domenica 6 maggio 2018

Sintesi della relazione tenuta dal prof. Dansero nella conferenza "Memoria e territorio" a cura di Enrica Gallo


Relazione sulla conferenza del prof. Egidio Dansero:



MEMORIA E TERRITORIO



Presentazione a cura di Massima Bercetti:

Al prof. Egidio Dansero, docente di Geografia economico-politica presso l’Università di Torino e promotore dell’Atlante del cibo (un programma che coinvolge l’Università di Torino, il Politecnico, l’Università del Gusto di Pollenza assieme a molti altri attori presenti sul territorio metropolitano e interessati ai temi della produzione e del consumo sostenibile) CircolarMente ha chiesto di mettere a fuoco il rapporto fra due termini – memoria e territorio –  nell’idea che la loro mancanza di legame, o altrimenti la loro eccessiva fusione, possano avere esiti inquietanti. Se infatti da un lato l’esasperazione di questo rapporto richiama alla mente certe pulsioni reazionarie e nazionalistiche che si stanno manifestando in modo sempre più marcato e insidioso nella nostra stessa casa europea, dall’altro la mancanza della memoria del territorio può portare ad esiti davvero emergenziali, come alcuni casi recenti hanno messo drammaticamente in evidenza.  E’ sembrato pertanto opportuno, in un percorso annuale che si sviluppa attorno ai temi della memoria e dell’emergenza, variamente intesa come ciò che semplicemente si manifesta o invece come ciò che crea inquietudine, dare un risalto particolare all’incontro con il prof. Dansero, che per la sua esperienza può aiutarci a chiarire il concetto di territorio e a decifrare la complessità della sua relazione con la memoria.



Prima parte:      

                   

IL TERRITORIO COME PALINSESTO:

LO SPAZIO DELL’INQUIETUDINE

    Nell’aprire il suo intervento, il prof. Dansero spiega intanto di aver accolto con piacere la richiesta di CircolarMente, perché nel suo percorso di studi e poi accademico questo tema è comparso, se non in modo diretto, in varie forme che ora cercherà di esplicitare. Prima di farlo tuttavia vuole lasciare spazio al tema dell’emergenza presente nelle parole di Massima Bercetti, ricordando attraverso una serie di immagini davvero inquietanti alcuni esempi paradigmatici relativi a cosa può succedere quando ci riveliamo immemori del passato e dei suoi insegnamenti, o altrimenti quando agiamo in spregio alle regole di funzionamento dell’ambiente.

 RIGOPIANO (19/11/ 2017): 29 VITTIME

Tutti noi ricordiamo sicuramente le tragiche immagini di quell’albergo sepolto sotto la slavina staccatasi dalla cresta sovrastante, l’angoscia per i soccorsi che tardavano sia per l’inagibilità della rete stradale dovuta alle abbondanti nevicate che per la mancanza di mezzi idonei a sbloccarla. Un disastro naturale? Solo in parte, osserva il prof. Dansero, facendo riferimento al fatto che l’albergo era stato presumibilmente costruito in una zona a rischio, forse addirittura – come si ipotizzava in uno studio del 99 sul territorio della valle - sui detriti di una valanga caduta nel 1936. Mancanza di legame fra memoria e territorio, dunque, disastro naturale ma anche improntitudine umana, come nel caso più lontano ma ben presente ancora alla memoria collettiva che il relatore presenta in successione.

 VAJONT (9/10/63): 1910 VITTIME

Come sappiamo, qui non è stata la diga costruita pochi anni prima a cedere, ma una gigantesca frana a precipitare nell’invaso del bacino artificiale da essa creato facendolo tracimare e spazzando letteralmente via uomini, animali e case del fondovalle, in particolare a Langarone. Nessuno evidentemente aveva tenuto in debito conto il fatto che le generazioni passate avessero dato a quel monte un nome alquanto rivelatore (Monte Toc), per trasmetterlo alle generazioni future che peraltro, in un periodo di apoteosi della fiducia nella tecnica e nella capacità dell’ingegneria e della conoscenza umana di dare ordine al mondo, non erano state capaci di darvi ascolto (nel corso dei vari processi, precise  responsabilità  furono comunque addebitate ai  progettisti e ai dirigenti dell’impresa costruttrice, che avevano sottovalutato e occultato la non idoneità morfologica del versante del bacino).

 RANA PLAZA – SAVAR (Dacca, Bangladesch) (24 /4/2013): 1129 VITTIME - 2515 FERITI 

Meno nota, forse, la storia dell’edificio di otto piani crollato a Savar, un distretto della città di Dacca (benché sia considerato il più disastroso cedimento strutturale di un edificio avvenuto in epoca moderna). Costruito senza alcun rispetto delle regole urbanistiche, ospitava al suo interno - pur essendo stato progettato solo per uso commerciale - molte fabbriche che realizzavano capi di abbigliamento per marchi importanti, anche italiani, e in cui lavoravano circa 50.000 persone.

 BHOPAL, INDIA (3/12/1984): 21.000 VITTIME, 500.000 INTOSSICATI

Più conosciuto, per il numero davvero spaventoso delle vittime e per il libro che Dominique Lapierre e Xavier Moro vi hanno dedicato (“Mezzanotte e cinque a Bhopal”), il disastro avvenuto in una città dell’India orientale, dove era stata costruita sul modello della casa madre una filiale della Union Carbide – una ditta statunitense che produceva fertilizzanti.  Benché fosse considerata una sorta di fabbrica perfetta, dove il rischio tecnologico voleva essere completamente azzerato, l’incidente ci fu, e spaventoso, per la fuoriuscita di un composto chimico letale (le prime mille vittime morirono all’istante). Errore umano, secondo la posizione difensiva assunta dalla ditta costruttrice? O non piuttosto, come osserva il prof. Dansero, un certo allentamento dei controlli, cosa possibile in un periodo in cui questo fertilizzante cominciava a non avere più un gran mercato? Il processo non si è ancora concluso e le responsabilità non sono mai state chiarite del tutto. Resta il fatto che la fabbrica era stata costruita, presumibilmente corrompendo i funzionari locali, a ridosso di uno slum densamente popolato, verso cui tirava sempre il vento.

 VESUVIO - “IL GIORNO “del 1906: 150.000 PERSONE FUGGITE

L’ultima immagine che il prof. Dansero presenta ci ricorda, attraverso le pagine di un giornale dell’epoca, una grande fuga avvenuta dopo un’esplosione del vulcano, fortunatamente senza vittime. Possiamo immaginare che cosa succederebbe oggi, con l’ulteriore aumento della popolazione che abita nelle zone a rischio. Eppure sappiamo che il vulcano si sveglierà nuovamente, prima o poi, e non lo farà lentamente come l’Etna, che è a colata. Siamo sicuri, dice il relatore, che siano stati predisposti adeguati piani di evacuazione? Anche qui la memoria del territorio non pare essere davvero viva nella nostra coscienza.



   Seconda parte: 



IL CONCETTO DI “TERRITORIO”

COME ESITO DELLA RELAZIONE

FRA UN GRUPPO UMANO E IL SUO AMBIENTE



- il territorio come relazione trasformativa:

Nella seconda parte del suo intervento, il prof. Dansero si è proposto di mettere a fuoco un concetto, quello di territorio, che è ovviamente comune a tutte le discipline che si occupano a diverso titolo del rapporto fra un gruppo umano e l’ambiente dove esso si trova a vivere, e da cui nascono poi le varie culture.

Un rapporto che è sempre trasformativo, sia pure con un’estensione molto diversa - per cui si va dal modesto impatto  operato sull’ambiente dai primi gruppi umani di cacciatori-raccoglitori a quello più sostanzioso messo in atto dalle successive civiltà agricole, fino a giungere alle profonde e spesso devastanti modifiche determinate  dalle moderne civiltà industriali - delineandosi peraltro sempre nei termini di un prelievo di risorse e di un rilascio di scarti, secondo un binomio che per lungo tempo  è stato vissuto con  assoluta naturalezza, dando per scontato che questa fosse la funzione precipua dell’ambiente (pensiamo, osserva il prof. Dansero, che il Ministero per l’Ambiente è stato istituito in Italia solo nel 1986). 

Ora, se possiamo concordare sul fatto che queste considerazioni ineriscano in linea generale a tutte le discipline che si occupano dell’ambiente, per il geografo (e in particolare secondo l’approccio disciplinare in cui il prof. Dansero si riconosce) il territorio si configura sostanzialmente come l’esito di questa relazione. E’ importante a suo giudizio essere molto chiari a questo proposito, perché noi non abitiamo la natura, non abitiamo lo spazio, ma abitiamo il territorio che è uno spazio-natura trasformato incessantemente dagli esseri umani. Di per sé, osserva infatti il relatore, la natura non esiste, o per meglio dire non esiste se non nel modo in cui un gruppo umano definisce qualcosa come “natura”; prevalendo nella nostra cultura occidentale l’idea di una separazione fra natura e cultura, si è venuto a determinare un concetto di natura che non appartiene a culture diverse dalla nostra ma è in un certo senso un nostro specifico prodotto culturale.

-  il rapporto del territorio con il tempo e con la memoria:

Oltre ad essere trasformativo, il territorio non è statico, si muove cioè nel tempo come noi che nel tempo ci muoviamo, e oltre a ciò va considerato secondo le diverse scale temporali di cui dobbiamo tenere ben conto, anche se sono contemporaneamente presenti: pensiamo per esempio a come potrebbe intendersi, rispetto ai tempi geologici, qualcosa che invece rispetto ai tempi storici e sociali ci sembra giustamente devastante, come un terremoto (una semplice scossa di assestamento…).

Alle varie scale temporali vengono dunque a corrispondere diverse percezioni, e in alcuni casi l’impossibilità di avere una percezione diretta dei fenomeni. Secondo alcuni studiosi per esempio i cambiamenti climatici, per i tempi lunghi in cui avvengono, non sono direttamente registrabili, neppure nell’arco di una generazione. Da qui, aggiunge il prof. Dansero, dipende forse quell’idea di una sostanziale “immobilità” della natura che ha caratterizzato fortemente la nostra visione occidentale della natura stessa.

Allo stesso modo abbiamo pensato il territorio più stabile di quanto in realtà non sia, perché di fatto esso viene continuamente prodotto e modificato con modalità che possono essere tanto materiali e organizzative quanto  simboliche (pensiamo alla nominazione, una delle più importanti forme di produzione simbolica del territorio: se diamo ad un monte il nome “Toc”,  comunichiamo un senso ben preciso, che spetta alle generazioni successive di cogliere).

Questa produzione di territorio sui diversi piani, osserva il prof. Dansero, ha naturalmente a che fare con la memoria, dato che l’intreccio fra ambiente e gruppo umano che chiamiamo territorio si sposta nel tempo: produce pertanto tracce che rimangono nel tempo, spariscono, riappaiono, vengono riscoperte e ripensate. E’ dunque una produzione che si accresce in modo cumulativo attraverso processi di valorizzazione ma anche di oblio, che rendono molto problematico il rapporto fra territorio e memoria, e decisamente inquietante la mancanza di rapporto, come si è visto negli esempi precedenti.

-  definizioni e osservazioni riassuntive:

Prima di entrare nel vivo del discorso sul rapporto fra memoria e territorio, il prof. Dansero conclude la sua analisi del concetto di territorio evidenziando intanto la polisemia interna al termine, per cui occorrerebbe in effetti parlare di “territori”; propone poi, fra le molte definizioni possibili di territorio, quella formulata da Claude Raffertin (un geografo svizzero di fama internazionale) che lo intende come

lo spazio prodotto dall’azione di un attore sintagmatico

(che realizza cioè un programma) e che può essere collettivo o individuale

Da essa infatti possiamo evincere i dati fondamentali che il prof. Dansero ha messo in rilievo nella sua analisi, e cioè

1. Il territorio non è una cosa ma un insieme di relazioni:

esso infatti non esiste in natura, tanto è vero che Alberto Bagnaghi, un urbanista che secondo il relatore ha contribuito potentemente a modificare il modo in cui architetti, geografi e urbanisti guardano al territorio con il suo concetto di invarianti strutturali (in cui si cerca di capire quali sono gli elementi chiave di lungo periodo nella programmazione del territorio ), si spinge addirittura a definirlo come “un organismo vivente ad alta complessità, prodotto dall’incontro tra eventi culturali e natura”

2. Il territorio è il risultato di una produzione in cui possono operare svariati attori con diverse motivazioni (rispettando o no le regole di funzionamento dell’ambiente):

regole che possono variare, naturalmente, anche se non sempre ciò è auspicabile: pensiamo, dice il prof.Dansero, a quella sorta di “ape tecnologica” che  è stata recentemente messa a punto come agente di impollinazione, e in generale ai prodotti  di una ricerca mirante a sostituire le funzioni antropiche tradizionali con input tecnologici

 3. lo spazio è un dato che viene occupato incessantemente in un processo di lunghissimo periodo da una popolazione in crescita, che sta occupando spazi sempre più concentrati e artificializzati in cui quella che chiamiamo “natura” si riduce progressivamente

-  l’esempio del quadrilatero romano di Porta Palazzo a Torino:

Il prof. Dansero chiude questa seconda parte del suo intervento con un esempio in cui si configurano in modo significativo alcune delle osservazioni fatte sul concetto di territorio come patrimonio e progetto, variabile nel tempo e prodotto tanto in modo materiale e organizzativo che simbolico.

Ricordiamo per intanto che il quadrilatero romano rappresenta la traccia che la civiltà romana ha lasciato rispetto alla sua organizzazione territoriale (la pianta a scacchiera su cui ancora oggi si distende la città). Questa memoria storica peraltro non è stata messa in particolare evidenza fino a quando una serie di attori sociali non l’hanno riportata in auge in modo funzionale ai loro obiettivi di valorizzazione immobiliare, facendone un elemento di appropriazione simbolica, oltre che materiale. L’area del quadrilatero è dunque diventata la parte nobile del quartiere, anche se curiosamente – come risulta da una ricerca fatta a suo tempo da una studentessa della facoltà di sociologia - molti di coloro che la abitano preferiscono definire se stessi come abitanti di Porta Palazzo, dunque di un quartiere più “popolare”, con cui nondimeno hanno ben pochi rapporti (civetterie da radical chic?)



 Terza parte:  

            

UN PERCORSO PER IMMAGINI E STORIE

SULLE DIVERSE MODALITA’ DI CONCEPIRE IL RAPPORTO FRA TERRITORIO E MEMORIA

In questa terza parte del suo intervento il prof.Dansero ha offerto, attraverso una serie di immagini esemplificative che si riferiscono a momenti diversi del suo percorso di studioso, alcune esemplificazioni di come ci possano essere soluzioni diverse, attorno all’idea del territorio come sviluppo. Si può infatti pensare il territorio come un semplice supporto dove i vari attori sociali agiscono, oppure come una sorta di contenitore di risorse materiali e immateriali che particolari “esperti” possono individuare dall’esterno, sollecitando poi la società locale a conservarle o a valorizzarle, ma anche vederlo altrimenti come una sorta di attore collettivo locale in grado di organizzarsi autonomamente. Peraltro, in qualunque modo si scelga di operare, per scelta o per necessità, è importante secondo il prof. Dansero usare molta cautela nell’usare il termine “risorsa”: come si evince dal caso del quadrilatero romano, le risorse, di per sé, non esistono, ci sono bensì cose o situazioni che assumono questo valore nel momento in cui un attore sociale o una comunità nel suo insieme le vede come tali.

Altrettanto importante, a suo giudizio, è tenere ben presenti alcune domande chiave sul rapporto fra memoria e territorio, e cioè:

Di chi è la memoria?  Per chi e per che cosa viene costruita, o ri-costruita?

Da parte di chi viene costruita? Come e quando?

Passiamo dunque alle immagini - storie, presentando in particolare quelle su cui il prof. Dansero si è fermato più a lungo nella sua analisi:

INTERVENTI SULLE AREE INDUSTRIALI DISMESSE:

LINGOTTO / BIELLESE

Negli anni in cui il prof. Dansero si è occupato delle aree industriali dismesse di Torino per la sua tesi di laurea, la città fordista per eccellenza si trovava per la prima volta a doversi confrontare con quelli che allora venivano definiti i ”vuoti industriali”, intendendo questo termine non solo come un vuoto materiale ma anche un vuoto simbolico, per la perdita di posti di lavoro e di identità operaia che questo comportava. E’ dunque interessante a suo giudizio vedere come si è operato dopo la chiusura abbastanza repentina del Lingotto nell’82 (cosa che ha comportato la perdita di circa 20.000 posti di lavoro ) facendo poi un confronto con le diverse strategie attuate per le aree industriali dismesse del biellese, di cui il relatore si è occupato alcuni anni più tardi a conclusione del suo dottorato di ricerca.

Cominciamo da Torino, dove si è puntato da subito sull’utilizzo della vastissima area industriale dismessa del Lingotto per una molteplicità di funzioni, approfittando della contemporanea revisione del piano regolatore: è stato infatti lanciato immediatamente un concorso internazionale, vinto da Renzo Piano con un progetto che conservava solo l’involucro esterno della fabbrica, cambiandola profondamente al suo interno (le famose “bolle”).

Chi entra ora nel Lingotto e non ne conosce la storia, osserva il prof. Dansero, ha ben pochi appigli per ricostruirla, se non attraverso alcune fotografie (restano, è vero, le case operaie che circondavano la fabbrica, pure in parte “mimetizzate”, ma della fabbrica stessa non rimane nulla: si è optato cioè per una memoria molto selettiva, sottosfruttandone, a suo giudizio, il potenziale).

Abbastanza diverso il caso delle aree industriali dismesse del Biellese, non solo perché in questo territorio l’industria era allora ben presente (e in parte lo è ancora oggi, dal momento che continuano ad operarvi, pur parzialmente delocalizzati, Ermenegildo Zegna, Oropiano, Cerutti), ma perché si è cercato di legare questa persistenza di lavoro vivo alla funzione di testimonianza assegnata alle fabbriche dismesse, che restano tuttora negli stessi luoghi, vicino a quell’acqua che era allora indispensabile per l’energia e per la produzione tessile.

FORTE DI FENESTRELLE / ECOMUSEO MINIERE

DELLA  VAL GERMANASCA

In questi due modelli di riqualificazione, di cui il prof. Dansero ha avuto modo di occuparsi nel suo successivo percorso accademico, possiamo vedere in azione una delle modalità di rapporto fra territorio e memoria presentate in precedenza, quella cioè in cui hanno agito attori esterni o comunque solo parzialmente rappresentativi di una comunità locale rispetto alla quale erano in controtendenza.

Consideriamo prima il caso del Forte di Fenestrelle, in val Ghisone, che come sappiamo è stato una delle fortificazioni più importanti d’Europa con i suoi 635 metri di dislivello e i 3 chilometri di sviluppo orizzontale servendo via via come fortezza militare, prigione politica e prigione di stato prima di diventare - da simbolo di guerra e di morte –  un monumento simbolo della Regione Piemonte e un’importante attrazione turistica, slegata dalla sua precedente funzione. Sarebbe interessante, osserva il prof. Dansero, riflettere sull’operazione di rilettura attraverso la quale è avvenuta questa sostituzione: quello che però gli preme ora di far notare non è tanto il “come” e “a quale scopo”, per riferirci alle domande chiave prima evidenziate, ma piuttosto il “chi”: non è stata infatti la comunità locale ad attivarsi, neanche nelle sue rappresentanze politiche ed amministrative, perché di fatto tutto è partito, almeno nella fase iniziale, dalla progettualità di un’associazione di figli di emigranti della valle che tornavano solo nel fine settimana, vedendo in quel forte un simbolo da far rivivere mentre altri non ne coglievano affatto questo aspetto.

Lo stesso è avvenuto con l’Ecomuseo della Val Germanasca  - un museo a cielo aperto, che a partire dalle miniere di talco estende l’interesse a tutte le risorse culturali, gastonomiche, architettoniche della valle - la cui realizzazione è stata fortemente voluta da alcuni appassionati attori come Gino Baral, spesso in contrasto con una comunità locale che avrebbe preferito usare i fondi disponibili per promuovere nuovi insediamenti industriali (in una situazione  peraltro in cui le industrie esistenti erano già troppe rispetto ad un territorio che veniva invece abbandonato e che effettivamente ha avuto dall’Ecomuseo un forte ritorno economico).

In effetti, osserva il prof. Dansero commentando queste immagini, le operazioni di rilettura del territorio e della costruzione della memoria non sono mai facili né neutre, avvengono bensì in modo selettivo secondo i vari attori coinvolti. Qualche volta peraltro accade che non ci si rivolga ad agenti esterni, che pure sono importanti, ma che sia un’intera comunità nel suo complesso ad agire predisponendo quelle che vengono chiamate “mappe culturali”, in cui il passato viene messo a servizio del futuro, come vedremo nell’esempio successivo. 

LE  MAPPE CULTURALI:   L’ESEMPIO DI PARABIAGO

Per illustrare questa diversa modalità di azione sul territorio in cui è  la comunità stessa ad agire, organizzandosi come attore collettivo,  il prof. Dansero sceglie il caso di Parabiago, un comune dell’hinterland milanese in cui un gruppo di cittadini e di amministratori ha elaborato nel 2007 una “mappa culturale” del territorio progettando un Ecomuseo del paesaggio, inteso a studiare, a conservare e a valorizzare la memoria collettiva della comunità che lo abita, avendo in mente uno sviluppo locale sostenibile.

Quello che è importante sottolineare in questo caso, a suo giudizio, è il tema dello sguardo. Se io disegno una mappa, mi chiedo come far sì che la mappa non sparisca, nella realtà come nella memoria: una mappa culturale è infatti un’operazione di costruzione contemporanea di riconoscimento del passato, in cui posso cogliere, riallacciandomi alla memoria collettiva, tracce che altrimenti non riuscirei a vedere (riconoscendo, per esempio, quelle di lungo periodo  come le linee della centuriazione romana, com’è avvenuto nel canavese, vicino a Strambino), volta però fin da subito al futuro.  In questi casi il territorio non è più visto come un semplice palinsesto, cioè qualcosa di cui posso fare tabula rasa per ricostruirlo a mio piacimento, ma si estende in entrambe le dimensioni del tempo.

LE  OLIMPIADI  INVERNALI:  TORINO 2006

Per offrire un esempio significativo di un rapporto con il territorio che invece, a suo giudizio, non è stato giocato correttamente, il prof. Dansero presenta alcune immagini emblematiche delle Olimpiadi invernali che si sono tenute a Torino nel 2006, osservando intanto che niente come un grande evento sconvolge il territorio, ne cambia la fisionomia e financo i simboli (pensiamo a Piazza Castello che durante le Olimpiadi era diventata Medal Plaza, a Piazza Solferino con le grandi strutture in vetro a forma di gianduiotti voluti da Giuglaro...).

Ne possono venire, si intende, anche risvolti positivi, ma per questo bisogna davvero essere capaci di vincerle, e non solo sulle piste, cioè di gestirne bene l’eredità: il prof. Dansero ricorda a questo proposito un convegno a cui ha partecipato con altri studiosi, fra cui Luigi Bobbio, che si intitolava appunto “Vincere o perdere le Olimpiadi”. Già allora molti pensavano infatti che difficilmente questa sfida sarebbe stata vinta, anche se sarebbe ingiusto a suo giudizio addebitarne la responsabilità unicamente alle località coinvolte, perché solo un governo nazionale e una politica lungimirante avrebbero potuto farlo. Così peraltro non è stato: si sono lasciati degradare e sottoutilizzare degli impianti di alta tecnologia, che erano allora i migliori d’Europa e che avrebbero potuto assicurare per diversi anni una resa ottimale (si fa l’esempio della pista di bob di Cervinia, praticamente abbandonata). Sarebbe stato meglio allora, osserva il prof. Dansero, non scartare a priori la proposta di Primo Nebiolo, che aveva ipotizzato suscitando grande scandalo la costruzione di una pista di bob che dalla collina arrivasse - in modo decisamente scenografico – fino a Piazza Vittorio.

Il problema, come possiamo facilmente vedere, è sempre lo stesso: bisogna avere un pensiero di lungo periodo se si vogliono valorizzare insieme territorio e memoria guardando al futuro. Così è stato fatto, a suo giudizio, col progetto denominato VENTO, messo in cantiere (ma non ancora realizzato se non in parte) da alcuni suoi colleghi del Politecnico di Milano: una lunghissima pista ciclabile (679 km dal Veneto a Torino), che ben pochi altri paesi potrebbero vantare, in grado di creare almeno 2000 posti di lavoro, con un impatto soft sul territorio.

LO STADIO DELLE ALPI E IL RICORDO DEL “GRANDE TORINO”

L‘ultimo esempio portato dal prof. Dansero, che qui sintetizziamo perché sarebbe troppo lungo da raccontare per esteso, riguarda una diatriba (davvero sconcertante agli occhi di chi non sia offuscato da un eccesso di passione calcistica) sui nomi delle vie che fiancheggiano gli stadi torinesi. È successo infatti che la denominazione di una via intitolata al “Grande Torino” (in riferimento alla squadra tragicamente scomparsa in un incidente aereo avvenuto a Superga nel maggio del 1949) non sia stata accettata nel momento in cui questo stadio, prima olimpico, è diventato lo stadio della Iuventus, che peraltro aveva già una via intitolata ad un suo giocatore, Scirea, scomparso egli pure tragicamente. In effetti ora al Grande Torino, che poteva davvero essere considerato - come recita il cartello indicatore - “simbolo di forza, orgoglio e rinascita nazionale”, è intitolata solo una piccola porzione della Piazza d’Armi.



Ultima parte:

IL CONFRONTO CON IL PUBBLICO

Nel confronto con il pubblico il discorso si apre ulteriormente, grazie alle testimonianze che vengono portate, alle questioni poste, ad alcune importanti puntualizzazioni. Ne diamo qui ragione come delle risposte del relatore, pur parzialmente riassumendole.

 -  sulle modalità virtuose oppure “cialtrone” di rapporto con il territorio:

Sul fronte delle testimonianze, vengono messe a confronto due modalità molto diverse di rapporto con il territorio: l’una certamente nobile (di cui l’interlocutrice è stata testimone avendo abitato per anni nella frazione Leumann di Collegno) operata a fine 800 da un imprenditore di origine svizzera, Napoleone Leumann, che fondando la fabbrica tessile che ne portava il nome offrì non soltanto possibilità di lavoro a persone provenienti da ogni dove, fra cui molte erano donne, ma ebbe cura di creare oltre alle infrastrutture esterne alla fabbrica tutta una serie di servizi interni, comprese  le scuole (dalla materna alla quinta elementare) rendendo compatibile l’educazione dei figli con il lavoro dei genitori. Un chiaro esempio, dunque, di buona costruzione del territorio, a giudizio di chi porta questa testimonianza. Ben diversa la cialtroneria, per non usare un termine più pesante, con cui si operò a Seveso in Brianza dopo il disastro dell’ICMESA…

Secondo il relatore gli esempi portati sono davvero paradigmatici, perché se ne evincono bene le due modalità contrapposte con cui si può operare sul territorio, l’una volta a farlo vivere nella sua pienezza, assumendo responsabilità sociale, l’altra che con un linguaggio odierno potremmo definire predatrice (questa precisazione sulla contemporaneità si rende necessaria perché noi interpretiamo il passato alla luce del nostro presente, a partire dalla consapevolezza dei rischi, mentre in passato l’attenzione veniva posta più sulle opportunità di lavoro e di crescita economica). Queste due modalità peraltro erano spesso compresenti, per cui negli stessi anni potevamo trovare un’imprenditoria di sfruttamento colonizzatore accanto a grandi figure imprenditoriali “illuminate”, come quella di Adriano Olivetti

 -  sulla difficoltà di comporre le diverse memorie che abitano il territorio:       

In un secondo intervento, partendo dalla constatazione del fatto che nel territorio possono essere presenti non una, ma molte memorie, legate al modo in cui i diversi gruppi umani lo hanno vissuto nel tempo e lo vivono nel presente, ci si chiede se non sia invece necessario avere una sorta di “memoria di tutte le memorie”, soprattutto nel momento in cui in fase di programmazione andiamo a modificare il territorio, e in questo caso, a chi tocca questo compito.    

 Di per sé, osserva il prof. Dansero, non è impossibile mettere a punto (soprattutto ora che ci si può avvalere di supporti digitali) dei sistemi che consentano la registrazione di memorie plurime e di farle per così dire viaggiare in parallelo, strato per strato. Di fatto però il concetto di territorio è sempre legato al potere, e fra le tante memorie possibili tende fatalmente a prevalere quella che viene legittimata da un qualsivoglia potere, statale o economico o culturale che sia.

Vale infatti per la geografia quanto vale per la storia: sono i vincitori a scrivere il territorio, le cui memorie sono spesso conflittuali e difficilmente componibili. Del resto, aggiunge, se non riusciamo neanche a gestire la memoria del calcio,  come possiamo pensare di gestire la complessità di quei territori dove ci sono popolazioni che rivendicano gli stessi luoghi di memoria, o le situazioni in cui ci sono territori in cui il gruppo umano che per primo li ha abitati sono stati spazzati via, mentre altri si sono arrogati il diritto alla memoria?

Per tornare ad esempi in cui la conflittualità non ha connotati così esasperati, il prof. Dansero cita il caso di una antica fattoria inglese la cui conservazione – o altrimenti il cui adeguamento agli standard di una agricoltura meccanizzata moderna – è oggetto di contesa fra gli agricoltori della zona e alcuni nuovi abitanti (tecnici e scienziati che lavorano in un vicino parco scientifico - tecnologico) che vogliono conservare la tipicità di un paesaggio del tutto sganciato dalle normali attività produttive odierne; o ancora il caso di Damanhur, in Val Chiusella, dove si è insediata una nuova comunità che in modo certo sotto molti aspetti discutibile (dal momento che il fondatore ha assemblato elementi dell’antico Egitto, del monachesimo copto e della moderna New Age) ha però fatto rivivere un territorio che effettivamente stava morendo.

A suo giudizio infatti nel rapporto fra memoria e territorio noi corriamo due rischi opposti. Da un lato abbiamo luoghi dove si sta concentrando la ricchezza in modo macroscopico (pensiamo a Doa, una città del Katar edificata nel deserto attraverso tecnologie d’avanguardia) prescindendo totalmente dalla memoria del territorio, che in effetti, come verrà fatto osservare da una successiva interlocutrice, viene nel caso citato del tutto ignorata, fino alla progressiva sostituzione della lingua locale con l’inglese, mentre dal lato opposto si tende a conservare tutto  ad ogni costo con modalità financo eccessive con il risultato di “mummificare“ il territorio (cosa che secondo il prof. Dansero avviene spesso in Italia, che poi è anche paradossalmente la patria dell’abusivismo edilizio).

-  sulla necessità di tutelare la biodiversità e sulle sfide che dobbiamo affrontare

Su questo tema si inserisce un’esponente dell’amministrazione aviglianese, che facendo riferimento al caso della fattoria inglese vede in esso una buona esemplificazione non solo del rapporto di potere da parte di un gruppo umano sull’altro (scienziati versus agricoltori), ma piuttosto quello di una specie su tutte le altre. In altri termini il problema che presumibilmente ci si è posti non consiste solo nella tutela estetica del paesaggio, ma anche nella tutela della biodiversità. Nello stesso annoso dibattito sui laghi di Avigliana, secondo questa interlocutrice, si rivela il contrasto fra due diverse logiche, quella della valorizzazione economica e quella della protezione ambientale che può apparire ad alcuni irrilevante, se non si è capaci di cambiare il proprio angolo visuale e di riflettere su come esercitiamo, come specie umana, il nostro potere spesso scellerato sulla natura. Oltre tutto, oggi è possibile a suo giudizio – come dimostra l’esperienza di Slow Food -  recuperare e rivitalizzare con tecniche nuove coltivazioni antiche (cosa che si sta facendo ad esempio con la canapa), imparando dalle generazioni precedenti quel sapere sulla natura che abbiamo perduto e soprattutto andando al di là delle pure logiche di dominio.

In effetti – osserva il prof. Dansero citando un libro  dello storico israeliano Yuval Noah Hatari gli è sembrato particolarmente interessante (“Sapiens: breve storia dell’umanità”) - ovunque il Sapiens è arrivato, ha fatto sparire tutto ciò che poteva minacciarlo, schiavizzando ciò che invece poteva servirgli e perdendo così via via quel livello di conoscenza intima della biodiversità che inizialmente possedeva (abbiamo domesticato le piante, dice infatti Harari, ma al contempo il frumento ha addomesticato noi…). Ora però c’è una sensibilità diversa, molti passi in avanti sono stati compiuti e il nostro modo di dare valore alla natura sta cambiando, vuoi con scelte compensative (se taglio alberi in un luogo, altri ne pianto) oppure, ad un livello più alto, scegliendo la strada di una conservazione dell’integrità degli ecosistemi che non implichi, come si è detto in precedenza, una sorta di mummificazione. Certo non è facile, la sfida che dobbiamo affrontare: di questo il relatore è ben consapevole.

In effetti c’è chi fra il pubblico, per esperienza di politica locale e per conoscenza diretta del territorio della Val di Susa, osserva che la storia più recente (a partire da quel ponte sulla Dora costruito 120 anni fa senza che fossero state approntate le strade necessarie!) non ha visto altro - sempre per ragioni che al momento sembravano imprescindibili -

che un continuo stravolgimento del territorio, il che spinge quest’ultimo interlocutore a ritenere che non si impari poi molto, dalla memoria… Sicuramente è apprezzabile, a suo giudizio, il lavoro di quegli accademici che stanno cercando di strutturare un pensiero evoluto sul territorio fra memoria e sviluppo, ma la sua sensazione è che esso incida poco su di una seria politica locale.

A questa nota di amarezza il prof. Dansero risponde portando alcuni esempi positivi (come i nuovi piani paesaggistici della Regione Piemonte) il che dimostra che qualcosa sta davvero cambiando, e che quella lunga riflessione sul rapporto dello spazio col territorio che dai greci arriva fino a noi, passando attraverso l’opera degli utopisti come Tommaso Moro, sta oggi incontrando una sensibilità diversa: anche perché, effettivamente, non possiamo davvero illuderci che sia possibile restare indifferenti, se vogliamo evitare quello che Jared Diamond, uno dei geografi e biologi più attenti a questi problemi, chiama “il collasso”…

                 

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N.B. = come in altre occasioni abbiamo seguito passo passo il discorso del relatore, pur abbreviando alcuni passaggi. Ci assumiamo comunque la responsabilità di eventuali fraintendimenti.



Per CircolarMente,

Enrica Gallo

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