Come già anticipato pubblichiamo la
Relazione sulla conferenza
di
Leonard Mazzone:
“I POPULISMI AL TEMPO
DELLA POLITICA IMMEDIATA
E LA LEZIONE DI ELIAS CANETTI”
Presentazione:
Per riflettere sulle
attuali declinazioni di quel fenomeno che con un termine forse un po’ abusato
chiamiamo “populismo””, e sull’erosione sempre più evidente di quegli istituti
di mediazione che in passato hanno svolto una funzione significativa per
l’assetto democratico, CircolarMente si è rivolta ad un relatore che benché
giovane ha al suo attivo un percorso accademico di tutto rispetto, che lo ha
portato ad occuparsi di temi di grande rilevanza. Dopo essersi confrontato con
il pensiero politico di Elias Canetti ha infatti dedicato la sua attenzione
alla crisi delle democrazie occidentali di fronte a fenomeni di tipo transnazionale,
come le migrazioni, e in generale rispetto ad una realtà che appare sempre più
scissa e che richiede pertanto un sovrappiù di impegno politico e civile. Per questo, si è personalmente attivato in tutta
una serie di iniziative, sia come vicepresidente della prestigiosa Unione
Culturale Franco Antonicelli di Torino, sia partecipando ai gruppi di lavoro
che pianificano gli interventi nelle scuole all’interno di Biennale Democrazia.
A lui, dunque, CircolarMente ha richiesto di chiarire quale sia stato il
contributo di un autore profondamente innovativo sul piano filosofico-politico
come Elias Canetti, e di illustrare le modalità e il percorso storico-culturale
con cui la disintermediazione si sta attuando in forme sempre più esplicite.
N.B. =
per chi vuole approfondire questi argomenti, si consiglia la lettura del testo
di Leonard Mazzone: “Il principio possibilità. Masse, potere e metamorfosi
nell’opera di Elias Canetti – ed. Rosemberg § Sollier
Una premessa metodologica:
A
introduzione del suo discorso Leonard Mazzone ha esplicitato la scelta di non
porre il fuoco del suo intervento direttamente su “Massa e potere” di Elias
Canetti (si tratta in effetti di un testo non facile, che richiederebbe in un
contesto non specialistico una sorta di alfabetizzazione, essendo il suo autore
poco conosciuto come pensatore politico), per seguire invece una strada inversa.
Questo libro infatti non è stato scritto solo per spiegare come sia stato
possibile che in un paese culturalmente avanzato come la Germania le persone
abbiano potuto democraticamente scegliere di votare Adolf Hitler, con quello
che ne è seguito: esso offre bensì delle categorie esplicative più generali sul
rapporto fra le masse e i poteri, che ci consentono di leggere e di
interpretare il presente. E’ dall’attualità dunque che il relatore intende
partire, e in particolare da due fenomeni che ci sono ben noti quali il
populismo e le fake news, analizzando i quali scopriremo che alcune
interpretazioni che ne sono state date e che godono oggi di un vasto consenso sono
concettualmente assai discutibili.
POPULISMO:
UNA CATEGORIA CONCETTUALE
DISCUTIBILE, DA METTERE A FUOCO
Iniziamo
dal populismo, chiarendo intanto come esso non sia affatto, come molti sembrano
pensare, un fenomeno nuovo o addirittura inedito. Questo termine, con i
fenomeni politici che esso implica, ha infatti dietro di sé una lunga storia:
Pensiamo, osserva il
relatore, al populismo russo dell’800, un movimento politico che si proponeva
l’emancipazione delle masse contadine e che poi evolvendosi ha preso due
direzioni diverse, l’una più radicale che ha assunto una vena anarchica e
terroristica, l’altra più moderata che ha offerto più tardi alcuni esponenti
importanti alla socialdemocrazia russa. Se poi veniamo al novecento, questo
termine è stato adottato soprattutto per quei leader latino americani, come Peron,
che sono stati in grado di intercettare le passioni e le attese di milioni di
persone che erano gravate da condizioni materiali pessime e che si stavano
lentamente e spesso drammaticamente muovendo da un passato agricolo verso una
prima fase di industrializzazione (leader che quasi sempre sono stati rimossi
attraverso colpi di stato organizzati dalle forze armate)
Se
poi usciamo dalla dimensione storica e veniamo all’attualità, potremo
facilmente riscontrare un’evidente difficoltà concettuale, soprattutto se
pensiamo al fatto che questo termine viene oggi utilizzato per indicare leader
politici molto diversi fra loro e portatori di messaggi differenti. Come è
possibile infatti – osserva il relatore - unificare con una sola parola
personaggi come Vladimir Putin, Matteo Salvini, Beppe Grillo e Donald Trump? Proverà
dunque ad offrirci qualche pista orientativa facendo in primo luogo riferimento
a quegli elementi che alcuni studiosi del populismo, isolandoli dai vari
contesti, ritengono caratterizzanti di questo fenomeno:
1.
La rappresentazione idealizzata del popolo concepito come incorrotto e
incorruttibile2. La contrapposizione frontale fra il popolo e la cosiddetta élite
3. La presenza di un leader che riduce il ruolo di rappresentante del mandato popolare a quello di semplice portavoce
4. La tendenza del leader a personificare il conflitto politico (c’è un problema, io sono la soluzione)
5. La mediatizzazione sistematica della vita del leader che serve a mantenere l’attenzione su ciò che egli fa, pensa e dice
6. La semplificazione comunicativa
Ora,
la posizione del relatore rispetto a questa griglia interpretativa che a prima
vista appare condivisibile è in realtà di deciso dissenso (provate a trovare, osserva, un leader di un grande partito di massa
della seconda metà del novecento che non abbia tentato di sintonizzarsi con il
suo popolo, che non abbia personalizzato
lo scontro politico, che non abbia sistematicamente fatto ricorso ai media…). La
versione che Leonard Mazzone ci offre della vera natura del termine “populismo”
risulta in effetti assai diversa. Lo considera infatti nient’altro che una
sorta di etichetta eteroascrittiva, polemica e onnicomprensiva: eteroascrittiva,
perché sono sempre gli altri ad attribuirci questa qualifica; polemica, perché
noi definiamo “populisti” coloro che non ci piacciono, e infine onnicomprensiva
perché pretende di unificare ciò che non è affatto simile. Dobbiamo dunque
riconoscere, per quanto le coordinate ideologiche odierne non siano più ferme
come in passato, che diventa difficile gestire una categoria che pretende di
spiegare processi, fenomeni, personalità pubbliche tanto diversi. Aggiungiamo a
ciò il fatto che noi siamo soliti pensare che il populismo sia naturalmente di
destra, ma non è detto che sia proprio così. Ci sono infatti autori importanti,
come Chantal Mouffe (“Per un populismo di sinistra – Laterza 2018), che
non esitano a parlare di un populismo di sinistra invitandoci a smettere di
pensare che il populismo sia qualcosa che possiamo individuare e descrivere in
modo preciso, intendendolo piuttosto come un modo di conquistare l’egemonia e che
pertanto può essere sia di destra che di sinistra. La democrazia rischia
davvero tanto – avvertono ancora questi autori – se non prende sul serio il
ricorso, l’appello al popolo: e però noi dobbiamo trovare a livello teorico,
culturale e politico una modalità più corretta per nominare alcuni dei problemi
cui abbiamo fatto accenno e che sono davvero importanti, senza ricorrere ad una
categoria concettuale così confusa. Ma con che cosa sostituirla?
UNA NUOVA PROPOSTA:
LA POLITICA DELL’IMMEDIATEZZA
Leonard
Mazzone propone a questo punto una tesi che fa riferimento a quella che uno
studioso di grande valore come Fabio Merlini ha chiamato “la politica dell’immediatezza”, rispetto alla quale il populismo
non sarebbe che un sintomo e che secondo il suo giudizio rappresenta il vero
pericolo per la democrazia. Vediamo dunque che cosa può significare questo
termine, che secondo il relatore ha delle implicazioni straordinarie. Per
evidenziarle, si servirà di alcuni esempi facendo entrare in campo le categorie
di spazio e tempo.
Qui
e ora:l’immediatezza declinata nel tempo
Che cosa è davvero “reale” al giorno d’oggi?
Questa
la domanda che Leonard Mazzone pone al pubblico invitandolo a considerare
questo termine secondo le categorie temporali.
“Reale” in effetti è oggi a suo giudizio soltanto il tempo che annulla
se stesso (non a caso noi usiamo spesso l’espressione “in tempo reale”, intendendo un tempo vero, ciò che accade qui ed ora.) Da questo peraltro consegue
che ciò che non avviene qui e ora non è davvero “reale”, e il tempo reale
diventa così un dispositivo di annullamento tanto del passato quanto del futuro:
ciò che non è più qui e ora perde lo
statuto di realtà, e lo stesso avviene per ciò che non è ancora qui e ora. Si tratta cioè di un fenomeno che alcuni
autori definiscono come “presentismo” (Parola del mese Dicembre
2019) intendendolo come un appiattimento claustrofobico della vita e del tempo sul
presente. Non è forse cambiato profondamente, osserva il relatore, il modo con
cui a livello politico e culturale ci riferiamo al passato? Persino la
nostalgia è diventata un lusso, perché essa ci fa tornare alla preistoria di
ciò che stiamo facendo, non ci fa più essere qui e ora ma ci fa tornare là dove
eravamo, strappandoci all’immediatezza temporale e facendoci così riconquistare
qualche rapporto con il futuro… Dobbiamo però stare attenti, perché qui c’è la
possibilità di un grosso equivoco. Si parla spesso infatti di “tramonto del futuro”. Questo, secondo Leonard
Mazzone, è certamente vero per quanto riguarda la collettività (oggi non
esistono più promesse collettive di futuro) ma ciò non significa che il futuro
non sia onnipresente nella vita degli individui, perché se è reale solo ciò che
accade, il presente si mangia continuamente il futuro, e il futuro viene letteralmente
cannibalizzato dall’immediatezza. E’ come se il futuro anteriore fosse
scomparso lasciando tutto lo spazio al futuro prossimo, un futuro che, sotto la
forma di quell’ansia che la generazione del relatore ben conosce, letteralmente
ci mangia.
Qui
e ovunque:L’immediatezza declinata nello spazio
Oltre
alla dimensione temporale c’è però anche una dimensione spaziale
dell’immediatezza che può offrirci alcuni esempi significativi. Ancora il già
citato Fabio Merlini, che si è occupato delle tecnologie del quotidiano -
quelle cioè che sono sempre alla nostra portata come i cellulari - osserva come
questi mezzi che ci consentono di essere costantemente qui e ovunque (secondo
il meccanismo di quella che questo autore definisce “schizotopìa”) oggi appaiano dominati da un unico comportamento,
quello legato al consumo. In effetti è innegabile che la principale modalità
con cui siamo contemporaneamente qui e altrove sia proprio questa. Noi
consumiamo relazioni, e consumiamo cose: questo è accaduto perché dal punto di
vista spaziale il mercato ha preso il posto di quella che un tempo era la
piazza, dove si svolgevano le mediazioni della politica. Nel mercato al
contrario tutti gli scambi sono disintermediati e si svolgono semplicemente secondo
la regola del “do ut des”.
L’accelerazione
delle forme di vita:
Ora,
osserva il relatore tornando a ragionare sulla categoria dell’immediatezza,
occorre chiederci quale difetto essa generi essendo così pervasiva a livello
temporale e spaziale. Senza dubbio, la velocità: non è certo un caso che oggi
diversi ricercatori abbiano messo al centro della loro indagine proprio la
velocità delle nostre vite e l’accelerazione irresistibile della forma di vita
capitalistica (si veda il “Saggio” del
mese di Aprile 2019: Hartmut Rosa “Accelerazione e alenazione”), cominciando a riutilizzare, attualizzandolo, un termine che
sembrava ormai desueto e cioè quello di alienazione. Essi sostengono per
l’appunto che l’alienazione tipica del nostro tempo sia dovuta proprio alla
velocità delle prestazioni che ci vengono richieste e che non ci consente di
riappropriarci non già di qualcosa che era
nostro (secondo la definizione “classica” di alienazione), ma di
riappropriarci di qualcosa che non è mai
stato nostro. In primis, la
nostra vita: quello che facciamo non viene percepito da chi lo fa come qualcosa
che gli appartiene, che lo identifica. Questo concetto può ben apparirci - il
relatore ne è consapevole - come troppo complesso, troppo esagerato, ma davvero
esso è all’ordine del giorno di coloro che appartengono alla sua generazione,
coloro che non avranno mai le stesse prospettive di carriera e di stabilità professionale
che erano state garantite e conquistate dalla generazione precedente.
La
spettacolarizzazione dell’informazione:
Ma
non c’è solo l’accelerazione dei tempi e della vita di cui tenere conto: anche
la spettacolarizzazione dell’informazione ha un posto significativo nella
configurazione che Leonard Mazzone va delineando.
Pensiamo a quella
televisiva, che appare ancora predominante in larghi strati della popolazione,
e in particolare ai talk show dove il vero protagonista è l’onnipresente
pubblico, che applaude qualunque cosa venga detta. Oggi la piazza, quella che è
stata la culla della democrazia e del teatro, è oggetto di una vera e propria
messa in scena (nei collegamenti a distanza con la piazza, nel far sentire “la
voce del popolo”, come se un contatto di questo genere fosse davvero la
rappresentazione speculare di ciò che il popolo pensa).
E ancora, il conflitto
politico ridotto a scontro, dove l’altro, anziché essere riconosciuto e
combattuto come avversario, deve essere annullato in quanto “nemico”. Sappiamo
bene che c’è una differenza fondamentale fra questi due termini: con un
avversario si gioca, ci si confronta, si compete all’interno di un sistema
condiviso di regole che possono anche essere modificate, ma sempre insieme. Non
così con il nemico, che va semplicemente eliminato.
La
riduzione della democrazia a diritto di parola:
Una
delle conseguenze più importanti della spettacolarizzazione dell’informazione è
dunque la riduzione della democrazia a “isegoria”,
cioè a diritto di parola, mentre nell’antica Atene democrazia significava
anzitutto “isogonia”, cioè
uguaglianza di fronte alla legge, come compagna inseparabile di questo diritto.
L’unione di entrambe dava poi luogo ad un’altra categoria che è stata indagata
da uno dei più grandi intellettuali del novecento, e cioè Michel Foucault: la “parresìa”, e cioè il coraggio di dire la
verità in faccia al potere essendo disponibili a pagarne il costo. Ma oggi, osserva
il relatore, democrazia è soltanto diritto di parola, con le conseguenze che ne
derivano: se tutte le opinioni sono legittime, ne deriva che non c’è nulla che
non si possa dire, e allora, può ben succedere - come di fatto è successo sulla
Rai in prima serata - che si metta sullo
stesso piano una dichiarazione di intenti da parte di un neonazista e
l’opinione di chi afferma invece che non tutte le opinioni devono essere
pubblicamente legittimate, perché la democrazia ha e deve avere dei limiti.
CONSEGUENZE
POLITICHE:
Si
arriva così ad un punto centrale del discorso. Se assumiamo per vera la
rilevanza dell’immediatezza, declinata nelle determinazioni di tempo e di
spazio e accompagnata dall’accelerazione delle forme di vita e dalla
spettacolarizzazione delle informazioni, quali conseguenze vengono a
determinarsi sul piano politico? Sostanzialmente tre, secondo l’analisi del
relatore:
1. il salto delle mediazioni
Si
tratta di una tendenza ormai molto evidente, che possiamo osservare in diversi
ambiti e in particolare in quello politico-istituzionale. Dobbiamo tenere
presente peraltro che con questa espressione non si intende soltanto
l’offuscarsi del ruolo svolto in precedenza dai grandi partiti e dai sindacati,
senza i quali non avremmo avuto accesso a quei diritti che ancora oggi
riusciamo a conservare sul piano sociale, ma anche la messa in discussione
delle procedure con cui si raggiungono le decisioni, che non sono pure
formalità ma elementi sostanziali sul piano politico. Oggi molti considerano
inutili queste mediazioni (pensiamo al discredito caduto sulla democrazia
rappresentativa e alla fortuna che stanno assumendo altri strumenti decisionali
di tipo plebiscitario…)
2. la semplificazione
sistematica della complessità
Un
tema, questo, che il relatore ha già preso precedentemente in esame ma che
merita a suo giudizio un ulteriore approfondimento, perché viene spesso addebitato
al populismo incappando così in alcune difficoltà concettuali che a suo
giudizio non si manifestano se invece lo consideriamo all’interno della
politica dell’immediatezza. Per fare un esempio fra i molti possibili, Leonard
Mazzone fa riferimento ad un tipico dialogo fra due interlocutori di opposte
vedute sul tema dell’immigrazione:
-
L’immigrazione è un problema (basta
chiudere i porti!)- La gente muore in mare (ne morivano di più quando li si lasciava partire)
- Come facciamo a sapere che ne muoiono di meno dal momento che hanno tolto di mezzo le ONG? (le ONG erano in combutta con i trafficanti e incoraggiavano le persone a partire)
In
un dibattito di questo tipo, osserva, viene del tutto messa da parte una delle
domande più importanti che ci dovremmo porre e cioè perché mai l’immigrazione
dovrebbe essere un problema. Forse perché ci toglie il lavoro? Ma da chi
vengono pagate le nostre pensioni, se non da chi lavora sul nostro territorio,
paga le tasse e non potrà mai avervi diritto a sua volta, in quanto immigrato? Una
verità di fatto che in genere non viene neanche menzionata, perché manca sia il
tempo che la disponibilità politica a tematizzarla.
3. l’esibizione del
privato
Anche
in questo caso possiamo facilmente concordare sul fatto che essa sia diventata
uno dei dispositivi di legittimazione più usati da molti attori politici, come
se chi si mostra così com’è nella vita privata (o perlomeno, come vuole far
credere di essere) sia più credibile di chi non si fa vedere in questa veste,
pensando giustamente che essa non c’entri nulla con il suo agire sulla scena
pubblica, su cui solo dovrebbe contare lo svolgere il proprio ruolo “con onore e
disciplina” come espressamente richiesto dalla Costituzione. (in effetti, commenta
il relatore, cosa mai ha a che fare il cibo che mangio o il letto in cui dormo
con la mia credibilità pubblica?)
IL GOVERNO DI
NESSUNO E L’” IDIOCRAZIA”
COME PREVALENZA DEL
PROPRIO INTERESSE
Nell’avviarsi
alla conclusione, Leonard Mazzone osserva che sarebbe semplice (ma fuorviante,
come vedremo) chiudere qua il discorso evidenziando le responsabilità della
classe politica e in generale delle classi dirigenti, che certo non mancano. Preferisce
nondimeno scegliere un’altra strada, che ci chiama in causa tutti. Che cosa
siamo infatti diventati noi? Con quale tipo di soggettività la politica si deve
confrontare oggi? Sono queste, in effetti, domande ineludibili anche se
inquietanti, per rispondere alla quali chiamerà in causa una delle più grandi pensatrici
del novecento, Hannah Arendt, che nei totalitarismi del secolo scorso intravedeva qualcosa di profondamente diverso dagli
antichi dispotismi, in quanto essi avevano assunto come modello organizzativo
la burocrazia dando vita ad una sorta di “governo
impersonale” (irresponsabile dunque per definizione, perché è impossibile
chiedere conto di certe decisioni ad un governo di tal fatta). Ebbene, si
chiede il relatore, fatto salvo il diverso contesto storico non siamo forse
oggi di fronte ad un altro tipo di governo impersonale, cioè ad un “governo di nessuno”? (pensiamo ai mercati finanziari: chi è il
responsabile? A chi possiamo chiedere conto?). Ma andiamo avanti. Per
definire questo tipo di governo si usa anche il termine “idiocrazia”, che alcuni autori interpretano - alquanto
superficialmente a suo giudizio - come governo della stupidità, partendo
dall’osservazione che oggi moltissime persone sono prive degli strumenti
concettuali e culturali necessari per filtrare le informazioni in maniera
critica. Questo comporterebbe inevitabilmente il trionfo della “mediocrazia”: un governo di mediocri che
risponde ad elettori altrettanto mediocri. Il fatto è, osserva però il
relatore, che in greco “idios”
significa più correttamente “proprio”.
Dire che noi viviamo in un regime idiocratico non significa dunque dire che in
esso predomina la stupidità, bensì che la difesa del proprio interesse è
l’unico principio di legittimazione pubblica (in effetti quando qualcuno prova
ad argomentare una decisione in nome di
valori che non siano riconducibili ad interessi particolari viene
automaticamente tacciato di ipocrisia: e
questo perché davvero il proprio interesse è l’unica cosa che conta, e diventa
quasi impossibile immaginare che qualcuno segua motivazioni diverse). Dare la
prevalenza al “proprio” significa dunque delegittimare ogni principio
concorrente. Se
coloro che interpretano l’idiocrazia come un regime dove la stupidità regna
sovrana fossero stati più attenti al significato autentico della parola, avrebbero
anche compreso facilmente che la stupidità non è la causa della mediocrità ma
l’effetto, perché se ci si preoccupa soltanto di se stessi è molto più facile
risultare alla fine davvero stupidi. Qui
Hannah Arendt ci può venire ancora in aiuto, attraverso le sue riflessioni
sull’uomo greco:
“… se egli vuole vedere
ed esperire il mondo come è realmente può farlo solo considerandolo una cosa
che è comune a molti, che sta tra di loro, che li separa e li unisce, che si
mostra ad ognuno in modo diverso e dunque diviene comprensibile solo se molti
ne parlano insieme e si scambiano e confrontano le loro opinioni e prospettive.
Vivere in un mondo reale e parlarne insieme agli altri sono in fondo una cosa
sola… Per i greci la vita privata era “idiota” perché ne veniva negata quella
pluralità di discorrere di qualcosa e con essa l’esperienza della pluralità del
mondo…”
Chi
sono infatti, se poniamo attenzione, le persone più “stupide” che conosciamo? Sono
quelle più chiuse, meno disposte ad
ascoltare, perché solo la capacità di ascoltare l’altro ci dà la possibilità di
vedere parti del mondo della cui esistenza non sospetteremmo altrimenti mai.
Ecco perché, secondo Leonard Mazzone, l’idiocrazia, il rintanarsi nel proprio
esclusivo interesse, diventa sinonimo di stupidità (ne vediamo un esempio
eclatante in quello che è diventato uno slogan politico dalla forte presa e
cioè “padroni a casa nostra”, in cui
si mostra di considerare lo stato come il terreno sottostante ad una casa sulla
quale il proprietario esercita il suo pieno diritto: quella casa che per i
greci era la negazione della politica in quanto “òikos”, spazio chiuso). Non è un caso, osserva, che al giorno
d’oggi l’economia, come scienza del perseguimento del proprio interesse, sia
diventata dominante.
N.B. = Con
queste parole il relatore chiude la prima parte del suo intervento, che ha
voluto contenere il più possibile nei tempi previsti per poter dare tutto lo
spazio necessario al confronto con un pubblico particolarmente numeroso e
attento. In effetti il dibattito è stato molto ampio, e per questo motivo ci
riserviamo la facoltà di renderne conto in modo parziale, limitandoci ad
evidenziare alcuni elementi di approfondimento.
LA PAROLA AL
PUBBLICO:
DOMANDE E
APPROFONDIMENTI
1)
populismo
versus politica dell’immediatezza: la sfida della complessità, fra fake news e
verità di fatto
Diamo
spazio in prima istanza a due interventi che sollecitano il relatore a
riprendere il tema centrale dell’incontro, essendo entrambi attinenti a considerazioni
in merito a quel fenomeno che chiamiamo “populismo”. Da un lato, portando
alcuni esempi altamente emblematici (dalla sofistica greca al celebre discorso
di Marco Antonio in morte di Cesare), ci si chiede se non è forse possibile
considerare il populismo come la quintessenza dei difetti della democrazia,
come ciò che vellica gli istinti, promette soddisfazione immediata, falsa il
gioco… Dall’altro, facendo riferimento
all’elezione diretta dei sindaci che è stata sperimentata con successo ormai da
tempo, ci si chiede se davvero un’estensione di questa modalità decisionale ad
organi più alti sarebbe da intendere come un cedimento al populismo, e se non
sia invece possibile considerare il populismo come una categoria politica con
una sua dignità, come cosa capace di rappresentare più correttamente la volontà
popolare.
In
effetti, osserva il relatore richiamando alcune riflessioni iniziali, non è
affatto scontato che questa categoria sia da intendersi necessariamente con
un’accezione negativa. Lo è quando la utilizziamo per squalificare gli altri,
ma se sono gli altri a farlo la rivendichiamo e allora il valore polemico viene
meno (pensiamo al discorso di Conte in parlamento, nel momento della sua prima
nomina: se populista vuol dire…. allora io…). Nondimeno l’uso di questo termine
porta secondo lui a tali fraintendimenti che non ci permette di cogliere in
pieno le derive della democrazia, mentre la politica dell’immediatezza ci
consente davvero di evidenziare il peggio di cui le nostre democrazie sono
capaci. L’elezione diretta del presidente del Consiglio o del presidente della
Repubblica sarebbe per l’appunto, a suo giudizio, un perfetto esempio di questa
politica e di questo “peggio” (anche se non dobbiamo pensare che tutte le
disintermediazioni siano necessariamente patologiche). La politica dell’immediatezza implica infatti,
e allo stesso tempo segnala, una rinuncia ad affrontare la sfida della
complessità, e di certo le nostre democrazie occidentali non sembrano avere la
struttura sufficiente per farlo. Bisogna però essere attenti nell’utilizzare
questa parola, che rischia di diventare un contenitore vuoto quando viene tirata
in ballo come una sorta di mantra per opporsi ai discorsi semplificatori. Non
basta infatti dire che il mondo è complesso, come non basta, per contrastare le
fake news, rivendicare le verità di fatto. Possiamo essere ben d’accordo con
Hannah Arendt quando sostiene che la costruzione di false verità è per sua
natura impolitica, ritenendo che la politica non abbia a che fare con la
prassi, ma con il discorso e il confronto. Occorrerebbe nondimeno, a giudizio
del relatore, saper contrapporre alle false verità e alle illusorie promesse verità
e promesse diverse, che tengano conto non solo della realtà dei fatti ma anche della
necessità di disegnare altri scenari, di prefigurare un futuro diverso e più
giusto.
2) la
responsabilità della classe intellettuale e l’importanza dell’intersezionalità: per
una vera evoluzione democratica
In questo secondo “step”
di interventi e di riflessioni l’accento cade soprattutto sul tema della responsabilità e della cura come cose
indispensabili perché la democrazia, che è una pianta fragile, possa non solo
sopravvivere ma evolversi in forme più piene e giuste. A chi tocca ora, ci si
chiede, assolvere questo compito, dal momento che la borghesia – a cui la
democrazia è stata funzionale nella fase dell’emancipazione dall’ancien régime
– pare aver ormai esaurito questo compito, e che le classi lavoratrici, dopo
aver trovato nelle istituzioni democratiche una sponda indispensabile per
l’acquisizione di maggiori diritti, patiscono ormai gravemente la frustrazione
per un arretramento che pare inarrestabile. Quali sono oggi – questa la domanda
– quei soggetti diffusi che potrebbero intestarsi questo compito, considerando che ci troviamo di fronte ad un mondo in cui
l’uno per cento della popolazione detiene da solo più risorse del rimanente
novantanove? E ancora, quali sono le
responsabilità specifiche, in questo “deragliamento” della democrazia, della
classe intellettuale, che in un testo molto interessante di William Davies
(“Stati nervosi. Come l’emotività ha conquistato il mondo”) viene accusata in
modo molto netto di essersi rinchiusa, con i suoi saperi specifici (soprattutto
quelli tecnico-scientifici, che intrattengono un rapporto stretto con il
potere) in un ghetto elitario, interrompendo il dialogo con le altre classi.
Il
relatore concorda, intanto, con questa diagnosi impietosa. Si è davvero molto
ridotta la capacità degli intellettuali di parlare con quanti stanno fuori dalla
loro tribù – il che non significa, naturalmente, usare contenuti e linguaggi
semplificati o “volgari”, ma tornare a giocarsi nello spazio pubblico. E’ pur
vero, senza peraltro che questo implichi una diminuzione della loro
responsabilità, che dal punto di vista della produzione e della fruizione
intellettuale è avvenuto un cambiamento forse irreversibile (se dovessimo
davvero chiederci, oggi, chi guida chi, dovremmo ammettere che un conduttore
televisivo conta molto di più di uno studioso anche eminente, e certo di più del
relatore!). Questa considerazione non ci esime però dall’uscire dalla nostra
bolla, assumendoci la responsabilità di andare alla montagna, per così dire,
con la forza della nostra motivazione politica e civile e di ricercare un
contatto fecondo con gli altri, e in modo particolare con quei soggetti
potenzialmente conflittuali con cui si potrebbero creare alleanze multiple. Non è facile peraltro definire oggi chi sono
esattamente questi soggetti diffusi a cui si riferisce uno degli interventi e
da cui potrebbe venire una svolta importante per il futuro della nostra
democrazia. Se però vogliamo cogliere le suggestioni di un sociologo,
Alessandro Dal Lago, che si è occupato in modo specifico di questi temi,
potremmo inserire fra di essi quelli che egli definisce le “non persone”, e cioè tutti coloro che
non sono cittadini a pieno titolo, che vivono cioè in contesti in cui subiscono
il potere di altri: i migranti in primo luogo, ma non solo (se infatti ha
ragione Nancy Fraser, una delle più importanti filosofe e teoriche femministe
statunitensi, ognuno di noi nella propria vita può subire forme di dominio
molto diverse fra loro. Si può essere economicamente forti e indipendenti, ma essere
comunque soggetti a discriminazioni per il colore della propria pelle, o per le
proprie inclinazioni sessuali…). Bisogna
però avere il coraggio, anche in questo caso, di non rinchiudersi nella propria
bolla concependo la militanza politica in modo settoriale, cosa che secondo il
relatore ci condanna automaticamente alla sconfitta, ma di fare propria quella
che a livello teorico è stata definita “intersezionalità”, e cioè tendere alla
coalizione fra soggetti diversi.
3) la
lezione di Elias Canetti e le forme possibili di “eterotopia del presente” *
Queste
considerazioni del relatore sulla necessità di ritrovare nuove forme di
collettività richiamano un altro intervento che lo sollecita ad approfondire
ulteriormente questo discorso e ad esplicitare la sua posizione rispetto alla
possibilità che si possa, oggi, parlare ancora di un “progetto politico” (pur
sapendo bene come questo termine sia legato all’esperienza politica dei decenni
passati) che sia affiancabile ad una “eterotopia” del futuro.
Più
che di progetto, il relatore preferisce parlare di futuro condiviso, per quel
tanto di equivoco che questo termine ha
assunto nei luoghi e nelle modalità del lavoro. Nel lavoro a progetto
che è oggi dominante, non è rimasto infatti nulla della tensione ideale che
questo termine aveva nella filosofia esistenzialistica, come capacità di andare
oltre l’immediato, di “gettarsi in avanti”. Oggi il progetto è invece diventato
un dispositivo per gettarsi via (se tu non realizzi gli obiettivi indicati, se
la tua performance non viene giudicata all’altezza, non hai solo fallito, ma
“sei” un fallito). In altri termini, il progetto produce scarti, quindi non è a
suo giudizio parola adatta ad indicare quella “eterotopia del futuro” di cui ha
parlato l’interlocutore. Bisogna dunque pensare a nuove parole che implichino nuovi
significati, e per questo il relatore ritiene ancora essenziale la lezione di
Elias Canetti. Qual è stato, infatti, il
principale merito di questo autore? Quello, per intanto, di aver studiato le
masse non a distanza di sicurezza (come Freud, come Le Bon), con il rischio di passare
l’idea di una cosa pervasa necessariamente da elementi di follia, ma di essere
davvero entrato dentro il fenomeno dandone così un’immagine sfaccettata.
Esistono infatti vari tipi di masse, e se alcune sono davvero pericolose per la
democrazia (tali sono infatti le masse “aizzate”,
intendendo con questo termine le persone che si mettono insieme per cacciare
via chi è più debole, o il gruppo dei nemici), altre ne rappresentano invece
gli antidoti. Pensiamo, osserva il relatore, alle masse di persone che si
uniscono per ricontrattare le nostre condizioni di stare nel mondo; agli operai
in sciopero per esempio, che trovano insieme la forza di dire quei “no” che
sarebbe troppo difficile dire da soli. E’ sua convinzione che sia dunque possibile
oggi parlare non solo di eterotopie del futuro, ma di eterotopie del presente,
perché già nel presente ci sono spazi, comunità, modi di essere che lasciano
ben sperare. Non bastando il tempo per riferire su alcune esperienze torinesi che
sta seguendo, si limita a fare alcuni esempi, accennando da un lato alle non
poche imprese recuperate dagli stessi lavoratori (persone dunque che sono
disposte a rinunciare al TFR, e cioè all’unica protezione individuale che hanno, per
unirsi e far ripartire il proprio luogo di lavoro, dimostrando che il
fallimento non era dovuto a reali ragioni di mercato), dall’altro alla
riscoperta innovativa del mutualismo, in cui delle persone mettono insieme non
solo risorse di tempo e di competenze, ma in molti casi anche risorse
economiche per dotare la comunità di cui fanno parte di risorse proprie…
* la
parola “eterotopia” indica quegli spazi che hanno la particolarità di essere
connessi a tutti gli altri; viene anche
utilizzata nel linguaggio filosofico-politico per indicare quei contesti capaci
di invertire la direzione dei rapporti
Con
queste considerazioni che lasciano ben sperare chiudiamo la relazione su di un
intervento che è stato seguito e apprezzato da un pubblico numeroso e
partecipe, scusandoci per eventuali errori od omissioni
Per CircolarMente, Enrica Gallo
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