martedì 3 dicembre 2019

Relazione sulla conferenza di Leonard Mazzone - a cura di Enrica Gallo


Come già anticipato pubblichiamo la
Relazione sulla conferenza 
di Leonard Mazzone:

“I POPULISMI AL TEMPO
DELLA POLITICA IMMEDIATA
E LA LEZIONE DI ELIAS CANETTI”

Presentazione:
Per riflettere sulle attuali declinazioni di quel fenomeno che con un termine forse un po’ abusato chiamiamo “populismo””, e sull’erosione sempre più evidente di quegli istituti di mediazione che in passato hanno svolto una funzione significativa per l’assetto democratico, CircolarMente si è rivolta ad un relatore che benché giovane ha al suo attivo un percorso accademico di tutto rispetto, che lo ha portato ad occuparsi di temi di grande rilevanza. Dopo essersi confrontato con il pensiero politico di Elias Canetti ha infatti dedicato la sua attenzione alla crisi delle democrazie occidentali di fronte a fenomeni di tipo transnazionale, come le migrazioni, e in generale rispetto ad una realtà che appare sempre più scissa e che richiede pertanto un sovrappiù di impegno politico e civile.  Per questo, si è personalmente attivato in tutta una serie di iniziative, sia come vicepresidente della prestigiosa Unione Culturale Franco Antonicelli di Torino, sia partecipando ai gruppi di lavoro che pianificano gli interventi nelle scuole all’interno di Biennale Democrazia. A lui, dunque, CircolarMente ha richiesto di chiarire quale sia stato il contributo di un autore profondamente innovativo sul piano filosofico-politico come Elias Canetti, e di illustrare le modalità e il percorso storico-culturale con cui la disintermediazione si sta attuando in forme sempre più esplicite.

N.B. = per chi vuole approfondire questi argomenti, si consiglia la lettura del testo di Leonard Mazzone: “Il principio possibilità. Masse, potere e metamorfosi nell’opera di Elias Canetti –  ed. Rosemberg § Sollier                               
    
                                                  Una premessa metodologica:
A introduzione del suo discorso Leonard Mazzone ha esplicitato la scelta di non porre il fuoco del suo intervento direttamente su “Massa e potere” di Elias Canetti (si tratta in effetti di un testo non facile, che richiederebbe in un contesto non specialistico una sorta di alfabetizzazione, essendo il suo autore poco conosciuto come pensatore politico), per seguire invece una strada inversa. Questo libro infatti non è stato scritto solo per spiegare come sia stato possibile che in un paese culturalmente avanzato come la Germania le persone abbiano potuto democraticamente scegliere di votare Adolf Hitler, con quello che ne è seguito: esso offre bensì delle categorie esplicative più generali sul rapporto fra le masse e i poteri, che ci consentono di leggere e di interpretare il presente. E’ dall’attualità dunque che il relatore intende partire, e in particolare da due fenomeni che ci sono ben noti quali il populismo e le fake news, analizzando i quali scopriremo che alcune interpretazioni che ne sono state date e che godono oggi di un vasto consenso sono concettualmente assai discutibili.

                                          POPULISMO: UNA CATEGORIA CONCETTUALE
                                                DISCUTIBILE, DA METTERE A FUOCO

Iniziamo dal populismo, chiarendo intanto come esso non sia affatto, come molti sembrano pensare, un fenomeno nuovo o addirittura inedito. Questo termine, con i fenomeni politici che esso implica, ha infatti dietro di sé una lunga storia:
Pensiamo, osserva il relatore, al populismo russo dell’800, un movimento politico che si proponeva l’emancipazione delle masse contadine e che poi evolvendosi ha preso due direzioni diverse, l’una più radicale che ha assunto una vena anarchica e terroristica, l’altra più moderata che ha offerto più tardi alcuni esponenti importanti alla socialdemocrazia russa. Se poi veniamo al novecento, questo termine è stato adottato soprattutto per quei leader latino americani, come Peron, che sono stati in grado di intercettare le passioni e le attese di milioni di persone che erano gravate da condizioni materiali pessime e che si stavano lentamente e spesso drammaticamente muovendo da un passato agricolo verso una prima fase di industrializzazione (leader che quasi sempre sono stati rimossi attraverso colpi di stato organizzati dalle forze armate) 
Se poi usciamo dalla dimensione storica e veniamo all’attualità, potremo facilmente riscontrare un’evidente difficoltà concettuale, soprattutto se pensiamo al fatto che questo termine viene oggi utilizzato per indicare leader politici molto diversi fra loro e portatori di messaggi differenti. Come è possibile infatti – osserva il relatore - unificare con una sola parola personaggi come Vladimir Putin, Matteo Salvini, Beppe Grillo e Donald Trump? Proverà dunque ad offrirci qualche pista orientativa facendo in primo luogo riferimento a quegli elementi che alcuni studiosi del populismo, isolandoli dai vari contesti, ritengono caratterizzanti di questo fenomeno:
1. La rappresentazione idealizzata del popolo concepito come incorrotto e incorruttibile
2. La contrapposizione frontale fra il popolo e la cosiddetta élite
3. La presenza di un leader che riduce il ruolo di rappresentante del mandato popolare a quello di semplice portavoce
4. La tendenza del leader a personificare il conflitto politico (c’è un problema, io sono la soluzione)
5. La mediatizzazione sistematica della vita del leader che serve a mantenere l’attenzione su ciò che egli fa, pensa e dice
6. La semplificazione comunicativa
Ora, la posizione del relatore rispetto a questa griglia interpretativa che a prima vista appare condivisibile è in realtà di deciso dissenso (provate a trovare, osserva, un leader di un grande partito di massa della seconda metà del novecento che non abbia tentato di sintonizzarsi con il suo popolo, che non abbia personalizzato lo scontro politico, che non abbia sistematicamente fatto ricorso ai media…). La versione che Leonard Mazzone ci offre della vera natura del termine “populismo” risulta in effetti assai diversa. Lo considera infatti nient’altro che una sorta di etichetta eteroascrittiva, polemica e onnicomprensiva: eteroascrittiva, perché sono sempre gli altri ad attribuirci questa qualifica; polemica, perché noi definiamo “populisti” coloro che non ci piacciono, e infine onnicomprensiva perché pretende di unificare ciò che non è affatto simile. Dobbiamo dunque riconoscere, per quanto le coordinate ideologiche odierne non siano più ferme come in passato, che diventa difficile gestire una categoria che pretende di spiegare processi, fenomeni, personalità pubbliche tanto diversi. Aggiungiamo a ciò il fatto che noi siamo soliti pensare che il populismo sia naturalmente di destra, ma non è detto che sia proprio così. Ci sono infatti autori importanti, come Chantal Mouffe (“Per un populismo di sinistra – Laterza 2018), che non esitano a parlare di un populismo di sinistra invitandoci a smettere di pensare che il populismo sia qualcosa che possiamo individuare e descrivere in modo preciso, intendendolo piuttosto come un modo di conquistare l’egemonia e che pertanto può essere sia di destra che di sinistra. La democrazia rischia davvero tanto – avvertono ancora questi autori – se non prende sul serio il ricorso, l’appello al popolo: e però noi dobbiamo trovare a livello teorico, culturale e politico una modalità più corretta per nominare alcuni dei problemi cui abbiamo fatto accenno e che sono davvero importanti, senza ricorrere ad una categoria concettuale così confusa. Ma con che cosa sostituirla?

UNA NUOVA PROPOSTA: LA POLITICA DELL’IMMEDIATEZZA
Leonard Mazzone propone a questo punto una tesi che fa riferimento a quella che uno studioso di grande valore come Fabio Merlini ha chiamato “la politica dell’immediatezza”, rispetto alla quale il populismo non sarebbe che un sintomo e che secondo il suo giudizio rappresenta il vero pericolo per la democrazia. Vediamo dunque che cosa può significare questo termine, che secondo il relatore ha delle implicazioni straordinarie. Per evidenziarle, si servirà di alcuni esempi facendo entrare in campo le categorie di spazio e tempo.
Qui e ora:
l’immediatezza  declinata nel tempo
Che cosa è davvero “reale” al giorno d’oggi?
Questa la domanda che Leonard Mazzone pone al pubblico invitandolo a considerare questo termine secondo le categorie temporali.  “Reale” in effetti è oggi a suo giudizio soltanto il tempo che annulla se stesso (non a caso noi usiamo spesso l’espressione “in tempo reale”, intendendo un tempo vero, ciò che accade qui ed ora.) Da questo peraltro consegue che ciò che non avviene qui e ora non è davvero “reale”, e il tempo reale diventa così un dispositivo di annullamento tanto del passato quanto del futuro: ciò che non è più qui e ora perde lo statuto di realtà, e lo stesso avviene per ciò che non è ancora qui e ora. Si tratta cioè di un fenomeno che alcuni autori definiscono come presentismo” (Parola del mese Dicembre 2019)   intendendolo come un appiattimento claustrofobico della vita e del tempo sul presente. Non è forse cambiato profondamente, osserva il relatore, il modo con cui a livello politico e culturale ci riferiamo al passato? Persino la nostalgia è diventata un lusso, perché essa ci fa tornare alla preistoria di ciò che stiamo facendo, non ci fa più essere qui e ora ma ci fa tornare là dove eravamo, strappandoci all’immediatezza temporale e facendoci così riconquistare qualche rapporto con il futuro… Dobbiamo però stare attenti, perché qui c’è la possibilità di un grosso equivoco. Si parla spesso infatti di “tramonto del futuro”. Questo, secondo Leonard Mazzone, è certamente vero per quanto riguarda la collettività (oggi non esistono più promesse collettive di futuro) ma ciò non significa che il futuro non sia onnipresente nella vita degli individui, perché se è reale solo ciò che accade, il presente si mangia continuamente il futuro, e il futuro viene letteralmente cannibalizzato dall’immediatezza. E’ come se il futuro anteriore fosse scomparso lasciando tutto lo spazio al futuro prossimo, un futuro che, sotto la forma di quell’ansia che la generazione del relatore ben conosce, letteralmente ci mangia.
Qui e ovunque:
L’immediatezza declinata nello spazio
Oltre alla dimensione temporale c’è però anche una dimensione spaziale dell’immediatezza che può offrirci alcuni esempi significativi. Ancora il già citato Fabio Merlini, che si è occupato delle tecnologie del quotidiano - quelle cioè che sono sempre alla nostra portata come i cellulari - osserva come questi mezzi che ci consentono di essere costantemente qui e ovunque (secondo il meccanismo di quella che questo autore definisce “schizotopìa”) oggi appaiano dominati da un unico comportamento, quello legato al consumo. In effetti è innegabile che la principale modalità con cui siamo contemporaneamente qui e altrove sia proprio questa. Noi consumiamo relazioni, e consumiamo cose: questo è accaduto perché dal punto di vista spaziale il mercato ha preso il posto di quella che un tempo era la piazza, dove si svolgevano le mediazioni della politica. Nel mercato al contrario tutti gli scambi sono disintermediati e si svolgono semplicemente secondo la regola del “do ut des”.
L’accelerazione delle forme di vita:
Ora, osserva il relatore tornando a ragionare sulla categoria dell’immediatezza, occorre chiederci quale difetto essa generi essendo così pervasiva a livello temporale e spaziale. Senza dubbio, la velocità: non è certo un caso che oggi diversi ricercatori abbiano messo al centro della loro indagine proprio la velocità delle nostre vite e l’accelerazione irresistibile della forma di vita capitalistica (si veda il “Saggio” del mese di Aprile 2019: Hartmut Rosa “Accelerazione e alenazione”), cominciando a riutilizzare, attualizzandolo, un termine che sembrava ormai desueto e cioè quello di alienazione. Essi sostengono per l’appunto che l’alienazione tipica del nostro tempo sia dovuta proprio alla velocità delle prestazioni che ci vengono richieste e che non ci consente di riappropriarci non già di qualcosa che era nostro (secondo la definizione “classica” di alienazione), ma di riappropriarci di qualcosa che non è mai stato nostro. In primis, la nostra vita: quello che facciamo non viene percepito da chi lo fa come qualcosa che gli appartiene, che lo identifica. Questo concetto può ben apparirci - il relatore ne è consapevole - come troppo complesso, troppo esagerato, ma davvero esso è all’ordine del giorno di coloro che appartengono alla sua generazione, coloro che non avranno mai le stesse prospettive di carriera e di stabilità professionale che erano state garantite e conquistate dalla generazione precedente.
La spettacolarizzazione dell’informazione:
Ma non c’è solo l’accelerazione dei tempi e della vita di cui tenere conto: anche la spettacolarizzazione dell’informazione ha un posto significativo nella configurazione che Leonard Mazzone va delineando.
Pensiamo a quella televisiva, che appare ancora predominante in larghi strati della popolazione, e in particolare ai talk show dove il vero protagonista è l’onnipresente pubblico, che applaude qualunque cosa venga detta. Oggi la piazza, quella che è stata la culla della democrazia e del teatro, è oggetto di una vera e propria messa in scena (nei collegamenti a distanza con la piazza, nel far sentire “la voce del popolo”, come se un contatto di questo genere fosse davvero la rappresentazione speculare di ciò che il popolo pensa).
E ancora, il conflitto politico ridotto a scontro, dove l’altro, anziché essere riconosciuto e combattuto come avversario, deve essere annullato in quanto “nemico”. Sappiamo bene che c’è una differenza fondamentale fra questi due termini: con un avversario si gioca, ci si confronta, si compete all’interno di un sistema condiviso di regole che possono anche essere modificate, ma sempre insieme. Non così con il nemico, che va semplicemente eliminato.
La riduzione della democrazia a diritto di parola:
Una delle conseguenze più importanti della spettacolarizzazione dell’informazione è dunque la riduzione della democrazia a “isegoria”, cioè a diritto di parola, mentre nell’antica Atene democrazia significava anzitutto “isogonia”, cioè uguaglianza di fronte alla legge, come compagna inseparabile di questo diritto. L’unione di entrambe dava poi luogo ad un’altra categoria che è stata indagata da uno dei più grandi intellettuali del novecento, e cioè Michel Foucault: la “parresìa”, e cioè il coraggio di dire la verità in faccia al potere essendo disponibili a pagarne il costo. Ma oggi, osserva il relatore, democrazia è soltanto diritto di parola, con le conseguenze che ne derivano: se tutte le opinioni sono legittime, ne deriva che non c’è nulla che non si possa dire, e allora, può ben succedere - come di fatto è successo sulla Rai in prima serata -  che si metta sullo stesso piano una dichiarazione di intenti da parte di un neonazista e l’opinione di chi afferma invece che non tutte le opinioni devono essere pubblicamente legittimate, perché la democrazia ha e deve avere dei limiti.

CONSEGUENZE POLITICHE:
Si arriva così ad un punto centrale del discorso. Se assumiamo per vera la rilevanza dell’immediatezza, declinata nelle determinazioni di tempo e di spazio e accompagnata dall’accelerazione delle forme di vita e dalla spettacolarizzazione delle informazioni, quali conseguenze vengono a determinarsi sul piano politico? Sostanzialmente tre, secondo l’analisi del relatore:
1.  il salto delle mediazioni
Si tratta di una tendenza ormai molto evidente, che possiamo osservare in diversi ambiti e in particolare in quello politico-istituzionale. Dobbiamo tenere presente peraltro che con questa espressione non si intende soltanto l’offuscarsi del ruolo svolto in precedenza dai grandi partiti e dai sindacati, senza i quali non avremmo avuto accesso a quei diritti che ancora oggi riusciamo a conservare sul piano sociale, ma anche la messa in discussione delle procedure con cui si raggiungono le decisioni, che non sono pure formalità ma elementi sostanziali sul piano politico. Oggi molti considerano inutili queste mediazioni (pensiamo al discredito caduto sulla democrazia rappresentativa e alla fortuna che stanno assumendo altri strumenti decisionali di tipo plebiscitario…)
2. la semplificazione sistematica della complessità
Un tema, questo, che il relatore ha già preso precedentemente in esame ma che merita a suo giudizio un ulteriore approfondimento, perché viene spesso addebitato al populismo incappando così in alcune difficoltà concettuali che a suo giudizio non si manifestano se invece lo consideriamo all’interno della politica dell’immediatezza. Per fare un esempio fra i molti possibili, Leonard Mazzone fa riferimento ad un tipico dialogo fra due interlocutori di opposte vedute sul tema dell’immigrazione:
- L’immigrazione è un problema (basta chiudere i porti!)
- La gente muore in mare (ne morivano di più quando li si lasciava partire)
- Come facciamo a sapere che ne muoiono di meno dal momento che hanno tolto di mezzo le ONG?   (le ONG erano in combutta con i trafficanti e incoraggiavano le persone a partire)
In un dibattito di questo tipo, osserva, viene del tutto messa da parte una delle domande più importanti che ci dovremmo porre e cioè perché mai l’immigrazione dovrebbe essere un problema. Forse perché ci toglie il lavoro? Ma da chi vengono pagate le nostre pensioni, se non da chi lavora sul nostro territorio, paga le tasse e non potrà mai avervi diritto a sua volta, in quanto immigrato? Una verità di fatto che in genere non viene neanche menzionata, perché manca sia il tempo che la disponibilità politica a tematizzarla.
3. l’esibizione del privato
Anche in questo caso possiamo facilmente concordare sul fatto che essa sia diventata uno dei dispositivi di legittimazione più usati da molti attori politici, come se chi si mostra così com’è nella vita privata (o perlomeno, come vuole far credere di essere) sia più credibile di chi non si fa vedere in questa veste, pensando giustamente che essa non c’entri nulla con il suo agire sulla scena pubblica, su cui solo dovrebbe contare lo  svolgere il proprio ruolo “con onore e disciplina” come espressamente richiesto dalla Costituzione. (in effetti, commenta il relatore, cosa mai ha a che fare il cibo che mangio o il letto in cui dormo con la mia credibilità pubblica?)

IL GOVERNO DI NESSUNO E L’” IDIOCRAZIA”
COME PREVALENZA DEL PROPRIO INTERESSE
Nell’avviarsi alla conclusione, Leonard Mazzone osserva che sarebbe semplice (ma fuorviante, come vedremo) chiudere qua il discorso evidenziando le responsabilità della classe politica e in generale delle classi dirigenti, che certo non mancano. Preferisce nondimeno scegliere un’altra strada, che ci chiama in causa tutti. Che cosa siamo infatti diventati noi? Con quale tipo di soggettività la politica si deve confrontare oggi? Sono queste, in effetti, domande ineludibili anche se inquietanti, per rispondere alla quali chiamerà in causa una delle più grandi pensatrici del novecento, Hannah Arendt, che nei totalitarismi del secolo scorso  intravedeva  qualcosa di profondamente diverso dagli antichi dispotismi, in quanto essi avevano assunto come modello organizzativo la burocrazia dando vita ad una sorta di “governo impersonale” (irresponsabile dunque per definizione, perché è impossibile chiedere conto di certe decisioni ad un governo di tal fatta). Ebbene, si chiede il relatore, fatto salvo il diverso contesto storico non siamo forse oggi di fronte ad un altro tipo di governo impersonale, cioè ad un “governo di nessuno”? (pensiamo ai mercati finanziari: chi è il responsabile? A chi possiamo chiedere conto?). Ma andiamo avanti. Per definire questo tipo di governo si usa anche il termine “idiocrazia”, che alcuni autori interpretano - alquanto superficialmente a suo giudizio - come governo della stupidità, partendo dall’osservazione che oggi moltissime persone sono prive degli strumenti concettuali e culturali necessari per filtrare le informazioni in maniera critica. Questo comporterebbe inevitabilmente il trionfo della “mediocrazia”: un governo di mediocri che risponde ad elettori altrettanto mediocri. Il fatto è, osserva però il relatore, che in greco “idios” significa più correttamente “proprio”. Dire che noi viviamo in un regime idiocratico non significa dunque dire che in esso predomina la stupidità, bensì che la difesa del proprio interesse è l’unico principio di legittimazione pubblica (in effetti quando qualcuno prova ad argomentare una  decisione in nome di valori che non siano riconducibili ad interessi particolari viene automaticamente tacciato di  ipocrisia: e questo perché davvero il proprio interesse è l’unica cosa che conta, e diventa quasi impossibile immaginare che qualcuno segua motivazioni diverse). Dare la prevalenza al “proprio” significa dunque delegittimare ogni principio concorrente. Se coloro che interpretano l’idiocrazia come un regime dove la stupidità regna sovrana fossero stati più attenti al significato autentico della parola, avrebbero anche compreso facilmente che la stupidità non è la causa della mediocrità ma l’effetto, perché se ci si preoccupa soltanto di se stessi è molto più facile risultare alla fine davvero stupidi. Qui Hannah Arendt ci può venire ancora in aiuto, attraverso le sue riflessioni sull’uomo greco:
“… se egli vuole vedere ed esperire il mondo come è realmente può farlo solo considerandolo una cosa che è comune a molti, che sta tra di loro, che li separa e li unisce, che si mostra ad ognuno in modo diverso e dunque diviene comprensibile solo se molti ne parlano insieme e si scambiano e confrontano le loro opinioni e prospettive. Vivere in un mondo reale e parlarne insieme agli altri sono in fondo una cosa sola… Per i greci la vita privata era “idiota” perché ne veniva negata quella pluralità di discorrere di qualcosa e con essa l’esperienza della pluralità del mondo…”
Chi sono infatti, se poniamo attenzione, le persone più “stupide” che conosciamo? Sono quelle più chiuse, meno   disposte ad ascoltare, perché solo la capacità di ascoltare l’altro ci dà la possibilità di vedere parti del mondo della cui esistenza non sospetteremmo altrimenti mai. Ecco perché, secondo Leonard Mazzone, l’idiocrazia, il rintanarsi nel proprio esclusivo interesse, diventa sinonimo di stupidità (ne vediamo un esempio eclatante in quello che è diventato uno slogan politico dalla forte presa e cioè “padroni a casa nostra”, in cui si mostra di considerare lo stato come il terreno sottostante ad una casa sulla quale il proprietario esercita il suo pieno diritto: quella casa che per i greci era la negazione della politica in quanto “òikos”, spazio chiuso). Non è un caso, osserva, che al giorno d’oggi l’economia, come scienza del perseguimento del proprio interesse, sia diventata dominante.

N.B. = Con queste parole il relatore chiude la prima parte del suo intervento, che ha voluto contenere il più possibile nei tempi previsti per poter dare tutto lo spazio necessario al confronto con un pubblico particolarmente numeroso e attento. In effetti il dibattito è stato molto ampio, e per questo motivo ci riserviamo la facoltà di renderne conto in modo parziale, limitandoci ad evidenziare alcuni elementi di approfondimento.

LA PAROLA AL PUBBLICO:
                       DOMANDE E APPROFONDIMENTI                          

1)   populismo versus politica dell’immediatezza: la sfida della complessità, fra fake news e verità di fatto
Diamo spazio in prima istanza a due interventi che sollecitano il relatore a riprendere il tema centrale dell’incontro, essendo entrambi attinenti a considerazioni in merito a quel fenomeno che chiamiamo “populismo”. Da un lato, portando alcuni esempi altamente emblematici (dalla sofistica greca al celebre discorso di Marco Antonio in morte di Cesare), ci si chiede se non è forse possibile considerare il populismo come la quintessenza dei difetti della democrazia, come ciò che vellica gli istinti, promette soddisfazione immediata, falsa il gioco…  Dall’altro, facendo riferimento all’elezione diretta dei sindaci che è stata sperimentata con successo ormai da tempo, ci si chiede se davvero un’estensione di questa modalità decisionale ad organi più alti sarebbe da intendere come un cedimento al populismo, e se non sia invece possibile considerare il populismo come una categoria politica con una sua dignità, come cosa capace di rappresentare più correttamente la volontà popolare.
In effetti, osserva il relatore richiamando alcune riflessioni iniziali, non è affatto scontato che questa categoria sia da intendersi necessariamente con un’accezione negativa. Lo è quando la utilizziamo per squalificare gli altri, ma se sono gli altri a farlo la rivendichiamo e allora il valore polemico viene meno (pensiamo al discorso di Conte in parlamento, nel momento della sua prima nomina: se populista vuol dire…. allora io…). Nondimeno l’uso di questo termine porta secondo lui a tali fraintendimenti che non ci permette di cogliere in pieno le derive della democrazia, mentre la politica dell’immediatezza ci consente davvero di evidenziare il peggio di cui le nostre democrazie sono capaci. L’elezione diretta del presidente del Consiglio o del presidente della Repubblica sarebbe per l’appunto, a suo giudizio, un perfetto esempio di questa politica e di questo “peggio” (anche se non dobbiamo pensare che tutte le disintermediazioni siano necessariamente patologiche).  La politica dell’immediatezza implica infatti, e allo stesso tempo segnala, una rinuncia ad affrontare la sfida della complessità, e di certo le nostre democrazie occidentali non sembrano avere la struttura sufficiente per farlo. Bisogna però essere attenti nell’utilizzare questa parola, che rischia di diventare un contenitore vuoto quando viene tirata in ballo come una sorta di mantra per opporsi ai discorsi semplificatori. Non basta infatti dire che il mondo è complesso, come non basta, per contrastare le fake news, rivendicare le verità di fatto. Possiamo essere ben d’accordo con Hannah Arendt quando sostiene che la costruzione di false verità è per sua natura impolitica, ritenendo che la politica non abbia a che fare con la prassi, ma con il discorso e il confronto. Occorrerebbe nondimeno, a giudizio del relatore, saper contrapporre alle false verità e alle illusorie promesse verità e promesse diverse, che tengano conto non solo della realtà dei fatti ma anche della necessità di disegnare altri scenari, di prefigurare un futuro diverso e più giusto.  
2)  la responsabilità della classe intellettuale e l’importanza dell’intersezionalità: per una vera evoluzione democratica
In questo secondo “step” di interventi e di riflessioni l’accento cade soprattutto sul tema della responsabilità e della cura come cose indispensabili perché la democrazia, che è una pianta fragile, possa non solo sopravvivere ma evolversi in forme più piene e giuste. A chi tocca ora, ci si chiede, assolvere questo compito, dal momento che la borghesia – a cui la democrazia è stata funzionale nella fase dell’emancipazione dall’ancien régime – pare aver ormai esaurito questo compito, e che le classi lavoratrici, dopo aver trovato nelle istituzioni democratiche una sponda indispensabile per l’acquisizione di maggiori diritti, patiscono ormai gravemente la frustrazione per un arretramento che pare inarrestabile. Quali sono oggi – questa la domanda – quei soggetti diffusi che potrebbero intestarsi questo compito, considerando che ci troviamo di fronte ad un mondo in cui l’uno per cento della popolazione detiene da solo più risorse del rimanente novantanove?  E ancora, quali sono le responsabilità specifiche, in questo “deragliamento” della democrazia, della classe intellettuale, che in un testo molto interessante di William Davies (“Stati nervosi. Come l’emotività ha conquistato il mondo”) viene accusata in modo molto netto di essersi rinchiusa, con i suoi saperi specifici (soprattutto quelli tecnico-scientifici, che intrattengono un rapporto stretto con il potere) in un ghetto elitario, interrompendo il dialogo con le altre classi.
Il relatore concorda, intanto, con questa diagnosi impietosa. Si è davvero molto ridotta la capacità degli intellettuali di parlare con quanti stanno fuori dalla loro tribù – il che non significa, naturalmente, usare contenuti e linguaggi semplificati o “volgari”, ma tornare a giocarsi nello spazio pubblico. E’ pur vero, senza peraltro che questo implichi una diminuzione della loro responsabilità, che dal punto di vista della produzione e della fruizione intellettuale è avvenuto un cambiamento forse irreversibile (se dovessimo davvero chiederci, oggi, chi guida chi, dovremmo ammettere che un conduttore televisivo conta molto di più di uno studioso anche eminente, e certo di più del relatore!). Questa considerazione non ci esime però dall’uscire dalla nostra bolla, assumendoci la responsabilità di andare alla montagna, per così dire, con la forza della nostra motivazione politica e civile e di ricercare un contatto fecondo con gli altri, e in modo particolare con quei soggetti potenzialmente conflittuali con cui si potrebbero creare alleanze multiple.  Non è facile peraltro definire oggi chi sono esattamente questi soggetti diffusi a cui si riferisce uno degli interventi e da cui potrebbe venire una svolta importante per il futuro della nostra democrazia. Se però vogliamo cogliere le suggestioni di un sociologo, Alessandro Dal Lago, che si è occupato in modo specifico di questi temi, potremmo inserire fra di essi quelli che egli definisce le “non persone”, e cioè tutti coloro che non sono cittadini a pieno titolo, che vivono cioè in contesti in cui subiscono il potere di altri: i migranti in primo luogo, ma non solo (se infatti ha ragione Nancy Fraser, una delle più importanti filosofe e teoriche femministe statunitensi, ognuno di noi nella propria vita può subire forme di dominio molto diverse fra loro. Si può essere economicamente forti e indipendenti, ma essere comunque soggetti a discriminazioni per il colore della propria pelle, o per le proprie inclinazioni sessuali…).  Bisogna però avere il coraggio, anche in questo caso, di non rinchiudersi nella propria bolla concependo la militanza politica in modo settoriale, cosa che secondo il relatore ci condanna automaticamente alla sconfitta, ma di fare propria quella che a livello teorico è stata definita “intersezionalità”, e cioè tendere alla coalizione fra soggetti diversi.
3)  la lezione di Elias Canetti e le forme possibili di “eterotopia del presente” *
Queste considerazioni del relatore sulla necessità di ritrovare nuove forme di collettività richiamano un altro intervento che lo sollecita ad approfondire ulteriormente questo discorso e ad esplicitare la sua posizione rispetto alla possibilità che si possa, oggi, parlare ancora di un “progetto politico” (pur sapendo bene come questo termine sia legato all’esperienza politica dei decenni passati) che sia affiancabile ad una “eterotopia” del futuro.
Più che di progetto, il relatore preferisce parlare di futuro condiviso, per quel tanto di equivoco che questo termine ha  assunto nei luoghi e nelle modalità del lavoro. Nel lavoro a progetto che è oggi dominante, non è rimasto infatti nulla della tensione ideale che questo termine aveva nella filosofia esistenzialistica, come capacità di andare oltre l’immediato, di “gettarsi in avanti”. Oggi il progetto è invece diventato un dispositivo per gettarsi via (se tu non realizzi gli obiettivi indicati, se la tua performance non viene giudicata all’altezza, non hai solo fallito, ma “sei” un fallito). In altri termini, il progetto produce scarti, quindi non è a suo giudizio parola adatta ad indicare quella “eterotopia del futuro” di cui ha parlato l’interlocutore. Bisogna dunque pensare a nuove parole che implichino nuovi significati, e per questo il relatore ritiene ancora essenziale la lezione di Elias Canetti.  Qual è stato, infatti, il principale merito di questo autore? Quello, per intanto, di aver studiato le masse non a distanza di sicurezza (come Freud, come Le Bon), con il rischio di passare l’idea di una cosa pervasa necessariamente da elementi di follia, ma di essere davvero entrato dentro il fenomeno dandone così un’immagine sfaccettata. Esistono infatti vari tipi di masse, e se alcune sono davvero pericolose per la democrazia (tali sono infatti le masse “aizzate”, intendendo con questo termine le persone che si mettono insieme per cacciare via chi è più debole, o il gruppo dei nemici), altre ne rappresentano invece gli antidoti. Pensiamo, osserva il relatore, alle masse di persone che si uniscono per ricontrattare le nostre condizioni di stare nel mondo; agli operai in sciopero per esempio, che trovano insieme la forza di dire quei “no” che sarebbe troppo difficile dire da soli. E’ sua convinzione che sia dunque possibile oggi parlare non solo di eterotopie del futuro, ma di eterotopie del presente, perché già nel presente ci sono spazi, comunità, modi di essere che lasciano ben sperare. Non bastando il tempo per riferire su alcune esperienze torinesi che sta seguendo, si limita a fare alcuni esempi, accennando da un lato alle non poche imprese recuperate dagli stessi lavoratori (persone dunque che sono disposte  a rinunciare al TFR, e cioè  all’unica protezione individuale che hanno, per unirsi e far ripartire il proprio luogo di lavoro, dimostrando che il fallimento non era dovuto a reali ragioni di mercato), dall’altro alla riscoperta innovativa del mutualismo, in cui delle persone mettono insieme non solo risorse di tempo e di competenze, ma in molti casi anche risorse economiche per dotare la comunità di cui fanno parte di  risorse proprie…
* la parola “eterotopia” indica quegli spazi che hanno la particolarità di essere connessi a tutti gli altri;  viene anche utilizzata nel linguaggio filosofico-politico per indicare quei contesti capaci di invertire la direzione dei rapporti                                         

Con queste considerazioni che lasciano ben sperare chiudiamo la relazione su di un intervento che è stato seguito e apprezzato da un pubblico numeroso e partecipe, scusandoci per eventuali errori od omissioni

Per CircolarMente,  Enrica Gallo

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