Pubblichiamo questo
articolo, tratto dalla rivista on-line “Il Tascabile”, perché affronta, seppur
partendo dalla presentazione di alcune posizioni decisamente “estremiste” in
grado comunque di porre interessanti interrogativi, alcune delle tematiche che
sono emerse nel dibattito seguito ad alcune delle recenti conferenze di
CircolarMente, proiettandoci verso un futuro tutto da scrivere (speriamo!)
Cos’è l’anarco-primitivismo?
L'evoluzione
di una filosofia radicale che può aiutare a prendere coscienza dei problemi del
contemporaneo.
Articolo di Andrea Daniele Signorelli milanese,
classe 1982, si occupa del rapporto tra nuove tecnologie, politica e società.
Scrive per La Stampa, Wired, Il Tascabile, Pagina99 e altri. Nel 2017 ha
pubblicato “Rivoluzione Artificiale: l’uomo nell’epoca delle macchine
intelligenti” per Informant Edizioni.
La rivoluzione industriale e le sue conseguenze sono state un disastro per
la razza umana (…). Il continuo sviluppo della tecnologia peggiorerà la
situazione. Essa sottometterà gli esseri umani a trattamenti sempre più
abietti, infliggerà al mondo naturale danni sempre maggiori, porterà
probabilmente a maggiore disgregazione sociale e sofferenza psicologica e a
incrementare la sofferenza fisica nei paesi sviluppati. (…) Il sistema
tecnologico industriale può sopravvivere o crollare. Se sopravvive, potrebbe
[farlo] solo al costo di ridurre permanentemente gli esseri umani a prodotti
costruiti, semplici ingranaggi della macchina sociale.
Con queste parole si apre "La società industriale e il suo futuro", il pamphlet – pubblicato nel 1995 sul New York Times
e sul Washington Post – in cui è condensata l’ideologia di Theodore J. Kaczinsky, meglio noto come Unabomber: il terrorista statunitense
autore di molteplici attentati esplosivi che, tra il 1978 e il 1995, hanno
causato la morte di tre persone e il ferimento di altre ventitre. A
rispolverare le azioni, e le teorie, di un personaggio così controverso è stata
la miniserie prodotta da Netflix Manhut: Unabomber, che ripercorre la decennale caccia all’uomo necessaria
per individuare l’autore degli attentati, ma che non si lascia sfuggire
l’occasione di ritrarre una figura complessa e che non può essere ridotta allo
stereotipo del “pazzo bombarolo”. Nato nel 1942 a Chicago, Kaczinsky è un
alunno prodigio che ancora adolescente si aggira per i corridoi di Harvard,
dove nel 1962 consegue la laurea in Matematica. Passato all’Università del
Michigan – dove consegue un dottorato e inizia la carriera accademica – il
futuro Unabomber rassegna all’improvviso le dimissioni nel 1969 e si
trasferisce nella casa dei genitori, nel sobborgo di Lombard (Illinois). Non
resiste a lungo: il richiamo di un’esistenza allo stato brado è talmente forte
che costruisce una capanna nei boschi fuori da Lincoln (Montana) e vi si
trasferisce per condurre una vita autosufficiente; fatta di caccia e raccolta,
senza elettricità né acqua corrente. Sono i primi segnali del fatto che
Kaczinsky sta mettendo in pratica nella vita quotidiana le teorie
anti-tecnologiche alla base del suo pensiero (e dei suoi attentati); teorie che
ancora oggi propugna (il suo ultimo libro, Anti-Tech Revolution, è del 2016) e che, nel mare
magnum delle correnti politiche estremiste, vanno sotto il nome di anarco-primitivismo. Ritorno a una vita da cacciatori e raccoglitori in piccole comunità,
rifiuto di qualunque strumento che l’uomo non sia in grado di costruire e
controllare in autonomia, rifiuto di qualunque forma di governo e assoluto
egualitarismo: in sintesi estrema, sono queste le caratteristiche di
un’ideologia che trova il suo massimo esponente nel filosofo John Zerzan (autore già nel 1988 di Questioning Technologye per qualche tempo confidente di
Unabomber dopo l’arresto), conta numerosi punti di contatto con l'anarco-ecologismo e ha dato vita ad alcuni gruppi estremisti e violenti
come Obsidian Point o Individual Tending Towards the Wild.
La società dell’ansia
“Voglio vedere la
società di massa diventare radicalmente decentralizzata, in comunità in cui si
viva faccia a faccia”, spiega
Zerzan a Gizmodo. “I primi umani avevano un approccio alla
vita funzionale e non distruttivo, che non richiedeva, in linea di massima,
molto lavoro, non oggettificava le donne ed era anti-gerarchico. Vi sembra un
modello così arretrato?”. Ma
nell’anarco-primitivismo non c’è solo l’idealizzazione di una primitiva età
dell’oro; c’è anche il rifiuto degli effetti collaterali della società
capitalista e tecnologica: “I progressi tecnologici hanno portato solo più lavoro. Questo è un fatto”, prosegue Zerzan. “Alla luce di tutto ciò,
è davvero credibile chi oggi promette che una società ancora più tecnologica
porterebbe a una vita di meno lavoro?”. I punti centrali del pensiero di Zerzan
sono fondamentalmente tre: la tecnologia ha creato una società rigidamente
divisa in classi, dove “gli uomini diventano semplici ingranaggi della macchina sociale”, in cui l’ambiente viene distrutto e ansia, stress, insonnia e depressione
sono sempre più diffusi. Perché, nell’epoca del benessere, siamo alle prese con
l’ansia e la depressione? In questa società, “il tempo smette di essere lineare e
diventa caotico, puntiforme”,
risponde un pensatore estraneo al primitivismo come Mark Fisher in Realismo
Capitalista. “Il sistema nervoso viene ristrutturato allo stesso modo della produzione
e della distribuzione. Per funzionare, in quanto elemento della produzione just in time, devi saper reagire agli
eventi imprevisti e imparare a vivere in condizioni di instabilità assoluta.
Periodi in cui lavori si alternano a periodi in cui sei disoccupato. Costretto
a una fila infinita di impieghi a breve termine, non riesci a pianificare un
futuro. (…) Il conflitto scatenato nella psiche degli individui non può che produrre
vittime (…). Da questo punto di vista, se la
schizofrenia è – come ricordano Deleuze e Guattari – la condizione che segna il
limite esterno del capitalismo, allora il disturbo bipolare è la malattia
mentale che del capitalismo segna l’interno. Di più: coi suoi incessanti cicli
di espansione e crisi, è il capitalismo stesso a essere profondamente e
irriducibilmente bipolare, periodicamente oscillante tra stati di eccitazione
incontrollata (l’esuberanza irrazionale delle ‘bolle’) e crolli depressivi (l’espressione
‘depressione economica’ non è evidentemente casuale)”. Tutto ciò non è solo
teorizzato da pensatori più o meno estremi, ma supportato da dati oggettivi.
Due studi inglesi citati da Oliver James ne Il
Capitalista Egoista –
testo a sua volta citato da Fisher – descrivono come i disturbi mentali siano
quasi raddoppiati tra le persone nate nel 1946 e quelle nate nel 1970. “Per esempio”, scrive Oliver James, “nel 1982 il 16% delle donne trentaseienni
ha riportato di soffrire di ‘problemi di nervi, sentirsi giù, tristi o
depresse’, mentre nel 2000 la cifra per le trentenni era del 29% (per gli
uomini era l’8% nel 1982, il 13% nel 2000)”.
ll più grande errore nella storia dell’umanità
Ma se per Mark Fisher e Oliver James questo aumento delle malattie mentali
è strettamente legato alla società post-fordista e turbo-liberista in cui siamo
immersi oggi, per gli anarco-primitivisti le cause originarie di tutti i mali
della modernità vanno cercate molto più indietro nel tempo. All’epoca, per la
precisione, di quello che Jared Diamond ha chiamato “il più grande errore nella storia
dell’umanità”: il passaggio da un’economia basata sulla
caccia e sulla raccolta a una basata sull’agricoltura. A loro dire, per
rintracciare le cause del nostro malessere non dobbiamo guardare né al
post-fordismo, né alla Rivoluzione industriale; ma alla Rivoluzione neolitica
di diecimila anni fa.
“Recenti scoperte
indicano che l’adozione dell’agricoltura, che si presume essere stato il nostro
passaggio più decisivo in direzione di una vita migliore, sia stata per molti
versi una catastrofe dalla quale non ci siamo mai ripresi. Con l’agricoltura
sono giunte le madornali ineguaglianze sociali e sessuali, la malattia e il
dispotismo che hanno dannato la nostra esistenza”, scrive Diamond nel suo celebre
articolo per Discover Magazine del 1987. Utilizzando
parole che farebbero la gioia di qualunque primitivista, Diamond spiega: “Sparse per il mondo,
molte decine di gruppi di cosiddetti primitivi, come i Kalahari o i Boscimani,
continuano a vivere da cacciatori e raccoglitori. Si è scoperto che queste
persone hanno molto tempo libero, dormono parecchio e lavorano molto meno dei
loro vicini agricoltori. Per esempio, il tempo dedicato ogni settimana
all’ottenimento del cibo è solo di 12/19 ore per un gruppo di Boscimani; 14 ore
o meno per i nomadi della Tanzania.” Lavorano meno, hanno più tempo libero, sono meno soggetti a ineguaglianze
sociali di ogni tipo. E sono anche più in salute: “Mentre gli agricoltori concentrano la loro
dieta in colture come il riso o le patate, il mix di piante e animali selvatici
nella dieta dei gruppi ancora esistenti di cacciatori e raccoglitori fornisce
più proteine e un migliore equilibrio degli altri nutrienti”, prosegue Diamond. “È quasi inconcepibile che i Boscimani, che mangiano circa 75 tipi diversi
di piante selvatiche, possano morire di fame nel modo in cui sono morti
centinaia di migliaia di contadini irlandesi durante la carestia di patate del
1840”. Non è il caso di soffermarsi sulle
ragioni che hanno comunque portato l’uomo a scegliere una vita agricola
(ampiamente spiegate nell’articolo di Jared Diamond), è però importante notare
come la Rivoluzione neolitica potrebbe anche essere alla base della diffusione
delle epidemie:
Il solo fatto che l’agricoltura abbia incoraggiato le persone a riunirsi in
società affollate, molte delle quali praticavano il commercio con altre società
altrettanto affollate, ha portato alla diffusione di parassiti e malattie
infettive. (…) Le epidemie non potevano diffondersi quando la popolazione era
sparsa in piccoli gruppi.
Ma come potremmo oggi rinunciare alle innovazioni in campo scientifico e
medico che hanno portato ai vaccini, alla sconfitta di molte malattie, alla
drastica riduzione della mortalità infantile e l’allungamento della vita umana?
“Una
delle conquiste della modernità è l’aumento della longevità, non c’è dubbio”, spiega Zerzan. “Ma ci si deve riflettere sopra: cos’è la
qualità della vita? Le condizioni critiche continuano ad aumentare anche se le
persone riescono in media a vivere più a lungo. Non ci sono evidenze a favore
di un ulteriore aumento della longevità. E le nostre capacità fisiche? I nostri
sensi un tempo erano molto più acuti ed eravamo molto più robusti di quanto non
siamo oggi”. Il punto, probabilmente, sta nel
decidere se la qualità della vita si possa misurare in termini numerici; che
mostrano percentuali e cifre dove altri si soffermano su aspetti, appunto,
qualitativi. Concetti simili si ritrovano anche in uno studioso distante dai
radicalismi primitivisti come l’israeliano Yuval Noah Harari, che in Sapiens
scrive: “Il
successo evoluzionistico di una specie si misura in termini di copie di DNA:
una specie del cui DNA non rimangono più copie è dichiarata estinta (…). Se
invece essa può vantare molte repliche del proprio DNA, ha successo e prospera.
Guardando la cosa da questa prospettiva, mille copie del DNA sono meglio di
cento copie. Sta qui l’essenza della Rivoluzione agricola: la capacità di
mantenere in vita più gente in condizioni peggiori. Ma perché gli individui
dovrebbero badare a questi calcoli sul meccanismo dell’evoluzione? Perché mai
una persona sana di mente vorrebbe abbassare la propria qualità di vita giusto
per moltiplicare il numero di copie del genoma di Homo Sapiens?”. La
Rivoluzione agricola potrebbe quindi essere stata una truffa dal punto di vista
salutare e sociale. E non solo: “Si è trattato di un passaggio
fondamentale, dal prendere quello che la natura offre al dominio sulla natura”, spiega Zerzan sempre a Gizmodo. “La logica intrinseca della domesticazione
di animali e piante è quella di una progressione ininterrotta che rafforza e
rende sempre più profondo l’ethos del controllo. Oggi, ovviamente, il controllo
ha raggiunto il livello molecolare con le nanotecnologie, e la sfera di quelle
che ritengo le fantasie poco salutari delle neuroscienze transumaniste e
dell’intelligenza artificiale”.
Libertà primitiva e controllo tecnologico
Il dilemma controllo o libertà, immersi come siamo nel pieno della
rivoluzione tecnologica, è un tema più attuale che mai. Ogni volta che facciamo
affidamento su un dispositivo affinché gestisca per noi le nostre vite (dai
navigatori satellitari agli assistenti virtuali, fino alle auto autonome)
stiamo inevitabilmente cedendo una parte di libertà e autonomia. Uno scambio
che ha innegabili vantaggi, ma che spesso viene vissuto acriticamente.
Da questo punto di vista, per Zerzan, la divisione fondamentale è tra
strumenti e dispositivi tecnologici. I primi sono quelli che rimangono sotto il
controllo di chi li usa (un martello, per esempio); mentre i secondi “conducono chi li usa
sotto il controllo di chi li produce”. Non è difficile immaginare cosa possa pensare il filosofo primitivista del
tema della raccolta dati condotta da aziende private che arrivano a conoscere
anche i dettagli più intimi delle nostre vite, spesso senza che l’utente ne sia
pienamente Sempre in Sapiens, Harari scrive: “Durante gli ultimi decenni ci siamo
inventati innumerevoli arnesi che fanno risparmiare tempo e ai quali si
attribuisce la capacità di farci vivere più rilassati: lavatrici,
aspirapolvere, lavastoviglie, telefoni cellulari, computer, posta elettronica. Prima
ci voleva un po’ di tempo per scrivere una lettera, apporre l’indirizzo,
affrancare una busta e portarla fino alla buca della posta. E ci volevano
giorni o settimane, magari anche mesi, per ricevere una risposta. Oggi posso
buttare giù una mail, inviarla dall’altra parte del globo e (se il mio
destinatario è online) ricevere una risposta un minuto dopo. Ho risparmiato
tutto quel traffico e quel tempo, ma davvero faccio una vita più rilassata?
Purtroppo, no. (…) Oggi io ricevo decine di mail ogni giorni, tutte da persone
che si aspettano una pronta risposta. Pensavamo che questo volesse dire
risparmiare tempo; invece abbiamo accelerato di dieci volte la ruota che macina
la nostra vita e reso i nostri giorni più ansiosi e agitati”. La tecnologia, dopo averci promesso più tempo libero e una vita più
comoda, si è dimostrata una semplice alleata della società turbo-capitalista;
limitandosi – come analizzato di recente - – a renderci più produttivi
ed efficienti, ma di certo non più liberi e rilassati. Insomma, che sia colpa
della rivoluzione agricola, di quella industriale o di quella tecnologica, il
risultato è lo stesso: le migliori condizioni di salute generali odierne sono
pagate al prezzo di un’inferiore qualità della vita; la società della scelta (o
del rischio, come direbbe il sociologo Ulrich Beck) porta con sé ansia e
depressione e la tecnologia ci ha portato ad avere ritmi di vita sempre meno
naturali. Nel frattempo – come anticipato da Foucault, secondo cui la
Rivoluzione industriale ha avuto anche l’obiettivo di imporre una maggiore
disciplina alla società – il controllo sociale si è fatto più serrato. Vuole la
leggenda che Kaczinsky abbia avuto la sua prima “illuminazione primitivista”
trovandosi fermo in macchina a un semaforo rosso. Da destra e da sinistra non
arrivava evidentemente nessuno. Eppure quella luce rossa che gli intimava di
restare fermo fino al via libera aveva una tale presa su di lui da rendere
impossibile utilizzare il semplice buon senso e decidere di procedere
nonostante il rosso. A chi non è mai capitato di fare un pensiero simile, fermi
in attesa del verde indipendentemente da quanto la strada fosse sgombra? Per
evitare il caos, e quindi per il bene della società, rinunciamo a una parte di
libertà.
Primitivisti versus Transumanisti
È curioso come una teoria che si pone all’estremo opposto
dell’anarco-primitivismo – come il transumanesimo – abbia individuato gli
stessi identici problemi: “Come transumanista sono completamente d’accordo con la visione dei
primitivisti, secondo i quali cui la tecnologia e il progresso stanno
fondamentalmente cambiando la vita dell’umanità in peggio”, scrive
su Motherboard il filosofo e futurologo
Zoltan Istvan. “La tecnologia e la civilizzazione sono decisamente
uscite dal nostro controllo. (…) Il cervello e il corpo umano non sono fatti
per una tecnologia così radicale, per le gigantesche metropoli in cui molti di
noi vivono, o per gli schemi sociali e lavorativi intensivi che ci ritroviamo a
vivere”.
C’è meno enfasi sulla
questione ambientale; ma di fondo i problemi individuati sono gli stessi. La
soluzione, però, è drasticamente diversa: “(Noi transumanisti) vogliamo lasciarci
alle spalle la razza umana e accogliere un futuro tecnologico e dominato dalla
scienza, fatto di protesi robotiche, ecosistemi digitali, un ampliamento
indefinito della vita e nuove filosofie sociali”, prosegue Istvan. “Il punto di scontro fondamentale di ‘anarco-primitivismo versus transumanesimo’ è che le
persone tendono a pensare che siamo ancora umani. Una descrizione [che] perde
completamente la sua rilevanza quando si discute con chi indossa un
esoscheletro, possiede un microchip RFID, assume occasionalmente del Viagra e
indossa dei Google Glass. Siamo esseri umani? Non più, e abbiamo iniziato a
dirigerci verso il transumanesimo molto tempo fa, quando abbiamo ricevuto il
nostro primo vaccino”. La soluzione,
quindi, non può passare da un ritorno a uno stile di vita primitivo, ma
piuttosto dal trovare il coraggio – sostengono i transumanisti – di accettare
le estreme conseguenze del progresso tecnologico e abbracciarlo senza remore;
trovando nella tecnologia le risposte ai problemi che la stessa tecnologia ha
(in parte) posto. Entrambe le teorie potrebbero essere derubricate a utopie
radicali che vivono solo nella mente di filosofi scollegati dalla realtà –
peraltro il primitivista Zertan e il transumanista Zoltan hanno recentemente dato vita a un dibattito alla Stanford University – ma il
primitivismo sembra aver colto con maggiore lucidità la principale incognita
della nostra epoca: ha senso continuare a sfruttare uomo e ambiente a beneficio
di un capitalismo che non giova più alla società nel suo complesso? Un tema che
le classiche categorie socio-politiche non affrontano ancora con sufficiente
determinazione. Ed è forse proprio questo che va salvato della teoria
primitivista: la corretta individuazione di problemi che non popolano l’agenda
politica, ma attorno ai quali sta iniziando a formarsi una certa
consapevolezza. Non torneremo a essere cacciatori e raccoglitori (non fosse
altro che per una semplice questione numerica: siamo troppi) e nemmeno sembrano
riscuotere successo vie “moderate” come la decrescita felice (rinnegata dai
primitivisti); ma se riusciremo a inquadrare correttamente i mali del nostro
tempo, e a porvi rimedio, potrebbe anche essere merito di movimenti estremisti,
utopisti e “impossibili” che li hanno individuati.
Nessun commento:
Posta un commento