La parola del mese
A
turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di
aprirsi verso nuove riflessioni
DICEMBRE
2019
La variabile “tempo”, ed in particolare la sua ripartizione nelle tre
categorie base del passato – presente – futuro nelle quali collochiamo tutte le
nostre azioni e ragionamenti, è “da tempo” insopprimibile aspetto centrale del
pensiero umano. Siamo stati sollecitati a scegliere questa parola del mese, per
l’appunto strettamente connessa al tempo nella sua ripartizione, perché
utilizzata, per meglio definire il peso della “immediatezza” nel discorso
populista, all’interno della coinvolgente relazione tenuta da Leonard Mazzone
nella sua recente conferenza. D’altronde il tempo, i tempi, dell’uomo sono più
volte comparsi anche nel piccolo contesto del nostro blog, a partire dalle
“parole del mese”. Ci sovvengono: “contestualizzare”, ossia collocare nel loro
specifico tempo e spazio avvenimenti e fenomeni, “futurologia”, la scienza che
studia i futuri, “post”, tutto quello che anche temporalmente segue ciò che è già avvenuto, “retrotopia”, il
paradosso di una utopia che si colloca all’indietro nel passato, “temperie”
l’insieme delle tensioni culturali che
caratterizzano un momento storico, “temporalità””, il carattere di ciò
che temporalmente limitato ad un dato momento. Non molti mesi addietro inoltre il
tempo è stato il tema centrale del “Saggio del mese” di Aprile 2019 intitolato “Accelerazione
e alienazione -Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità” del
sociologo tedesco Hartmut Rosa. Ma il tempo, ben oltre eventuali attenzioni
specifiche ad esso dedicate, è il substrato, più o meno evidente, dell’intero
ragionare ed agire umano. Così è stato anche nella relazione di Leonard Mazzone
allorché ha evidenziato che il populismo si muove, per intima connessione
costitutiva, in una dimensione temporale definibile come…….
PRESENTISMO
Per esattezza esiste anche una sua seconda accezione, altrettanto interessante
ma non c’è “tempo” per trattarla in questo post
……..Si domandava Agostino:
«Che cos'è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo
a chi me lo chiede, non lo so più». Proprio per riuscire a spiegarlo a chi lo
chiede, i filosofi di matrice analitica (ma prima di loro molti altri, basti
pensare a Husserl, Heidegger e Sartre) si sono di recente impegnati in un
appassionante dibattito. Che cos'è il tempo? Dipende dalla nostra mente? Lo
possiamo dividere in passato/presente/futuro? Condiziona il valore di verità
delle proposizioni che contengono enunciati temporali?
Nel suo bel libro sulla filosofia del tempo – in cui confluiscono temi di metafisica, filosofia del linguaggio, filosofia della mente e filosofia della scienza – Francesco Orilia espone in maniera chiara e accessibile il dibattito degli ultimi anni presentando i due principali schieramenti al centro dell'arena filosofica. Da un lato ci sono i sostenitori della teoria A (nelle su tre varianti: presentismo, per il quale esiste solo ciò che è presente, passatismo, per il quale esiste solo ciò che è presente o passato, ed eternalismo, secondo il quale tutti gli eventi, passati, presenti o futuri in qualche modo esistono) che riprendono il punto di vista del senso comune secondo il quale il tempo è qualcosa di oggettivo e indipendente da noi. Dall'altro lato ci sono i difensori della teoria B (che implica l'eternalismo), per i quali non c'è un momento presente privilegiato e occorre invece prestare attenzione (senza preoccuparsi troppo delle intuizioni del senso comune) a quanto ci dicono le teorie scientifiche, in particolare la teoria della relatività. Se per i paladini della teoria A la realtà contiene come suoi ingredienti proprietà quali essere presente o essere passato, per i partigiani della teoria B non c'è alcun fatto temporale fondamentale, perché tutti si riducono a mere relazioni di precedenza e successione tra eventi. Come spesso accade nelle dispute più accese, non è semplice scegliere tra l'uno o l'altro schieramento, soprattutto perché in questo caso è evidente come i meriti (essere vicino al senso comune) e i difetti del primo (essere lontano dalla scienza) siano i meriti e i difetti del secondo cambiati di segno. Tra i due disputanti, Orilia mostra una netta preferenza per una forma specifica della teoria A (lo si poteva dire, d'altra parte non è un libro giallo!), il presentismo, esponendone i vantaggi, chiarendo le difficoltà che devono essere superate per riuscire a fornirne una elaborazione convincente tale da aggirare le accuse classiche (di essere o ovviamente falsa o banalmente vera), e spiegando infine in quale misura risolve problemi filosofici importanti come quelli avanzati dai nomi propri, i fattori di verità, le relazioni intertemporali e l'esperienza immediata. Il presentismo difeso da Orilia consente inoltre di non rinunciare alla tesi del futuro aperto e di evitare così quelle forme di fatalismo tipiche dell'eternalismo tanto di tipo A quanto di tipo B. Non cosa da poco di questi tempi in cui il futuro è tutto ciò che abbiamo, pur nella certezza del fatto che, per parafrasare Paul Valéry, ormai anche il futuro non è più quello di una volta.
Nel suo bel libro sulla filosofia del tempo – in cui confluiscono temi di metafisica, filosofia del linguaggio, filosofia della mente e filosofia della scienza – Francesco Orilia espone in maniera chiara e accessibile il dibattito degli ultimi anni presentando i due principali schieramenti al centro dell'arena filosofica. Da un lato ci sono i sostenitori della teoria A (nelle su tre varianti: presentismo, per il quale esiste solo ciò che è presente, passatismo, per il quale esiste solo ciò che è presente o passato, ed eternalismo, secondo il quale tutti gli eventi, passati, presenti o futuri in qualche modo esistono) che riprendono il punto di vista del senso comune secondo il quale il tempo è qualcosa di oggettivo e indipendente da noi. Dall'altro lato ci sono i difensori della teoria B (che implica l'eternalismo), per i quali non c'è un momento presente privilegiato e occorre invece prestare attenzione (senza preoccuparsi troppo delle intuizioni del senso comune) a quanto ci dicono le teorie scientifiche, in particolare la teoria della relatività. Se per i paladini della teoria A la realtà contiene come suoi ingredienti proprietà quali essere presente o essere passato, per i partigiani della teoria B non c'è alcun fatto temporale fondamentale, perché tutti si riducono a mere relazioni di precedenza e successione tra eventi. Come spesso accade nelle dispute più accese, non è semplice scegliere tra l'uno o l'altro schieramento, soprattutto perché in questo caso è evidente come i meriti (essere vicino al senso comune) e i difetti del primo (essere lontano dalla scienza) siano i meriti e i difetti del secondo cambiati di segno. Tra i due disputanti, Orilia mostra una netta preferenza per una forma specifica della teoria A (lo si poteva dire, d'altra parte non è un libro giallo!), il presentismo, esponendone i vantaggi, chiarendo le difficoltà che devono essere superate per riuscire a fornirne una elaborazione convincente tale da aggirare le accuse classiche (di essere o ovviamente falsa o banalmente vera), e spiegando infine in quale misura risolve problemi filosofici importanti come quelli avanzati dai nomi propri, i fattori di verità, le relazioni intertemporali e l'esperienza immediata. Il presentismo difeso da Orilia consente inoltre di non rinunciare alla tesi del futuro aperto e di evitare così quelle forme di fatalismo tipiche dell'eternalismo tanto di tipo A quanto di tipo B. Non cosa da poco di questi tempi in cui il futuro è tutto ciò che abbiamo, pur nella certezza del fatto che, per parafrasare Paul Valéry, ormai anche il futuro non è più quello di una volta.
E nella teoria A si muove a pieno titolo la riflessione su
rapporto tra populismo e presentismo, inteso però non tanto come categoria
filosofica - difficile attribuire al populismo, in tutte le sue versioni,
velleità filosofiche - ma come un riduzionismo degli orizzonti politici
perfettamente collegabile alla prima definizione da vocabolario di presentismo
…… Dipendenza eccessiva dal
presente, visto come unica dimensione della realtà…. (in questa
caso storica e politica). Nel mare degli articoli in Rete dedicati al populismo
ci è sembrato utile recuperarne uno che riprende molti dei temi già presenti nella rielazione
di Leonard Mazzone (della quale a breve pubblicheremo una ampia sintesi)
Il tempo del populismo
dalla rivista
on-line “DoppioZero”
In un recente intervento su La Repubblica Walter Veltroni ha
richiamato la categoria del “presentismo”
come decisiva nella comprensione dell’attuale rapporto fra politica e
populismo. Veltroni rilancia così una categoria chiave di approfondite analisi
politologiche come quelle di Diamanti e Lazar nel libro Popolocrazia (Laterza,
2018). Tuttavia, tanto nella presa di posizione politica quanto nell’analisi
politologica, c’è un limite che va colto e approfondito perché rischia di
generare confusione: si dice infatti che il populismo è presentista pur sapendo che esso è contro il presente.
La cosa è evidente, tanto più nel momento di emersione del populismo, quando
esso si oppone al “vecchio” come ciò che domina l’esistente. Ed è trasversale,
dato che questo spirito è ciò che ha alimentato tanto i successi di Trump,
della Lega, dell’UKIP o del Front National, quanto quelli del Movimento 5
Stelle o del renzismo fra rottamazione e Partito della Nazione, e ancora quelli
di Podemos, Syriza o di Lopez Obrador in Messico. Non è dunque il presentismo il tempo fondamentale della
politica odierna benché, come vedremo, ne sia un ingrediente decisivo. La
temporalità che fonda la politica attuale e i suoi perturbanti cortocircuiti la
si può forse intuire da una risposta di Jullian Assange in “sostegno” a Trump: “Donald? It’s a change anyway”. Si potrebbe dunque
parlare di cambiamentismo, ovvero di una politica che dà valore al
cambiamento per il cambiamento, pur di farla finita col presente. Ma
cambiamentismo è davvero un termine brutto. È preferibile dunque parlare di nuovismo,
ovvero di un discorso politico che valorizza il nuovo per il nuovo. Il nuovo
purché sia. Anche a rischio di conseguenze imprevedibili. Anche a costo di
perdere tutto. Come in un gioco d’azzardo, come in un all-in fatto da
chi crede di non aver più nulla da perdere. Così pare accadere oggi in ampi
“strati popolari” europei, spesso attratti dal richiamo populista, tanto più
quello xenofobo e anti-europeista che gioca sulla percezione di una sicurezza
economico-sociale perduta a causa della strana morsa dei privilegi delle élite
e dei migranti. Sarebbe interessante confrontare questa propensione
all’azzardo populista, alla ricerca dalla radicale fuga dal presente, con la
posizione di un populista sincero e un rivoluzionario vero come l’ex
guerrigliero e ex presidente dell’Uruguay Pepe Mujica, che in una recente intervista invitava a ricordare le
millenarie guerre che hanno scosso il nostro continente e ad aver più cura
dell’Unione Europea. Insomma, una via di fuga verso un populismo con memoria. O
forse, a vederlo dalla prospettiva europea, un populismo non populista. Un
presentismo che si produce
attraverso un’opposizione al presente. Proviamo ad articolare meglio questa
apparente tensione contraddittoria. Uno dei tratti caratterizzanti del
populismo contemporaneo è la sua negatività. Ne abbiamo parlato altrove, lo hanno detto in
tanti e per molti versi lo si percepisce in modo cutaneo: il populismo compatta
le persone attorno all’urlo che vuole abbattere l’esistente – Vaffa!
Rottamazione! Ruspa! – fino a polarizzare il campo sociale – Casta!
Gufi! Rosiconi! – e rasentare nelle sue forme più intense ed estese una
sorta di xenofobia metafisica in cui l’alterità interna ed esterna è sempre
provocatoriamente disconosciuta. Tuttavia difficilmente un messaggio politico
può sfuggire dal proporre una qualche “positività”. Che cosa hanno dunque di
positivo i protagonisti dell’ondata populista contemporanea? Che si presentano
come i portatori del “nuovo”. Anche quando sono anagraficamente vecchi e
stravecchi. Anche quando sono sulla scena politico-sociale da lungo tempo.
Anche quando hanno già ampiamente governato (spesso disastrosamente). È chiaro
dunque che il “nuovo” è qualcosa di più e di diverso di un puro fatto, sia esso
anagrafico, generazionale, sociale: è, come si dice in semiotica, un effetto di
senso. O, se si preferisce, è un senso capace di generare effetti, capace di
incidere sulla materialità delle cose e nella concretezza dei vissuti. Perché
il senso è così. Allo sguardo ingenuo può apparire fatuo, fragile ed
evanescente eppure è l’oggetto più potente. Persino contundente. In tal senso
varrebbe la pena ricordare che “ne ferisce più la penna che la spada”. Se non
fosse che anche la spada è un oggetto di senso, ma soprattutto se non fosse che
è un oggetto fin troppo demodé: diciamo allora che “ne ferisce più un tweet che
una pistola”. Tuttavia questo sentimento del nuovo sarebbe ben poca cosa se non
entrasse in relazione con altri oggetti e processi. Il già citato “vecchio”,
innanzitutto, e più in generale la forma del tempo articolata nella vita
sociale, con i suoi ritmi, i suoi orientamenti, i suoi rituali e sentimenti
dominanti: contrazione o espansione, chiusura o apertura, timore o speranza. Si
pensi nella storia recente (ma che già appare lontana) del nuovismo la capacità
di Obama di emergere unendo, prima attraverso i suoi libri-manifesto (The
Audacity of Hope; Change We Can Believe In) poi attraverso lo slogan
della campagna elettorale (Yes, We Can!), speranza, cambiamento, noi.
Dunque valori, valori su valori: oggi l’autenticità, la semplicità, la
rozzezza, la scorrettezza e molti altri ancora, che magari fino a un attimo
prima erano considerati disvalori. Valori che manifestandosi attraverso lo
stile d’azione o lo stile passionale di un leader che da corpo a sentori diffusi questo senso del nuovo
lo implementano, sostengono, concretizzano, opponendolo ad esempio alla
complessità dell’“intellettualismo” e all’artificiosità del “politicamente
corretto” (per non parlare dell’ipocrita fatuità delle “buone maniere”) che
hanno dominato (avrebbero dominato) la vita sociale fino ad un certo momento. Partiamo
da qui dunque, anche per mostrare che il “nuovo”, tanto più il nuovo populista,
è un oggetto tanto complesso quanto facilmente deperibile. O comunque mobile.
Come ci ricorda, ad esempio, la parabola di Berlusconi: prima campione del
nuovo, poi additato come vecchio dal nuovo nuovo. Poi, sulla soglia dei
novant’anni, ancora alla ricerca di occasioni per rinnovarsi. Ora per
intendersi e per intendere quale sia il tempo del populismo bisogna distinguere
l’articolazione superficiale della temporalità, facilmente identificabile
attraverso categorie come vecchio/nuovo, passato/presente/futuro, dal suo ritmo
profondo, che richiama differenze più fini a volte persino difficili da
nominare se non ricorrendo a un linguaggio specialistico (che qui eviteremo) o
a immagini e diagrammi: tempo continuo o tempo discontinuo; tempo d’ascesa o di
caduta; tempo ciclico o tempo lineare; tempo che si presenta come istantaneo o
disteso; tempo intermittente o regolare; tempo che indica un momento iniziale,
un momento finale o un intermezzo fra il principio e la conclusione. Per non
dire poi del modo in cui queste dimensioni si legano con le passioni del tempo
che percepiamo a livello intimo, corporeo: nostalgia e speranza, rassegnazione
e attesa, apatia o impegno...A livello di superficie il populismo è contro
il presente che, come abbiamo visto, viene spinto verso lo status di
“vecchio” da abbandonare in favore del “nuovo”. Il populismo dunque è nuovista:
è rivolto inesorabilmente verso qualcosa che non c’è e proprio per ciò merita
di essere eretto a valore da perseguire. Tuttavia mentre questo nuovo per
alcuni è un futuro da inventare per altri è un passato da ristabilire.
Verrebbe facile pensare che l’appello al nuovo futuro sia proprio del
populismo “di sinistra” mentre quello al nuovo passato, sia proprio del
populismo “di destra”: novità vs di nuovo, si potrebbe
dire. Come s’intuisce dalla semantica delle parole le cose in realtà sono
molto più complesse, intricate. Si pensi al famoso slogan alt-right di
Trump “Make America Great Again”: promessa in cui si mischiano un nuovo futuro
di grandezza con la riproposizione di un valore che si suppone esser stato
realizzato nel passato. Eppure anche a sinistra la creazione del nuovo popolo
molto spesso si appoggia a eventi e valori già parzialmente accaduti – il
socialismo, il repubblicanesimo, la Costituzione… – la cui realizzazione magari
interrotta, incompleta, imperfetta va finalmente portata a compimento con gradi
di traduzione e adattamento ai tempi nuovi più o meno forti. O ancora si pensi
al fatto che il populismo di destra nordeuropeo, proprio per aggirare le
critiche di “regressività”, si presenta spesso come alfiere del tempo nuovo,
vale a dire della modernità e di alcuni dei suoi valori, ad esempio in
materia di diritti civili o di un generico libertarismo, come è stato mostrato
da Diamanti e Lazar (Popolocrazia,). Una tendenza che arriva da più
lontano, dato che si somma con la capacità delle forze tradizionalmente
“conservatrici”, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, di associare se
stesse e il liberismo non solo all’idea del cambiamento rispetto al modello
socialdemocratico ma anche ad un sentimento di apertura di possibilità e
opportunità che invece dovrebbe essere proprio della logica democratica e
progressista (Alessandro Ferrara, Democrazia e apertura, Bruno
Mondadori, 2011). O infine si pensi al paradosso incarnato dalla Lega, che si è
presentata costantemente come il “nuovo” e al contempo come il difensore della
“tradizione”. Un’apparente contraddizione resa maneggiabile dai continui cambiamenti
di tradizione, quella da difendere e quella da avversare: la tradizione del
nord padano laborioso ed efficiente contro il sud terrone, fannullone e
disonesto; la tradizione celtico-pagana contro la tradizione latina che porta
dritta alla “Roma ladrona”; la tradizione cattolica (o ancor meglio “crociata”)
contro quel calderone che rende omogenee identità distinte come islamico,
musulmano, arabo, terrorista; la tradizione nazionalista (stavolta italiana)
contro quella europea o contro le tradizioni degli altri, in primis “gli
africani” ma non ultima quella solidarista cristiana incarnata da papa
Francesco. Al netto di un’analisi puntuale c’è in questo florilegio
contraddittorio d’identità “tradizionali” messe e tolte come felpe, d’identità
che sono “tradizionali” ma che vengono presentate come da riscoprire per
riscattarle dalla minaccia del presente, una capacità di rendersi continuamente
nuovi, di rappresentare o creare continuamente nuovi conflitti “fondamentali”.
Con un di più che non può sfuggire: ognuna di queste nuove identità tradizionali
viene assunta portandola al massimo dell’intensità. Ciò consente di saturare il
tempo fino a presentificarlo, vale a dire annullarne l’estensione, la memoria,
come in una specie di trance. Se non fosse che questa estremizzazione
della tradizione porta all’estremo nuovismo: la tradizione usata ed abusata si
consuma, si logora, come una felpa indossata troppo e troppo intensamente, che
dunque dopo un po’ va di necessità cambiata. Per passare a nuove tradizioni da
spendere nel conflitto presentista dentro e contro il presente. Fermiamoci qui, non senza però aver fatto
notare che essendo costantemente contro il presente il populismo può facilmente
(e coerentemente) contraddirsi. Può costantemente (ri)negare ciò che ha appena
detto o fatto, tanto più quando è al governo. Tanto che i suoi sostenitori
sembrano non farsi problema delle continue giravolte o promesse mancate, mentre
ai suoi oppositori questo modo di essere ancor più che frutto di una smemoratezza
degna di Dori la pesciolina appare malizioso come un leopardo nella savana che
si camuffa e adatta all’ambiente, all’atmosfera, agli umori collettivi per far
preda del consenso. Anche da qui, anche dal grado d’intensità di questo gioco
di rinnegamento del presente appena passato, si potrebbe misurare la distanza
fra una politica schiettamente populista e una politica di popolo, una politica
che cerca di organizzare e rappresentare istanze inascoltate di equità, giustizia e emancipazione collettiva. Ciò che è certo è che dicendo “populismo” si indica oggi un campo
contraddittorio e paradossale in cui una delle poche cose che rimane salda è
ciò che il populismo non può permettersi, quantomeno a livello retorico:
l’accettazione del presente. Abbiamo parlato di una temporalità profonda
che spesso sfugge alla percezione immediata. Coglierla è necessario benché
sarebbe ingenuo aspettarsi che qui le cose siano più semplici e facilmente maneggiabili.
Si pensi a come il nuovismo populista, volendo rompere con la continuità
durativa tipica del presente (se il presente non è un puro “ora” allora
esso deve essere qualcosa che dura con continuità da un certo lasso di tempo),
si presenta con le caratteristiche paradossali del tempo
apocalittico-escatologico: tempo “terminale” e “augurale” al contempo,
tempo in cui tutto finisce e tutto (re)inizia. Eclatante in tal senso la
metafora dello tsunami, che così tanta parte ha avuto nell’emersione dei
5Stelle a fenomeno di massa, chiamata a rappresentare un improvviso,
totalizzante cambiamento di stato. Un sentimento, una volontà di spazzare via
il presente così radicale e viscerale da neutralizzare il senso, per altri
versi necessario, implicato dall’evocazione dello tsunami, che spazza
via tutto, tanto la casta quanto la gente, le élite e il popolo, gli empi e gli
onesti, i forti e i deboli. Si dirà che non bisogna prendere le metafore alla
lettera eppure proprio sull’enfasi fideistica su questi slogan i leader
populisti compattano le tensioni contraddittorie del corpo sociale che chiamano
a raccolta. Il fatto che poi, dopo le peggiori sparate, si appellino per
giustificarsi alla licenza poetica, alla coloritura retorica, al gusto
innocente della provocazione non solo non toglie nulla alla ricezione “alla
lettera” del messaggio da parte dei loro nuovi credenti ma soprattutto indica
sintomaticamente la distanza fra le altissime aspettative generate dalla loro
fantasmagorica evocazione del nuovo e la difficoltà di gestirne gli esiti,
necessariamente e contrastivamente miseri, se non miserevoli. Davanti
all’attesa di uno tsunami costruttivo persino la berlusconiana promessa di un
milione di posti di lavoro potrebbe retrospettivamente apparire un programma
realistico, con i piedi ben piantati nel presente! La parabola della
trasparenza – dalle dirette streaming di un tempo alle opacità di Rousseau,
della Casaleggio&Associati ecc. – o quella della purezza – dal mai
alleati con il vecchio alle alleanze a geometria variabile pur di governare –
può ulteriormente testimoniare di questa distanza fra aspettative e esiti del
nuovismo, tanto più quando viene assunto esplicitamente come ideologia
rivoluzionaria, come nel caso dei 5Stelle. È in questa cesura, verrebbe da
dire irrimediabile, che si annida l’esigenza del presentismo. In primo luogo perché il nuovismo quanto
più ha successo, quanto più fa sorgere la sensazione di un tempo istantaneo,
tempo di cambiamenti immediati, tempo che non prevede un tempo di
transizione fra il presente e il futuro, fra il vecchio e il nuovo, e nemmeno
contempla un tempo vuoto di eventi, un tempo di riflessione, elaborazione,
preparazione dell’azione. E così pure della sua valutazione e eventuale
ridefinizione a posteriori. Qualcuno ricorda, per fare un solo esempio, la così
detta “annuncite” del renzismo al suo apice? In secondo luogo la distanza
fra le promesse e le realtà del nuovismo non può che produrre la fuga
nell’istantaneismo come ultimo rifugio o come arma di distrazione. La
polemica continua eppure ogni giorno diversa ne è potente testimonianza, tanto
più quando si nutre di iperboli tanto facilmente scagliate quanto l’indomani
dimenticate o quando si basa sull’evocazione di complotti che aleggiano,
appaiono, scompaiono. A una società delle passioni, magari tristi, si
sostituisce così una popolazione umorale, pronta a formarsi e sciogliersi,
giorno dopo giorno, in un presentificante sensazionalismo. A conti fatti
verrebbe dunque da dire che l’unica promessa che il nuovismo può mantenere è
quella di offrire ogni giorno una presentificazione da consumare intensamente.
Un presentismo in cui perdersi. Da tutto ciò il presentismo come prassi. O ancor meglio come
degenerazione e patologia del nuovismo, che del populismo è l’ideologia. Nuovismo
e presentismo dunque stanno
generalmente su livelli diversi: uno fonda l’altro, ma nessuno esaurisce
l’altro. I due piuttosto si mantengono in una costante e reciproca tensione.
Quando i due invece si trovano sullo stesso piano (o sembrano stare sullo stesso
piano) non possono che incarnare fasi e rivestire funzioni differenti: si
potrebbe dire che il nuovismo sta all’esistenza poetica del populismo
come il presentismo alla sua prosaica
sopravvivenza. Certo, come dicevamo, il presentismo può nel tempo guadagnare spazio e nutrire il mito
dell’immediatezza: ma anche qui, il mito della democrazia diretta,
per non dire del decisionismo che trasformerebbe gli umori e i desideri
della gente direttamente nell’azione risolutiva del leader, si fonda pur sempre
sull’attesa del nuovo, sull’idea che il nuovo possa accadere tutto di
colpo, senza intermediazioni e senza residui. In tutto ciò sorge e resta una domanda:
che fine fa il popolo in un tempo ridotto a brandelli? La ricerca del nuovo – speranza, attesa,
impegno per il nuovo – è necessaria a qualunque politica di emancipazione
popolare e crescita collettiva. È consustanziale all’idea stessa di creazione:
“Sapete, il popolo manca”, diceva Paul Klee, e per questo Deleuze chiosava che
“non c’è opera d’arte – ma noi potremmo dire, azione politica creativa – che
non faccia appello a un popolo che non esiste ancora” (Deleuze, Che cos’è
l’atto di creazione?, Cronopio, 2003). Di qui una fondamentale tensione fra
il nuovismo come coazione all’immediata rottura sensazionale e il nuovo come
persistente orizzonte dell’emancipazione creativa. Di qui la distinzione fra
una politica che fa riferimento al popolo che c’è già (e tuttavia ogni giorno
si sgretola attorno ai suoi malumori) o al popolo che ancora manca (e tuttavia
è presente come forza che alimenta il persistente desiderio di una nuova
esistenza)…Questa fondamentale presenza del nuovo, questa ricerca di superamento
del presente che segna certamente il nostro presente, va dunque
vista e valutata (e al limite sostenuta) caso per caso. Soppesata nei
molteplici modi in cui essa si traduce in pratica. Quale (e come) nuovo?
Reale volontà di trasformare l’esistente o piuttosto resistenza alle
trasformazioni in corso percepite come minacciose; attivo slancio sul futuro o
nostalgico ripiegamento sul passato; ricerca di un’inedita rottura del tempo o
re-iterazione di ciò che c’è già stato; fuga in avanti fine a se stessa o
spinta a rimescolare i tempi per poterli nuovamente tradurre; inoculazione nel
corpo sociale del virus dell’istantaneismo o momento per fare finalmente i
conti collettivamente con le migliori potenzialità abortite nel passato;
movimento innervato dal ritmo teso della paura e della chiusura o da quello
arioso della speranza e dell’apertura. Ognuno di questi elementi, componendosi,
genera sfumature populiste diverse. Dal populismo virulento a quello a bassa
intensità. Fino forse a prefigurare dei populismi sostenibili, o potenzialmente
al di là dello stesso tempo populista, capaci di fare seriamente i conti con le
aspirazioni popolari e i diritti dei popoli.
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