che danno il titolo a questo intrigante saggio di Baricco? Se diamo un’occhiata alla curiosa immagine di copertina – una sorta di uomo-pesce in attesa di immergersi in mare, o forse dell’arrivo di un’onda anomala da cavalcare con la sua tavoletta da surf – possiamo subito escludere che siano coloro che da sponde lontane cercano di raggiungere il territorio che chiamiamo “occidente” attraverso un movimento migratorio ormai epocale, interpretato e temuto, da alcuni, come una vera e propria “invasione” foriera di distruzione e di contaminazioni insopportabili. Non si tratta di questo, evidentemente, anche se il termine usato suggerisce pur sempre qualcosa che può essere percepito come minaccia, oppure visto con interesse, a seconda della nostra maggiore o minore lontananza da quell’acqua, e da quelle branchie… In effetti il sottotitolo recita “Saggio sulla mutazione”, perché l’intenzione dell’autore è proprio quella di capire, procedendo per indizi, una serie di eventi che si stanno verificando nella pur ristretta porzione di mondo in cui  si trova ad abitare e che sommandosi gli uni agli altri vanno a disegnare, secondo la sua interpretazione, una vera e propria svolta epocale: non un semplice passaggio generazionale, dunque, anche se esso può esservi compreso, ma qualcosa di più ampio destinato a produrre un vero e proprio “cambiamento di mappa”, e non solo uno spostamento della posizione degli attori sociali nel controllo della mappa stessa. Lo fa, naturalmente, da par suo, con l’abilità che non si può non riconoscergli, alternando il registro saggistico a quello narrativo e utilizzando, arricchito da alcune brillanti metafore, un linguaggio colloquiale che riduce la complessità dell’argomentazione senza banalizzarla. Riesce così ad intrigare il lettore e a trascinarlo con sé nei luoghi in cui questo passaggio di civiltà acquista una plastica evidenza, rendendo a poco a poco visibile, con una strategia molto accorta (conosce bene i trucchi del mestiere!) la figura di questo nuovo tipo umano destinato ad incarnare un diverso modo di abitare il mondo. Seguiamolo dunque nel suo discorso, che procede per grandi tappe.    

 (N.B. = abbiamo riprodotto i titoli del vari capitoli, con una breve aggiunta riassuntiva)

“… quelli che chiamiamo barbari sono una specie nuova, che ha le branchie dietro le orecchie e ha deciso di  vivere sott’acqua. Ovvio che da  fuori noi, coi nostri polmoncini, ne caviamo l’impressione di una catastrofe imminente. Dove quelli respirano, noi  moriamo.  E  quando  vediamo i  nostri   figli guardare  vogliosi  l’acqua,  temiamo  per  loro, e  ciecamente  ci   scagliamo  contro ciò  che solamente riusciamo a vedere, e cioè l’ombra di  un’orda   barbarica  in  arrivo. Intanto, i suddetti figli, sotto le nostre ali, già respirano da schifo, grattandosi dietro alle orecchie, come se ci fosse qualcosa, là, da liberare…” 

SACCHEGGI
le tecniche di invasione – (dove la commercializzazione spinta si coniuga con l’ampliamento dell’accesso)   

In questa prima sezione Baricco ci fa entrare in alcuni dei villaggi dove i barbari hanno già lasciato tracce evidenti di saccheggio. Questo ci permetterà di osservare le loro tecniche di invasione, di vedere come combattono, che cosa lasciano sul campo dopo il loro passaggio: cosa essenziale, a suo giudizio, per arrivare a capire chi sono, perché sono così, e se c’è una logica dietro la loro furia devastatrice (qual è – se vogliamo tornare alla metafora iniziale – l’acqua che cercano). I villaggi che sceglie di mostrarci sono sicuramente periferici e circoscritti (il mondo del vino, del calcio, dell’editoria), ma si riveleranno molto utili per capire le mosse dei barbari prima di vederli in piena luce nel luogo dove la mutazione ha avuto inizio.  A titolo di esempio, vediamo che cosa è successo nel villaggio del vino – un villaggio di grandi e millenarie tradizioni -  a partire dall’anno (il 1966) e dal luogo (Oakville, in California) in cui un tal Mondavi si mise in testa di produrre vino in una zona dove nessuno aveva mai neanche lontanamente supposto di farlo, proponendolo ad un pubblico, quello americano, che praticamente non lo aveva mai bevuto. Occorreva dunque mettere a punto un vino bello da vedere e facile a bersi (un vino hollywoodiano “rotondo e senza spigoli”, come dice Baricco) per palati non avvezzi alle raffinatezze nostrane, e combinabile con abitudini alimentari del tutto peculiari. Una scommessa forte, sicuramente, che risultò vincente, comportando per questo tipo di vino un successo planetario con tutto quello che segue - commercializzazione spinta, ecc… -, per cui in tutto il mondo ora si producono vini  che per i nostri maestri vinai sono degni  tutt’al più di un’alzata di spalle (vini senz’anima, potremmo dire, che non hanno dietro di sé una storia, un sapere, una cultura del vino)  Un perfetto atto barbarico, dunque, che invece di liquidare con sdegnoso distacco dovremmo, secondo Baricco, analizzare nei suoi movimenti senza inchiodare quelli che per convenzione narrativa si è deciso di chiamare “barbari” all’idea di un’anima che si perde per effetto di una commercializzazione spinta e di un surplus di spettacolarità. L’atto barbarico è piuttosto da vedere a suo giudizio come un punto in cui passano delle correnti nuove di energia, a cui concorrono certamente delle innovazioni tecnologiche (nel caso del vino, il fatto di poter condizionare gli ambienti in cui avviene la fermentazione) e linguistiche, non meno significative delle precedenti (sempre nel caso del vino, l’ingresso in scena di persone che ne scrivono senza utilizzare un linguaggio esoterico per iniziati, arrivando perfino – orrore orrore - a dare voti al vino…) ma che comporta un fatto nuovo, e positivo: e cioè l’accesso di molte persone ad un gesto che prima era loro precluso. Certo, possiamo provare la tentazione di storcere il naso di fronte al primato della logica mercantile che osserviamo in questo come negli altri campi in cui Baricco ci conduce, passando dal mondo del calcio, in cui prevale la spettacolarizzazione spinta rispetto alla relativa sobrietà dello sport di un tempo, a quello dell’editoria: ben vediamo infatti come le librerie dove era possibile relazionarsi con cultori appassionati  del leggere cedano progressivamente  il campo ai megastore giganteschi dove si vendono libri insieme a CD, film e computer – senza parlare dei supermercati dove il libro è semplice merce fra altre merci - mentre siamo sommersi da pubblicità strabordanti che tirano la volata all’ultimo best-seller, destinato a prevalere rispetto a prodotti di qualità che si fanno strada a fatica… E però, secondo Baricco, non è tanto su questo che occorre puntare la nostra attenzione (anche perché secondo lui la frattura fra prodotti di qualità e prodotti commerciali è frutto in realtà di un’illusione ottica, dal momento che la realtà sociale di un tempo limitava il raggio d’azione degli oggetti più sofisticati alle fasce della popolazione che potevano accedervi, ma chiunque scrivesse desiderava, allora come ora, raggiungere il pubblico più vasto possibile). Dovremmo piuttosto cogliere un sommovimento diverso che ci porta molto più vicini a comprendere il principio fondamentale che anima i barbari, e cioè il fatto che sempre più spesso i libri partono da un punto esterno al mondo dei libri: sono libri da cui hanno tratto un film, libri scritti da personaggi celebri, libri abbinati al giornale o alle riviste, come se fosse necessario, per dar loro valore, che essi si offrano come tessere di un’esperienza più ampia, segmenti di una sequenza che viene generata altrove e che andranno a loro volta a generare altri segmenti,  facendo transitare il senso. Un’idea discutibile, se vogliamo – Baricco ne conviene - ma in cui sta indubbiamente un principio di energia, che attribuisce valore soprattutto al movimento e che ci consente pertanto di intravedere il mutante che stiamo cercando, l’animale in corsa, se pure ancora nascosto dalle fronde del bosco.  Per vederlo in piena luce occorrerà infatti entrare in quello che non è un altro villaggio periferico, bensì il luogo barbarico per eccellenza, quello da cui ha avuto inizio la mutazione: è qui che potremo davvero scoprire, secondo l’autore, il modo diverso in cui i barbari respirano.

RESPIRARE CON LE BRANCHIE DI GOOGLE
la conoscenza come surfing- (dove la densità del se nso viene cercata non nella profondità ma nell’estensione)

Baricco ci invita dunque a fissare la nostra attenzione su quel momento aurorale - siamo nel 1996 - in cui due giovani studenti dell’università di Stanford, Sergey Brin e Larry Page, inventarono quel motore di ricerca di Google che non solo ha reso miliardari loro, ma consente a tutti noi di accedere in pochi secondi a qualsiasi informazione. C’erano già naturalmente alcuni motori di ricerca, peraltro abbastanza rudimentali, in cui si procedeva dando valore alle ripetizioni: se si cercavano, ad esempio, informazioni sulle lasagne, quanto più una pagina conteneva questa parola tanto più saliva in prima posizione (si dava dunque per scontato che il sapere è ciò che si trova dove lo studio è più approfondito e articolato). I risultati erano comunque discutibili - un saggio sulle lasagne veniva prima di una semplice ma utile ricetta-  e per risolvere il problema si era pensato, con una mossa chiaramente pre-barbarica, di attivare dei revisori esperti nelle varie discipline che mettessero le pagine in ordine di rilevanza. Poi, arrivarono i due barbari, e le cose ebbero un profondo cambiamento di prospettiva. Brin e Page intuirono infatti l’importanza dei link (le parole sottolineate che comparivano nei vari siti, di cui allora nessuno sapeva ancora bene cosa fare) vedendo in essi il principio dinamico della rete, attraverso il quale si poteva derivare un nuovo sistema di valutazione stabilendo la rilevanza delle pagine dal numero dei link che puntano su di esse (in effetti, come spiega Baricco, i due studenti avevano in mente il modello delle riviste scientifiche, in cui il valore di una ricerca viene dedotto dal numero di citazioni che ne fanno altre ricerche, considerando dunque i link alla stregua di citazioni);  aggiunsero poi  a questa prima intuizione l’idea – complementare – che il valore dei saggi che contengono una citazione è a sua volta determinato dal numero dei link che ad essi puntano.  E’ su questo principio che si basa il motore di ricerca di Google, tradotto poi in un algoritmo da Page, la mente matematica dei due: un principio chiaramente barbarico, perché cambia il concetto stesso di qualità. In altri termini, ciò che otteniamo digitando le nostre richieste è il risultato di una traiettoria scavata dai link, di una serie di passaggi, di contatti, di incontri: non è necessariamente la cosa più vera, e neanche quella che è fatta meglio, ma è comunque, come dice Baricco con abile sintesi, “la cosa più vicina alla verità che sia possibile esprimere in una lingua comprensibile al maggior numero di persone” . Ci scandalizza, che un pezzo di verità vada perduto rispetto ad un surplus di comunicazione? Forse sì. Ma questa mutazione è già avvenuta, e oggi per una parte rilevante della popolazione il sapere che conta è questo, un sapere che è in grado di entrare in contatto con gli altri saperi producendo senso attraverso il movimento. E’ possibile dunque intravedere una logica dietro ai saccheggi barbarici, prosegue l’autore avviandosi a stringere le fila di questo capitolo centrale nel testo: c’è la convinzione, forse più istintiva che appoggiata a riflessioni teoriche ma nondimeno potente, che l’essenza delle cose non sia un punto ma una traiettoria, c’è l’idea che capire e sapere non siano il risultato di una strenua indagine nel profondo, verso una supposta fonte originaria (un’idea di cui  Baricco non disconosce certo la bellezza, pur ritenendo che essa stia morendo come quel tipo di civiltà che l’ha fatta sua eleggendola a mito fondativo) ma al contrario  qualcosa di affine al surfing, un navigare veloce sulla superficie delle cose guadagnando in estensione ciò che si perde in profondità. Un paesaggio nuovo, non c’è dubbio, dove troviamo la superficie al posto della profondità, i viaggi al posto delle immersioni, il gioco al posto della sofferenza: è del tutto normale dunque che esso ci sgomenti e ci induca a domandarci che cosa avverrà, e in particolare che ne sarà di quella che siamo abituati a chiamare “esperienza”, intendendola come una sorta di condensazione del reale in un nucleo trasformativo della persona. Certo sarà qualcosa di molto diverso da come la pensiamo noi che non siamo nati barbari, e guardiamo sconcertati i nostri figli smanettare sui loro smartphone mentre mangiano, ascoltano musica, fanno i compiti, giocano col gatto, senza fermarsi profondamente su una sola di queste cose, anche se li invitiamo a farlo. E però, secondo Baricco, dobbiamo arrenderci all’evidenza, accettando il fatto che per questi barbari-mutanti l’esperienza sta proprio lì, nel trascorrere con un unico gesto sistemi passanti che generano movimento in questo passaggio, secondo il modello formale che abbiamo visto all’opera su Google (traiettorie di link che corrono in superficie). E’ solo così infatti che respirano, con le branchie di Google… 

PERDERE L’ANIMA
dalla dimensione verticale a quella orizzontale - (dove si cerca in altro modo l’intensità del mondo)

 Ora che abbiamo finalmente visto l’animale mutante allo scoperto, e compreso la logica che presiede a saccheggi altrimenti imputabili a mera violenza o a ragioni puramente mercantili, possiamo riuscire a vedere, secondo Barico, come la distruzione operata dai barbari dell’architettura che presiedeva a quanto, nella nostra civiltà, potevamo chiamare “villaggio”, sia in realtà funzionale alla costruzione di un habitat completamente diverso: l’unico, a quanto pare, in cui essi possono respirare liberamente. Pur tuttavia, non possiamo esimerci dal chiederci se questa mutazione comporti qualcosa che alcuni giudicano come una “perdita di anima”, e ancora, se questa parola ha davvero senso, per i barbari. Prima di rispondere direttamente, Baricco invita il lettore a domandarsi se quello che in generale intendiamo per anima, prescindendo dal significato religioso del termine (e cioè l’idea che ci sia nell’uomo una tensione verso l’infinito, la presenza in lui di una dimensione spirituale che lo eleva rispetto alla natura animale) sia per così dire astorica e atemporale o non sia invece il portato di una particolare concezione del mondo

 (N.B.=  intendiamo bene che è qui, più che nella descrizione di una mutazione che è ormai largamente sotto i nostri occhi, la parte del libro destinata maggiormente a far discutere).

Secondo Baricco infatti questa concezione di “anima”, che pure risale all’umanesimo, diventa dominante soltanto nell’ottocento, tanto da poterla definire come il portato storico di una borghesia ormai pronta a conquistare il proprio spazio e consapevole di doverlo trovare in se stessa, non potendo derivarla dal sangue né dal decreto divino, come l’aristocrazia che per lunghissimo tempo aveva stabilito su questo la sua supremazia; una borghesia che troverà poi in tutto quel complesso di idee, di scritti, di mode, che chiamiamo “romanticismo”, la sua aristocrazia del sentire. E’ indubbio, dice Baricco, che se per anima intendiamo quanto accennato in precedenza – e lui non dubita che sia così, perché di questa concezione siamo in parte eredi e figli - vedremo nei gesti barbarici una insopportabile perdita di anima  e faremo fatica ad immaginare che l’uomo possa essere considerato degno al di fuori di questo schema per cui il senso  è il premio della fatica e la raffinatezza – virtù suprema – è attingibile solo dopo un lungo percorso di concentrazione assoluta (la verticalità, potremo dire). Eppure quel tanto di barbarico che Baricco sente in sé lo spinge ad ipotizzare che il rifiuto dei barbari delle nostre liturgie borghesi non sia soltanto dovuto all’avversione alla fatica, ma alla consapevolezza che l’intensità del mondo sia raggiungibile anche in altro modo, non immergendosi nella contemplazione immobile dell’oggetto, bensì vagando orizzontalmente sulla pelle del mondo. E’ possibile, ancora, che a favorire questo nuovo sentire non sia solo la constatazione di una sproporzione sempre più accentuata fra l’immensità del deposito culturale e la fatica immane necessaria a districarsene prima che possa emanare bellezza e vita, ma anche il sospetto (che lui ipotizza presente nei barbari, magari a livello di sensazione epidermica più che di matura consapevolezza) che tutto quel parlare di elevazione spirituale, quella cultura “verticale”, quella raffinatezza estetica non solo non abbiano fornito alcun antidoto ad evitare le tragedie immani del novecento,  ma che in qualche misura – defluendo verso il basso, dall’individuo al popolo -  abbiano prodotto proprio alcuni di  quei miti perversi che ne furono all’origine.

RITRATTI
questioni in gioco- (dove si mettono in discussione certe gerarchie di valori)     
                   
Nella quarta parte del testo Baricco tocca diversi punti, provando ad applicare ad alcuni elementi già evidenziati come tipici del gusto barbarico questo modello del fare esperienza basata sulla logica dei sistemi passanti e sull’idea che l’intensità del mondo non vada cercata secondo una traiettoria verticale, scendendo nel profondo, ma piuttosto muovendosi velocemente secondo un tragitto orizzontale sulla superficie dell’esistente. Accade così che alcuni di essi possano essere visti, secondo questa diversa prospettiva, in una nuova luce: la spettacolarità, ad esempio, che in molti di noi provoca fastidio come qualcosa che altera la sostanza o ne copre la pochezza, come accade a certi ornamenti che consideriamo “kitch”, diventa qualcosa su cui il barbaro può arrampicarsi e rimbalzare traendone energia; allo stesso modo, nei roboanti bockbuster su cui magari noi storciamo il naso, i barbari vedono stazioni intermedie di viaggi che riassumono altri viaggi moltiplicando la possibilità di fare esperienza (se guardi Pulp Fiction, per seguire l’esempio che fa Baricco, oltre al film ti porti a casa in aggiunta un bel pezzo di storia del cinema...) Sicuramente il paesaggio che loro disegnano per se stessi è per certi versi inquietante: vediamo bene ad esempio come siano disinvolti nel maneggiare quel passato che molti di noi considerano una sorta di tesoro da far affiorare con un lavoro paziente di scavo, portando la massima attenzione alla collocazione precisa nell’asse del tempo, mentre diventa per loro un semplice materiale d’uso da combinare a caso quando affiora (anche se non sono del tutto immuni, osserva Baricco, dalla nostalgia – la nostalgia che conserva il pesce di quando viveva sulla terraferma -  e da  sottili sensi di colpa:  le mutazioni sono sempre dolorose, anche per chi le compie…) E ancora ci può certo infastidire il fatto che siano alquanto noncuranti delle nostre gerarchie di giudizio, mostrando di considerare molto sopravvalutati  certi autori – se vogliamo rimanere nel campo della letteratura – che per noi sembrano indiscutibili (non parliamo certo di Omero, di Shakespeare, di quelle vette, dice Baricco, che paiono avere la singolare capacità di rimanere tali in tutti i paesaggi, ma magari, tanto per fare un esempio, di Thomas Mann, che molti barbari considerano tutt’al più  vetta locale, magari alta ma non separabile da un certo tempo, un certo spazio). Del resto a suo giudizio non c’è nulla di sorprendente in questo, perché ogni civiltà giudica i sui predecessori secondo la rilevanza che hanno avuto nel creare gli abiti mentali di quella presente, riconoscendo in loro dei padri fondatori (è un po’, dice, come la pala di un’elica, che si allarga o si assottiglia a seconda di come siamo piazzati). A questo dunque occorre essere preparati: uno smottamento sarà inevitabile, che ci piaccia o no. Bisogna del resto capire che se noi dobbiamo affrontare una situazione indubbiamente spiazzante, anche quella vissuta dai barbari è per certi versi schizofrenica. Pensiamo per esempio ad un qualunque ragazzo a cui viene richiesto al mattino a scuola di impadronirsi dei rudimenti della nostra civiltà, per gradi successivi di complessità – cosa che lo obbliga ad usare solo i polmoni, se ce la vuole fare -  e che poi al pomeriggio, appena rientra a casa, mette in azione le branchie per dedicarsi al suo barbarico multitasking:  più che ad un barbaro, osserva Baricco, ci fa pensare ad un anfibio mentale, che  naviga fra due mondi fra cui non c’è nessuna connessione che possa determinare un sovrappiù di significato per entrambi.  Non si tratta qui di proporre un semplice e magari furbesco adeguamento “modernista” della scuola e delle altre istituzioni culturali (per usare le sue parole, come sempre incisive e divertenti, “non si trasforma un nomade in agricoltore sedentario facendogli delle case a forma di tenda e coltivandogli tu il campo”), bensì di trovare un modo diverso di salvare il passato perché viva ancora nel presente, aiutando i ragazzi a non lasciarsi sedurre troppo facilmente  da quanto di puramente mercantile c’è attorno a loro: non dobbiamo infatti dimenticare che in gioco c’è la nostra democrazia, i cui principi verrebbero fatalmente corrotti se passasse l’idea che ai barbari “comuni” vanno bene cose di bassa lega, mentre la cultura alta, rivissuta e trasformata, sarebbe privilegio di pochi. Come possiamo notare, con queste considerazioni il discorso di Baricco si allarga, passando dalla fenomenologia della mutazione agli interrogativi su cosa deve fare chi barbaro non è, ma guarda senza paura e con curiosità a quanto sta accedendo, non ignorandone le criticità. E’ da qui che parte, per l’appunto, l’ultimo capitolo del testo.  

EPILOGO
 La Grande Muraglia – (dove si parla di scelte possibili che toccano a noi)

Abbiamo certo già potuto cogliere alcuni indizi del sentimento di comprensione che l’autore prova verso questi strani mutanti che si stanno staccando dalla terraferma per diventare pesci, con accenni decisamente critici su modalità di resistenza a parer suo inefficaci, se non dannose, da parte di chi cerca di opporsi alla mutazione. Tuttavia, è solo in quest’ultimo capitolo che Baricco esplicita la sua posizione servendosi dell’immagine della Grande Muraglia Cinese (su cui in effetti stava davvero camminando mentre pensava a concludere idealmente il libro), a cui attribuisce un valore metaforico nel simboleggiare il rapporto che una civiltà ossessionata dalla paura dell’invasione intrattiene con i barbari.  Eretta nel corso di due secoli dalla dinastia Ming, questa sterminata costruzione era infatti intesa ad impedire che le tribù nomadi, rozze e bellicose, potessero invadere la ricca ed evoluta terra cinese, anche se dal punto di vista militare si rivelò del tutto inefficace, rappresentando più che altro, secondo Baricco, una sorta di risposta “filosofica” all’ossessione identitaria. Quando una civiltà sceglie una delle opzioni possibili per rapportarsi ai barbari, decidendo se annientarli (cosa non sempre facile), se commerciare con loro (accettando così una sorta di contaminazione) o alzare muri che si suppongono impenetrabili (chiudendosi dunque all’interno), racconta fatalmente se stessa, e nel caso della Grande Muraglia noi vediamo letteralmente scritta sulla pietra l’idea di una civiltà che traccia una divisione fra quello che viene considerato “mondo” e quanto ne è fuori concettualmente, il “non mondo”. Più che segnare un confine, essa rappresentava secondo la sua analisi l’invenzione del confine: più che proteggere la civiltà, la definiva.  E qui veniamo al punto che ci riguarda. Per Baricco non ci si difende dai barbari alzando i muri, tanto più che non ci troviamo di fronte ad una invasione proveniente dall’esterno, ma ad una  mutazione che è stata generata nel nostro stesso interno, per effetto tanto di una serie di innovazioni tecnologiche che hanno quasi azzerato lo spazio e il tempo della comunicazione quanto dall’apparire sulla scena di molti che prima se ne stavano discosti, ma che ora vogliono farne parte a modo loro, profondamente trasformandola per farla diventare  generatrice di quell’energia di cui hanno bisogno per sopravvivere. Non serve ritrarci sdegnati, secondo Baricco, ma piuttosto riconoscere che questo nuovo modo di abitare il nostro mondo non è mortifero, nasce anzi da un bisogno forte di vita e di respiro; poggia su  una diversa idea di esperienza e un diverso modo di cercare senso nelle cose, da cui derivano le conseguenze che sono già state evidenziate (“la superficie al posto della profondità, la velocità al posto della riflessione, le sequenze al posto dell’analisi, il surf al posto dell’espressione, il multitasking al posto della specializzazione, il piacere al posto della fatica”) e porta inevitabilmente alla messa in discussione della nostra cultura borghese e al misconoscimento  di alcune cose a cui noi attribuiamo un valore sacrale. E’ una mutazione profonda, questa, in cui i barbari stanno perfettamente a loro agio ma che in qualche misura trascina noi tutti verso l’acqua, mettendo in una situazione confusa non solo coloro che proprio non riescono a vedersi come pesci, ma anche coloro che dall’acqua in qualche misura sono attratti. Non è detto però, aggiunge Baricco, che si debba aderire alla mutazione senza problematizzarla, rinunciando totalmente a lasciare in essa “l’orma del nostro passo” come dice con una espressione molto intensa, così che questa nostra navigazione “sappia ancora di rotta e di sapienza marinara”. Ma lasciamo la parola direttamente a lui, a conclusione del discorso: “ Non c’è mutazione che non sia governabile. Abbandonare il paradigma dello scontro di civiltà e accettare l’idea di una mutazione in atto non significa che si debba prendere quel che accade così com’è, senza lasciarci l’orma del nostro passo. Quel che diventeremo continua ad essere figlio di ciò che vorremo diventare. Così diventa importante la cura quotidiana, l’attenzione, il vigilare. Tanto inutile e grottesco è il ristare impettito di tante muraglie avvitate su un confine che non esiste, quanto utile sarebbe piuttosto un intelligente navigare nella corrente, capace ancora di rotta, e di sapienza marinara. Non è il caso di andare giù come sacchi di patate. Navigare, sarebbe il compito. Detto in termini elementari, credo che si tratti di essere capaci di decidere cosa, del mondo vecchio, vogliamo portare fino al mondo nuovo. Cosa vogliamo che si mantenga intatto pur nell’incertezza di un viaggio oscuro. I legami che non vogliamo spezzare, le radici che non vogliamo perdere, le parole che vorremmo ancora e sempre pronunciare, e le idee che non vogliamo smettere di pensare. E’ un lavoro raffinato. Una cura. Nella grande corrente, mettere in salvo ciò che ci è caro. E’ un gesto difficile perché non significa, mai, metterlo in salvo dalla mutazione, ma, sempre, nella mutazione. Perché ciò che si salverà non sarà mai quel che abbiamo tenuto al riparo dai tempi, ma ciò che abbiamo lasciato mutare, perché ridiventasse se stesso in un tempo nuovo.”   

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      E ORA, FACCIAMO SPAZIO AL CONFRONTO:
ALESSANDRO  BARICCO  - EUGENIO SCALFARI
                 







N.B. = Diamo qui alcuni ragguagli su di un interessante scambio epistolare fra Baricco e Scalfari (allora direttore, oltre che fondatore di Repubblica), pubblicato nell’estate del 2010. Tutto parte da un articolo in cui Baricco ribadisce, con una più vivace tensione polemica e aprendosi in modo ancora più netto alla mutazione, la sua critica all’esaltazione della “profondità“ come unico mezzo per produrre sapere e senso. Gli risponde Scalfari, che pur non negando la fine della modernità e la possibilità che in futuro una nuova civiltà barbarica possa davvero svilupparsi, afferma che essa è ancora molto al di là del suo compiersi, mentre sono visibili i segni di un autentico “imbarbarimento”. Chiude il carteggio la risposta di Baricco.

BARICCO “ Anno 2026, la vittoria dei barbari” 26 agosto 2010
Un titolo intrigante per questo articolo in cui Baricco, con un abile artificio retorico, fa mostra di riesaminare a vent’anni di distanza e a mutazione compiuta i suoi scritti di un tempo, che a molti erano apparsi come incaute aperture di credito verso degli invasori alieni e per certi versi spaventevoli. Certo non rimpiange, nonostante le critiche che gli sono piovute addosso, di aver ingaggiato una strenua tenzone contro i difensori della cosiddetta “profondità”, convinti che il senso ultimo delle cose debba necessariamente trovarsi solo nell’immobilità senza tempo di un luogo segreto, accessibile solo “alla pazienza, alla fatica, all’indagine ostinata”. Non che sia sbagliato cercare significati nella propria vita, nelle cose, nel sapere sul mondo: l’errore sta piuttosto nel presumere di trovarli solo in questo luogo, per effetto di quella che a suo giudizio è stata una vera e propria illusione ottica. Non esiste infatti un luogo siffatto: esso è semplicemente “una traduzione in termini spaziali e morali di un desiderio legittimo: collocare ciò che abbiamo di più prezioso (il senso) in un luogo stabile, al riparo dalle contingenze, accessibile solo a sguardi selezionati, attingibile solo attraverso un cammino selettivo”. Sicuramente non è stato facile, per chi non era nato barbaro, scoprire di aver riposto così tante aspettative in qualcosa di inconsistente, prima di riuscire a comprendere che la mutazione barbarica non aveva rinunciato né al senso né all’esperienza, cercandoli bensì sulla superficie del mondo dove la possibilità di  ricomporli, dice, “non coincideva più con una discesa ascetica nel sottosuolo, regolata da una élite di sacerdoti, ma da una collettiva abilità nel registrare e collegare le tessere del reale” Così vivono infatti i barbari vittoriosi in cui lui ormai afferma di riconoscersi completamente (tanto da passare alla prima persona plurale): viaggiando, senza radici e senza pesi, ma non vuoti né indifferenti alla memoria, più attenti  in realtà allo star bene del mondo di quanto non lo siano stati tanti cultori della profondità, concentrati sul tracciare confini fra alto e basso, fra civilizzazione e barbarie e di fatto incapaci di fermare la barbarie – quella vera – che ha funestato i tempi della modernità.  Ci sono stati dei rischi – è innegabile – perché anche a chi ha cercato fin da subito di cogliere il positivo del mutamento non mancava la consapevolezza del fatto che smascherare il mito ambiguo della profondità poteva aprire la strada all’insignificante, e che si sarebbe potuta compiere una pericolosa confusione fra la superficie, che riguarda la dimensione orizzontale del mondo, e la superficialità, che implica stupidità e pochezza. E però anche di rischi affrontati è fatto, secondo Baricco, il passo del futuro, che è comunque sempre frutto delle nostre scelte, del talento e della velocità delle nostre intelligenze. E’ ben lieto pertanto di averlo corso, dando fin dall’inizio fiducia a questi barbari che tendono a muoversi verso creazioni collettive, sovrapersonali, e che per questo gli ricordano la moltitudine dei copisti medioevali: in un certo senso infatti anche essi, a suo giudizio, stanno copiando la grande biblioteca del passato in una lingua nuova, mettendo a disposizione di tutti  “un’impaginazione del mondo adatta agli occhi che abbiamo, un design mentale appropriato ai nostri cervelli, e un plot della speranza all’altezza dei nostri cuori”

SCALFARI “I barbari non ci leveranno la nostra profondità” 20 settembre 2010
 La risposta di Scalfari non si fa attendere, con un articolo dal titolo altrettanto netto ma ispirato ad un ben diverso sentire, anche se l’autore riconosce non pochi punti di vicinanza con lo scrittore che si professa “barbaro” senza infingimenti: concorda infatti con lui sul fatto che la modernità sia giunta ormai alla fine del suo ciclo, e che tocchi ad uomini nuovi, non gravati dal suo peso, trovare nuovi significati e nuovi linguaggi. Ma è davvero questo, che sta accadendo? Il contrasto con Baricco non riguarda infatti in modo specifico il tema della profondità contrapposta all’estensione, come si potrebbe supporre sapendo come Scalfari sia uomo di cultura ampia e profonda, intensamente intrecciata con le esperienze di vita e professionali: egli ricorda infatti come anche Calvino, nelle sue “Lezioni Americane”, abbia celebrato la leggerezza e la rapidità, oltre all’esattezza e alla consistenza, come elementi fondanti del nuovo millennio. Profondità e superficie sono del resto sempre convissute in ogni epoca, e per questo Scalfarii non crede che il valore dato all’estensione rispetto alla profondità sia una conquista e un avanzamento.   La sua risposta tocca invece un punto più incisivo e cioè il fatto che la supposta civiltà barbarica, di cui Baricco intende celebrare il compiuto avvento,  in realtà è ancora di là da venire, mentre ciò che  dal suo osservatorio Scalfari vede intorno a sé è piuttosto un diffuso “imbarbarimento”: non tanto un nuovo linguaggio, un nuovo pensiero, una nuova visione del mondo, ma la degenerazione e l’azzeramento di quei valori che la modernità, nonostante gli errori compiuti, ha accumulato e che andrebbero preservati da chi in essa si è formato, proprio per aprire al futuro. E’ questo  dunque l’invito che rivolge a Baricco, riconoscendo in lui non un barbaro, ma un intellettuale che si è nutrito della sua stessa cultura,  che è parimenti intriso di memoria storica, e che in quanto tale è fra coloro che meglio possono opporsi all’imbarbarimento che rischia di sovrastarci: una battaglia, dice, che non riguarda i barbari, dal momento che essi stanno ancora cercando se stessi, ma tutti coloro che si pongono il problema del senso e dei valori, pur non opponendosi in linea di principio ad una loro diversa dislocazione.

BARICCO “Non dobbiamo resistere” 21 settemre 2010
Barbari e imbarbariti, dunque. La risposta di Baricco arriva, per così dire, a stretto giro di posta, e affronta subito il tema posto da Scalfari mostrando di considerare l’imbarbarimento, che è innegabile, niente più che uno sgradevole effetto collaterale di una civiltà che si sta disfacendo, mentre un’altra  compie il movimento opposto: una specie di “scarico chimico” che la fabbrica del futuro non può fare a meno di produrre – per usare le sue parole, come sempre incisive - e come tale sempre presente nella storia ogni qual volta si è dato futuro (a suo parere sono stati sicuramente barbari, per esempio, Diderot  e D’Alembert, mentre erano invece imbarbariti gli aristocratici che continuavano ad officiare i loro riti ormai privi di senso nel tempo in cui l’illuminismo stava nascendo). Baricco conviene sul fatto che possiamo certo considerare segno di imbarbarimento, per venire all’oggi, le folle che riempiono i centri commerciali o i reality show, ma non sono loro, i barbari a cui ha dedicato la sua analisi e che già hanno modificato il nostro modo di comunicare e di pensare (pensiamo, dice, a Brin e a Page, o a Steve Jobs, e ancora a molti altri meno noti ma che pure coltivano una certa idea di bellezza, anche se fondano il loro ragionamento su principi nuovi mettendo in atto quello che  a suo giudizio può costituirsi come un nuovo umanesimo adatto al nostro tempo). Diversi, certo, da Scalfari e da Baricco stesso, che pur essendo di una generazione più giovane si riconosce come figlio della stessa civiltà morente, come diversi sono da noi i nostri figli che tuttavia meritano un’apertura di credito, senza che per questo si debba rinunciare ad arginare l’imbarbarimento. E’ però fondamentale, secondo il suo sentire, “non scambiare questa battaglia con una dannosa resistenza alla barbarie, intesa come intrusione del radicalmente nuovo, come forza della mutazione, e come metamorfosi ultima dell’intelligenza”.  E’  indubbio, aggiunge, che richieda un certo sforzo non confondere le due cose, ma neanche la certezza di sbagliarsi spesso riesce a farlo disamorare di questo  che ha assunto come  compito, e insieme come  piacere. 

Posizioni inconciliabili?  Passiamo la domanda ai nostri lettori, offrendo un ultimo spunto di discussione con un articolo recente da cui si può evincere la posizione attuale di Baricco, più sfumata, sul tema della competenza ...

BARICCO “ Un negozio di ferramenta in Wyoming” 10  novembre 2016
Dopo l’elezione di Trump e la Brexit, esce su Repubblica un articolo in cui Baricco, partendo da un riferimento scherzoso all’ immaginario proprietario di un negozio di ferramenta dell’America profonda (che  presumibilmente quando è  stato eletto Obama si sarà chiesto se il mondo era impazzito - cosa che molti di noi avranno fatto nel caso di Trump), mostra di considerare questi eventi come l’esito non previsto, ma pure non del tutto imprevedibile, di una sorta di “mossa animale” che noi umani abbiamo compiuto all’incirca trent’anni fa. Abbiamo infatti ipotizzato allora che le mediazioni non fossero più necessarie, avviandoci verso una mutazione culturale e forse anche antropologica di notevole portata, da cui poi sono derivati i vari Wikipedia, Amazon, ecc…: e cioè che  se sostituiamo al parere di  un esperto quello di una molteplicità di gente inesperta, possiamo arrivare più velocemente e spendendo meno a qualcosa che ci porta abbastanza vicini alla verità, con in più una certa idea di libertà... Una mossa geniale, certo - Baricco non fa marcia indietro, o almeno non del tutto – sottolineando però come possa diventare rovinosa, una volta lasciata andare senza controllo: ha portato infatti ad una progressiva svalutazione della competenza e del ruolo delle élite culturali, considerate irrilevanti prima, e poi responsabili di ogni sorta di mali. Naturalmente, continua Baricco, per spiegare come “una boutade dei Simpson sia diventata realtà” (Trump alla Casa Bianca!) e il fatto che gli inglesi siano diventati degli extracomunitari occorre tener conto di diversi elementi, tuttavia resta dell’opinione che all’origine di tutto ci sia proprio quella mossa lì e pertanto occorrerà a suo giudizio trarre da questi due eventi una lezione fondamentale: essi infatti ci dicono, con grande chiarezza, che “se lo lasci andare, il gesto che elimina le mediazioni non si ferma e va fino in fondo, usando il combustibile del risentimento nei confronti delle élite”. Per alcuni questo non è un rischio, per altri invece sì. La sua posizione, in questa partita che si preannuncia ad uno dei tavoli di gioco dell’Occidente, è chiara. Non si può tornare indietro sul salto delle mediazioni, questo è certo, ma bisognerà trovare una sorta di linea rossa che non bisogna varcare, “il punto esatto in cui ci conviene mantenere una élite, formarla, curarla: fidarsi di lei”. Punto non facilissimo da trovare, ne conviene, ma certo non è il momento di scansarsi, né lui ha intenzione di farlo...

 N.B. = dopo questa serie di articoli complementari alla lettura de “I Barbari”, passiamo a presentare alcuni dei testi proposti dai relatori

PROPOSTE DI LETTURA:


   “un lungo libro che parli del nostro tempo lo sto scrivendo  eccome,  da  anni,  ma  sui  giornali,  a  colpi  di  articoli.  Se  devo scrivere  quel che mi  succede  intorno, non  so,  non mi  viene  da usare  la  forma romanzo, mi viene da  scrivere  articoli,  di  andare  dritto  allo  scopo, ecco.  E’  una  cosa che faccio ormai da un sacco d’anni.  Dato che ho        cominciato scrivendo una rubrica che si chiamava  Barnum  (il mondo mi sembrava allora un festivo spettacolo di  freaks,  pistoleri  e  illuministi),  mi sono  abituato  a  quel  nome, e adesso  qualsiasi  cosa  scriva  sui  giornali  per  me  finisce  bene       

  PRESENTAZIONE:
Fin dal lontano 1995 (anno in cui esce la prima raccolta di articoli con questo nome, a cui seguirà nel 98 “Barnum 2” e nel 2016 “Il Nuovo Barnum”), Baricco ha usato come titolo per i suoi interventi giornalistici questa parola-immagine che simboleggia lo spettacolo del circo, traendo il nome da quel Phileas Taylor Barnum che è stato, nella seconda metà dell’800, il più importante e famoso impiegato circense. In queste miscellanee in cui c’è in effetti un po’ di tutto, senza ordine cronologico né precisa ripartizione categoriale – dai racconti di viaggio ai resoconti di eventi sportivi, dalle recensioni  di testi letterari o di eventi musicali alle notazioni su fenomeni  di grande impatto mediatico – si viene esposti inevitabilmente ad un effetto di rimbalzo, come avviene al circo dove domatori, equilibristi e clown si alternano contendendosi l’attenzione degli spettatori senza concedere loro un attimo di respiro.  Sembra in effetti che non ci sia nulla, nel variegato spettacolo del mondo, che l’occhio curioso di Baricco non ritenga degno di attenzione, sempre cogliendovi qualche dettaglio significativo che dà a questi scritti d’occasione un che di non meramente occasionale, anche se non sono volti in modo esplicito a fornire al lettore una pista di orientamento, lasciandogli il piacere di istituire collegamenti o di disegnare le sue personali mappe. Chi scrive ora questa relazione non è in grado di dire, essendo a sua volta una lettrice solo occasionale dei testi di Baricco, se è da queste incursioni sulle varie figurazioni del mondo che trae la sua linfa il saggio sulla mutazione presentato in precedenza. Si possono nondimeno ipotizzare alcuni collegamenti, che giustificano la presenza di questo secondo testo nella bibliografia presentata dai due relatori. Notiamo, per esempio, come nella  esibita  indistinzione fra alto e basso, per cui si può passare da un articolo sul bowling in America a considerazioni sull’11 settembre, dai tori di Pamplona alla maratona beethoveniana dei Berliner diretti da Abbado, si possa leggere il preludio  del commosso omaggio che Baricco farà, nel primo capitolo de “I Barbari”, a Walter Benjamin, uno dei più importanti pensatori del novecento (un autore che era capace di chinarsi, per così dire, su cose diversissime – dalla poesia di Baudelaire ai passages di Parigi, dai racconti di Kafka a Micky Mouse - per capire che cosa il mondo stava diventando, nell’idea, che Baricco sintetizza  mostrando di condividerla in pieno, che ”il DNA di una civiltà si costruisce non soltanto nelle curve più alte del suo sentire ma anche, se non soprattutto, nelle sue sbandate apparentemente più insignificanti).

un lungo libro che parli del nostro tempo lo sto scrivendo  eccome,  da  anni,  ma  sui  giornali,        a  colpi  di  articoli.  Se  devo scrivere  quel che mi        succede  intorno, non  so,  non mi  viene  da usare        la  forma romanzo, mi viene da  scrivere  articoli,        di  andare  dritto  allo  scopo, ecco.   E’  una  cosa          che faccio ormai da un sacco d’anni.  Dato che ho        cominciato scrivendo una rubrica che si chiamava        Barnum  (il mondo mi sembrava allora un festivo        spettacolo di  freaks,  pistoleri  e  illuministi),  mi        sono  abituato  a  quel  nome, e adesso  qualsiasi        cosa  scriva  sui  giornali  per  me  finisce  bene  o        male sotto a quell’ombrello...”

E ancora, viene spontaneo cogliere in Barnum la natura alquanto “barbarica” di questo surfare veloce dell’autore sulla superficie del mondo, non certo privo di cultura e di acume, anzi, ma non insistito, come se davvero egli si proponesse di viaggiare leggero e senza pesi come i suoi amati mutanti. Nello stesso tempo non possiamo evitare di chiederci – Scalfari insegna - se davvero è possibile, per chi non si sia prima nutrito di una cultura tanto estesa quanto approfondita, possedere una capacità di discriminazione tale che consenta di distinguere, nello spettacolo del mondo, i momenti in cui ci si trova di fronte ad una enorme stupidità o ad una forma diversa e non volgare di bellezza: è questa infatti che l’autore cerca, coinvolgendo il lettore  in grazia di una scrittura estremamente accattivante nel senso letterale del termine.  




“… Né dolcezza di figlio, né la pieta
     del vecchio padre, né il debito amore
lo qual dovea Penelope far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto”

Inferno, canto XXVI


PRESENTAZIONE:  Su questo testo di uno dei più importanti giornalisti e intellettuali italiani, edito nel 2010 col sottotitolo “La modernità e il pensiero danzante”,  si possono trovare on line recensioni interessanti, come quella di Antonio Gnoli a cui rimandiamo, preferendo attenerci qui alle parole stesse con cui l’autore via via lo accompagna. Vorremmo peraltro evidenziare come esso si presenti nella nostra lettura, al di là delle diverse posizioni culturali, come un ideale complemento dell’analisi di Baricco sulla mutazione barbarica. Ritorniamo dunque a quanto Baricco scrive, con accenti di forte e intenso monito, nella parte finale de “I Barbari”, ricordando il dovere intellettuale di mettere in salvo, non dalla mutazione ma nella mutazione, ciò che ci è caro: i legami che non vogliamo spezzare, le parole che vogliamo ancora pronunciare, le idee che non vogliamo smettere di pensare. Quali, non dice (non è questo evidentemente lo scopo del libro, anche se possiamo supporre, conoscendo i suoi interessi musicali e artistici, che egli voglia conservare soprattutto una certa idea di bellezza ). Lo fa invece Scalfari, invitandoci ad un viaggio in quel territorio mentale, più  ancora che storico, a cui diamo il nome di “modernità” e che pur aprendosi geograficamente con la scoperta dell’ America ha inizio culturalmente, secondo la sua ricostruzione, dalla pubblicazione degli “Essais” di Michel de Montaigne. Con la sua messa in discussione delle verità assolute, questo pensatore appartato apre infatti la strada ad un’epoca che attraversa quattro secoli, segnata da cesure e mutamenti profondi ma sempre tesa a sperimentare, ad andare oltre, fedele in questo senso al mito di quell’Ulisse dantesco che riconosce nel viaggio e nell’ardore della conoscenza il suo destino. Un viaggio in cui Scalfari sceglie come moderno Virgilio, nella parte iniziale del testo, quel Diderot che più di ogni altro, per la sua spregiudicatezza intellettuale e per la capacità di collegare uomini e idee culminata nella costruzione dell’Encyclopédie, rappresenta ai suoi occhi un punto apicale di un percorso culturale che dall’Illuminismo al Romanticismo, dalle avanguardie al nichilismo, dall’esaltazione della ragione al riconoscimento delle pulsioni  ha visto confrontarsi passione e ragione,  intuizione e logica, impegno artistico e civile.

  Un percorso che Scalfari tratteggia come se fosse una sorta di itinerario dello spirito, scegliendo, fra gli autori che meglio lo hanno rappresentato, quelli che sono entrati con lui in particolare risonanza, più che seguire un ordine cronologico o strettamente concettuale. Così, ai grandi filosofi che hanno dato il tocco e la chiave di lettura del mondo moderno - Cartesio e Spinoza, Kant ed Hegel - seguono nella sua appassionata rievocazione Chateaubriand e Leopardi, dal momento che a definirne il timbro nel variare delle sensibilità sono stati non solo i filosofi e gli uomini d’azione, ma anche i romanzieri e i poeti (Scalfari dedica infatti pagine molto intense  al Faust di Goethe, che rappresenta ai suoi occhi la sintesi perfetta fra illuminismo e romanticismo, al recupero proustiano del passato, ai romanzi variamente intessuti di metafisica di Tolstoi e Dostoevskij, aprendo un capitolo importante sulle Elegie Duinesi di Rilke, attraverso le quali ha incontrato nei suoi anni giovanili il sentimento del tempo, così alieno dalle esaltazioni guerresche del fascismo…). Un viaggio, quello compiuto dall’autore, in un tempo non certo privo di chiaroscuri, ma che a suo giudizio ha dato alla storia umana qualcosa il cui valore non può e non deve essere ignorato. Certo è innegabile che la modernità, dopo aver vissuto  quello che Scalfari definisce il suo “ gran finale”  nel pensiero incendiario e danzante di Nietzsche, sia andata declinando in un lungo tramonto, inquinandosi con apporti culturali dissonanti, per morire tragicamente nei campi di battaglia del novecento e nella Shoah: pur non collegando la modernità con l’emergere dei totalitarismi, come hanno fatto altri analisti (ricordiamo a questo proposito le affermazioni alquanto puntute dello stesso Baricco) Scalfari non nega a priori che questo ventesimo secolo di tenebre profonde possa essere il risultato dei fermenti positivi e negativi che si sono accumulati nel quattro secoli precedenti. Ritiene peraltro che non si possa disconoscere come la modernità sia stata anche, e principalmente, un’epoca dotata di spirito dinamico e propulsivo, capace “di allargare il respiro delle generazioni, di modificare l’identità senza perdere la memoria, senza impoverire il lascito che è passato di mano in mano, contestato ma custodito ... conquistando così nuovi spazi di libertà e nuovi metri per misurare il passo delle generazioni”. Un lascito che ora viene rifiutato, barbaricamente, e questo sembra davvero un cattivo auspicio agli occhi di Scalfari, che ricorda come anche le avanguardie, che pure hanno messo duramente in discussione i sistemi incartapecoriti del loro tempo, fossero comunque imbevute della cultura dei padri, e di questo consapevoli.  Non che egli tema l’apertura di un nuovo mondo: così è sempre accaduto, dice, e sempre avverrà “fino a che la nostra specie saprà avvalersi della mente di cui dispone e guardare il cielo stellato sopra di sé”, ma la perdita di memoria può pregiudicarne il positivo avvento. E’ proprio per questo motivo, dice, che ha scritto questo libro, nato non tanto per libera scelta ma per necessità, perché ha sentito fortemente il dovere di testimoniare la nascita, il declino, la fine di qualcosa che gli è sembrato “un sabba, non di diavoli e streghe ma di anime e di stelle danzanti”.   Non ci sembra irrilevante – se possiamo aggiungere una notazione personale – che Scalfari abbia scelto come titolo un verso di straordinaria bellezza che contiene in sé l’idea di un navigare disteso e ampio in acque profonde, che possiamo vedere in contrapposizione (non sappiamo se voluta o no dall’autore) a quello scivolare leggero sull’acqua, quel “surfare” di onda in onda che Baricco attribuisce al mondo barbarico. Per questo il libro di Scalfari, proposto da Cascone e Ongaro, ci sembra davvero un indispensabile completamento alla lettura di “I Barbari”.


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SECONDA  PARTE



 BARBARI, POLLICINE

E  ALTRI  MUTANTI…





                          

   




Un percorso di riflessione sui cambiamenti innestati dalla rivoluzione digitale a partire da alcuni testi proposti da Vincenzo Cascone e Lorenzo Ongaro insegnanti della Scuola Holden di Torino


ENTRIAMO,  CON  MICHEL  SERRES,NEL  MONDO DELLE  “POLLICINE”






Michel Serres (1930), filosofo ed epistemologo, è uno dei più importanti intellettuali francesi; è stato per molti anni  professore di Storia della scienza alla Sorbona e alla Stanford University ed è tuttora Accademico di Francia.  Il saggio che presentiamo, il cui titolo francese recita “ Petite Poucette” (Pollicina), è stato pubblicato  da Bollati Boringhieri nel 2012.Fra i suoi testi più recenti, ricordiamo “Le gaucher boiteux” (Il mancino zoppo), che è stato presentato dall’autore al Salone del libro di Torino nel maggio 2014 (su You Tube si può trovare la registrazione dell’intervista condotta in questa occasione da Corrado Augias, che ne riassume egregiamente i temi ).


Presentazione e riassunto del testo:

Chi sono, le Pollicine e i Pollicini a cui l’ultraottantenne Michel Serres ha dedicato, come a nuovi e straordinari “mutanti”, questo pamphlet appassionato?

Non tanto, come saremmo indotti a ipotizzare, quei bambini che hanno popolato le nostre fiabe infantili, alti un soldo di cacio ma capaci con vivida intelligenza di avere la meglio su minacciosi e giganteschi orchi di meno brillante intelletto (anche se in effetti qualche rimando sarebbe possibile…): non è a loro infatti che pensa l’autore, quanto ad esseri nuovi, le cui dita – molto meno maldestre delle nostre - si  muovono con straordinaria velocità  e destrezza  sulle tastiere dei loro tablet e  smartphone e quant’altro la tecnologia digitale mette loro a disposizione.

Nasce da questa constatazione il tenero appellativo con cui Serres ha scelto di nominarli (privilegiando il femminile perché convinto che saranno proprio le ragazze ad incarnare al meglio le possibilità che si aprono), guardando con affettuosi occhi di filosofo-antropologo questi nuovi nati, che non hanno più sicuramente lo stesso rapporto col mondo dei loro genitori e dei loro nonni. Del resto, non è sorprendente che sia così: formattati fin dall’infanzia dai media e dalla pubblicità, cui spesso gli adulti li hanno esposti senza mediazione educativa, connessi con tutti e con ogni luogo grazie ai loro GPS, essi non abitano più nel nostro stesso spazio metrico, misurato dalla distanza, e parimenti diverso è il loro tempo, tutto incentrato sul presente.

Allo stesso modo, del tutto inconfrontabile con la nostra è la loro storia, perché diverse le loro esperienze e diverso il loro stesso corpo, non più uso alla fatica e alle privazioni, mentre la loro condotta morale, non più stretta nelle maglie austere del principio del dovere e delle rigide appartenenze ma spesso lasciata senza guida, li ha resi in un certo senso più esposti, più fragili, più bisognosi di quei nuovi legami che i social media mettono loro a disposizione.

Radicalmente Altri da noi, dunque.

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UNA TESTA FUORI DAL CORPO:
LE POLLICINE “ DECOLLATE”
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Eppure, osserva Serres, nonostante questa abissale diversità non molti commentatori hanno davvero colto il segno della cesura così profonda ed evidente che si è verificata nel passaggio generazionale, solo paragonabile, a suo giudizio, a quelle che si sono verificate nel neolitico, all’inizio dell’era cristiana, alla fine del Medioevo e del Rinascimento.
Un mutamento per cui dovremmo chiederci, con urgenza, se abbiano ancora un senso i modi con cui trasmettiamo il sapere e i contesti in cui lo facciamo, e se le riforme che via via si sono succedute in ambito scolastico si siano rivelate tutte ugualmente fallimentari proprio perché incapaci di discostarsi da modelli ormai desueti. Occorrerebbe invece, dice Serres, “escogitare novità inimmaginabili”, fuori dai quadri che condizionano ancora i nostri comportamenti, i nostri media, i nostri progetti, perché questi ragazzi non parlano più la nostra stessa lingua, non scrivono più nello stesso modo, e radicalmente diversa è la loro testa: non solo perché l’uso della Rete, come ci spiegano le scienze cognitive, mette in azione diversi meccanismi neuronali, ma perché è toccata loro in sorte la straordinaria avventura di avere una testa fuori dal corpo, come accadde al Vescovo Dionigi:

Se diamo fede al racconto di Iacopo da Varagine sullo straordinario miracolo avvenuto a Lutetia, durante le persecuzioni di Diocleziano, questo vescovo, dopo essere stato imprigionato e torturato, fu condannato ad essere decapitato sulla cima della collina che verrà poi chiamata Montmartre. La sentenza fu invece eseguita a metà percorso, per pigrizia dei soldati. Prontamente rialzatosi, il vescovo”decollato” raccolse la testa caduta, si fermò presso una fonte per ripulirla dal sangue e proseguì il cammino fino all’attuale chiesa di San Denis (cosa accadde poi, la storia non racconta, se non che fu canonizzato)

Quando Pollicina accende il computer, prosegue Serres, ha davanti a sé una vera e propria testa esterna al corpo, per cui non vale più a suo giudizio il consiglio di Montaigne sull’opportunità di puntare, dopo l’invenzione della stampa, su di una testa “ben fatta” piuttosto che su una testa “ben piena”: questa nuova scatola cognitiva oggettivata è infatti tanto ben piena – perché le sue riserve informative sono enormi – che ben fatta, contenendo essa tutto quello che noi intendiamo come facoltà intellettuali: memoria, immaginazione, logica…

Una testa decollata che lascia sulle spalle della nostra Pollicina (e qui davvero Serres passa dalla prosa argomentativa ad una sorta di poesia immaginifica) uno spazio dove possono entrare

“ aria, vento, quella luce che vi dipinse Léon Bonnat, l’esponente dell’art pompier, quando raffigurò il miracolo di San Dionigi su una parete del Pantheon, a Parigi…. un vuoto traslucido, una brezza giocosa in cui può trovare rifugio la sua intelligenza inventiva, la sua soggettività cognitiva”

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VERSO UN PENSIERO
DISTINTO DAL SAPERE?
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Un vero miracolo, senza dubbio, o meglio una rivoluzione, che pone una domanda: sarà la fine dell’era del sapere come l’abbiamo conosciuto – quello basato sul libro e sulla trasmissione dal maestro all’allievo? Prima di rispondere l’autore apre un inciso sulla dittatura della pagina scritta, che ha condizionato fino ad oggi, con il suo formato, il modo con cui accediamo al sapere:

Nonostante il termine “rivoluzione” sia generalmente collegato a cose “dure” (le macchine tangibili, le tecniche, che indubbiamente esercitano una forte azione sulle cose del mondo), non bisogna sottovalutare il portato di quelle  legate a segni “dolci”, come l’invenzione della scrittura e del libro, che hanno avuto un effetto dirompente sulle culture e sulle collettività. Senza la scrittura, dice Serres,  “ci saremmo forse riuniti in città, avremmo formulato un diritto, fondato uno stato, concepito il monoteismo e la storia, inventato le scienze esatte, istituito la paideia...?”

Possiamo davvero dirci figli del libro e nipoti della scrittura, quindi, e ancora oggi la pagina scritta ci domina, con i suoi reticolati e i suoi bordi che ricordano il “pagus” dei nostri antenati ispirando la stessa architettura delle città, oltre ai luoghi deputati al sapere: pensiamo ai campus universitari, concepiti come il “castrum” dell’esercito romano, segnato da solchi perpendicolari, diviso in coorti quadrate….

Le stesse nuove tecnologie sembrano non essere ancora uscite dalla dittatura della pagina: in fondo il computer si apre come un libro, e digitiamo sulla tastiera usando le dita come quando scriviamo…

E però non dobbiamo fermarci all’apparenza. In realtà queste tecnologie, esternalizzando messaggi e operazioni che circolano nel sistema neurale, ci costringono ad uscire dal formato spaziale del libro e della pagina; rendono desuete le note a piè di pagina e le imponenti bibliografie, che cadono, dice Serres,  sotto il colpo di grazia degli aguzzini di San Dionigi”; fanno sì che la conoscenza, almeno in parte, “tolga gli ormeggi” lasciando prendere il largo ad un tipo di pensiero distinto dal sapere, verso un’ intelligenza inventiva che si misura addirittura rispetto alla distanza dal sapere stesso.

E’ questo che accade, o può accadere, sopra i colli mozzati del Santo come sopra quelli delle Pollicine e dei Pollicini di oggi, aprendo il varco ad una nuova autonomia dell’intelletto, a cui fanno eco “movimenti corporei senza vincoli e un brusio di voci…” 

In effetti i nostri ragazzi, da sempre costretti ad una immobilità silenziosa di fronte a maestri o a professori che dall’alto della pedana si facevano portavoce di un sapere tratto da un libro, rifiutano oggi la nostra offerta formativa, non più legata alla loro domanda: chiacchierano, si muovono, non ascoltano, producono in coro, dice Serres, “un rumore di fondo che sovrasta il megafono della scrittura”. Di questo peraltro non possiamo rimproverarli, perché il sapere che noi proponiamo ce l’hanno già, non più conservato in luoghi segreti  e inaccessibili, ma compresso in quei piccoli aggeggi che  portano nelle loro tasche. E’ giunto dunque, secondo il filosofo, il tempo di liberarli:

E’ ORA

*che i corpi escano dalla caverna dove li abbiamo imprigionati e che i ragazzi possano ritrovare la gestualità di un corpo che ormai si è abituato a guidare, e non può più continuare a fare il passeggero; che lo spazio dei nostri campus universitari, mutuato dai campi trincerati dell’esercito romano, si trasformi in un luogo aperto e arioso, atto ad ospitare un sapere non più frazionato e segmentato sotto discipline separate, ridiventando un fiume dove sia davvero possibile navigare in modo avventuroso…
                                                                           

* che l’ordine lasci il posto al disparato, che ha virtù che l’ordine non conosce: l’ordine è certamente pratico e veloce, ma può ingabbiare; favorisce il movimento, ma lo congea anche; è indispensabile all’azione, ma rischia di sterilizzare la scoperta.  Nel disordine invece, dice Serres,  entra l’aria, come  in un congegno che ha del gioco. E il gioco induce invenzione…”
         

* che si dia spazio a nuovi oggetti di conoscenza, ridando dignità a ciò che è concreto, ai racconti, agli esempi, alle singolarità: anche essi hanno virtù che l’astratto non conosce, perché  fa da tappo” e non permette al pensiero arioso  di farsi strada nei giovani corpi e nelle giovani menti delle Pollicine e dei Pollicini, a cui solo si addicono luoghi di conoscenza fatti ad intarsio, mosaici di pezzi diversi senza soluzioni di continuità…

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PER UNA NUOVA “PRIMAVERA”
DELL’OCCIDENTE
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Ad alcuni farà certamente paura questa nuova destinazione della parola, autenticamente democratica: a chi trova sospetta l’idea di un virtuale immanente giova però ricordare, secondo Serres,  che almeno il virtuale evita le politiche di morte a cui parole più solide, appartenenze più ferrose, astrazioni più bellicose  (“esercito, nazione, chiesa, popolo, classe, proletariato, famiglia, mercato…”)  ci hanno portato.

Nondimeno, c’è un altro argomento, ancora più subdolo, che viene utilizzato per opporsi a questa  che l’autore vede come una “nuova primavera dell’occidente”, e cioè quello della semplicità: quelli che lo brandiscono si chiedono infatti, apparentemente preoccupati, come sarà possibile gestire questo complesso caleidoscopio di parole e di voci che si profila all’orizzonte.

Ora, a parte il fatto che le società semplici si addicono al mondo animale, dominato dalla legge del più forte, piuttosto che a quello umano, e il fatto altrettanto evidente che questi fautori della semplicità non sembrano poi prodigarsi più di tanto per la semplificazione, Serres fa osservare che la complessità è parte integrante di una società democratica, dove crescono insieme “l’individualismo, le esigenze delle persone e dei gruppi e la mobilità dei siti”.  Tuttavia, a suo giudizio se ne può ridurre il costo, basta volerlo sul serio.

SI PUO’ FARE:

* si può passare, ad esempio, dal paradigma della complessità al paradigma informatico, capace di conservare quelle figure a reti intrecciate che la topologia chiama “simplessi”, ma di percorrerli più velocemente, evitando ingorghi e scontri

* si può mettere al servizio delle nostre pratiche il pensiero algoritmico e procedurale, appannaggio un tempo solo dell’arte medica e forense (capaci, non a caso, di mettere insieme malato e malattia, giurisdizione e giurisprudenza, concreto e astratto, particolare e universale), ma ora, fatto proprio dalla biochimica, dalle teorie dell’informazione e dalle nuove tecnologie, finalmente avviato a diventare parte integrante di una società dove cresce l’accesso al sapere: la stessa dove tutte le Pollicine padroneggiano, con i loro “pollici pulsanti”, giochi e motori di ricerca, mettendo all’opera campi cognitivi che  su queste modalità di pensiero si fondano

Così facendo, continua Serres, si andrà finalmente incontro ad una cultura più sintetica e concreta: è in questa prospettiva che ha voluto coniare un nome in codice, capace di fare da ponte fra il particolare e il generale. “Pollicina” indica infatti non un individuo in astratto, ma una persona unica, che esiste “in quanto individuo, in quanto persona, non come astrazione”.  Una cultura connessa e collaborativa su cui la filosofia non ha creduto utile interrogarsi, perdendo la capacità di comprendere la contemporaneità, e di cui Serres ha scelto invece di farsi cantore, convinto della sua bellezza intrinseca che vorrebbe rendere a tutti evidente compiendo con l’amico Michel Augier un gesto eclatante e immaginifico:

PIANTARE UN ALBERO, ACCENDERE UN FUOCO

proprio davanti a quella  ferrosa Torre Eiffel,  emblema del potere e di un mondo statico, e di lì invitare ognuno ad inserire nel computer la propria immagine reale e virtuale,  in modo che una luce laser, sprigionandosi colorata da terra, faccia apparire l’immagine turgida della collettività”, creando una ben diversa torre, fatta di scintille colorate e cangianti, atta a rappresentare il collettivo connesso e capace di sparare mille lingue di fuoco contro il mostro di ieri e contro il nostro tempo, immobile e duro”.

Una torre che certo piacerà a Pollicina, anche se certamente, dice Serres, troverà un po’ troppo “vecchi” i due pensatori che hanno immaginato di piantare questo albero volatile a Parigi, mentre  in tutto il mondo esso dovrà ardere…
                                         

N.B. = L’inserimento di questo testo di Serres ha risposto da parte nostra più a ragioni compositive che argomentative, anche se nella sua appassionata apertura verso le nuove tecnologie digitali, portatrici a suo giudizio di straordinarie possibilità cognitive e partecipative, non mancano ragioni di interesse (nonostante qualche evidente eccesso). Abbiamo infatti voluto privilegiare una sorta di simmetria fra le due parti della nostra “passeggiata”  saggistica, facendo corrispondere ai Barbari di Baricco, con il loro nuovo modo di fare esperienza e di cercare senso nell’estensione piuttosto che nella profondità, le Pollicine di Serres, che cercano spazi di creatività delegando molte attività cognitive alle loro teste digitali esterne al corpo (così almeno li immaginano i due autori: noi lasciamo il giudizio ai lettori). Allo stesso modo, così come abbiamo posto in relazione contrastiva il testo di Baricco con quello di Scalfari, che difende i valori della modernità di fronte all’emergere di una mutazione i cui tratti ancora confusi possono generare inquietudine, contrapporremo a Serres due analisti della Rete, a testimoniare punti di vista  diversi delle tecnologie digitali  rispetto alle capacità cognitive. Presenteremo in seguito due ultime proposte di lettura, la prima delle quali ci farà conoscere dei nuovi e interessanti “mutanti”.                                         

                                           
E  ORA, LASCIAMO SPAZIO AL CONFRONTO:

                                                          


                     













Nonostante i titoli dei testi che stiamo per presentare, per molti aspetti riduttivi rispetto all’effettivo contenuto, non siamo qui di fronte all’ennesimo scontro fra coloro che siamo soliti definire “apocalittici”, perché di fronte ad ogni novità tecnologica profetizzano sventure, e i cosiddetti “integrati”, che le assumono invece in modo acritico come portatrici di magnifiche sorti e progressive. Non nega infatti, il primo autore, i molti benefici del Web, ma ci invita a riflettere sulle conseguenze della sua crescente, ubiqua ed ambigua influenza sulle nostre modalità di pensiero, che diventano sempre più frammentate; allo stesso modo il secondo non ignora i rischi di un uso superficiale delle nuove tecnologie, anche se è convinto che esse possano sprigionare importanti energie intellettuali e comunicative, se sostenute con un opportuno addestramento.
Appurata la solidità degli argomenti che gli autori presentano a conforto delle loro tesi, pur dissonanti, abbiamo pensato di dare conto in prima battuta  dei rilievi critici di Nicholas Carr, per proporre poi un confronto con Howard Rheingold.

Il punto di vista di un critico della Rete



Nicholas Carr è uno scrittore statunitense
 ha indagato le  conseguenze  economiche
 e sociali della crescita di Internet nel testo
 “Il lato oscuro della Rete” (2008), volgendo
 poi la sua attenzione al rapporto fra l’uso
 di Internet e le abilità intellettuali nel testo
 che presentiamo, edito in  Italia nel  2011
da Raffaello Cortina editore.
Attualmente è membro dell’Editorial Board
 of Advisors dell’Encyclopaedia Britannica


Presentazione e riassunto del testo:

A detta dell’autore, questo libro nasce dal fatto di aver sperimentato personalmente, dopo anni di scanzonato utilizzo di tutti i servizi della Rete, una notevole difficoltà a concentrarsi su testi lunghi: come se la sua mente, essendosi abituata a ricevere informazioni nel modo tipico della Rete – un flusso di particelle in rapido movimento – lo avesse trasformato da un subacqueo nel mare delle parole … ad un ragazzino in acquascooter, che passa a grande velocità sulla superficie” (parole, queste, che sicuramente richiameranno alla nostra mente il “surfare” veloce dei barbari di Baricco, contrapposto al “navigare per l’alto mare aperto” di Scalfari).

Dal momento che amici e conoscenti manifestavano le stesse difficoltà, Carr ha cominciato a chiedersi se in questo momento ci troviamo di fronte ad un vero e proprio punto di svolta fra due modalità di pensiero, e se ciò che stiamo barattando per i benefici abbondanti della Rete non sia la perdita di quella mente duttile e penetrante che è stata, nella modernità, il fulcro dell’arte e della scienza,

“la mente ricca di immaginazione del Rinascimento e la mente asettica e razionale dell’Illuminismo, la mente piena d’inventiva della Rivoluzione industriale e anche la mente sovversiva dell’epoca moderna”(anche queste parole ci faranno ripensare all’appassionata difesa che  Scalfari fa  della modernità…).

A suo parere questo è un interrogativo fondamentale che viene oscurato nel dibattito pubblico dalla discussione sui contenuti del Web, dimenticando la lezione di McLuhan, secondo il quale nel lungo periodo il contenuto di un medium ha molta meno importanza del medium stesso nell’influenzare il modo in cui pensiamo e agiamo (con una efficace metafora, il contenuto di un medium è per lui paragonabile  a un succoso pezzo di carne con il quale un ladro cerchi di distrarre il cane da guardia dello spirito”).

Per dimostrare il suo assunto, Carr apre una digressione molto ampia sul modo in cui storicamente il cervello e la mente sono stati pensati, per dare poi  ragione delle scoperte più recenti.

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IL CERVELLO E’ PLASTICO,
MA NON ELASTICO!
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Dal fronte degli studi sul cervello e dalle neuroscienze, osserva Carr, arrivano sicuramente buone notizie. E’ ormai assodato infatti come il cervello, e in generale il nostro sistema neurologico, sia dotato di un alto grado di plasticità: noi siamo pressoché per tutta la vita in grado di adattarci a situazioni nuove, di apprendere nuove abilità, di compensare in buona misura delle perdite.

Nondimeno, se pure la neuroplasticità ci fornisce una via d’uscita da quel determinismo genetico che per lungo tempo ha dominato le idee sul cervello e sulla mente, essa impone a sua volta una propria forma di determinismo al nostro comportamento. Quando alcuni circuiti del nostro cervello si rafforzano, attraverso la ripetizione di un’attività fisica o mentale, tendono infatti a trasformarla in un’abitudine, affinando questa nuova capacità mentre altre meno utilizzate vengono lasciate fuori, cosa che finisce col rinchiuderci in comportamenti rigidi.

Carr chiarisce bene infatti che “plastico” non vuol dire  “elastico”: i nostri circuiti, una volta deviati, non ritornano allo stato precedente come fa un nastro di gomma, ma rimangono nello stato alterato. Se noi smettiamo di esercitare alcune facoltà mentali, il loro spazio viene occupato da altre che svolgiamo con più continuità, secondo un principio che uno dei neuroscienziati citati da Carr ha espresso sinteticamente comela sopravvivenza del più impegnato”.

Ora è ben chiara, per lui, la conseguenza di questo discorso. Se passiamo una grande quantità del nostro tempo ad usare quello che alcuni considerano erroneamente un mero strumento (dimenticando che nessuna tecnologia lo è, tanto più una così invasiva come quella digitale), veniamo sollecitati ad una continua frammentazione dell’attenzione, ed è pertanto molto facile che  si perda quel tipo di abilità mentale che dopo l’invenzione della scrittura e ancor più quella della stampa è stata “forgiata” in noi:

(in un ampio capitolo del testo, rendendo  conto dell’annoso dibattito fra gli strumentalisti, per cui i dispositivi che usiamo sono sotto il nostro controllo perché siamo noi a decidere come usarli, e i deterministi, che invece considerano le tecnologie delle vere e proprie forze che agiscono per dare nuove forme all’attività stessa, Carr assume posizione a favore dei secondi, mostrando come l’apparire di nuove tecnologie abbia via via sollecitato nuove abilità mentali.

In particolare si sofferma sugli apporti dati alla mente, e di conseguenza alla cultura, dalla scrittura e dalla lettura, in specie dopo Gutemberg: richiedendo e allo stesso tempo favorendo l’abilità di concentrarsi su di un compito determinato, liberando la propria mente dagli stimoli esterni, la tecnologia del libro ha favorito non solo l’astrazione del pensiero, ma anche la capacità di percepire più acutamente il mondo fisico, dando vita ad una vera e propria  “etica intellettuale” che si è riversata  tanto  nell’ambito letterario quanto  in quello scientifico)

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UN MEDIUM DI NATURA GENERALE
CHE INGLOBA E  RIMODELLA
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Questa perdita, osserva ancora Carr, non è avvenuta con la prima ondata dei media elettrici ed elettronici (la radio, il cinema, il fonografo, la televisione) perché essi potevano scalfire, ma non rimpiazzare la pagina scritta, ciò che invece questo nuovo strumento può fare assieme ad un’infinità di altre cose.

La Rete, costituita da milioni di computer e di banche dati interconnessi, è infatti una macchina di smisurata potenza che sta inglobando la stragrande maggioranza delle altre tecnologie intellettuali diventando, come scrive Carr, ”la nostra macchina da scrivere e il nostro torchio tipografico, la nostra mappa e il nostro orologio, la nostra calcolatrice e il nostro telefono, l’ufficio postale e la biblioteca, la radio e la TV….

Rispetto alla macchina di Turing, da cui ha avuto origine, essa non ha più l’effetto limitante della velocità e si è evoluta in modo accelerato. E’ come se in pochi decenni si fossero compressi centinaia di anni dell’intera storia dei media, da cui peraltro si differenzia per un aspetto di primaria importanza – la bidirezionalità – che l’ha trasformata in un’arteria di grande traffico tanto per gli affari e per il commercio che per gli scambi personali, facendola diventare letteralmente il luogo di ritrovo del mondo.

Ora, prosegue Carr, l’utilità che ne ricaviamo è tale da farci accettare senza riserve, anzi con soddisfazione, l’ininterrotto ampliamento del suo raggio d’azione, senza chiederci che cosa succede a ciò che viene inglobato, come pure ai media tradizionali. Se lo facessimo, scopriremo ancora una volta che aveva ragione McLuhan quando asseriva che  “ un nuovo medium non è mai un’aggiunta al vecchio e non lascia il vecchio in pace. Non cessa mai di opprimere i media precedenti fin quando non trova per loro forme e posizioni nuove…”.

Così è a tutti gli effetti per la Rete che quando ingloba un medium, dice Carr, ne dissolve la forma fisica introducendovi i link, ne spezza il contenuto in frammenti che si possono reperire online, lo circonda con i contenuti dei media già assorbiti, alterando così profondamente il modo in cui lo usiamo.

 Pensiamo, ad esempio, alla pagina di un testo online, che può sembrare del tutto simile al testo stampato su carta.

Le differenze peraltro sono notevoli. Intanto, i gesti che facciamo per leggerla sono diversi e influenzano il grado di attenzione che dedichiamo al testo (le esperienze sensoriali non sono irrilevanti, la lettura è tattile oltre che visiva). Se poi a questo elemento di base aggiungiamo la presenza dei link, la situazione cambia ulteriormente. Solo all’apparenza infatti i link possono essere apparentati alle vecchie note a piè di pagina, perché di fatto non si limitano a indicarci collegamenti possibili, ma ci spingono verso di essi, distogliendo la nostra attenzione dal testo con la promessa di un ampliamento della comprensione che di fatto non si verifica.

I ricercatori che hanno messo a confronto lettura su carta e lettura online, e anche, nella lettura online, testi con molti link e altri meno affollati, hanno rilevato infatti che la comprensione è maggiore su carta e nella lettura online diminuisce in relazione con l’aumento dei link, perché essi determinano una sorta di sovraccarico cognitivo lasciando meno risorse allo sforzo di capire che cosa si sta leggendo.

In effetti, ogni volta che accendiamo un computer ci tuffiamo in una sorta di ecosistema di tecnologie dell’interruzione“, come lo ha argutamente definito  un blogger e scrittore di fantascienza, Cory Doctorow. Questo non avviene sempre nostro malgrado: Carr sa bene, avendolo sperimentato personalmente, che Internet non sta cambiando le nostre abitudini intellettuali contro la nostra volontà, perché ci piace spostarci fra lettura, ascolto e visione senza doverci alzare, accendere altri dispositivi, scovare nel mucchio di riviste o dischi quelli che ci interessano; e ancora, trovare i dati che ci servono istantaneamente senza dover smistare tutti i materiali inutili, restare in contatto con amici, familiari, colleghi…

E’ innegabile che sono proprio queste caratteristiche di interattività, ricercabilità, multimedialità, possibilità di collegamenti ipertestuali – assieme ad altre funzioni che si stanno rendendo via via possibili -  ad aver reso Internet così desiderabile.  Tutto questo però sta cambiando il modo in cui pensiamo e agiamo, anche perché tutta la società dei media tradizionali è stata costretta a riorganizzarsi in sintonia col Web per non essere spinta ai margini del sistema culturale e produttivo.

Questo avviene tanto nel mondo della carta stampata (articoli che vengono abbreviati, sommari concisi, pagine piene di finestre pubblicitarie e di didascalie facili da consultare, titoli sovradimensionati e frasi ad effetto…) quanto in quello della televisione e del cinema (canali tematici che consentono agli spettatori di guardare diversi programmi in contemporanea usando il telecomando come una sorta di mouse, DVD che si sincronizzano con gli account di Facebook in modo che gli utenti possano scambiarsi commenti in tempo reale).

La profezia di McLuhan è quindi confermata. Il Web trasforma tutto ciò che tocca, e tende a trasformare tutti i media in media sociali. Questo vale anche per l’oggetto libro:

A dire il vero, osserva Carr, fra tutti i media il libro è quello che si è dimostrato più resistente, affrontando con molta lentezza il salto verso l’era digitale.

La situazione peraltro ha cominciato a cambiare da quando sono apparsi i lettori digitali di nuova generazione, che non solo permettono di svolgere tutte le funzioni tradizionali (scriverci su, sottolineare ecc…) con in più la possibilità di allargare i caratteri a piacere, ma hanno in aggiunta una straordinaria capacità di archiviazione, così che con un solo lettore diventa possibile avere una biblioteca personale potenzialmente illimitata.

A partire dal Kindle di Amazon, presentato nel 2007, essi  consentono  inoltre di avere una connessione ad Internet senza fili incorporati e sempre disponibile, facendo diventare il libro qualcosa di simile ad un sito Web in cui le parole possono essere estrapolate, estratte dalle pagine e incorporate nel contesto della Rete. Quando questo accade, osserva Carr, il libro viene a perdere i suoi contorni: la sua linearità viene frantumata, dissolvendosi in una sorta di oceano virtuale.

Ai cambiamenti nelle modalità di lettura vengono poi a corrispondere quelli nella scrittura dei testi, per cui molti autori ed editori  hanno già cominciato ad adeguarsi alle nuove aspettative: si scrivono libri sui telefoni cellulari, si pubblicano romanzi elettronici con video incorporati nelle loro pagine virtuali, si progettano pagine indipendenti mettendo in discussione il modello della narrazione come principio organizzativo, si adeguano le parole alle esigenze dei motori di ricerca…

Ma soprattutto, osserva Carr, sta cominciando a prevalere quello che possiamo chiamare il principio della “gruppità”, che risponde al desiderio di molte persone di servirsi della lettura per trovare un senso di appartenenza, rendendo obsoleta la pratica della lettura privata.

Ora, c’è chi non appare particolarmente turbato da quello che Carr definisce il crepuscolo della mente letteraria, lineare e gerarchica – a cui potrà seguire una vera e propria eclisse; molti guardano anzi con favore a questo nuovo mondo pervasivo e connesso, in cui i significati emergono da contesti perennemente in movimento (i barbari di Baricco, sicuramente!). Ritengono anzi che la mente letteraria sia stata alquanto sopravvalutata, dando così copertura intellettuale al cambiamento in atto con l’evidenziare il suo carattere “liberatorio” (Carr fa riferimento in particolare ad uno studioso dei media digitali, che nel rilevare come ben pochi, oggi, leggano “Guerra e pace” di Tolstoi, ha sentenziato:

 “E’ troppo lungo, e alla fin fine non così interessante!”).

Secondo Carr invece sarebbe proprio il caso di riflettere su ciò che perdiamo se mettiamo da parte la tradizione di concentrazione solitaria e focalizzata per diventare dei “giocolieri”, e a questo scopo apre un interessante capitolo:

…………………………………..………………
INTERNET  E
IL CERVELLO  DEL GIOCOLIERE
………………………………..…………….

Che cosa dice, la scienza cognitiva, sugli effetti reali che Internet produce nelle nostre menti?
C’è concordanza, per intanto, nel ritenere che esso rappresenti una potente tecnologia di alterazione della mente, anche se alcuni ricercatori mettono in luce principalmente le potenzialità positive, mentre altri, senza negarle, evidenziano piuttosto i rischi e le possibili perdite. Sintetizziamo qui per grandi punti il discorso di Carr, che adotta questa seconda strada.

Internet, dunque

 * coinvolge tutti i nostri sensi in modo simultaneo
(eccezion fatta, almeno fino ad ora, per tatto e gusto)

 * ci coinvolge emotivamente
(in specie, se lo usiamo in un contesto sociale)

* cattura la nostra attenzione con insistenza
(costringendoci ad elaborare un flusso continuo di informazioni  che sovraccaricano il cervello)
L’interattività della rete ci offre strumenti molto potenti per trovare informazioni, per esprimerci, per conversare con altri, dandoci dei continui rinforzi positivi. E però, dice Carr “ci trasforma anche in cavie da laboratorio che continuamente schiacciano leve per ricevere minuscole pillole di nutrimento sociale e intellettuale”. Inoltre il multitasking impone ai nostri processi cognitivi una continua commutazione. Se consideriamo che per cambiare i propri obiettivi e bloccare le interferenze cognitive provenienti dal compito precedente il cervello deve impiegare tempo ed energia, capiamo bene che la commutazione non è senza costi,  perché aumenta la probabilità che alcune cose ci sfuggano (che poi noi si desideri  essere interrotti, perché non vogliamo perdere nulla di ciò che ci arriva, e che si accetti questo sparpagliamento in nome dell’abbondanza delle informazioni, è certamente possibile, ciò non toglie che il nostro cervello possa esserne sovraffaticato).

*  è una macchina potente di dispersione dell’attenzione
In effetti, secondo Carr, questo è uno dei paradossi di Internet, che  cattura la nostra attenzione solo per disperderla. Non si tratta naturalmente di demonizzare la distrazione, che anzi può avere una funzione positiva (se ci concentriamo troppo intensamente su di un problema, il pensiero può anche restringersi e bloccarsi, mentre il  distogliere momentaneamente da esso la nostra attenzione ci dà il tempo di elaborarlo, di trovare soluzioni) Tuttavia  il Web lo fa imponendoci i suoi tempi e i suoi modi, non dandoci il tempo di ravvivare davvero il pensiero.

* cambia radicalmente l’approccio alla lettura e alla ricerca
 (potenziando il cosiddetto “browsing meccanico”)
Chi legge in Rete adotta generalmente modalità di lettura non lineari, muovendosi rapidamente fra titoli, contenuti delle pagine, riassunti… Raggiunge così una gamma più ampia di argomenti, ma a livello superficiale. Naturalmente, osserva Carr, non c’è nulla di sbagliato di per sé nello scorrimento veloce; saper “scremare” un testo è altrettanto importante del saperne fare una lettura approfondita. Il problema, a suo giudizio, consiste nel fatto che questo scorrimento veloce sta diventando la modalità privilegiata  per raccogliere  informazioni e dare loro un senso, a detrimento di altre modalità di lettura e di ricerca. E’ come se stessimo sperimentando in senso metaforico, dice, un’inversione di tendenza rispetto al percorso iniziale della civiltà:

 “da coltivatori di conoscenza personale ci stiamo evolvendo a cacciatori e raccoglitori nella foresta elettronica”

Non c’è dubbio che ci siano anche aspetti positivi, che sarebbe ingiusto sottovalutare. Quando ci muoviamo in rete scorrendo testi o facendo ricerche, noi stimoliamo un’alterazione delle cellule cerebrali e un rilascio di neurotrasmettitori che gradualmente rafforzano nuovi tracciati neurali (attivando in particolare le regioni associate alle decisioni e alla risoluzione di problemi).  Navigare in Rete può davvero “allenare” il cervello, anche  in tarda età. Il problema sta nel fatto che altre aree (in particolare quelle che presiedono al linguaggio, alla memoria e all’elaborazione di stimoli visivi) restano sottostimolate, e sono proprio quelle che la lettura approfondita dei testi promuove. In altri termini, non è solo quello che facciamo in Rete a riconfigurare i nostri cervelli, ma anche quello che rinunciamo a fare, dedicando tutto il nostro tempo ad attività che ci paiono più gratificanti…

*  rende più difficile il consolidamento del ricordo
(sottoponendo ad un carico eccessivo la memoria di  lavoro)
Carr adotta qui la posizione degli studiosi secondo i quali la profondità dell’intelligenza è direttamente legata alla capacità di trasferire le informazioni dalla memoria a breve termine, o memoria di lavoro, alla memoria a lungo termine, e di inserirle in schemi concettuali. Ora, se consideriamo che la memoria di lavoro – una sorta di imbuto – non può gestire troppe informazioni in contemporanea, e che queste inoltre spariscono rapidamente se non vengono riattivate con la ripetizione, risulta evidente come i media, regolando in modo diverso la velocità e l’intensità del flusso informativo, possano esercitare una notevole influenza.
Quando siamo in Internet, spiega Carr, è come se ci trovassimo di fronte a molti rubinetti informativi che vanno tutti a pieno regime, facendolo traboccare il piccolo ditale che abbiamo a disposizione per riempire la vasca della nostra memoria a lungo termine, mentre quando leggiamo un libro dobbiamo fare fronte solo ad  uno sgocciolamento regolare, che possiamo controllare attraverso il flusso della nostra lettura. Quando il carico cognitivo eccede la capacità della mente di elaborare i dati, noi non siamo in grado di attuare questo trasferimento, e di fatto non tratteniamo le informazioni nella memoria.

*  ci spinge ad esternalizzare la memoria
(con conseguenze pericolose per l’identità personale)
Da tutti questi elementi possiamo già inferire, secondo Carr, come l’uso intensivo di Internet abbia conseguenze neurologiche, riconfigurando i nostri cervelli. Quello che peraltro egli mostra di temere maggiormente è l’affidamento della memoria a banche dati esterne, perché questo comprometterebbe a suo giudizio la nostra identità, che non può essere scissa dal ricordo. In effetti l’ultimo capitolo del testo, intitolato “Memoria e ricordo”, è segnato da una appassionata perorazione volta ad evitare che si faccia diventare Mnemosine una macchina.
Per questo Carr inizia col mettere in discussione l’idea che avere a nostra disposizione una memoria elettronica molto più capiente della nostra possa sgomberare uno spazio prezioso nel nostro cervello, da dedicare ad attività più significative (che è poi, come abbiamo visto, l’idea di Michel Serres).
Essa poggia infatti su di una concezione della memoria  come  una specie di disco fisso, che archivia i bit di dati entro posizioni prestabilite e li serve poi come input per i calcoli del cervello: una lunga serie di studi dimostrano invece che la nostra memoria biologica è il prodotto di un processo naturale estremamente complesso, governato da segnali biologici, chimici, elettrici e genetici altamente variabili e dotati di una quantità quasi infinita di sfumature e in perenne mutamento.
La nostra memoria, e il nostro cervello, sono il frutto di una straordinaria ricchezza di connessioni a cui secondo Carr non dobbiamo rinunciare, perché quelle del web non sono e non saranno mai le nostre (è vero che il Web è una rete di connessioni, ma i link sono soltanto degli indirizzi, delle etichette software, non hanno nulla della ricchezza e della sensibilità delle nostre sinapsi…).
Quando affidiamo parte della nostra memoria ad una macchina, conclude Carr, noi le affidiamo anche una parte molto importante del nostro intelletto e persino della nostra identità, non solo personale. La memoria personale infatti modella e conferma quella collettiva, pertanto esternalizzare la memoria rischia davvero da farci diventare, svuotati del nostro patrimonio culturale, “pancake people” (secondo l’incisiva metafora dell’artista Richard Foreman), e cioè “larghi, distesi e sottili”…
 

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Il punto di vista di  un ottimista “pragmatico
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   Howard Rheingold è un  sociologo e saggista
   statunitense, specializzato nelle applicazioni
   culturali, sociali e politiche dei nuovi media.
   Ha coniato, fin dal lontano 1987, il termine
   “comunità virtuali”, vedendo  in  esse uno
   strumento  di   democrazia  decentrata.
   Fra le sue opere, “La realtà virtuale” ( 93)
   e  “Smart  mobs. Tecnologie  senza  fili, la
   rivoluzione sociale prossima ventura”( 2003).
   Il  testo che presentiamo è uscito nel  2012
   negli Stati Uniti, ed è stato pubblicato in Italia
   l’anno successivo da Raffaello Cortina Editore.       

Presentazione e riassunto del testo:
Questo libro nasce da una domanda che uno studioso del calibro di Howard Rheingold, da sempre appassionato utilizzatore della Rete, non può certo evitare di porsi: e cioè come sia stato possibile che quegli stessi strumenti tecnologici nati con l’ambizione di espandere la conoscenza e l’intelligenza umana siano oggi accusati non solo di non aumentarla, ma addirittura di ridurla drasticamente, diminuendo le nostre capacità di attenzione, di concentrazione e di memoria; e ancora, come sia avvenuto che attraverso quella Rete da cui sicuramente si sprigionano nuove e straordinarie possibilità comunicative, volte a promuovere una maggiore partecipazione democratica, escano sovente “fiumane di disinformazione, pubblicità, spamming, pornografia, rumore e banalità…”
Riconoscere gli aspetti inquietanti che si riscontrano nell’utilizzo dei media digitali non vuol dire peraltro rinunciare ad agire: tutti noi, dice Rheingold, discendiamo da antenati che, mentre i loro contemporanei tendevano a rassegnarsi con realismo ad una situazione disperante, non riuscivano a smettere di pensare: “Ci deve essere un modo per venirne fuori”. Anche se non abbiamo garanzie sul futuro, aggiunge, sappiamo che senza conoscenza e impegno non otterremo nulla.

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L’ALFABETIZZAZIONE TECNOLOGICA
COME ELEMENTO EVOLUTIVO
PER L’INDIVIDUO E PER LA SOCIETA’
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E’ proprio in quest’ottica che l’autore, invece di restringere la sua esplorazione al lato oscuro della Rete – cosa che è già stata fatta da altri, con cui si confronterà nel corso del libro - ha preferito chiedersi come essa possa essere usata in modo intelligente, consapevole e veramente “umano”.
Le capacità necessarie per farlo non sono infatti automatiche, ma devono essere oggetto di un progetto di costruzione, che Rheingold ritiene indispensabile non solo per il miglioramento individuale che ne può derivare (se si impara a dirigere la propria attenzione fra i vari media, a controllare la credibilità delle informazioni, a collaborare on line, si possono allargare i propri orizzonti e dirigere meglio il proprio progetto di vita), ma per  far evolvere la nostra stessa civiltà: vivere come cittadini consapevoli e attivi  nella cybercultura può infatti dare vita, a suo giudizio, a nuove e più sane forme economiche, politiche e sociali.
Per ottenere questi risultati occorrerà indubbiamente lo sforzo di molte persone, che siano tanto competenti quanto motivate a costruire comunità virtuali in cui le informazioni siano utili e affidabili, le discussioni civili e produttive, e la collaborazione on line capace di generare quello che l’autore chiama ”il capitale sociale” (intendendo con questo termine il prodotto dell’azione  di individui e di gruppi che possono operare al di fuori delle istituzioni canoniche, servendosi della struttura non gerarchica della  Rete). Oggi non è così, o perlomeno non ancora, e l’uso dei media digitali vede una forte sperequazione non solo fra coloro che sono capaci di usare le nuove tecnologie e quelli che non lo sono, ma soprattutto fra quelli che nell’usarle si dirigono verso il bene comune e quelli che le usano a proprio esclusivo vantaggio.
Dal suo punto di vista, peraltro, le tecnologie non sono responsabili di questi esiti.
Rheingold non condivide infatti l’idea che esse siano propense, per la loro stessa natura, a generare mostri, come sostengono i catastrofisti della rete, ma d’altra parte il suo entusiasmo per le loro possibilità evolutive è temperato dalla consapevolezza delle difficoltà che il loro utilizzo consapevole e positivo presenta, e che possiamo superare solo se siamo disposti ad apprendere quelli che nel testo vengono chiamati  gli alfabeti” della Rete. Ad ognuno di essi l’autore dedica un ampio capitolo, intrecciando riflessioni perspicaci di carattere generale a consigli pratici che derivano dalla sua esperienza di studioso e di insegnante, oltre che di attivo utilizzatore delle tecnologie digitali.
Qui ci limitiamo a indicarne gli elementi più rilevanti, non prestandosi il discorso ad un riassunto più articolato.

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I  CINQUE  ALFABETI
DELLA  RETE
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1) L’attenzione:
Nell’analisi degli alfabeti della Rete Rheingold parte dall’attenzione, ritenendo che il controllo di un mezzo in cui la stessa ricchezza di stimoli è potenzialmente distraente dipenda strettamente dalla nostra capacità di dirigerla. In questo primo capitolo l’autore si confronta particolarmente con Nicholas Carr, che sulla natura dispersiva di Internet aveva scritto alcuni articoli di grande impatto mediatico, facendoli poi confluire nel testo che abbiamo presentato in precedenza (N.B. = renderemo conto più oltre di questo confronto, immaginando con qualche libertà compositiva una sorta di botta e risposta fra i due autori).

2) La capacità di filtrare ciò che è rilevante da ciò che è accessorio o falso (le “bufale”):
Con l’aumentare delle persone che hanno cominciato ad affidarsi al Web per cercare informazioni importanti, la mancanza di una competenza diffusa sul consumo critico delle risorse trovate in rete è diventata, a giudizio di Rheingold, un vero pericolo. Proprio per questo nel secondo capitolo le esemplificazioni sono numerose, come pure i consigli pratici su come effettuare quei procedimenti di “triangolazione” indispensabili per verificare l’affidabilità delle fonti, attivando come principio metodologico basilare un atteggiamento di sano scetticismo (senza pensare cioè che le informazioni in rete siano sempre ingannevoli, ma neanche il contrario…).

3) Il potere della partecipazione:
E’ soltanto partendo dalle capacità analizzate in precedenza che si può promuovere una valida cultura della partecipazione, a cui possono collaborare tutti coloro che usano i media per esprimersi socialmente. L’autore insiste molto sull’importanza che ogni cittadino impari a sviluppare le proprie competenze sociali on line (magari cominciando da attività relativamente semplici – mettere un tag o un like - fino a creare un blog o ad organizzare una comunità virtuale), per evitare che una porzione relativamente piccola ma influente “passi” la propria idea di cultura ad una maggioranza di fruitori passivi.
Rheingold trae dalla propria esperienza possono davvero diventare preziosi. All’interno del capitolo Rheingold apre un’ampia parentesi su Twitter, che pur essendo tutto sommato un social “leggero”, passibile di essere usato in modo banale e autopromozionale, consente di avere a disposizione un flusso continuo di titoli selezionati, con link che rimandano ai vari articoli, diventando così un possibile sostituto della prima pagina dei quotidiani. Giovano a questo risultato, secondo Rheingold, alcune caratteristiche positive di immediatezza e di apertura (Twitter è davvero  una finestra aperta su ciò che sta accadendo nel mondo nel preciso momento in cui lo utilizziamo), l’estrema varietà delle informazioni (con effetti talora disturbanti, ma evitabili, di rumore di fondo), a cui si aggiunge la reciprocità: il fatto cioè che le persone chiedono le informazioni di cui hanno bisogno e si mettono a loro volta a disposizione, entrando in contatto sia con coloro che condividono i loro interessi che con persone nuove (con effetti in questo caso molto desiderabili di ampliamento di orizzonti).
Naturalmente, come per ogni social, per esprimere al meglio le sue potenzialità Twitter richiede all’utente di mettere a punto e affinare la propria Rete, e qui i consigli d’uso che

4) Il know-how digitale, con l’arte e la scienza dell’intelligenza collettiva:
In questo capitolo Rheingold amplia ulteriormente il discorso affrontando il tema della collaborazione on line e della gestione delle comunità virtuali, che richiedono un insieme di saperi teorici e di conoscenze pratiche assieme alla capacità di comunicare e negoziare. Capacità fondamentali, secondo l’autore, perché è da esse che possono nascere forme via via più evolute di intelligenza collettiva, nell’accezione indicata da Pierre Lévy (“Intelligenza collettiva. Per una antropologia  del cyberspazio”) e cioè come un insieme di competenze, comprensione e conoscenza che può essere favorito dai nuovi dispositivi digitali. Essi consentono infatti di condividere ciò che sappiamo e di aggregare i nostri contributi in grandi depositi di conoscenza (vedi Wikipedia); tutti insieme, dice infatti Lévy, siamo più intelligenti che da soli.  In questo peraltro non c’è nulla di radicalmente nuovo, osserva Rheingold: l’avvento del Web ha semplicemente accelerato il corso e aumentato la portata di quel processo di sviluppo di strumenti sempre nuovi che è iniziato con l’invenzione della scrittura da parte dei Sumeri…
Anche in questo caso, naturalmente, è necessario creare una sinergia fra i contributi individuali e quelli collettivi, e vengono date  come sempre alcune indicazioni pratiche a riguardo.

5) La forma del sociale:
Questo capitolo ha un taglio più dichiaratamente sociologico, perché Rheingold presenta gli studi su come si strutturano i legami in Rete e sul rapporto fra gruppi comunitari tradizionali e gruppi virtuali. Secondo le ricerche di Barry Wellman, che ha condotto una ricerca empirica e di ampio periodo sulla sociologia della vita online, è possibile dare risposte rassicuranti alla paura, fortemente diffusa, che le relazioni sociali tradizionali possano venir meno col passaggio dalle comunità di vicinanza spaziale a quelle virtuali.  Tutti gli studi concordano infatti nell’asserire che le Reti non entrano in conflitto con le altre comunità, ma si integrano con esse, pur trasformando il rapporto “da casa a casa a persona a persona”. La tecnologia mette anzi più fortemente al centro l’individuo – per questo Wellman ha coniato il termine di “individualismo interconnesso” , permettendogli di fare affidamento su di una  molteplicità di persone e risorse.
Naturalmente non è da sottovalutare il rischio che questo nuovo potere dell’individuo venga assorbito da interessi commerciali, nondimeno le reti consentono di stabilire molti tipi di legami -  forti o deboli a seconda della quantità di tempo e di intensità emotiva che poniamo in essi -  che possono tornare utili (spesso anzi sono proprio quelli deboli a permetterci di cercare nuove informazioni, stimolando innovazione). L’importante, secondo Rheingold, è che siano il più possibile diversificati, e  che si creino  “ponti” fra tutte le reti a piccolo mondo. 
Sempre in questo capitolo, l’autore ci invita in modo particolare (facendo riferimento al lavoro di uno dei più importanti studiosi delle reti, Manuel Castells) a riflettere sul fatto che ormai le reti virtuali abbracciano tutto lo spazio pubblico, determinando il modo in cui ci informiamo, apprendiamo, comunichiamo. Nel farlo, esercitano un potere diverso da quello delle élites tradizionali, ma non meno significativo: possono controllarle e in molti casi contrastarle (pensiamo alla primavere arabe), ma non possiamo aspettarci che tutti i cambiamenti operati dalle reti siano promotori di democrazia o ispirati al bene comune. Nondimeno, è fondamentale per tutti noi sapere che cosa sta succedendo e quali sono le forze spesso invisibili che stanno guidando molti dei fenomeni economici e sociali a cui stiamo assistendo.
In questo capitolo Rheingold apre un’ampia parentesi su Facebook, assumendo una posizione molto netta. A suo giudizio, sapere bene come funziona questo social network che ha ormai colonizzato mezzo mondo non è più un optional, perché esso mette in gioco questioni cruciali che riguardano l’identità, la privacy, la reputazione, la socialità. Se lo si usa bene, funziona come una sorta di lubrificante sociologico, amplificando la possibilità di mettersi in contatto, di creare ponti, di coltivare e raccogliere capitale sociale. Nondimeno, il suo uso è disseminato di trappole per evitare le quali, dice Rheingold, non esiste un prontuario facile e pronto all’uso, anche se da parte sua cercherà di dare tutte le indicazioni possibili per evitarle, perché Facebook cambia continuamente le linee di condotta sulla privacy e le modalità che usa per consentire o forzare i suoi membri a interagire.
Spesso coloro che usano questo social con superficialità tendono ad ignorare il problema della persistenza (quello che diciamo ci resta appiccicato addosso), della rintracciabilità (è molto facile essere trovati, anche quando  non lo desideriamo) e della replicabilità (non abbiamo il controllo di ciò che un “amico” potrebbe mostrare a un “non amico”): un problema serio, quest’ultimo, dice Rheingold, specie per quanto riguarda i fenomeni di bullismo.
In Facebook  inoltre i confini fra pubblico e privato sono estremamente labili, con implicazioni sociali e culturali assai rilevanti.

IN  CONCLUSIONE

Benché il testo sia notevolmente “denso” (questo riassunto si limita davvero ad indicarne alcuni elementi), secondo Rheingold nessuna delle conoscenze che ha cercato di trasmettere è a suo parere particolarmente difficile da mettere in pratica, anche se può essere abbastanza complicato farlo da soli, perché occorre combinare insieme conoscenze alquanto disparate per poter crescere nella cultura digitale senza perdere la propria umanità, anzi arricchendola.  Per questo ha cercato di offrire il contributo dei suoi studi personali, del confronto con altri ricercatori, della sua ormai lunga esperienza di utilizzatore della rete.  
Si rende peraltro ben conto che non sarà comunque sufficiente lavorare su questi alfabeti, perché per diventare cittadini davvero consapevoli e attivi nel consesso democratico occorre essere forniti di intelligenza sociale ed emotiva, oltre che di solide competenze scientifiche (tanto più necessarie oggi, osserva, quando assistiamo al tentativo di oscurare gli ideali illuministici basati sulla ragione e sul metodo scientifico); non ignora, inoltre, il fatto che spesso il livello di istruzione familiare risulta ancora determinante, per quanto le istituzioni culturali e scolastiche possano sforzarsi di tenere il passo con le nuove esigenze.
Nonostante la consapevolezza dei problemi, Rheingold è convinto che sia possibile promuovere una sfera pubblica interconnessa e positiva; spera anzi che le conoscenze e il know –how digitale si diffondano on line “con la velocità e la pervasività di un video virale”.  Sa bene di attirarsi le accuse di eccesso di ottimismo, ma le respinge facendo mostra di considerarsi piuttosto un realista pragmatico, che ha scelto di vedere “il bicchiere mezzo pieno”.
Conclude pertanto il testo invitando ciascuno dei suoi lettori a entrare senza paura nella Rete, che rappresenta l’estensione dei gruppi sociali tradizionali senza porsi in alternativa con essi, e che soprattutto, se usata in modo consapevole, può davvero contribuire ad estendere le nostre potenzialità  intellettuali e sociali.


N.B. = Diamo ora spazio al confronto diretto che Rheingold istituisce, ll’interno del capitolo sull’attenzione, con i critici della Rete (abbiamo cercato di renderlo più vivace immaginando una sorta di “botta e risposta”)


RHEINGOLD  versus CARR

 
Le tecnologie digitali                                       La responsabilità della superficialità  favoriscono  la superifialità                                              è personale

              (dice Carr)                                                   ( risponde Rheingold)
                                                   
  Come si può facilmente evincere da questa pur breve presentazione, la posizione di Rheingold è molto diversa da quella di Carr. Non sarebbe giusto peraltro definirla totalmente antitetica, perché Rheingold in realtà fa sue molte delle preoccupazioni manifestate dai critici della Rete: anche per lui è un dovere essenziale chiedersi che cosa stia succedendo alle nostre menti, al nostro linguaggio, alle nostre relazioni sociali.
Su alcune questioni peraltro la posizione di Carr gli sembra viziata da un determinismo psicologico che da parte sua rigetta nettamente.
Poniamo, ad esempio, il tema della distrazione, che secondo Carr è indotta dalle tecnologie digitali attraverso la multimedialità e il design dell’interfaccia grafica (le finestre che continuamente si aprono e che rappresentano, secondo lui, frammenti incompleti e fuorvianti rispetto alla concentrazione).
Per Rheingold invece i link da cui Carr appare ossessionato sono come nuclei di conoscenza che possono aprire connessioni importanti senza necessariamente distrarci dal nostro compito, perché noi siamo sempre in grado di scegliere, a livello individuale e sociale, come vogliamo istruirci.
Può essere certo vero che le usuali modalità di ricerca in Rete non offrano molti incentivi verso l’approfondimento e che possano dare risultati superficiali, tuttavia “il pensare in modo superficiale e pigro”, dice Rheingold, non dipende dal mezzo, ma da noi: se le nostre domande e le nostre motivazioni sono superficiali, attiveranno risposte superficiali. La chiave di tutto, per lui, è il fattore umano…
Del resto, osserva ancora Rheingold utilizzando abilmente il discorso di Carr sull’estrema plasticità del cervello, ma rovesciandone il segno, se i nostri cervelli sono così flessibili e facilmente condizionabili dall’uso della tecnologia, potremo senza troppa difficoltà cambiare le nostre abitudini di pensiero sviluppando a livello sociale e istituzionale una pedagogia dell’attenzione (che è poi quello che l’autore fa nei suoi corsi). Per salvare il tesoro di quella che Carr definisce “la mente letteraria” non è necessario rinunciare ai media, come a quanto pare ha fatto questo studioso per scrivere il suo libro (qui Rheingold, che è in generale assai rispettoso delle posizioni diverse dalla sua, si permette una battutina ironica, osservando che invece di trasferirsi sulle montagne del Colorado per sfuggire alla connessione, lo scrittore avrebbe anche potuto limitarsi a coltivare una disciplina interiore…): basterebbe “mettere un po’ di sabbia nei meccanismi dell’attenzione”, evitando di procedere in automatico.
Assumere punti di vista estremi, come ha fatto Carr, funziona bene come espediente letterario, ma implica per Rheingold la rinuncia alla domanda fondamentale: “Possiamo rinunciare a trasformare i nuovi modi di pensare in una qualità positiva di Internet, come abbiamo fatto con la cultura alfabetica – contro cui Platone aveva messo in guardia – grazie a regole e istruzione?”*
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Il multitasking                                                E’ vero, ma si possono imparare        sovraccarica il cervello                                         strategie correttive                  
       (dice Carr)                                                       (risponde Rheingold)                                                                                                            
Sul tema del multitasking, altro oggetto del contendere fra i due studiosi, Rheingold si confronta con la ricercatrice Linda Stone, che ha cominciato ad occuparsi dell’influenza dell’uso dei social media sul corpo identificando la cosiddetta “apnea da email” (il fatto che molte persone, compresa lei stessa, tendano a trattenere il respiro quando scrivono o leggono mail): una constatazione che l’ha spinta a considerare il respiro come un importante regolatore dell’attenzione, che può aiutarci a frenare le nostre reazioni irriflesse.
Sul tema del multitasking la Stone ha osservato che nelle persone impegnate contemporaneamente nella comunicazione e nella ricerca di informazioni si manifesta una sensazione  artificiosa di crisi, che può ostacolare sia la riflessione che le relazioni sociali, con risultati negativi sulla salute (in quella che  lei definisce ”attenzione parziale continua” c’è infatti un’alternanza disturbante fra simultaneità e sovrapposizione delle connessioni, a seconda delle diverse circostanze sociali in cui siamo immersi).
Su questo punto peraltro Stone e Rheingold concordano: per entrambi non si tratta di fare crociate contro il multitasking, ma di imparare a gestire l’attenzione – anche, ma non solo, regolando il respiro – per rendere la mente più flessibile e capace di adottare strategie diversificate (far diventare l’attenzione una vera e propria disciplina scolastica? Forse sarebbe utile, dice Rheingold, insegnare ai futuri cittadini digitali questa capacità già nei primi anni di scuola…)

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  l’uso di SMS e di email   impoverisce il linguaggio, Rheingord concorda, ma in gioco c’è sempre l’elemento umano,  e le relazioni,   che può correggere i suoi errori   (dicono Baron e altri…)  
                             
Su questo tema Rheingold si confronta non tanto con Carr (benché questi abbia espresso nel suo testo la preoccupazione per l’influenza che i media esercitano sulla scrittura, favorendo l’uscita di testi pensati per adeguarsi alle esigenze di lettori ben poco propensi ad alimentare una “mente letteraria”), ma più in particolare con Naomi Baron, una studiosa che ha analizzato le conseguenze dell’uso di quelli che definisce “l’email e i suoi discendenti”.
Rimpiazzando gli scambi orali con parole scritte, le mail e ancor più gli SMS hanno favorito l’uso delle abbreviazioni, e in generale una scrittura in cui l’aumento della quantità è andata a scapito della qualità. Le mail ci consentono inoltre di modulare a nostro piacere “la manopola del volume” (cioè di decidere con chi, quando, per quanto tempo vogliamo interagire), con effetti che l’autrice, e ancor più un’altra studiosa del fenomeno, Sherry Turkle, considera distorcenti sul piano della relazione sociale.  Molte persone infatti tendono sempre più a mandare mail o SMS per controllare le loro relazioni, dimenticando che queste comunicazioni sono inadatte, a giudizio delle due studiose, a sperimentare una reale affinità fra le persone.
Anche secondo Rheingold, che ne ha fatto personalmente esperienza, è molto pericoloso limitarsi a fare parte di comunità in cui si può entrare o uscire con un clic, ma ancora una volta ribadisce la sua convinzione che la scelta sia nostra e che possiamo imparare ad equilibrare queste comunicazioni con le altre in cui ci si incontra viso a viso. Per questo fa sue le osservazioni di un altro studioso, Clay Shirty, che in risposta a Carr osserva come quella che siamo vivendo oggi non sia che l’ultima di una serie di sfide che l’umanità ha dovuto via via affrontare con l’ingresso di nuove tecnologie comunicative, che hanno richiesto sempre tempi lunghi di adattamento. I contorni di questo passaggio, dice Shirty, “non sono scritti nella pietra”: tutto è ancora in evoluzione. Siamo ancora lontani dall’essere capaci di tenere testa e di plasmare quella che considera comunque una rivoluzione feconda di possibilità creative.

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Internet ci coinvolge  un rischio reale  emotivamente dandoci rinforzi positivi        ma non è la macchina ad usare noi che alimentano il  bisogno                                siamo noi a decidere  di essere sempre “connessi”  se vogliamo usarla o essere usati…  (Carr, Turkle e altri…)    Rheingold  non demorde… )

   
Riconosciamo certo nella prima affermazione una delle tesi di Carr, anche se Rheingold su questo punto si confronta ancora con Sherry Turkle, che nel testo “Insieme ma soli” concentra la sua attenzione sui rischi di alienazione e sulla perdita della capacità di stare da soli. Un rischio, questo, che non corrono solo le nuove generazioni, ma anche molti adulti il cui bisogno di controllare continuamente la posta o Twitter può assumere caratteristiche patologiche.
In effetti, ammette Rheingold, alcuni dei nostri comportamenti in Rete hanno spesso “una sgradevole somiglianza con una forma di compulsione”, simile del resto a quella del cibo o del sesso, in cui può entrare in gioco anche una componente ormonale (alcuni studi dimostrano infatti che il comportamento di controllo potrebbe essere rinforzato dalla sensazione di contatto, mediato chimicamente dall’ossitocina).
Nondimeno, pur condividendo la preoccupazione di molti studiosi per gli effetti potenzialmente destabilizzanti dei media,  Rheingold  rifiuta l’idea che sia la macchina stessa a controllare il modo in cui usiamo il meccanismo: la sua posizione resta fino all’ultimo quella di un illuminista, persuaso che la ragione umana abbia in sé tutte le possibilità di controllare l’oscurantismo, e che le capacità decisionali siano strettamente legate al libero arbitrio del soggetto.                                                       

                                                       
E ancora, per concludere:


CARR  E  RHEINGOLD
VERSUS  SOCRATE  E  PLATONE



   
  
In entrambi i testi esaminati troviamo un riferimento al Fedro platonico, il dialogo in cui Socrate discute dell’amore, della bellezza e dell’arte retorica, affrontando attraverso un mito il tema della parola scritta che stava allora sostituendo lentamente la cultura orale come pratica per esprimere il pensiero (se pure in una parte ancora minoritaria della popolazione). Prima di vedere come i due autori si confrontano con il testo platonico, ricordiamo la posizione di Socrate a questo riguardo, che è molto netta:
Secondo il racconto che Socrate fa a Fedro, il dio Theuth, inventore del calcolo, della geometria, dell’astronomia e dell’alfabeto, venne un tempo presso il re dell’Egitto Thamus per illustrargli i benefici delle varie arti, sostenendo la convenienza nel farne dono al popolo.
Quando si trattò della scrittura, Theuth sostenne che questa scienza avrebbe reso gli egiziani più sapienti, arricchendo la loro memoria. Di diverso avviso fu peraltro il re, secondo il quale l’alfabeto  “ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei “.  E ancora, aggiunse, la sapienza che il dio offre ai suoi scolari è soltanto apparente “perché essi, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti”.
Proseguendo il discorso con Fedro, Socrate mostra di condividere la posizione di Thamus: spiega infatti all’amico che le parole scritte possono apparire permanenti solo agli ingenui. Al massimo esse “possono rinfrescare la memoria a chi sa le cose di cui tratta lo scritto   senza contare che  “una volta messo in iscritto, ogni discorso arriva alle mani di tutti, tanto di chi l’intende tanto di chi non ci ha nulla a che fare; né sa a chi gli convenga parlare e a chi no. Prevaricato ed offeso oltre ragione esso ha sempre bisogno che il padre gli venga in aiuto, perché da solo non può difendersi né aiutarsi”.
Socrate sostiene dunque che la dipendenza dall’alfabeto non solo non aumenterà la sapienza e la memoria, ma finirà col deteriorarle entrambe ingenerando superficialità e supponenza: solo il passaggio diretto fra maestro e allievo può infatti  a suo giudizio  portare ad una vera maturazione intellettuale e morale.


 Carr versus Socrate:

Veniamo ora a Carr. Sicuramente abbiamo potuto notare, analizzando il suo testo, un’eco del discorso di Socrate nelle appassionate perorazioni di questo autore sui pericoli dell’esternalizzazione della memoria resa possibile dalle nuove tecnologie digitali, come nell’impianto complessivo del discorso, tutto teso a sottolineare i rischi della transizione dall’era del libro all’era di Internet.
Tuttavia, per comprendere in che termini esattamente avvenga il confronto, occorre tornare al capitolo del testo in cui Carr, passando in rassegna le tecnologie intellettuali che hanno influenzato il modo in cui pensiamo e ci rapportiamo al mondo, evidenzia il ruolo fondamentale dell’invenzione dell’alfabeto fonetico greco, che ha costituito a suo giudizio una delle più radicali e proficue rivoluzioni della nostra storia intellettuale col passaggio dalla cultura orale a quella scritta.
Una transizione non priva di criticità su cui Platone si è interrogato, condividendo da un lato le preoccupazioni del suo maestro, anche se dall’altro – come  fa notare Carr esaminando passi diversi e in parte contradditori contenuti nella Repubblica – non poteva non riconoscere le potenzialità della scrittura, che del resto sono evidenti nel suo stesso sistema filosofico la cui struttura analitica, secondo alcuni autori da lui citati  (Hawelock, Ong e altri classicisti) discende direttamente dall’influenza della scrittura sui processi mentali. 
In effetti, anche se la cultura orale dei nostri antenati possedeva probabilmente delle profondità emotive e intuitive che non siamo più in grado di apprezzare, Carr ritiene che essa fosse dal punto di vista intellettuale più superficiale della nostra. A suo giudizio infatti la scrittura, affrancando il sapere dai vincoli della memoria individuale e liberando il linguaggio dalle strutture ritmiche e convenzionali necessarie per la memorizzazione e la recitazione, ha aperto nuove frontiere, con conseguenze profonde  e positive sul nostro linguaggio e sulla nostra mente (soprattutto da quando l’invenzione della stampa ha potuto unire la registrazione delle informazioni con la loro accessibilità di massa): cosa che non possiamo aspettarci invece dalle  nuove tecnologie digitali, che andranno secondo Carr ad azzerare tutto questo, facendoci retrocedere.
Ci sono nondimeno alcuni elementi di contraddizione, nel suo trasferire pari pari nei confronti di Internet gli argomenti di Socrate contro la scrittura, ritenendo d’altro lato che essa abbia portato un enorme surplus di valore nella storia intellettuale umana: molti dei suoi critici ritengono infatti che la rivoluzione digitale, aggiungendo l’elaborazione automatica delle informazioni alla loro registrazione, si situi in un certo senso nella stessa direzione delle precedenti, anche se l’estrema velocità in cui si sta realizzando rappresenta un problema su cui davvero conviene interrogarsi. In effetti è quanto fa un’autrice citata da Rheingold, a cui diamo ora spazio.

 Rheingold versus Socrate:

Rheingold non si confronta direttamente con il dettato platonico, al di là del breve riferimento che abbiamo evidenziato. Lo fa peraltro indirettamente, chiamando in causa una studiosa verso cui nutre grande stima, Maryanne Wolf, direttrice del Center for Reading and Language Research alla Tufts University.
Nel testo intitolato “Proust e il calamaro” la Wolf  spiega che l’apprendimento della lettura è stato possibile solo grazie alla neuroplasticità del cervello, che sfruttando strutture neuronali preesistenti (non siamo “nati per leggere”) ha impostato nuovi collegamenti, permettendo un avanzamento del processo di alfabetizzazione. La neuroplasticità funziona dunque a nostro favore, ma bisogna ricordare che il processo necessario alla costruzione dei meccanismi necessari alla lettura – come del resto quello richiesto dal pensiero stesso - ha avuto bisogno  di  tempi molto lunghi:
 “ le capacità intellettuali scrive  infatti Wolf – “sono fiorite a causa del misterioso dono del tempo per pensare che sta nel cuore  dell’architettura del cervello che legge”.
Per questo è più che necessario comprendere le dinamiche che stanno alla base dell’incontro fra il nostro cervello e il Web, perché ora ci troviamo di fronte  ad una tecnologia che ha impresso una forte accelerazione al processo, e pertanto secondo questa studiosa l’invito alla cautela di Socrate va tenuto  ben presente. In fondo, dice la Wolf, quello che Socrate temeva non era tanto la lettura, ma la comprensione superficiale, e questo è anche il suo timore: esiste infatti, a suo giudizio, un ben concreto  pericolo, e cioè  “che i nostri figli rischino di diventare proprio ciò da cui Socrate ci aveva messi in guardia – una società di decodificatori di informazioni, la cui falsa impressione di conoscenza li distrae dall’impegnarsi a  valorizzare fino in fondo il loro potenziale intellettuale”.
Perché questo non avvenga, e qui le opinioni di  Rheingold e Wolf  coincidono, occorre istruirli bene, nella consapevolezza della sfida che le nuove tecnologie intellettuali pongono: il che significa, secondo Wolf  (il cui interesse per la didattica nasce anche dall’essersi confrontata direttamente col problema di aiutare il proprio figlio dislessico nell’apprendimento della lettura, e nell’aver studiato scientificamente la dislessia), insegnare ai bambini ad essere sia bitestuali che multitestuali, cioè capaci di analizzare i testi in modo flessibile cogliendone tutti gli aspetti inferenziali, ovviamente con modalità diverse ad ogni stadio di sviluppo.
Una proposta, la sua, che Rheingold accoglie con grande favore, giudicandola del tutto in linea con la sua pedagogia dell’attenzione e della consapevolezza.

                                
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ALTRE  PROPOSTE  DI  LETTURA:





Frank  Rose, giornalista  e scrittore,
si definisce  “un antropologo digitale”
occupandosi  di new media e del loro
impatto  sulla società e studiando in
particolare i fenomeni più importanti
della  cultura pop contemporanea.
Collabora con  riviste  di tendenza
come “Wired”, “Magazine”, “Fortune”
e “Rolling Stone”.
Il libro che presentiamo è stato
pubblicato  nel 2013.                                                
           

                
                                                         
PRESENTAZIONE:

Fra i testi consigliati dai due relatori, quello che ora presentiamo è sicuramente uno dei più interessanti e come tale meriterebbe un’analisi approfondita. Qui peraltro ci limiteremo a qualche breve accenno volto a chiarire il particolare approccio scelto dall’autore e il contributo che la lettura del libro può dare a questa nostra  “indagine sulla mutazione”.
E’ infatti in un mondo dove molte cose si stanno muovendo – quello dello storytelling  nell’era di Internet - che Frank Rose ci conduce come una sorta di antropologo digitale, muovendo dall’assunto che gli esseri  umani, nel loro bisogno di dare senso al mondo e di condividerlo con gli altri, sono a qualunque latitudine e longitudine e in qualunque tempo  dei ”cacciatori di storie”. In effetti essi non smettono mai di crearle, di raccontarle, di immergersi in esse, via via conservandole o trasformandole, pur adottando modalità diverse a seconda dei vincoli o delle opportunità offerte dalle tecnologie intellettuali che ogni cultura in un dato momento storico offre, e che rappresentano l’unica variabile reale.
E’ appunto sulla variabile introdotta dalle nuove tecnologie digitali che l’autore si interroga, introducendoci via via, da una posizione privilegiata – cioè da dietro le quinte - tanto nel mondo di coloro che  influenzano e governano oggi il nostro immaginario (i creatori di serie TV come Mad Man o Lost, i registi che hanno dato vita agli universi fantastici di Avatar e alle saghe epiche di Guerre Stellari, gli ideatori di videogames …) quanto nel mondo parallelo della generazione social, che sfruttando le possibilità di interazione e di immersione offerte dai nuovi media vuole assumere un ruolo sempre più attivo nella costruzione delle storie stesse (non poi troppo diversamente, osserva Rose, di quanto facevano i lettori dei romanzi a puntate di Dickens, di cui lo scrittore doveva pure tenere conto, modificando spesso gli sviluppi della trama in base alle loro reazioni…).
Questo accenno alla continuità non implica però il fatto che non si stiano già manifestando dei cambiamenti sostanziali, la cui portata spesso non è stata nettamente percepita nella fase iniziale neanche dagli stessi ideatori, quando non occultata ad arte secondo l’accorta strategia messa in atto in tempi assai diversi da Daniel De Foe (“Questa è una storia vera”, diceva infatti del suo Robinson, per far prendere sul serio quello che di fatto era un romanzo a lettori che sarebbero stati altrimenti diffidenti  verso nuove modalità narrative). Così, pure essi potevano dire “Questa è solo una storia, oppure questo è solo un gioco” mentre la canonicità della narrazione lineare stava già cominciando a sgretolarsi, dal momento che le storie e i giochi non si muovevano più in uno spazio dai precisi confini, separabile e perimetrabile.
D’altro lato, e connesso a questo, la possibilità di interazione degli spettatori/ agenti sta creando una crisi di  autorialità. Nel mondo modellato sullo schema che Rose definisce command  and  control”,  a raccontare una storia e a detenerne la legittima proprietà intellettuale è l’autore:  le cose cambiano  però se il pubblico è libero di entrare a suo piacere nel mondo fittizio delle storie, appropriandosi di pezzi della trama e variamente ricomponendoli. Non è fantascienza, è già realtà: Rose racconta infatti che nel 2008, all’inizio della terza stagione di Mad Man  (una serie Tv che  mette in scena il mondo dei pubblicitari newyorkesi negli anni 60 e 70) alcune persone cominciarono a twittare firmandosi con i nomi dei vari personaggi e imbastendo trame complementari o parallele.
I loro account furono poi sospesi, ma intanto questo esperimento aveva reso evidente che si stava passando ad un modello diverso, quello del “sense and repond”.  Oggi, dice Rose, la comunicazione non va più nella direzione dell’uno ai molti, anche se un autore può ancora parlare a milioni di persone: Internet ha cambiato la rotta, rendendo gli spettacoli  televisivi e cinematografici dei catalizzatori dell’attenzione, piuttosto che prodotti per  couch potatoes”…
Nondimeno, è necessario porre alcuni distinguo. Intanto, perché la transizione non è del tutto compiuta, e le due modalità della cultura pop – quella che vede l’autore distinto dallo spettatore, e quella in cui lo spettatore può entrare nella storia e diventarne agente – sono ancora compresenti, senza contare che in qualche caso, come dimostrano molti esempi forniti dall’autore, la natura partecipativa dell’esperienza è più illusoria che reale. Ma soprattutto non è ancora possibile individuarne con tutta sicurezza la direzione, perché Internet di fatto è ancora “giovane”.
Scrive infatti Rose:
 “il futuro chiama, ma per ora ne abbiamo inventato solo la metà. Il profilo di una nuova forma d’arte è già visibile, ma le sue regole sono labili e sfuggenti come quelle del cinema un secolo fa”.
 Un futuro che l’autore trova sicuramente affascinante (facendoci partecipe, con la sua scrittura brillante, di questa sua posizione aperta), senza sottovalutare gli aspetti che possono generare inquietudine. Non sappiamo ancora, dice, fino a che punto diventeranno immersivi i mondi che si stanno costruendo, e se è vero che come lettori e spettatori siamo sempre stati disponibili a sospendere temporaneamente la nostra incredulità (“temiamo la finzione, ma non vediamo l’ora di immergersi in essa”), bisogna anche chiederci come ce la caveremo quando il confine fra realtà e finzione diventerà ancora più labile: sarà bene, dice scherzando, fare come il protagonista del film di Christopher Nolan  “Interceptor” – Leonardo di Caprio - che dovendosi infilare nei sogni degli altri  porta sempre con sé una piccola trottola, che smette di girare solo quando ritorna nel mondo reale…
Allo stesso modo, dobbiamo sapere bene quali sono i meccanismi motivazionali e biochimici che si attivano quando siamo immersi in una storia, tenendoci incollati allo schermo, perché solo conoscendo le nostre vulnerabilità e le concrete possibilità di essere manipolati emotivamente potremo agire come individui liberi.
                                     
     
          




Simon O. Sinek, britannico,
 è  relatore motivazionale
e consulente di marketing.
 In questa veste ha elaborato
 dei modelli di comunicazione
 basati  sulla  biologia  del
 processo decisionale umano.
 Alcuni dei suoi testi sono stati
 tradotti e  pubblicati di recente
 dall’editore  Franco  Angeli:
“Partire  dal  Perché”   e
 “Ultimo  viene  il  leader”                      

PRESENTAZIONE:

Mentre il testo di Rose ci conduce in alcuni dei luoghi della mutazione contemporanea, mettendo in scena quei particolari “mutanti” del cyberspazio animati dalla brama di immergersi in storie che accadono in un universo fittizio (apparentandosi, in questo, con le indagini di Baricco e di Serres), il testo che adesso presentiamo – pur nella lettura parziale che ne abbiamo fatto – può essere visto invece come un completamento e una risposta ad alcuni problemi sollevati da Rheingold.
Certo ricordiamo che questo autore, opponendosi a Carr e all’idea di una incompatibilità fra Internet e la mente profonda, esprime la sua convinzione che la superficialità non stia nel mezzo, ma eventualmente nel nostro modo di rapportarsi con esso, nel perché lo usiamo, da come poniamo le nostre domande. Ora il testo di Sinek affronta  proprio in modo specifico questo aspetto (che Rheingold non approfondisce), partendo esso pure da una domanda:
perché alcune persone – e alcune aziende – sono più influenti ed efficaci di altre?
Attraverso un ampio ventaglio di casi personali e aziendali, senza peraltro limitarsi ad esaminare il tema in un mero contesto di marketing e di business (muovendosi piuttosto come una sorta di etologo o di antropologo culturale, quale in effetti è), Sinek spiega che ogni scelta che compiamo dipende dal tipo di domanda che poniamo a monte, ed è ispirata da una motivazione profonda, quasi inconscia, difficile da spiegare a parole. E questo sostanzialmente perché nel processo decisionale entrano in gioco due sezioni ben distinte del cervello umano: la neo-corteccia ed il sistema limbico.
La neo-corteccia è la parte esterna, che circonda il nostro cervello ed è responsabile del pensiero razionale e analitico: questa sezione ha anche proprietà di linguaggio per cui, ogni qual volta ci troviamo a prendere una decisione basata puramente sulla logica, siamo perfettamente in grado di spiegare il processo di scelta svolto. Il sistema limbico si trova invece al centro del cervello ed è l’area responsabile dei nostri sentimenti e delle decisioni istintive: volendo semplificare la questione, è l’area più irrazionale e, al contrario della neo-corteccia, non è dotata di proprietà di linguaggio.
In questa ottica, comprendiamo che la neo-corteccia, la parte più esterna, è quella che ci permette di “fare cose”, ma è il sistema limbico, il centro, che offre la reale motivazione delle nostre scelte. Nel mezzo tra  cosa” e  perchè” c’è il “come”, ossia le modalità organizzative.
Partendo da queste considerazioni, Sinek ha elaborato un modello di comunicazione ispirato non tanto alla psicologia quanto alla biologia del processo decisionale umano, che definisce “The Golden Circle”.
Esso consiste semplicemente nell’iniziare ogni comunicazione partendo dal “perché”, facendolo seguire dal “come” e dal “cosa” (l’esempio che porta è il modello comunitivo impostato da Steve Jobs per Apple, radicalmente diverso da quello seguito in precedenza dalle altre aziende del settore, e risultato pertanto straordinariamente efficace).
Sinek ritiene che questa modalità possa essere applicata a qualsiasi realtà, e sia in grado di spiegare la differenza, in termini di efficacia, tra chi punta solo al “cosa” e chi invece agisce mosso da un “perché” chiaro e preciso: essere innovativi, secondo Sinek, non richiede infatti un talento particolare, ma metodo e disciplina, come evidenziano i percorsi di coloro che più di altri sono stati fortemente animati da un “perché” (Sinek fa l’esempio di Steve Jobs, di Marter Luther King, dei fratelli Wright: personaggi diversissimi, ma che avevano questo comune denominatore).

                                                        …………………………………………


N.B. =  In questo excursus sui testi proposti dai due relatori manca quello di Zygmunt Bauman ((Vita liquida), che avrebbe richiesto  un’analisi più approfondita. Nella scelta di riassumere i testi si  è cercato di privilegiare quanto più possibile la modalità argomentativa degli autori, pur nella consapevolezza dell’impossibilità di renderne il particolare stile e allo stesso modo di superare la parzialità interpretativa connessa inevitabilmente  ad ogni  atto riassuntivo: per questo motivo, la compilatrice  si assume la responsabilità di eventuali errori  e fraintendimenti  



                                                                                          

                                                                               per  “CircolarMente”
                                                                Gallo Enrica – Enrietti Nives – Bosio Daria

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