Relazione sulla
conferenza del prof. Egidio Dansero:
MEMORIA
E TERRITORIO
Presentazione a cura di Massima
Bercetti:
Al
prof. Egidio Dansero, docente di Geografia economico-politica presso l’Università
di Torino e promotore dell’Atlante del cibo (un programma che coinvolge
l’Università di Torino, il Politecnico, l’Università del Gusto di Pollenza
assieme a molti altri attori presenti sul territorio metropolitano e interessati
ai temi della produzione e del consumo sostenibile) CircolarMente ha chiesto di
mettere a fuoco il rapporto fra due termini – memoria e territorio – nell’idea che la loro mancanza di legame, o
altrimenti la loro eccessiva fusione, possano avere esiti inquietanti. Se infatti
da un lato l’esasperazione di questo rapporto richiama alla mente certe
pulsioni reazionarie e nazionalistiche che si stanno manifestando in modo
sempre più marcato e insidioso nella nostra stessa casa europea, dall’altro la
mancanza della memoria del territorio può portare ad esiti davvero
emergenziali, come alcuni casi recenti hanno messo drammaticamente in evidenza. E’ sembrato pertanto opportuno, in un
percorso annuale che si sviluppa attorno ai temi della memoria e
dell’emergenza, variamente intesa come ciò che semplicemente si manifesta o
invece come ciò che crea inquietudine, dare un risalto particolare all’incontro
con il prof. Dansero, che per la sua esperienza può aiutarci a chiarire il
concetto di territorio e a decifrare la complessità della sua relazione con la
memoria.
Prima parte:
IL
TERRITORIO COME PALINSESTO:
LO
SPAZIO DELL’INQUIETUDINE
Nell’aprire il suo intervento, il prof.
Dansero spiega intanto di aver accolto con piacere la richiesta di
CircolarMente, perché nel suo percorso di studi e poi accademico questo tema è
comparso, se non in modo diretto, in varie forme che ora cercherà di
esplicitare. Prima di farlo tuttavia vuole lasciare spazio al tema
dell’emergenza presente nelle parole di Massima Bercetti, ricordando attraverso
una serie di immagini davvero inquietanti alcuni esempi paradigmatici relativi
a cosa può succedere quando ci riveliamo immemori del passato e dei suoi
insegnamenti, o altrimenti quando agiamo in spregio alle regole di
funzionamento dell’ambiente.
RIGOPIANO
(19/11/ 2017): 29 VITTIME
Tutti noi ricordiamo
sicuramente le tragiche immagini di quell’albergo sepolto sotto la slavina
staccatasi dalla cresta sovrastante, l’angoscia per i soccorsi che tardavano
sia per l’inagibilità della rete stradale dovuta alle abbondanti nevicate che
per la mancanza di mezzi idonei a sbloccarla. Un disastro naturale? Solo in
parte, osserva il prof. Dansero, facendo riferimento al fatto che l’albergo era
stato presumibilmente costruito in una zona a rischio, forse addirittura – come
si ipotizzava in uno studio del 99 sul territorio della valle - sui detriti di
una valanga caduta nel 1936. Mancanza di legame fra memoria e territorio,
dunque, disastro naturale ma anche improntitudine umana, come nel caso più
lontano ma ben presente ancora alla memoria collettiva che il relatore presenta
in successione.
VAJONT
(9/10/63): 1910 VITTIME
Come sappiamo, qui non
è stata la diga costruita pochi anni prima a cedere, ma una gigantesca frana a
precipitare nell’invaso del bacino artificiale da essa creato facendolo
tracimare e spazzando letteralmente via uomini, animali e case del fondovalle,
in particolare a Langarone. Nessuno evidentemente aveva tenuto in debito conto
il fatto che le generazioni passate avessero dato a quel monte un nome alquanto
rivelatore (Monte Toc), per trasmetterlo alle generazioni future che peraltro,
in un periodo di apoteosi della fiducia nella tecnica e nella capacità
dell’ingegneria e della conoscenza umana di dare ordine al mondo, non erano
state capaci di darvi ascolto (nel corso dei vari processi, precise responsabilità furono comunque addebitate ai progettisti e ai dirigenti dell’impresa
costruttrice, che avevano sottovalutato e occultato la non idoneità morfologica
del versante del bacino).
RANA
PLAZA – SAVAR (Dacca, Bangladesch) (24 /4/2013): 1129 VITTIME - 2515
FERITI
Meno nota, forse, la
storia dell’edificio di otto piani crollato a Savar, un distretto della città
di Dacca (benché sia considerato il più disastroso cedimento strutturale di un
edificio avvenuto in epoca moderna). Costruito senza alcun rispetto delle
regole urbanistiche, ospitava al suo interno - pur essendo stato progettato
solo per uso commerciale - molte fabbriche che realizzavano capi di
abbigliamento per marchi importanti, anche italiani, e in cui lavoravano circa
50.000 persone.
BHOPAL,
INDIA (3/12/1984): 21.000 VITTIME, 500.000 INTOSSICATI
Più conosciuto, per il
numero davvero spaventoso delle vittime e per il libro che Dominique Lapierre e
Xavier Moro vi hanno dedicato (“Mezzanotte e cinque a Bhopal”), il disastro
avvenuto in una città dell’India orientale, dove era stata costruita sul modello
della casa madre una filiale della Union Carbide – una ditta statunitense che
produceva fertilizzanti. Benché fosse
considerata una sorta di fabbrica perfetta, dove il rischio tecnologico voleva
essere completamente azzerato, l’incidente ci fu, e spaventoso, per la
fuoriuscita di un composto chimico letale (le prime mille vittime morirono
all’istante). Errore umano, secondo la posizione difensiva assunta dalla ditta
costruttrice? O non piuttosto, come osserva il prof. Dansero, un certo
allentamento dei controlli, cosa possibile in un periodo in cui questo
fertilizzante cominciava a non avere più un gran mercato? Il processo non si è
ancora concluso e le responsabilità non sono mai state chiarite del tutto.
Resta il fatto che la fabbrica era stata costruita, presumibilmente corrompendo
i funzionari locali, a ridosso di uno slum densamente popolato, verso cui
tirava sempre il vento.
VESUVIO -
“IL GIORNO “del 1906: 150.000 PERSONE FUGGITE
L’ultima immagine che
il prof. Dansero presenta ci ricorda, attraverso le pagine di un giornale
dell’epoca, una grande fuga avvenuta dopo un’esplosione del vulcano,
fortunatamente senza vittime. Possiamo immaginare che cosa succederebbe oggi,
con l’ulteriore aumento della popolazione che abita nelle zone a rischio.
Eppure sappiamo che il vulcano si sveglierà nuovamente, prima o poi, e non lo
farà lentamente come l’Etna, che è a colata. Siamo sicuri, dice il relatore,
che siano stati predisposti adeguati piani di evacuazione? Anche qui la memoria
del territorio non pare essere davvero viva nella nostra coscienza.
Seconda parte:
IL
CONCETTO DI “TERRITORIO”
COME
ESITO DELLA RELAZIONE
FRA UN
GRUPPO UMANO E IL SUO AMBIENTE
- il territorio come
relazione trasformativa:
Nella
seconda parte del suo intervento, il prof. Dansero si è proposto di mettere a
fuoco un concetto, quello di territorio, che è ovviamente comune a tutte le discipline
che si occupano a diverso titolo del rapporto fra un gruppo umano e l’ambiente
dove esso si trova a vivere, e da cui nascono poi le varie culture.
Un
rapporto che è sempre trasformativo, sia pure con un’estensione molto diversa -
per cui si va dal modesto impatto
operato sull’ambiente dai primi gruppi umani di cacciatori-raccoglitori a
quello più sostanzioso messo in atto dalle successive civiltà agricole, fino a
giungere alle profonde e spesso devastanti modifiche determinate dalle moderne civiltà industriali -
delineandosi peraltro sempre nei termini di un prelievo di risorse e di un
rilascio di scarti, secondo un binomio che per lungo tempo è stato vissuto con assoluta naturalezza, dando per scontato che
questa fosse la funzione precipua dell’ambiente (pensiamo, osserva il prof.
Dansero, che il Ministero per l’Ambiente è stato istituito in Italia solo nel 1986).
Ora,
se possiamo concordare sul fatto che queste considerazioni ineriscano in linea
generale a tutte le discipline che si occupano dell’ambiente, per il geografo (e
in particolare secondo l’approccio disciplinare in cui il prof. Dansero si
riconosce) il territorio si configura sostanzialmente come l’esito di questa
relazione. E’ importante a suo giudizio essere molto chiari a questo proposito,
perché noi non abitiamo la natura, non abitiamo lo spazio, ma abitiamo il
territorio che è uno spazio-natura trasformato incessantemente dagli esseri
umani. Di per sé, osserva infatti il relatore, la natura non esiste, o per meglio
dire non esiste se non nel modo in cui un gruppo umano definisce qualcosa come
“natura”; prevalendo nella nostra cultura occidentale l’idea di una separazione
fra natura e cultura, si è venuto a determinare un concetto di natura che non
appartiene a culture diverse dalla nostra ma è in un certo senso un nostro specifico
prodotto culturale.
- il rapporto del territorio con il tempo e
con la memoria:
Oltre
ad essere trasformativo, il territorio non è statico, si muove cioè nel tempo
come noi che nel tempo ci muoviamo, e oltre a ciò va considerato secondo le
diverse scale temporali di cui dobbiamo tenere ben conto, anche se sono
contemporaneamente presenti: pensiamo per esempio a come potrebbe intendersi,
rispetto ai tempi geologici, qualcosa che invece rispetto ai tempi storici e
sociali ci sembra giustamente devastante, come un terremoto (una semplice
scossa di assestamento…).
Alle
varie scale temporali vengono dunque a corrispondere diverse percezioni, e in
alcuni casi l’impossibilità di avere una percezione diretta dei fenomeni. Secondo
alcuni studiosi per esempio i cambiamenti climatici, per i tempi lunghi in cui
avvengono, non sono direttamente registrabili, neppure nell’arco di una
generazione. Da qui, aggiunge il prof. Dansero, dipende forse quell’idea di una
sostanziale “immobilità” della natura che ha caratterizzato fortemente la
nostra visione occidentale della natura stessa.
Allo
stesso modo abbiamo pensato il territorio più stabile di quanto in realtà non
sia, perché di fatto esso viene continuamente prodotto e modificato con
modalità che possono essere tanto materiali e organizzative quanto simboliche (pensiamo
alla nominazione, una delle più importanti forme di produzione simbolica del
territorio: se diamo ad un monte il nome “Toc”,
comunichiamo un senso ben preciso, che spetta alle generazioni
successive di cogliere).
Questa
produzione di territorio sui diversi piani, osserva il prof. Dansero, ha
naturalmente a che fare con la memoria, dato che l’intreccio fra ambiente e
gruppo umano che chiamiamo territorio si sposta nel tempo: produce pertanto
tracce che rimangono nel tempo, spariscono, riappaiono, vengono riscoperte e ripensate.
E’ dunque una produzione che si accresce in modo cumulativo attraverso processi
di valorizzazione ma anche di oblio, che rendono molto problematico il rapporto
fra territorio e memoria, e decisamente inquietante la mancanza di rapporto,
come si è visto negli esempi precedenti.
- definizioni e osservazioni riassuntive:
Prima
di entrare nel vivo del discorso sul rapporto fra memoria e territorio, il
prof. Dansero conclude la sua analisi del concetto di territorio evidenziando
intanto la polisemia interna al termine, per cui occorrerebbe in effetti
parlare di “territori”; propone poi, fra le molte definizioni possibili di
territorio, quella formulata da Claude Raffertin (un geografo svizzero di fama
internazionale) che lo intende come
lo spazio prodotto
dall’azione di un attore sintagmatico
(che realizza cioè un
programma) e che può essere collettivo o individuale
Da essa
infatti possiamo evincere i dati fondamentali che il prof. Dansero ha messo in
rilievo nella sua analisi, e cioè
1. Il
territorio non è una cosa ma un insieme di relazioni:
esso
infatti non esiste in natura, tanto è vero che Alberto Bagnaghi, un urbanista che
secondo il relatore ha contribuito potentemente a modificare il modo in cui
architetti, geografi e urbanisti guardano al territorio con il suo concetto di
invarianti strutturali (in cui si cerca di capire quali sono gli elementi
chiave di lungo periodo nella programmazione del territorio ), si spinge
addirittura a definirlo come “un organismo vivente ad alta complessità,
prodotto dall’incontro tra eventi culturali e natura”
2.
Il territorio è il risultato di una produzione in cui possono operare svariati
attori con diverse motivazioni (rispettando o no le regole di funzionamento
dell’ambiente):
regole
che possono variare, naturalmente, anche se non sempre ciò è auspicabile:
pensiamo, dice il prof.Dansero, a quella sorta di “ape tecnologica” che è stata recentemente messa a punto come
agente di impollinazione, e in generale ai prodotti di una ricerca mirante a sostituire le
funzioni antropiche tradizionali con input tecnologici
3. lo spazio è un dato che viene occupato
incessantemente in un processo di lunghissimo periodo da una popolazione in
crescita, che sta occupando spazi sempre più concentrati e artificializzati in
cui quella che chiamiamo “natura” si riduce progressivamente
- l’esempio del quadrilatero romano di Porta
Palazzo a Torino:
Il
prof. Dansero chiude questa seconda parte del suo intervento con un esempio in
cui si configurano in modo significativo alcune delle osservazioni fatte sul
concetto di territorio come patrimonio e progetto, variabile nel tempo e prodotto
tanto in modo materiale e organizzativo che simbolico.
Ricordiamo per intanto
che il quadrilatero romano rappresenta la traccia che la civiltà romana ha
lasciato rispetto alla sua organizzazione territoriale (la pianta a scacchiera
su cui ancora oggi si distende la città). Questa memoria storica peraltro non è
stata messa in particolare evidenza fino a quando una serie di attori sociali
non l’hanno riportata in auge in modo funzionale ai loro obiettivi di valorizzazione
immobiliare, facendone un elemento di appropriazione simbolica, oltre che
materiale. L’area del quadrilatero è dunque diventata la parte nobile del
quartiere, anche se curiosamente – come risulta da una ricerca fatta a suo
tempo da una studentessa della facoltà di sociologia - molti di coloro che la
abitano preferiscono definire se stessi come abitanti di Porta Palazzo, dunque
di un quartiere più “popolare”, con cui nondimeno hanno ben pochi rapporti (civetterie
da radical chic?)
Terza parte:
UN
PERCORSO PER IMMAGINI E STORIE
SULLE
DIVERSE MODALITA’ DI CONCEPIRE IL RAPPORTO FRA TERRITORIO E MEMORIA
In
questa terza parte del suo intervento il prof.Dansero ha offerto, attraverso
una serie di immagini esemplificative che si riferiscono a momenti diversi del
suo percorso di studioso, alcune esemplificazioni di come ci possano essere
soluzioni diverse, attorno all’idea del territorio come sviluppo. Si può
infatti pensare il territorio come un semplice supporto dove i vari attori
sociali agiscono, oppure come una sorta di contenitore di risorse materiali e
immateriali che particolari “esperti” possono individuare dall’esterno,
sollecitando poi la società locale a conservarle o a valorizzarle, ma anche
vederlo altrimenti come una sorta di attore collettivo locale in grado di
organizzarsi autonomamente. Peraltro, in qualunque modo si scelga di operare,
per scelta o per necessità, è importante secondo il prof. Dansero usare molta
cautela nell’usare il termine “risorsa”: come si evince dal caso del
quadrilatero romano, le risorse, di per sé, non esistono, ci sono bensì cose o
situazioni che assumono questo valore nel momento in cui un attore sociale o
una comunità nel suo insieme le vede come tali.
Altrettanto
importante, a suo giudizio, è tenere ben presenti alcune domande chiave sul
rapporto fra memoria e territorio, e cioè:
Di chi è la memoria? Per chi e per che cosa viene costruita, o
ri-costruita?
Da
parte di chi viene costruita? Come e quando?
Passiamo
dunque alle immagini - storie, presentando in particolare quelle su cui il
prof. Dansero si è fermato più a lungo nella sua analisi:
INTERVENTI SULLE AREE
INDUSTRIALI DISMESSE:
LINGOTTO / BIELLESE
Negli
anni in cui il prof. Dansero si è occupato delle aree industriali dismesse di
Torino per la sua tesi di laurea, la città fordista per eccellenza si trovava
per la prima volta a doversi confrontare con quelli che allora venivano
definiti i ”vuoti industriali”, intendendo questo termine non solo come un
vuoto materiale ma anche un vuoto simbolico, per la perdita di posti di lavoro
e di identità operaia che questo comportava. E’ dunque interessante a suo
giudizio vedere come si è operato dopo la chiusura abbastanza repentina del
Lingotto nell’82 (cosa che ha comportato la perdita di circa 20.000 posti di
lavoro ) facendo poi un confronto con le diverse strategie attuate per le aree
industriali dismesse del biellese, di cui il relatore si è occupato alcuni anni
più tardi a conclusione del suo dottorato di ricerca.
Cominciamo
da Torino, dove si è puntato da subito sull’utilizzo della vastissima area
industriale dismessa del Lingotto per una molteplicità di funzioni,
approfittando della contemporanea revisione del piano regolatore: è stato infatti
lanciato immediatamente un concorso internazionale, vinto da Renzo Piano con un
progetto che conservava solo l’involucro esterno della fabbrica, cambiandola
profondamente al suo interno (le famose “bolle”).
Chi
entra ora nel Lingotto e non ne conosce la storia, osserva il prof. Dansero, ha
ben pochi appigli per ricostruirla, se non attraverso alcune fotografie
(restano, è vero, le case operaie che circondavano la fabbrica, pure in parte
“mimetizzate”, ma della fabbrica stessa non rimane nulla: si è optato cioè per
una memoria molto selettiva, sottosfruttandone, a suo giudizio, il potenziale).
Abbastanza
diverso il caso delle aree industriali dismesse del Biellese, non solo perché
in questo territorio l’industria era allora ben presente (e in parte lo è
ancora oggi, dal momento che continuano ad operarvi, pur parzialmente
delocalizzati, Ermenegildo Zegna, Oropiano, Cerutti), ma perché si è cercato di
legare questa persistenza di lavoro vivo alla funzione di testimonianza
assegnata alle fabbriche dismesse, che restano tuttora negli stessi luoghi,
vicino a quell’acqua che era allora indispensabile per l’energia e per la
produzione tessile.
FORTE DI FENESTRELLE /
ECOMUSEO MINIERE
DELLA VAL GERMANASCA
In
questi due modelli di riqualificazione, di cui il prof. Dansero ha avuto modo
di occuparsi nel suo successivo percorso accademico, possiamo vedere in azione
una delle modalità di rapporto fra territorio e memoria presentate in
precedenza, quella cioè in cui hanno agito attori esterni o comunque solo
parzialmente rappresentativi di una comunità locale rispetto alla quale erano
in controtendenza.
Consideriamo
prima il caso del Forte di Fenestrelle, in val Ghisone, che come sappiamo è
stato una delle fortificazioni più importanti d’Europa con i suoi 635 metri di
dislivello e i 3 chilometri di sviluppo orizzontale servendo via via come
fortezza militare, prigione politica e prigione di stato prima di diventare -
da simbolo di guerra e di morte – un
monumento simbolo della Regione Piemonte e un’importante attrazione turistica,
slegata dalla sua precedente funzione. Sarebbe interessante, osserva il prof.
Dansero, riflettere sull’operazione di rilettura attraverso la quale è avvenuta
questa sostituzione: quello che però gli preme ora di far notare non è tanto il
“come” e “a quale scopo”, per riferirci alle domande chiave prima evidenziate,
ma piuttosto il “chi”: non è stata infatti la comunità locale ad attivarsi,
neanche nelle sue rappresentanze politiche ed amministrative, perché di fatto
tutto è partito, almeno nella fase iniziale, dalla progettualità di
un’associazione di figli di emigranti della valle che tornavano solo nel fine
settimana, vedendo in quel forte un simbolo da far rivivere mentre altri non ne
coglievano affatto questo aspetto.
Lo
stesso è avvenuto con l’Ecomuseo della Val Germanasca - un museo a cielo aperto, che a partire dalle
miniere di talco estende l’interesse a tutte le risorse culturali,
gastonomiche, architettoniche della valle - la cui realizzazione è stata fortemente
voluta da alcuni appassionati attori come Gino Baral, spesso in contrasto con
una comunità locale che avrebbe preferito usare i fondi disponibili per
promuovere nuovi insediamenti industriali (in una situazione peraltro in cui le industrie esistenti erano
già troppe rispetto ad un territorio che veniva invece abbandonato e che
effettivamente ha avuto dall’Ecomuseo un forte ritorno economico).
In
effetti, osserva il prof. Dansero commentando queste immagini, le operazioni di
rilettura del territorio e della costruzione della memoria non sono mai facili
né neutre, avvengono bensì in modo selettivo secondo i vari attori coinvolti.
Qualche volta peraltro accade che non ci si rivolga ad agenti esterni, che pure
sono importanti, ma che sia un’intera comunità nel suo complesso ad agire
predisponendo quelle che vengono chiamate “mappe culturali”, in cui il passato
viene messo a servizio del futuro, come vedremo nell’esempio successivo.
LE MAPPE CULTURALI: L’ESEMPIO DI PARABIAGO
Per
illustrare questa diversa modalità di azione sul territorio in cui è la comunità stessa ad agire, organizzandosi
come attore collettivo, il prof. Dansero
sceglie il caso di Parabiago, un comune dell’hinterland milanese in cui un
gruppo di cittadini e di amministratori ha elaborato nel 2007 una “mappa
culturale” del territorio progettando un Ecomuseo del paesaggio, inteso a
studiare, a conservare e a valorizzare la memoria collettiva della comunità che
lo abita, avendo in mente uno sviluppo locale sostenibile.
Quello
che è importante sottolineare in questo caso, a suo giudizio, è il tema dello
sguardo. Se io disegno una mappa, mi chiedo come far sì che la mappa non
sparisca, nella realtà come nella memoria: una mappa culturale è infatti
un’operazione di costruzione contemporanea di riconoscimento del passato, in
cui posso cogliere, riallacciandomi alla memoria collettiva, tracce che
altrimenti non riuscirei a vedere (riconoscendo, per esempio, quelle di lungo
periodo come le linee della
centuriazione romana, com’è avvenuto nel canavese, vicino a Strambino), volta però
fin da subito al futuro. In questi casi il
territorio non è più visto come un semplice palinsesto, cioè qualcosa di cui
posso fare tabula rasa per ricostruirlo a mio piacimento, ma si estende in
entrambe le dimensioni del tempo.
LE OLIMPIADI
INVERNALI: TORINO 2006
Per
offrire un esempio significativo di un rapporto con il territorio che invece, a
suo giudizio, non è stato giocato correttamente, il prof. Dansero presenta
alcune immagini emblematiche delle Olimpiadi invernali che si sono tenute a
Torino nel 2006, osservando intanto che niente come un grande evento sconvolge
il territorio, ne cambia la fisionomia e financo i simboli (pensiamo a Piazza
Castello che durante le Olimpiadi era diventata Medal Plaza, a Piazza Solferino
con le grandi strutture in vetro a forma di gianduiotti voluti da Giuglaro...).
Ne
possono venire, si intende, anche risvolti positivi, ma per questo bisogna
davvero essere capaci di vincerle, e non solo sulle piste, cioè di gestirne
bene l’eredità: il prof. Dansero ricorda a questo proposito un convegno a cui
ha partecipato con altri studiosi, fra cui Luigi Bobbio, che si intitolava
appunto “Vincere o perdere le Olimpiadi”. Già allora molti pensavano infatti che
difficilmente questa sfida sarebbe stata vinta, anche se sarebbe ingiusto a suo
giudizio addebitarne la responsabilità unicamente alle località coinvolte,
perché solo un governo nazionale e una politica lungimirante avrebbero potuto
farlo. Così peraltro non è stato: si sono lasciati degradare e sottoutilizzare
degli impianti di alta tecnologia, che erano allora i migliori d’Europa e che
avrebbero potuto assicurare per diversi anni una resa ottimale (si fa l’esempio
della pista di bob di Cervinia, praticamente abbandonata). Sarebbe stato meglio
allora, osserva il prof. Dansero, non scartare a priori la proposta di Primo
Nebiolo, che aveva ipotizzato suscitando grande scandalo la costruzione di una
pista di bob che dalla collina arrivasse - in modo decisamente scenografico – fino
a Piazza Vittorio.
Il
problema, come possiamo facilmente vedere, è sempre lo stesso: bisogna avere un
pensiero di lungo periodo se si vogliono valorizzare insieme territorio e
memoria guardando al futuro. Così è stato fatto, a suo giudizio, col progetto
denominato VENTO, messo in cantiere (ma non ancora realizzato se non in parte)
da alcuni suoi colleghi del Politecnico di Milano: una lunghissima pista
ciclabile (679 km dal Veneto a Torino), che ben pochi altri paesi potrebbero
vantare, in grado di creare almeno 2000 posti di lavoro, con un impatto soft
sul territorio.
LO STADIO DELLE ALPI E
IL RICORDO DEL “GRANDE TORINO”
L‘ultimo
esempio portato dal prof. Dansero, che qui sintetizziamo perché sarebbe troppo
lungo da raccontare per esteso, riguarda una diatriba (davvero sconcertante
agli occhi di chi non sia offuscato da un eccesso di passione calcistica) sui
nomi delle vie che fiancheggiano gli stadi torinesi. È successo infatti che la
denominazione di una via intitolata al “Grande Torino” (in riferimento alla
squadra tragicamente scomparsa in un incidente aereo avvenuto a Superga nel maggio
del 1949) non sia stata accettata nel momento in cui questo stadio, prima
olimpico, è diventato lo stadio della Iuventus, che peraltro aveva già una via
intitolata ad un suo giocatore, Scirea, scomparso egli pure tragicamente. In
effetti ora al Grande Torino, che poteva davvero essere considerato - come
recita il cartello indicatore - “simbolo di forza, orgoglio e rinascita
nazionale”, è intitolata solo una piccola porzione della Piazza d’Armi.
Ultima parte:
IL
CONFRONTO CON IL PUBBLICO
Nel
confronto con il pubblico il discorso si apre ulteriormente, grazie alle
testimonianze che vengono portate, alle questioni poste, ad alcune importanti
puntualizzazioni. Ne diamo qui ragione come delle risposte del relatore, pur
parzialmente riassumendole.
- sulle
modalità virtuose oppure “cialtrone” di rapporto con il territorio:
Sul
fronte delle testimonianze, vengono messe a confronto due modalità molto
diverse di rapporto con il territorio: l’una certamente nobile (di cui
l’interlocutrice è stata testimone avendo abitato per anni nella frazione
Leumann di Collegno) operata a fine 800 da un imprenditore di origine svizzera,
Napoleone Leumann, che fondando la fabbrica tessile che ne portava il nome
offrì non soltanto possibilità di lavoro a persone provenienti da ogni dove,
fra cui molte erano donne, ma ebbe cura di creare oltre alle infrastrutture
esterne alla fabbrica tutta una serie di servizi interni, comprese le scuole (dalla materna alla quinta
elementare) rendendo compatibile l’educazione dei figli con il lavoro dei
genitori. Un chiaro esempio, dunque, di buona costruzione del territorio, a
giudizio di chi porta questa testimonianza. Ben diversa la cialtroneria, per
non usare un termine più pesante, con cui si operò a Seveso in Brianza dopo il
disastro dell’ICMESA…
Secondo
il relatore gli esempi portati sono davvero paradigmatici, perché se ne
evincono bene le due modalità contrapposte con cui si può operare sul
territorio, l’una volta a farlo vivere nella sua pienezza, assumendo
responsabilità sociale, l’altra che con un linguaggio odierno potremmo definire
predatrice (questa precisazione sulla contemporaneità si rende necessaria perché
noi interpretiamo il passato alla luce del nostro presente, a partire dalla
consapevolezza dei rischi, mentre in passato l’attenzione veniva posta più
sulle opportunità di lavoro e di crescita economica). Queste due modalità
peraltro erano spesso compresenti, per cui negli stessi anni potevamo trovare
un’imprenditoria di sfruttamento colonizzatore accanto a grandi figure
imprenditoriali “illuminate”, come quella di Adriano Olivetti
- sulla difficoltà di comporre le diverse
memorie che abitano il territorio:
In
un secondo intervento, partendo dalla constatazione del fatto che nel
territorio possono essere presenti non una, ma molte memorie, legate al modo in
cui i diversi gruppi umani lo hanno vissuto nel tempo e lo vivono nel presente,
ci si chiede se non sia invece necessario avere una sorta di “memoria di tutte
le memorie”, soprattutto nel momento in cui in fase di programmazione andiamo a
modificare il territorio, e in questo caso, a chi tocca questo compito.
Di
per sé, osserva il prof. Dansero, non è impossibile mettere a punto (soprattutto
ora che ci si può avvalere di supporti digitali) dei sistemi che consentano la
registrazione di memorie plurime e di farle per così dire viaggiare in
parallelo, strato per strato. Di fatto però il concetto di territorio è sempre
legato al potere, e fra le tante memorie possibili tende fatalmente a prevalere
quella che viene legittimata da un qualsivoglia potere, statale o economico o
culturale che sia.
Vale infatti per la geografia quanto
vale per la storia: sono i vincitori a scrivere il territorio, le cui memorie
sono spesso conflittuali e difficilmente componibili. Del resto, aggiunge, se
non riusciamo neanche a gestire la memoria del calcio, come possiamo pensare di gestire la
complessità di quei territori dove ci sono popolazioni che rivendicano gli
stessi luoghi di memoria, o le situazioni in cui ci sono territori in cui il
gruppo umano che per primo li ha abitati sono stati spazzati via, mentre altri
si sono arrogati il diritto alla memoria?
Per tornare ad esempi in cui la
conflittualità non ha connotati così esasperati, il prof. Dansero cita il caso
di una antica fattoria inglese la cui conservazione – o altrimenti il cui
adeguamento agli standard di una agricoltura meccanizzata moderna – è oggetto
di contesa fra gli agricoltori della zona e alcuni nuovi abitanti (tecnici e
scienziati che lavorano in un vicino parco scientifico - tecnologico) che
vogliono conservare la tipicità di un paesaggio del tutto sganciato dalle
normali attività produttive odierne; o ancora il caso di Damanhur, in Val
Chiusella, dove si è insediata una nuova comunità che in modo certo sotto molti
aspetti discutibile (dal momento che il fondatore ha assemblato elementi
dell’antico Egitto, del monachesimo copto e della moderna New Age) ha però
fatto rivivere un territorio che effettivamente stava morendo.
A suo giudizio infatti nel rapporto
fra memoria e territorio noi corriamo due rischi opposti. Da un lato abbiamo
luoghi dove si sta concentrando la ricchezza in modo macroscopico (pensiamo a
Doa, una città del Katar edificata nel deserto attraverso tecnologie d’avanguardia)
prescindendo totalmente dalla memoria del territorio, che in effetti, come
verrà fatto osservare da una successiva interlocutrice, viene nel caso citato
del tutto ignorata, fino alla progressiva sostituzione della lingua locale con
l’inglese, mentre dal lato opposto si tende a conservare tutto ad ogni costo con modalità financo eccessive
con il risultato di “mummificare“ il territorio (cosa che secondo il prof.
Dansero avviene spesso in Italia, che poi è anche paradossalmente la patria
dell’abusivismo edilizio).
-
sulla necessità di tutelare la
biodiversità e sulle sfide che dobbiamo affrontare
Su
questo tema si inserisce un’esponente dell’amministrazione aviglianese, che facendo
riferimento al caso della fattoria inglese vede in esso una buona
esemplificazione non solo del rapporto di potere da parte di un gruppo umano
sull’altro (scienziati versus agricoltori), ma piuttosto quello di una specie
su tutte le altre. In altri termini il problema che presumibilmente ci si è
posti non consiste solo nella tutela estetica del paesaggio, ma anche nella
tutela della biodiversità. Nello stesso annoso dibattito sui laghi di Avigliana,
secondo questa interlocutrice, si rivela il contrasto fra due diverse logiche,
quella della valorizzazione economica e quella della protezione ambientale che
può apparire ad alcuni irrilevante, se non si è capaci di cambiare il proprio
angolo visuale e di riflettere su come esercitiamo, come specie umana, il
nostro potere spesso scellerato sulla natura. Oltre tutto, oggi è possibile a
suo giudizio – come dimostra l’esperienza di Slow Food - recuperare e rivitalizzare con tecniche nuove
coltivazioni antiche (cosa che si sta facendo ad esempio con la canapa),
imparando dalle generazioni precedenti quel sapere sulla natura che abbiamo
perduto e soprattutto andando al di là delle pure logiche di dominio.
In effetti – osserva il prof. Dansero
citando un libro dello storico
israeliano Yuval Noah Hatari gli è sembrato particolarmente interessante (“Sapiens:
breve storia dell’umanità”) - ovunque il Sapiens è arrivato, ha fatto sparire
tutto ciò che poteva minacciarlo, schiavizzando ciò che invece poteva servirgli
e perdendo così via via quel livello di conoscenza intima della biodiversità
che inizialmente possedeva (abbiamo domesticato le piante, dice infatti Harari,
ma al contempo il frumento ha addomesticato noi…). Ora però c’è una sensibilità
diversa, molti passi in avanti sono stati compiuti e il nostro modo di dare
valore alla natura sta cambiando, vuoi con scelte compensative (se taglio
alberi in un luogo, altri ne pianto) oppure, ad un livello più alto, scegliendo
la strada di una conservazione dell’integrità degli ecosistemi che non
implichi, come si è detto in precedenza, una sorta di mummificazione. Certo non
è facile, la sfida che dobbiamo affrontare: di questo il relatore è ben
consapevole.
In
effetti c’è chi fra il pubblico, per esperienza di politica locale e per
conoscenza diretta del territorio della Val di Susa, osserva che la storia più
recente (a partire da quel ponte sulla Dora costruito 120 anni fa senza che
fossero state approntate le strade necessarie!) non ha visto altro - sempre per
ragioni che al momento sembravano imprescindibili -
che
un continuo stravolgimento del territorio, il che spinge quest’ultimo
interlocutore a ritenere che non si impari poi molto, dalla memoria…
Sicuramente è apprezzabile, a suo giudizio, il lavoro di quegli accademici che
stanno cercando di strutturare un pensiero evoluto sul territorio fra memoria e
sviluppo, ma la sua sensazione è che esso incida poco su di una seria politica
locale.
A questa nota di amarezza il prof. Dansero
risponde portando alcuni esempi positivi (come i nuovi piani paesaggistici della
Regione Piemonte) il che dimostra che qualcosa sta davvero cambiando, e che
quella lunga riflessione sul rapporto dello spazio col territorio che dai greci
arriva fino a noi, passando attraverso l’opera degli utopisti come Tommaso Moro,
sta oggi incontrando una sensibilità diversa: anche perché, effettivamente, non
possiamo davvero illuderci che sia possibile restare indifferenti, se vogliamo
evitare quello che Jared Diamond, uno dei geografi e biologi più attenti a
questi problemi, chiama “il collasso”…
…………………………………………………………….
N.B. = come in altre occasioni
abbiamo seguito passo passo il discorso del relatore, pur abbreviando alcuni
passaggi. Ci assumiamo comunque la responsabilità di eventuali fraintendimenti.
Per
CircolarMente,
Enrica
Gallo
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