(Paolo Flores d’Arcais,
filosofo e direttore della rivista MicroMega, autore di numerosi saggi che
integrano approfondimento filosofico ed
impegno civile e politico)
Si
tratta quindi, è bene ribadirlo, di un testo decisamente “schierato” nelle
opinioni che esprime in materia e “irruento” nello stile in linea con la cifra
del suo autore. Ci è però sembrato opportuno utilizzarlo perché, proprio per
queste sue caratteristiche, espone con chiarezza le ragioni che motivano una
precisa presa di posizione. La si può condividere, in parte o in toto, la si
può criticare e rigettare, ma certamente rappresenta un importante contributo per
entrare, finalmente, nel merito di un tema che, in stretta relazione a quanto
discusso nella nostra ultima conferenza sulle “ferite” della democrazia, ci
invita a riflettere, oltre che sulle sue specificità, sul rapporto fra
l’individuo, i suoi orientamenti e le
sue scelte personali, ed il potere ed i suoi meccanismi decisionali.
(come sempre le parti
estrapolate integrali dal testo sono evidenziate in corsivo blu)
Prologo
…….amico lettore sul tuo fine vita preferisci decidere tu o
preferisci che decida un estraneo, qualcuno che non conosci, scelto dal caso o
dai rapporti di forza?…….questo è l’unico interrogativo intellettualmente onesto
con cui affrontare il tema……. Sta in questa domanda, all’apparenza
persino banale, il nodo, fin qui irrisolto, della libertà di ogni individuo di
decidere sulla propria fine vita. La risposta per Flores d’Arcais è scontata
…..nessuno
può imporre la propria volontà sul fine vita di un altro…… Lo è, da
un punto di vista di stretta logica, perché, e non è un paradosso, consente di
compierla anche a chi ritiene di
affidare ad altri tale decisione. Se così non fosse, se non fosse cioè una
libera volontà esercitata dall’individuo, altri sarebbero, “a prescindere”, i padroni
delle nostre vite. Il dilemma, nel suo sviluppo logico, non si dovrebbe quindi
neppure porre, perché le due opzioni, io o altri, non sono paritarie se “di
istituto” sono altri i padroni delle nostre vite. Delle due opzioni una …..contiene anche
la seconda, mentre questa annulla la prima, la mette alla mercé del potere di
turno…… Quindi a essere …….logicamente e moralmente…… onesti la domanda neppure si dovrebbe porre. Non
si comprende poi perché questo dilemma sia fatto risaltare sulla questione del
fine vita mentre, in misura pressoché totale, non vale per tutti gli altri passaggi
delle nostre vite: ad esempio sposarsi si o no, avere o non avere figli, avere
una vita sana piuttosto che sregolata, farsi prete o suora. Perché la domanda
su chi decide si pone in particolare per la morte? Perché la libertà di
decidere sul proprio fine vita suscita opposizioni così accanite? Non siamo di
fronte ad un vulnus dell’esercizio pieno della democrazia se una maggioranza si
arroga il diritto di decidere su una scelta che è, come vedremo, totalmente in
capo all’individuo? Non si afferma in questo modo una concezione inaccettabile
del potere? Queste sono domande che attendono risposta
Capitolo
primo = Logicamente
1 –
Come vorremmo morire
Sappiamo per certo, anche se istintivamente
rimuoviamo il pensiero, che la morte è ineludibile. Non sappiamo, ed in minima
e non diretta parte non decidiamo noi il suo quando e perché, ma almeno il come
può essere nelle nostre mani, e alla domanda……..come vorremmo morire? …...tutti,
ma proprio tutti, risponderemmo ……..senza soffrire……. Tutti quanti vorremmo poter
almeno decidere se e quanta sofferenza, quella che quasi sempre, precede la
morte, accettare. E a nostro conforto viviamo oggi in un epoca che molto offre
in questo senso. Oggi è possibile parlare di una “buona morte”, esistono infatti
modi che consentono di attuare questa decisione. Il nodo non è
nell’impossibilità “tecnica” di dire basta quando la sofferenza non ci sembra
più accettabile, ma sta in una volontà del “potere” di impedire l’esercizio
vero della volontà di non soffrire inutilmente. Ed allora occorre riprendere le
domande del prologo: perché avviene ciò? Quali sono le ragioni che portano a
negare il diritto del “come vorremmo morire”? Una prima risposta, la più
ricorrente è che …….la vita è un bene indisponibile…… Per capirla e
valutarla occorre preliminarmente concordare su cosa si debba intendere per
“vita”.
2 –
Vita biologica e vita umana
Il termine “vita”, lasciato senza aggiunte
specificative, ha una valenza molto generale: In effetti da sola indica
l’insieme delle forme viventi, vegetali ed animali, che, con un processo
evolutivo iniziato con il primo procariota apparso sul nostro pianeta circa
quattro miliardi di anni fa, hanno popolato e colonizzato ogni angolo della
Terra. Ma non è questa l’accezione di cui ci occupiamo parlando di fine vita.
Parliamo ovviamente ed esclusivamente di vita umana, della vita di un animale,
l’Homo sapiens, che si è inserito in modo vincente nella lotta globale per la
sopravvivenza, anche perché non si è mai posto eccessivi problemi verso le
altre forme di vita, animali o vegetali che siano. Si pensi poi alla
gratitudine che tutti noi dobbiamo alla scoperta degli “antibiotici”, una
formidabile arma di difesa da batteri e germi che porta nel suo stesso nome
l’attitudine umana a distruggere le “altre” vite. E’ di vita umana che parliamo
dunque, solo ed esclusivamente di vita umana. Un termine che acquista
consistenza reale, vera, solo se, uscendo da una sua astrazione teorica, è riferibile
all’esistenza di ciascuno. Diventando, come conseguenza “logica”, la vita di
ogni singolo, una esistenza quindi singolare, unica, irripetibile. ….ogni volta che
una persona muore viene meno un mondo…. Questa singolarità,
assolutamente non aggirabile, rappresenta il carattere peculiare della vita
umana rispetto a tutte le altre forme di vita. Ed è esattamente sul presupposto
della singolarità delle vita umana che si è fondata, come perno millenario
della cultura umana, l’idea che solo l’animale Homo sapiens possieda “l’anima”.
Affidando quindi a questa misteriosa ed indefinita entità la singolarità della
vita umana. Oggi conosciamo la base neurologica di questa “dote” …..cento miliardi
di neuroni collegati da centotrentamila
miliardi di connessioni danno vita a tutte le funzioni e capacità motorie e
mentali, cognitive ed emotive, compresa l’ancora criptica coscienza…….
E’ questa la vita di cui si deve parlare quando riflettiamo sul fine vita
3 –
L’irriducibile autonomia
Alla singolarità di ogni vita umana la storia
evolutiva di homo sapiens ha poi aggiunto, completandola, un suo inaggirabile
carattere relazionale. La vita umana, fin dal suo comparire, si ha solo in un
contesto collettivo, di gruppo. Questo aspetto, decisivo sotto ogni punto di
vista, ha comportato una conseguenza altrettanto fondante. All’istinto che
guida, con forme e gradualità differenti, tutte le forme di vita individuali,
l’homo sapiens, per gestire gli aspetti relazionali che lo caratterizzano, ha affiancato
un complesso di regole, di “norme” …….ogni comportamento umano è governato dalla norma……
E’ la stessa biologia di Homo sapiens ad esigere una norma che affianchi,
surroghi, l’indebolirsi evolutivo del puro istinto. Non chiede però una norma
specifica, le regole variano da sempre in relazione ai specifici contesti
culturali. Le norme, dal punto di vista evolutivo, vanno tutte bene purché, al
di là della loro valenza “morale”, funzionino
ai fini della sopravvivenza della
specie. Ed è la norma quindi che si pone al centro del nostro ragionamento, la
norma ed il suo rapporto con la singolarità della vita umana ……con
l’irriducibile autonomia di ciascuno…… con l’evidenza inalienabile
che ……. la
vita umana è sempre e comunque la vita di qualcuno, è sempre la tua o la mia
vita……
4 – Tu
sei la tua vita
Ne consegue che la vita umana non è mai
anonima, deve inderogabilmente …… appartenere…… a qualcuno, non potendo essere
di nessuno o di tutti. Ma occorre da subito andare oltre il verbo appartenere
che non rende appieno la realtà della vita umana. Per la semplice ed evidente
ragione che la singolarità della vita scavalca la semplice appartenenza per
completarsi nella “consustanzialità”, nell’essere cosa unica, con l’individuo
che vive quella vita ……un “essere tu” è molto più che essere tua…… Il
corpo, questo sì, collegato alla tua, alla mia, vita, può essere posseduto,
anche se più da morto che vivo. Se infatti si può decidere cosa se ne potrà
fare come futuro cadavere: seppellirlo, bruciarlo, riutilizzarne parti ancora valide,
non posso da vivo venderlo tutto o in parte. Le norme, se non aggirate in modo
farudolento, universalmente non consentono la schiavitù o il commercio degli
organi dei vivi, consentendo al massimo il dono, limitato, di alcuni organi non
vitali. Ma la singolarità della vita presuppone maggiori diritti del semplice
possesso del corpo. La norma può certamente stabilire che essa non può
appartenere ad altri, ma ciò non è sufficiente per l’individuo che possiede la
sua specifica vita …la tua vita non solo ti appartiene, tu sei la tua vita e
con ciò sei la sovranità sulla tua vita…… senza di essa si cessa di
essere persona, svanisce la singolarità irripetibile della singola esistenza.
La sovranità, la piena sovranità, di ciascuno sulla propria vita è l’unica
condizione collegabile alla singolarità della vita umana.
5 –
L’inganno del bene indisponibile
In contrapposizione a queste considerazioni
che consegnano all’individuo il diritto di decidere sulla propria fine vita,
vengono avanzate alcune obiezioni basate su una diversa concezione della vita
umana. La prima, come già anticipato, è quella che la giudica …….un bene indisponibile…… ossia un bene di cui
non possiamo disporre a nostro piacimento,
di fatto assimilandola, aspetto di per sé già curioso, ad un qualsiasi
oggetto patrimoniale. Il concetto di bene indisponibile compare infatti, nel
contesto italiano, nella parte del Codice Civile che regola le questioni
patrimoniali. Là dove per bene indisponibile si intende un bene appartenente
allo Stato e destinato ad un pubblico servizio che, conseguentemente, non può
essere oggetto di vendita a privati (finché
lo Stato non decide di giudicarlo “disponibile, commerciabile” come
frequentemente di questi tempi sta succedendo). Va da sé allora che questo bene non
è per nulla indisponibile perché ha un suo padrone, esso è nella disponibilità
dello Stato. Ma anche volendo concedere valore a questa sua presunta
indisponibilità in nessun altro dispositivo giuridico la vita è definita come
tale. Si citano, a sostegno e non a caso, solo due articoli del Codice Penale
del 1930, piena era fascista, il 579 ed il 580, che rispettivamente condannano
a pene dai sei ai quindici anni chiunque …….cagioni la morte di un uomo col di lui consenso……
e dai cinque ai dodici anni chi …… determina o rafforza l’altrui proposito al suicidio
ovvero ne agevola l’esecuzione….. (è il reato contestato a Cappato). Nessuno di questi
due articoli definisce però con chiara evidenza la vita come bene
indisponibile. Tale affermazione quindi resta una contraddizione in termini per
la semplice ragione che essa è alla base della pretesa dello Stato di
“disporre” della vita umana. E d’altronde si è in precedenza visto che la vita
è tale solo se posta in capo a qualcuno, ad un identificabile individuo, una
sua indisponibilità sarebbe pertanto un’astrazione insostenibile. Tale pretesa
è quindi inaccettabile anche perché …..con la stessa logica potrebbero essere sottratte le
libertà religiose, di orientamento sessuale, e ogni altro aspetto “vitale” in
capo all’individuo…….
6 – Non
c’è natura che tenga
Una seconda obiezione, collegata alla prima
nel tentativo di rafforzarla, tira in ballo la Natura. …….la vita sarebbe un bene indisponibile nel
senso che si dovrebbe affidare la propria fine vita alla Natura……
Obiezione quanto meno singolare non solo perché fatta valere per la sola fine
vita, ma perché contraddice clamorosamente l’intera crescita culturale umana.
Dalla prima erba medicinale usata da Homo sapiens per finire alle più
sofisticate terapie che utilizzano macchinari fantascientifici, tutti i
tentativi umani di controbattere malattie o ferite sono sempre stati
finalizzati a sottrarci al corso “naturale” delle cose …….ogni progresso medico è “contro” la Natura……
Va detto allora che la Natura, quella santificata con la N maiuscola, in
effetti non esiste, è una metafora, una ipostasi per giustificare quello che
“ancora” non riusciamo a conoscere e a gestire
7 –
Vita e libertà
All’inconsistenza delle prime due obiezioni
si cerca allora di rimediare chiamando in causa la vita stessa, anche in questo
caso declinata con la V maiuscola, la Vita. Sostenendo che le fonti storiche
alla base delle nostre democrazie pongono la Vita al di sopra della pretesa di
titolarità dell’individuo. Eppure a leggerle bene queste stesse fonti
sostengono esattamente il contrario. Nella Dichiarazione di Indipendenza degli
Stati Uniti d’America (1776) si afferma solennemente che la Vita, proprio quella
con V maiuscola, è, alla pari della Libertà e del perseguimento della Felicità,
un diritto inalienabile di tutti gli uomini. Nella Dichiarazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino francese del 1789 la vita, o Vita, non è neppure
citata perché essa fa tutt’uno con la libertà. Compare in compenso una
fondamentale limitazione della libertà, che molto peso può avere discutendo di
fine vita, là dove si afferma che essa consiste in tutto ciò ……che non nuoce ad
altri….. Anche la nostra Costituzione italiana non fa un esplicito
riferimento alla Vita, e tanto meno in tutti gli articoli dedicati ai diritti
compare un qualche richiamo al “diritto alla vita”. Per non dire poi del
“dovere” di vivere. E’ quindi possibile sostenere che non esiste nessun
appiglio per affermare che queste fonti, alla base delle democrazie che formano
le nostre società occidentali, sottraggano la Vita alla titolarità individuale,
anzi. Compare semmai in esse un diritto altrettanto inalienabile alla vita ed
alla libertà.
8 –
L’improponibile argomento Dio
Per quanto sia evidente che tutte le
obiezioni al diritto a decidere del proprio fine vita partano da un retroterra
religioso va riconosciuto che quasi nessuno ha l’ardire di nominare Dio, ed il
suo presunto volere, come ultima e insuperabile istanza in senso opposto. ……..Dio non viene citato perché non può essere citato…….
Salvo che ci si muova in un manifesto regime di teocrazia la Sua presunta
volontà non può essere posta alla base di una normale dialettica democratica.
Non viene inoltre messo in campo anche perché ormai viviamo, in modo diffuso
pressoché universalmente, in società che vedono una pluralità di fedi e di
negazione delle fedi, e quindi ……lasciare ufficiale spazio pubblico a Dio non potrebbe che
offrire nuovo combustibile al conflitto teologico….. in tempi che
vedono ancora troppe guerre dichiarate in Suo nome. Assumendo la democrazia,
laica, come base a nessuno è lecito usare Dio, e la sua ipotetica volontà, per
fissare una norma che valga per tutti, che agisca “erga omnes”. Ciò detto,
riprendendo la considerazione svolta nel prologo, a nessuno, proprio perché
titolare della propria vita, può essere impedito di affidare al proprio Dio la
propria vita ……perché
quando affermi che la tua vita appartiene al tuo Dio sei sempre tu che decidi,
non Lui…….. Ma questa è cosa completamente diversa dal sostenere,
con pretesa di valenza per tutti, che la vita, in quanto tale, appartiene a
Dio, non fosse altro che per il fatto che ognuno, se lo ha, ha il suo.
9 –
Sillogismo ricapitolativo
- La morte è la conclusione della vita,
il fine vita è quindi parte della vita, la decisione sulla morte fa parte delle
decisioni sulla vita
- La vita umana è sempre la vita di
qualcuno, ha sempre cognome e nome
- La mia vita allora se non appartiene a
me appartiene ad altri perché la vita non può essere di nessuno o di tutti
- La vita poi non “appartiene” ma è un
tutt’uno con il mio “io”, non è alienabile proprio perché non è separabile da
me
- La Vita e la Natura in quanto tali non
sono entità reali, ma metafore dialettiche, spesso sono solo surrogati di “Dio”
- Che non può essere chiamato in causa
nel contesto di un vero esercizio della democrazia
Ergo …….il mio diritto alla vita è il diritto di farne ciò che voglio,
fine vita compreso, purché non sopprima uguale diritto dell’altro. Ogni di più,
o di meno, toglie libertà. Dunque vita umana……
Capitolo
secondo = Esistenzialmente
Raccomandiamo vivamente a chi avrà piacere di
affrontare la lettura completa di “Questione di vita e di morte” di scorrere
con attento coinvolgimento le pagine di questo Capitolo secondo. Eppure non ne
tracciamo qui una sintesi analitica. La ragione sta proprio negli argomenti
affrontati. Paolo Flores d’Arcais ha dedicato quasi tutto questo Capitolo a
ripercorrere numerose vicende “esistenziali”, da qui il titolo del Capitolo, che,
avvenute in paesi dove la legislazione in vigore non prevede il diritto alla
“buona morte”, raccontano le inaudite sofferenze che donne e uomini, colpiti da
malattie senza via di uscita o allo stadio terminale, sono stati costretti a
“vivere” proprio per la mancanza di questo diritto. Sono racconti tanto
dettagliati quanto sconvolgenti che, per la loro forza, inibiscono una
“normale” sintesi”. Crediamo che i lettori del blog di CircolarMente possano, comunque
e purtroppo, supplire con la conoscenza,
in qualche modo da loro già acquisita, di situazioni analoghe. Anche senza citarle
diamo quindi per scontato che sia comprensibile l’amara constatazione che, su
queste basi, Flores d’Arcais fa della totale mancanza di umana “pietà” in chi
si arroga il diritto, il potere di decidere sulle altrui vite, e morti. Si
conferma in questa mancanza di pietà quanto evidenziato nel Capitolo primo: in
ballo non c’è una generale idea della sacralità della “vita”, ma il “controllo”
di quella umana da parte di “altri” uomini. Non si spiega altrimenti perché quella
pietà che induce tutti ad abbreviare le sofferenze, quando ormai inutili, degli
animali domestici che amiamo venga così cinicamente negata quando c’è in gioco una
vita umana. Ed allo stesso modo si comprendono le ragioni che inducono Flores
d’Arcais ad interrogare Stati e Chiese quando evidenziano contraddittori
atteggiamenti verso forme di suicidio. Tanto è negato e condannato per le
esistenze del Capitolo secondo tanto è esaltato e celebrato in altri casi……il suicidio per
una causa nobile è persino giudicato eroismo…… La storia è infatti piena
di santi martiri, di sante che pur di mantenersi pure non esitano a darsi la
morte, piuttosto che di eroi che si sono immolati per la patria o per alti
valori di umanità. Esemplare, in questo senso, è la vicenda eroica di Salvo
D’Acquisto. Carabiniere in servizio durante l’occupazione nazista non esita a dichiararsi
colpevole di un attentato da lui mai compiuto pur di salvare ostaggi, innocenti
come lui, dalla fucilazione sostituendosi a loro davanti al plotone di
esecuzione. A Salvo D’Acquisto è stata, più che giustamente, riconosciuta la
Medaglia d’oro al Valore Militare, ed è persino in corso la sua causa di
beatificazione. Quindi anche per la Chiesa immolarsi per una giusta causa, anche
non strettamente religiosa, è virtù somma. Allah non è meno misericordioso e
riconoscente per chi si immola per la Jihad, se uomo sarà in Paradiso con
settantadue vergini, se donna sempre in paradiso ma con un solo uomo. Come si
usa dire: la domanda sorge spontanea …….se posso sacrificare la mia vita per il bene di un altro
perché non posso porvi fine per quel
bene che è la fine della mia sofferenza?...... Una delle più
ricorrenti obiezioni al diritto al suicidio, come diritto in capo all’individuo
per evitare sofferenze che non hanno più senso e sbocco, consiste nella
affermazione del “valore del dolore”. A coloro che lo esaltano, ed in
particolare alle prese di posizione ecclesiastiche che, in nome della
inviolabile sacralità della vita, lo reputano un mezzo per raggiungere “verità
ultime”, Flores d’Arcais ricorda che il dolore non da tutti viene vissuto in
questa ottica. Liberi di accettarlo per chi così lo vive, liberi di porvi fine,
quando anche le terapie antidolore hanno smesso di avere senso, per chi ritiene
di essere il padrone della propria vita. Il richiamo al valore del dolore
consente comunque una riflessione, per certi versi inquietante, sul rapporto
dolore/morte. La battaglia per la soppressione della pena di morte è ancora
molto lungi dall’essere vinta, ma, con eccezioni purtroppo tutt’altro che
limitate, in quasi tutti i paesi in cui ancora vige è ormai eseguita con
modalità che “tentano” di limitare il dolore. Ma è una conquista di civiltà (?)
recente. La storia di millenni ci racconta di esecuzioni comminate con
l’aggiunta, abituale e spesso scientificamente messa a punto, di brutali
torture. La crudeltà umana ha toccato vette raccapriccianti da questo punto di
vista, al punto che la morte diventava per chi le subiva una vera e sospirata liberazione.
Molto spesso la vera condanna, la vera pena in effetti non è consistita nella
esecuzione, nella morte finale, ma nel dolore infinito della tortura. Il dolore
come condanna, il dolore, più ancora della morte, come vera espiazione: quanto
di queste concezioni è rimasto nella celebrazione del dolore (va da sé sempre
altrui) come “valore”?
Capitolo
terzo = Filosoficamente
1 – La
vita degna: Sofocle, Montaigne, Kant e Leopardi
Il tema del valore della vita, ossia se essa
sia sempre e comunque da perseguire, e quindi da anteporre alla legittimità del
suicidio, ha da sempre attraversato il dibattito filosofico occidentale. Sofocle,
nel suo “Edipo a Colono”, Leopardi, in diverse annotazioni contenute nello
Zibaldone”, sono due esempi dell’interrogarsi al riguardo e della convinzione
che la ragione giustamente vede nel suicidio una possibile via di uscita dalla
provvisorietà insita nel vivere. Al contrario è nel pensiero kantiano che è
possibile misurarsi con il più noto anatema del suicidio. Kant, nel suo “Lezioni
di Etica”, riconosce che la vita non va stimata in sé e per sé e che pertanto
va conservata solo se nella misura in cui si è degni di viverla. Ma subito dopo
chiarisce che il suicidio non rappresenta solo la morte del corpo perché con
esso viene ad annullarsi l’entità “persona”. In questa entità si concentrano
tutte le qualità che compongono l’uomo e quindi, annullandola, si sopprime la
condizione ultima dell’essere persona. Con il suicidio pertanto …….si oltrepassa
ogni limite dell’uso del libero arbitrio perché tale uso è possibile solo
mediante l’esistenza del soggetto…..
Un ragionamento circolare, secondo Flores d’Arcais, che sfocia in una
evidente contraddizione. Nel contrapporre corpo e persona da una parte si crea
il presupposto che la persona possieda, anche il corpo, di cui potrebbe
liberamente disporre, ma dall’altra che la persona non possa possedere sé
stessa ……In
tal modo però si presuppone, come premessa, quanto si dovrebbe
dimostrare…..ossia il poter o meno
disporre della propria vita……. Molto più prosaicamente Montaigne
riconsegna all’individuo l’esercizio pieno, purché consapevole, del libero
arbitrio che implica anche l’ultima parola sul proprio vivere. Non diversamente
Leopardi, nel suo “Dialogo di Plotino e Porfirio” fa dire a quest’ultimo ……ma con quale
barbarie quel tuo decreto impone che all’uomo non sia lecito por fine ai suoi
patimenti, ai dolori, alle angosce?……
2 – Un
circolo vizioso e la risposta di Hume
Non solo un ragionamento che si attorciglia
su sé stesso presentando come dimostrazione quello che doveva essere
dimostrato, ma che non dice per quali ragioni il più alto di tutti i doveri sia
quello del “mantenimento di sé come persona”. E quando Kant tenta di indicare
queste ragioni torna là da dove voleva partire allorché affermava di voler
parlare del suicidio in termini di “ragione” e quindi “indipendentemente
dall’aspetto religioso”. E lo fa con un’enfasi totale lontanissima
dall’esercizio della “ragione”: annullare la persona altro non è, a suo avviso,
che un atto di ribellione contro Dio, ed è Dio il nostro proprietario. Hume
risponde a Kant difendendo il suicidio
che ……quando
circostanze della vita lo impongono può andare d’accordo con l’interesse ed il
dovere che abbiamo verso noi stessi …….
Rovesciando in questo modo il sillogismo kantiano: non sono i doveri che
costituiscono l’uomo, ma al contrario i doveri per esistere ed essere
esercitati devono presupporre un soggetto umano. Flores d’Arcais chiude questo
excursus nel mondo filosofico citando ancora Leopardi ed il suo Porfirio ……strano mi
riuscirebbe che non avendo la natura o volontà o potere di farmi né felice né
libero avesse facoltà di obbligarmi e vivere……
Capitolo
quarto = Giuridicamente
1 –
Sedazione profonda permanente
Nello stesso campo del Diritto, per quanto
siano indispensabili leggi e norme chiare sull’esercizio del fine vita, non
mancano già ora alcune importanti indicazioni troppo spesso non pienamente rese
operative. Articolo 32 della Costituzione Italiana ….nessuno può essere obbligato a un
determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge….che non può in
nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana…..
La Legge 145 del 2001, nel recepire la “Convenzione sui diritti umani e la
biomedicina” (Oviedo 1997) cita che …..l’interesse ed il bene dell’essere umano debbono
prevalere sul solo interesse della società o della scienza….un intervento nel
campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona
interessata abbia dato consenso libero e informato….. La legge 38
del 2010 (Normativa dell’ospedale senza dolore) evidenzia che …..il dolore è un
male…… e come tale va il più possibile contenuto se non eliminato
…..cure
palliative e terapia del dolore costituiscono obiettivi prioritari……
Tre importanti riferimenti giuridici che già aprono rilevanti prospettive sul
fine vita. In particolare nelle terapie contro il dolore è ormai assodato il
diritto del malato alla “sedazione definitiva permanente”. Lo testimoniano due
esempi di accompagnamento alla morte mediante sedazione, di campo completamente
opposto, citati da Flores d’Arcais per l’impatto avuto sulla pubblica opinione:
il Cardinale Carlo Maria Martini e Marina Ripa di Meana. Diventa una questione
di lana caprina distinguere la sedazione profonda, che implica il permanere di
semplici funzioni biologiche in una persona “ormai definitivamente priva di
coscienza”, da altri interventi definibili di eutanasia. Non sembra quindi
privo di ipocrisia il contrasto tra molte delle “pratiche” mediche attualmente
già messe in atto, in ottemperanza a precise disposizioni di Legge, ed il
rifiuto ostinato di dare spazio ad un esercizio ancor più pieno del fine vita
2 –
China pericolosa e casi di confine + 3 – Eutanasia prenatale
In effetti il diritto a morire è già presente
nelle norme di Legge e nelle pratiche mediche, più volte la Cassazione,
deliberando su casi specifici sempre sollevati dai difensori ad oltranza della
vita, ha sentenziato il diritto al rifiuto di trattamenti terapeutici anche
quando tale rifiuto, in casi specifici, comporti di fatto la morte certa.
Secondo tali difensori rappresenta una china pericolosa questa concessione al
malato del diritto di “decidere” se proseguire determinati trattamenti. Si
prospettano, secondo queste opinioni, pericolose possibilità di abusi, di
volontà pilotate e indirizzate, di coinvolgimento di minori o di persone
condizionabili. E’ bene quindi precisare cosa si debba intendere per
“decisione”: questa deve essere sempre e comunque: un atto in capo ad una persona
……adulta,
presa in piena coscienza e conoscenza, reiterata e costante, che esprima una
volontà profonda e non occasionale o legata ad una situazione psicofisica
transitoria….. A questa precisione, inderogabile, va poi aggiunta la
consapevolezza che esisteranno sempre e comunque “casi di confine” nei quali
diventa difficile avere adeguata certezza della reale volontà del soggetto. Una
giusta normativa sull’eutanasia deve quindi prevedere l’intervento di più
competenze e specializzazioni. Anche per evitare che i “casi di confine”
diventino un aggancio strumentale per inficiare l’intera possibilità di
ricorrervi. Il caso di confine che più interroga le nostre coscienze è
certamente quello dell’eutanasia prenatale. Chi e come può decidere quando la
persona coinvolta da malattie devastanti ed incurabili è un neonato, un
soggetto fisiologicamente incapace di esprimere la propria volontà? In Olanda è
diventata legge la possibilità del ricorso all’eutanasia anche per queste
situazioni. I criteri, ancor più rigidi e vincolanti, che la conformano hanno
una valenza di indicazione universale e dimostrano come sia possibile, per
quanto agghiacciante sia il campo di applicazione, fissare norme precise di
comportamento: diagnosi e prognosi certe – presenza di sofferenza ingestibili e
insopportabili – più gradi ripetuti di valutazione medica – consenso informato
dei genitori – procedura eseguita con la massima attenzione in ottemperanza
agli standard medici. Parlare, su queste basi, di Rupe Tarpea e di Sparta può
significare soltanto l’intenzione di mistificare ed inquinare il dibattito al
riguardo
4 – Il
caso Lucio Magri
Lucio Magri, noto politico e uomo di profonda
cultura, ha deciso di suicidarsi dopo la scomparsa della sua compagna ed il
comparire di una malattia ormai incurabile. Ma è stata soprattutto la sua
incapacità di reggere alla solitudine a spingerlo alla lucida volontà di darsi
la morte. Come Dj Fabo è stato costretto a recarsi in Svizzera in una di quelle
che chiamano “cliniche della morte”. Rispetto a Dj Fabo Lucio Magri per un
certo verso era “messo meglio” e per un altro la sua scelta era persino più
divisiva. Meglio perché egli poteva muoversi ed in Svizzera è stato
accompagnato da Rossana Rossanda unicamente per avere il conforto di una amica
e compagna di lotte da sempre. Più divisiva come impatto sull’opinione pubblica
perché, per quanto affetto da un male incurabile in stadio avanzato (condizione
sine qua non per accedere a tali cliniche), per sua stessa ammissione la vera
spinta al suicidio era il vuoto esistenziale: dopo la scomparsa della compagna
la sua vita non aveva più senso. …..quando Mara è scomparsa ha portato via con sé tutta la
mia voglia di vivere ed ero già pronto a seguirla……può essere solo un simbolo,
ma non è poco…… E’ una vicenda, come tantissime altre meno famose e
chiacchierate, che apre uno spiraglio sulla diversità delle motivazioni che
possono indurre una persona, adulta e consapevole, a volere la propria fine
vita. Restano anche per questi casi le domande sulla possibilità per
l’individuo del pieno esercizio del suo inalienabile diritto di decidere sulla
propria vita nel proprio paese
Capitolo
quinto = Cattolicamente
1 –
Promessa di laicità di due Cardinali e
un arcivescovo
In questo ultimo Capitolo Flores d’Arcais si
confronta con il pensiero che di più ispira le posizioni di condanna
dell’eutanasia: quello che fa capo alle posizioni ufficiali della Chiesa
Cattolica. Lo fa riprendendo i temi di un confronto che dura da tempo, avvenuto
anche in dibattiti pubblici, con tre esponenti di alto livello nelle gerarchia
ecclesiastica: i cardinali Elio Sgreccia e Dionigi Tettamanzi, autori dei due
manuali di riferimento per la bioetica cattolica, e l’arcivescovo Vincenzo
Paglia in qualità di Presidente della Pontificia Accademia per la vita. La
premessa che ha ispirato questo confronto è stata quella di misurarsi sul piano
della pura razionalità escludendo quindi la variabile “Dio”.
2 – Una
canagliesca amalgama ecclesiastica
Alla premessa non sembra tuttavia fare
seguito una adeguata rispondenza. La prima risentita replica di Flores d’Arcais
nasce come risposta all’equivoco accostamento, talvolta avanzato con termini
sfumati ma non meno strumentali, del diritto all’eutanasia alle pratiche
naziste di eliminazione sistematica e organizzata di tutte le persone non
rispondenti ai canoni ariani di umanità. Accostamento ……immondo….. secondo Flores
d’Arcais perché il disegno nazista di una purezza di razza non ha nulla a che
vedere con il riconoscimento ……al singolo individuo…… del diritto di decidere
…..della
propria vita e della propria morte…..Una assimilazione non soltanto
insostenibile ma che, esattamente al contrario, dimostra proprio quali rischi
si possono correre quando questo diritto, negato al legittimo proprietario
della sua esistenza, viene “assorbito” da un “terzo” che si arroga di
conseguenza il potere di decidere chi ha titolo di vivere e chi no. Su questo
stesso equivoco si muove una seconda contestazione da parte cattolica:
l’eutanasia sarebbe un atto deliberato che pone fine alla vita di un malato
grave, e quindi una sorta di esecuzione su commissione. Manca in questa
definizione un aggettivo quanto mai qualificante: quel malato grave è ……consenziente ed
anzi di quel porre fine alla propria vita ha fatto richiesta e spesso supplica……
Non si è quindi di fronte ad una pratica para-nazista di eliminazione, di una
scelta generica fra vita e morte, ma di decidere se accettare o meno una
precisa ed inequivocabile richiesta avanzata dal diretto interessato. Si
collega a queste due critiche una terza affermazione: quella che i progressi
della medicina consentono ormai di rendere possibile la sopportazione dei
dolori terminali. Una affermazione portata avanti da alcuni polemisti cattolici
ma in buona misura accantonata dai tre ecclesiastici, consapevoli che
l’esperienza diffusa dimostri invece che le sofferenze che accompagnano molte
malattie sono e restano, nonostante le cure palliative, sempre molto grandi
3 – Chi
chiede l’eutanasia non sa quello che vuole?
Sono proprie queste grandi sofferenze che,
abbandonate le prime equivoche obiezioni, inducono i tre ecclesiastici a
sostenere l’impossibilità di penetrare e scandagliare ciò che realmente si
agita nell’animo del malato terminale. La risposta di Flores d’Arcais si muove
sul piano del realismo interpretativo ……se quello che accade in “interiore homine” è davvero
indecifrabile perché mai l’interpretazione dovrebbe essere diversa dalla
esplicite e reiterate espressioni rese in condizioni di lucidità e
consapevolezza accertate per quanto umanamente possibile?......
Perché mai, in altri termini, il difficile entrare nell’animo altrui, per chi
vive dal di fuori quelle sofferenze, dovrebbe condurre a non ritenere valida una
volontà espressa ripetutamente ed insistentemente? E’ accettabile, come
conseguenza del difficile entrare nel dolore altrui, ritenere che chi richiede
l’eutanasia sia soltanto vittima di una situazione che non riesce a dominare e
non una persona che pretende di esercitare una chiara scelta su sé stesso?
Oppure, come viene ventilato in aggiunta di “tradurre” questa richiesta in una semplice
domanda di accompagnamento, di aiuto a non soffrire e non in una consapevole
volontà di fine vita? Non si comprende in base a quale diritto di
interpretazione e traduzione questa volontà, se espressa chiaramente e
ripetutamente, possa essere diversamente declinata. Ed ancora viene chiesto,
dal punto di vista cattolico, se la decisione di togliersi la vita sia un vero esercizio
di libertà. Domanda retorica secondo Flores dìArcais, perché include in sé la
risposta, ossia che proprio quel cumulo di sofferenze privino il malato della
facoltà di decidere “liberamente”. Ma così ci si infila, replica Flores
d’Arcais, in un circolo vizioso creato strumentalmente ad arte ……se non stati
soffrendo non hai motivo di toglierti la vita ma se stai soffrendo non ne hai
diritto proprio perché stai soffrendo…… E resta comunque inamovibile
il fatto che, al di là dell’essere ritenuto libero piuttosto che condizionato,
non esiste altro elemento da assumere come probante che non sia la precisa
volontà espressa dal soggetto interessato.
4 –
Welby, Montanelli e la dignità
Viene poi contestato l’uso del termine
“dignità” o “vita degna” o ancora “qualità della vita” come ragione da molti
addotta per giustificare, quando queste vengano a mancare, la propria volontà
di fine vita. Si sostiene che ricorrere alla personale definizione del livello
minimo di dignità del vivere – quello che, per citare due esempi ben noti
all’opinione pubblica, Welby ripetutamente riteneva di aver ormai perso da
quando la malattia lo aveva ridotto all’immobilità totale e definitiva, oppure
quello che Montanelli personalmente fissava nel non essere più in grado di “andare
in bagno da solo – riduca la dignità a valore totalmente soggettivo e quindi
stabilito in maniera del tutto individuale. Ma è esattamente quello che deve
essere è la replica di Flores d’Arcais: chi altri avrebbe titolo a decidere
questo livello minimo? Chi o cosa potrebbe arrogarsi il potere di fissarlo “erga
omnes” come indiscutibile “oggettività”? In questo campo ……non ci sono decisioni che possano prese da
“entità” che non siano individui…….. e quindi conseguentemente sono
sempre valutazioni soggettive. L’unica oggettività resta quella di dare
riscontro alle volontà espresse dall’unico titolare della vita in questione.
5 – L’ovvietà
della relazionalità
Le obiezioni di matrice cattolica fanno entrare
in campo un altro soggetto: il medico, ed il suo ruolo. Secondo queste
obiezioni il riconoscimento del diritto all’eutanasia capovolgerebbe il ruolo
del medico da “servitore della vita” a “collaboratore della morte”. Ancora una volta è indispensabile essere
chiari sulle definizioni. Flores d’Arcais evidenzia infatti che il medico non è
“servitore della vita come astrazione”, ma il servitore di “una vita” ben
specifica, della “mia vita”, un servitore quindi ……che non ha il diritto di farmi vivere nel
senso della permanenza biologica di alcune funzioni vitali ad oltranza……
E non a caso, come si è visto in precedenza, accanimento terapeutico e terapie
senza consenso non sono più praticabili secondo le stesse indicazioni della
deontologia medica. Si aggiunge allora, a sostegno dell’obiezione, un ulteriore
elemento: decisioni come queste devono essere assunte in un ambito relazionale
che coinvolge il malato, la sua famiglia, il medico e l’intera società, la
scelta deve essere il frutto di un percorso relazionale che coinvolga tutti
questi protagonisti. Nulla da obiettare sull’opportunità di un confronto aperto
e sincero sostiene in risposta Flores d’Arcais……ma se questi quattro soggetti palesano
criteri differenti quale dovrebbe alla fin fine imporsi?.......Non
esiste a suo avviso altra risposta: sulla mia vita l’ultima e definitiva parola
non può che spettare a me. Non è peraltro sostenibile, come viene ulteriormente
affermato, che assolutizzare l’autonomia del malato implichi una scelta
egoistica. Semmai vale l’esatto contrario: sarebbe egoismo che altri impongano
il loro punto di vista giocandolo sulla vita del soggetto coinvolto. Se è
quanto mai auspicabile che attorno al
malato si sviluppi al meglio un contesto relazionale ed affettivo in grado di
dare sostegno, conforto, amore, non può essere cancellata la consapevolezza che
……questa
relazionalità ha sempre una sua gerarchia, e la stessa religione chiede di
“amare il prossimo tuo come te stesso” non “più di te stesso”……..
Non si può quindi chiedere, o peggio ancora imporre, all’individuo, salvo che
questa sia la sua precisa volontà, di rinunciare ad una propria scelta per
privilegiare quella di altri
6
- Solitudine, amore, carità
Ma se così s’ha da fare, è l’ulteriore
replica critica, questa maggiore libertà individuale porta però ad una maggiore
solitudine, ad un vuoto d’amore. Ma perché mai, risponde Flores d’Arcais ……amare è aiutare
la persona amata secondo quanto ci chiede non secondo il nostro desiderio…..
Non è certo il riconoscimento dell’autonomia di ogni persona nel momento di
scelte così cruciali che implica automaticamente solitudine e abbandono. Se
l’accettazione della volontà del soggetto interessato fosse vissuta, come
dovrebbe essere, con carità ed amore il momento del fine vita sarebbe il
miglior suggello per una esistenza che si chiude con serena dignità
7 –
L’alleanza terapeutica e il medico che vorremmo
In risposta ad ulteriori perplessità che da
parte cattolica vengono avanzate sul ruolo del medico in casi di eutanasia, quelle
che si traducono nella esplicita richiesta del “diritto all’obiezione di
coscienza”, Flores d’Arcais precisa che il curare medico, il “prendersi cura”
del malato, non può essere altra cosa, quando le cure non hanno più effetto,
dal seguire ed eseguire la sua volontà. ……con medici così, davvero alleati, la stessa paura di
morire può collassare e spingere a prolungare il proprio vivere le sofferenze
proprio contando sulla certezza che il medico alleato rispetterà il momento in
cui diremo “adesso non ha più senso”…..
8 –
altri “non sequitur” ecclesiastici
Uno degli argomenti più ricorrenti
nell’opposizione cattolica all’eutanasia consiste nel ritenere che tale diritto
potrebbe, con tutti i necessari limiti, essere riconosciuto per i malati
terminali ma, una volta introdotto, inevitabilmente aprirebbe la strada ad un
suo utilizzo ben più ampio e indiscriminato. La replica di Flores d’Arcais è
perentoria ……..si
tratta di un non argomento per eccellenza……. Il diritto
all’eutanasia per i malati terminali dovrà essere riconosciuto con una apposita
legge che fisserà modalità e circostanze di applicazione. Altri diversi
diritti, alcuni dei quali sono stati affrontati anche in questo saggio,
richiederanno altro consenso e altre
leggi …..tale
diverso diritto dovrà essere argomentato indipendentemente dal primo……
L’inaccettabile forzatura, troppo spesso avanzata, che al diritto faccia
seguito, per il solo fatto di essere stato riconosciuto, il dovere “di morire”
è argomento inconsistente sia dal punto di visto logico che da quello
giuridico. Un ultimo appiglio, che viene infine usato per scardinare l’intero
dibattito, parte dal presunto riconoscimento, in camera caritatis, della
titolarità del proprio corpo e della propria vita ma precisando che la natura
di tale titolarità non può consistere nell’essere padrone, proprietario, ma
nell’essere …….custode
amorevole e fedele……. Flores d’Arcais si limita ad evidenziare …….ma custode per
conto di chi?...... Questa ultima obiezione rivela infatti a suo
avviso che tutte quelle avanzate, peraltro utili anche a chi le rigetta ad
arricchire il bagaglio di ragioni a favore del diritto all’eutanasia, si
rivelano una sorta di fuoco di sbarramento per celare la vera ed unica ragione
ostativa: la vita umana ha un solo ed unico “padrone”: il Dio della fede
cristiana e cattolica.
9 –
Tettamanzi ammette che solo la fede giustifica il no assoluto all’eutanasia
…..insomma le premesse di dialogo puramente umano, spesso
avanzate in buona fede, non reggono le conseguenze logiche ineluttabili in un
discorso privo delle incursioni della volontà di Dio……. Al di là
quindi della sincera disponibilità al confronto emerge in definitiva la
completa e totale ottemperanza a quanto richiamato nell’enciclica “Evangelium
vitae” di Giovanni Paolo II, là dove fa leva su un unico irrefutabile argomento
di fede: Dio solo ha il potere di far morire e far vivere, in ottemperanza a
quanto citato in almeno tre passi biblici: “Sono io che do la morte o faccio
vivere”. Il cardinale Tettamanzi, in un dibattito a due con Flores d’Arcais,
riconosce apertamente che ….il no assoluto all’eutanasia o si radica in una prospettiva
di fede religiosa o diversamente, almeno in termini assoluti, non regge…….
E con questo si torna però all’assunto di partenza già richiamato nel Prologo:
riconoscere che la vita, ed il conseguente diritto al fine vita, sta in capo
esclusivo all’individuo che quella vita vive non esclude ma permette a chi
aderisce ad una visione di fede di essere fedele agli eventuali precetti in
materia, allo stesso tempo però pone chi non condivide tale fede di agire
diversamente. La questione resta sempre la stessa: la libertà di decidere sulla
“mia” vita.
10 – Lo
confessa anche il Papa
Che la posizione ufficiale della Chiesa
cattolica poggi esclusivamente su considerazione di fede è ulteriormente
confermato dal già richiamato richiamo al “valore del dolore”. Nella prospettiva
religiosa sofferenza e morte mantengono un loro intrecciato senso. Nelle
ufficiali prese di posizioni papali, come testimonia l’Enciclica citata, non
c’è spazio per argomentazioni razionali e “laiche”: la morte, ed il modo in cui
si muore, altro non è che un passaggio verso la vera vita, quella eterna, un
ritorno nella casa dell’unico padrone della Vita. Con tutto il rispetto per chi
vive in questa prospettiva di fede nulla cambia in merito alla libertà di
pensarla diversamente
11 –
Cattolici per il diritto all’eutanasia: Kung, Franzoni e san Filippo Neri
Va detto peraltro che anche nel campo
cattoliche si manifestano posizioni differenti …….esiste una difesa cristiana del diritto
all’eutanasia…… Hans Kung, da molti considerato il massimo teologo
cattolico vivente, in più occasioni si è pronunciato esplicitamente al riguardo
sulla base di motivazioni strettamente teologiche. Queste, contestando il
richiamo arbitrario di alcuni passi biblici, consistono sostanzialmente nel
ritenere che il dono della vita da parte di Dio consegna all’uomo la piena
responsabilità di vivere al meglio, in una autonomia basata comunque sulla
“teonomia” (Legge di Dio), questo dono. Questa
responsabilità, che vale anche per il modo di vivere la morte, deve, per dare
senso al dono stesso, restare fino in fondo in capo all’uomo e non essere
restituita a Dio nel momento delle scelte più ardue. …….con la libertà Dio ha dato all’uomo anche
il diritto alla totale autodeterminazione che non significa affatto arbitrio,
ma libertà di coscienza…… Esistono quindi voci che “cristianamente”
sostengono che il diritto alla vita non equivale ad una coercizione a vivere. A quella di Kung si è affiancata quella di Don
Giovanni Franzoni, il più giovane vescovo partecipante al Concilio Vaticano
II., che cita san Giovanni Moro, indicato dalla Chiesa come modello e patrono
dei politici cattolici, che nel suo “Utopia” immagina addirittura che siano i
sacerdoti, ed i magistrati, a esortare al suicidio …..coloro per i quali la vita non è che tormento……
Ed in fondo l’eutanasia ha persino il suo santo patrono: san Filippo Neri.
Proclamato santo sulla base di miracoli accertati, uno dei quali lo vide posare
le mani sul viso di una donna malata terminale, e al tempo, siamo in pieno
Seicento, certo non assistita da cure palliative, per far sì che la sua anima
fosse finalmente lasciata libera da quel corpo troppo sofferente. Immagine
tragicamente poetica, ma è comunque la descrizione di una miracolosa eutanasia.
12 –
Già Pio XII…..
Il 24 Febbraio 1957 Pio XII, Papa decisamente
conservatore, partecipando ad un congresso di anestesisti, così rispose alla
domanda se era religiosamente lecito la soppressione del dolore e della
coscienza per mezzo dei narcotici ….. se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze,
ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali: si ……..
Si è già visto in precedenza che la sedazione
totale, alla quale è ricorso lo stesso cardinale Carlo Maria Martini, è
clinicamente parlando una “morte dolce”.
Capitolo
sesto = Commiato,
ovvero perché la tua vita sia tua occorre
lottare
1 – La
vita è un dono. La vita è sacra. Appunto!
L’eutanasia è un diritto, non un dovere.
Codificarlo con una Legge lascia ciascuno libero di agire in coerenza con le
proprie idee. Come evidenziato da Hans Kung la vita è un dono ….. come tale
appartiene a chi lo riceve ……
negarlo significa ridurla ad un prestito, in alcuni casi onerosissimo. La vita
è sacra. Lo è non la Vita, genericamente definita, ma vita in ispecie umana.
Perché lo sia deve appartenere ad un uomo, e quell’uomo, nella sua interezza,
non solo la possiede ma “è quella vita”. …… in realtà la vita è innanzitutto un nudo “fatto”, che non
abbiamo scelto, ma che possiamo scegliere, a differenza dell’animale che può
solo lasciarsi morire ….. In questi pochi concetti consiste
l’inalienabile diritto a scegliere il “mio” fine vita
2
- Contro i “più eguali”, ribellati
Contro questo diritto non può essere invocato
Dio, non può essere invocata la Natura.
….. e
se ci riconoscessimo eguali che ognuno scelga il proprio fine vita andrebbe da
sé …… Ma qualcuno ancora insiste
a sentirsi “più eguale” ……. come i maiali della Fattoria degli animali di Orwell …… ed insiste ad imporre il suo punto di vista, a
sopraffare le volontà e le idee di chi la pensa diversamente. Flores d’Arcais
chiude il suo saggio con un accorato invito alla ribellione contro questa
sopraffazione.