Il
“saggio” del mese
Febbraio 2019
E’ vero, dobbiamo riconoscerlo, come CircolarMente non abbiamo finora dedicato
grande attenzione ai temi di “economia pura”. Ci ha frenato, con buona
probabilità, la diffidenza e la ritrosia, per altro molto diffuse, verso una
disciplina “specialistica”, ostica, all’apparenza freddamente “scientifica”, con
basi matematiche e statistiche. Ed inoltre divisiva e a sua volta divisa fra scuole
di pensiero che si fronteggiano ricorrendo a concetti e parametri da “addetti
ai lavori”. Eppure non serve certo richiamare il marxiano concetto del rapporto
fra struttura, per l’appunto quella economica, e sovrastruttura, tutte le
restanti attività umane, per sapere che essa riveste un ruolo centrale,
decisivo, per ogni singolo individuo e la società intera. Va subito detto che
non poche voci critiche mettono in discussione la presunta “scientificità”
dell’economia, e la possibilità, che ne conseguirebbe, di gestire i processi
economici sulla base quasi esclusiva di equazioni e algoritmi. Queste voci
sostengono che questa sorta di aureola è stata strumentalmente creata ad arte
dalle idee economiche “mainstream” (quelle dominanti) che nel corso del Novecento,
ed in particolare nella seconda parte del secolo scorso, hanno pervaso, salvo
rarissime eccezioni, tutte le più importanti istituzioni economiche mondiali.
Una di queste voci discordanti è quella di Mariana Mazzucato [Mariana Mazzucato, economista statunitense nata in
Italia, insegna Economia dell’Innovazione presso l’University College London,
dove ha fondato e dirige l’Institute for Innovation and Public Purpose. E’
consulente di vari governi in tutto il mondo. E’ stata indicata nel 2013 tra i
tre più importanti pensatori sul tema dell’innovazione. Autrice di diversi saggi,
alcuni dei quali sono stati pubblicati in Italia sempre nei titoli della
Laterza: “Lo stato innovatore” (2014) e “Ripensare il Capitalismo (2017)]. Abbiamo scelto come “Saggio del mese” il suo ultimo libro
“Il valore
di tutto” proprio perché è una
coinvolgente occasione per recuperare, almeno in parte, le nostre scarse
conoscenze in fatto di economia, per meglio comprendere i termini fondamentali
del dibattito economico, ad iniziare dal “valore”, per capire che anche i
processi economici, ben lungi dall’essere uno sviluppo inarrestabile di leggi
“scientifiche”, possono procedere lungo percorsi diversi a seconda di scelte
che la società nel suo complesso deve, consapevolmente, assumere, e per
formarci utili opinioni in questo senso. Ci sembra infine rilevante evidenziare
che le forti e lucide critiche della Mazzucato non vengono da una “estremista”,
anzi: come si avrà modo di cogliere in alcune delle recensioni al suo saggio
emerge, dall’insieme del suo lavoro, una sua collocazione “liberal” tutt’altro
che rivoluzionaria. Ci pare quindi, a suo ulteriore merito, che anche in questo
saggio la sua analisi, condivisibile o no, non sia comunque stata mossa da
“presunti” pregiudizi ideologici
Per entrare nello spirito del saggio e per capirne le
finalità conviene affidarci alle parole con le quali la stessa Mazzucato le
anticipa…… Banchieri, imprenditori, politici: tutti parlano della necessità di ‘creare
valore’ per creare ricchezza. Ma cos’è realmente il ‘valore’? Chi crea
ricchezza? Come decidiamo il valore delle cose che produciamo e quanto spetta a
chi le realizza? …….dobbiamo porci una serie di domande radicali: da dove viene
la ricchezza? Chi crea il valore? Chi lo estrae? Chi lo sottrae?
Raccogliamo qui di seguito, in forma ovviamente molto
sintetica, e seguendo in crescendo il piano dell’opera, le osservazioni che la
Mazzucato analiticamente sviluppa
……Il valore può essere definito in molti modi ma
sostanzialmente consiste nella produzione di nuovi beni e servizi…..Il
valore è un termine, un concetto, una grandezza economica che individua quindi
un processo, un flusso costante, non è la fotografia statica di una certa
ricchezza, se per ricchezza si deve intendere uno stock di valore che si è
creato fino ad un dato istante. E come tutti i processi può, deve, essere
governato avendo a monte definito, in modo il più possibile concorde, quali
attività economiche, e con quali modalità, concorrono a formarlo, e quindi cosa
e chi è “produttivo” piuttosto che “improduttivo”. Il richiamo a “concordare” cosa si debba
intendere per valore non è casuale, la storia delle teorie economiche si è
infatti da sempre mossa in direzione opposta; nelle diverse fasi storiche per valore
si sono intese attività umane decisamente diverse.
………..Nella iniziale presentazione del saggio si è
anticipato la sua capacità di offrire a tutti noi la possibilità di recuperare
un minimo di conoscenza su alcuni elementi di base del dibattito economico. E ‘
quanto è possibile fare scorrendo i primi due capitoli, davvero chiari e
precisi, che illustrano l’evoluzione di cosa si è progressivamente inteso per
valore…………….
I prodomi della moderna
economia vengono convenzionalmente fatti coincidere con l’affermarsi del
“mercantilismo” del sedicesimo secolo, il valore, concetto al tempo ancora poco
usato e spesso aleatorio, veniva semplicemente fatto coincidere con …..l’eccesso dei ricavi sulle spese…….. Un primo
salto qualitativo avviene con la scuola fisiocratica francese del 1700
(Francois Quesnay) che però riferisce……alla sola
produzione agricola, alla “terra”, la creazione di valore….. Tutte le
restanti attività godono di questa unica fonte di valore, la sola ad essere
considerata “produttiva”. L’avvento della Rivoluzione Industriale capovolge i
termini della questione: Adam Smith prima, e David Ricardo poi, i padri fondatori
dell’economia classica, spostano l’attenzione sul lavoro…..il valore di mercato di un prodotto è determinato dalla
quantità di manodopera o lavoro impiegata nella sua produzione….Una
delle conseguenze di questa centralità consisteva nel ritenere tutti i servizi,
finanza compresa, settori improduttivi che non concorrevano alla creazione di
valore. Ricardo in particolare elaborò su questa base la sua teoria della
rendita, definita…..trasferimento di valore a chi
possiede un monopolio su una risorsa scarsa…..Collegandosi alle idee di
Smith e Ricardo Karl Marx nella seconda metà dell’Ottocento elabora una, non a
caso, “rivoluzionaria” concezione del valore: il valore di ogni singola merce,
e quello dell’intera produzione di merci……sono
determinati dalla forza-lavoro……, ossia dalla quantità di ore/lavoro impiegata e “comprata” sul mercato,
nel quale il lavoro stesso è stato ridotto a merce; quel valore così prodotto
copre in parte i salari, forza lavoro che si ricrea, e profitti, ossia la
quota, ampiamente maggioritaria, che resta ai capitalisti in quanto detentori
dei mezzi di produzione. Fra le tante intuizioni profetiche di Marx va
annoverata anche quella della crescente finanziarizzazione del capitale; la
finanza, a differenza di Smith e Ricardo, rientra quindi, già nella concezione
marxiana, nella sfera delle attività che contribuiscono alla produzione. Le
idee, filosofiche, politiche, ed economiche, di Marx diventano decisiva spinta
alle crescenti lotte sindacali e politiche ed impongono, di conseguenza, alle
scuole di pensiero borghesi un urgente cambio di paradigma nella concezione del
valore. Ciò avviene a cavallo fra Ottocento e Novecento con un innegabile
progressivo successo, perlomeno nel mondo occidentale, restando il blocco
“sovietico” legato all’idea di forza lavoro marxiana, fin dai primi decenni del
secolo scorso. E’ la svolta imposta dalla “scuola neoclassica”, dal
“marginalismo”. Economisti quali Leon Walras, William Jevons, Alfred Marshall,
non solo fissano, rendono canonico, il carattere scientifico, matematico,
dell’economia, ma elaborano una nuova concezione del valore partendo dal concetto di
“utilitarismo” ……..il valore delle cose è misurato
dalla loro utilità per il consumatore, non è quindi oggettivo, perché il
mercato è mutevole, l’unico parametro che può incidere è la disponibilità del prodotto offerto, più essa decresce più
il prezzo/valore aumenta e viceversa………….La “rivoluzione marginalista”,
sancisce quindi che, in una situazione di mercato perfetto e di libero incrocio
fra domanda e offerta, il valore altro non è che il “prezzo”, ossia la
preferenza che il mercato, i consumatori, accordano ad un prodotto, ad ogni
tipo di prodotto, lavoro e finanza compresi,
fino al limite della “utilità marginale”, ossia della convenienza o meno
ad accrescere, anche di una sola unità, la disponibilità del prodotto. Questa
teoria del valore ……ancora oggi dominante……
ha comportato la cancellazione di ogni classificazione di ciò che è produttivo
e di ciò che non lo è, stante l’assioma che…..tutto
ciò che ha un prezzo ha un valore ed è produttivo…. Scompare quindi in
questa visione lo stesso concetto di rendita, tutto ciò che è sul mercato è ed
ha valore, e non è pertanto rendita. Poco hanno inciso nel contrastare la
rivoluzione marginalista le idee di economisti, critici verso molte delle sue
logiche, fra i quali emergono gli italiani Wilfredo Pareto e Piero Sraffa. Si è
così giunti, ai giorni nostri, ad una situazione cristallizzata che vede ..la maggior parte degli studenti di economia….non conoscere
altro approccio di teoria economica globale se non quello marginalista, ed in
particolare, negli ultimi decenni del Novecento, nella sua neoliberista versione,
ancor più rigida, aggressiva, e pretenziosamente “scientifica”.
Ma se questa è ormai la concezione predominante,
mainstream, del valore, come si misura quello complessivo di una nazione, di
un’area? Il Capitolo 3 ci aiuta a ripercorrere la storia dell’unità di misura
altrettanto predominante: il PIL.
…..E’ importante ricordare che tutti i tipi di metodi
contabili sono convenzioni che riflettono le idee, le teorie e le ideologie
dell’epoca in cui sono concepiti…….la moderna concezione del PIL è influenzata
dalla teoria del valore sottostante……L’influenza della concezione
marginalista su cosa si debba intendere per PIL (Prodotto Interno Lordo), ossia il valore di tutto ciò che è
definibile “prodotto”, è innegabile. Di fatto se, secondo il marginalismo,
tutto ciò che ha un prezzo concorre alla creazione di valore in linea teorica
resterebbero escluse da questo calcolo….le sole attività
del Governo, pagate dalla tasse, e i percettori di “sussidi”….. All’atto
pratico non mancano però problemi e contraddizioni, generati proprio dalla
logica marginalista. Considerato che il PIL può, concretamente, essere misurato
o guardando al valore della produzione, o al reddito generato, o sommando la
spesa (domanda) per i prodotti finali, ritenere che tutto ciò che ha un prezzo
generi valore da solo non aiuta a sciogliere evidenti nodi. Si pensi che, al
termine di un percorso storico iniziato sin dagli albori della rivoluzione
industriale, e all’interno del quale in epoche recenti hanno avuto un ruolo
fondamentale, i lavori di Simon Kuznets e di John Maynard Keynes, le attività
economiche che, con margini di discrezione nelle singole situazioni nazionali,
possono comporre il PIL sono fissate da un manuale, il S.A.N. che, nella sua
versione attuale, arriva a 662 pagine! Da questo elenco infinito di voci
citiamo qui, per ovvie ragioni di spazio, solo alcuni casi emblematici in grado
di farci capire come il PIL non sia affatto un inattaccabile monolite
scientifico;
· La questione tecnicamente più controversa è calcolare l’incidenza della spesa statale, un esempio, all’apparenza banale, fra i tanti: quanto della spesa per la rete stradale incide sul trasporto “personale” o su quello “produttivo”? Come classifico i veicoli che passano su una strada per la quale si sono sostenute spese magari rilevanti?
· La questione tecnicamente più controversa è calcolare l’incidenza della spesa statale, un esempio, all’apparenza banale, fra i tanti: quanto della spesa per la rete stradale incide sul trasporto “personale” o su quello “produttivo”? Come classifico i veicoli che passano su una strada per la quale si sono sostenute spese magari rilevanti?
· Più in generale come si deve gestire
l’incidenza delle spese “intermedie” che intervengono nel processo di creazione
di un “prezzo/valore” finale, specie se sono riferibili ad attività pubbliche?
· Il lavoro domestico e di cura, che non ha
un prezzo sul mercato se non è affidato ad imprese, genera valore o no?
· Le abitazioni private, salvo quelle in
regime di affitto, hanno un valore anche per il PIL?
· La prostituzione contribuisce? Nei paesi
dove è legale la risposta è sì, negli altri è no. Ma l’attività, anche dal
punto di vista strettamente economico, non è la stessa?
· E l’inquinamento? Se per affrontarlo si
attivano interventi genera valore, la cui incidenza però varia a seconda se
l’intervento è pubblico o privato. Se non si attuano interventi rappresenta
unicamente un costo. Come valutarlo e conteggiarlo?
· Ed infine come valutare l’incidenza del
famigerato “nero”, ossia il valore riferibile ad attività economiche, che pure
hanno un “prezzo”, però non rilevabile? Per alcuni paesi, Italia compresa,
questa è una voce che vale, purtroppo, tantissimo, ed è fondamentale capire la
validità delle stime con cui viene ipotizzato per “arrotondare” il PIL
Ma la questione “centrale” per la Mazzucato è il peso
del settore finanziario. Come già visto in precedenza il successo delle teorie marginaliste
ha fatto sì che…..dall’essere vista come “trasferimento” di
valore già esistente e come “rendita” nel senso di “reddito non guadagnato” la
finanza è diventata produttrice di nuovo valore……e quindi interamente considerata nel conteggio del PIL. Si chiude con il Capitolo 3 la parte “storica”
del saggio, dedicata alla ricostruzione dei modi con i quali nelle diverse
epoche economiche il valore è stato definito e dei parametri con i quali lo si
è misura. Sicuramente la parte più coinvolgente per noi lettori “profani” di
economia. Nei successivi Capitoli 4 – 5
- 6 la Mazzucato sviluppa, con considerazioni inevitabilmente più tecniche” e
quindi di lettura e comprensione più complesse, la sua critica al peso ed al
ruolo assunto dalla finanza nella realtà odierna. Partendo dalle sue
perplessità sulla teoria marginalista
del valore la Mazzucato ritiene infatti
che non solo non sia corretto farla rientrare nel conteggio del PIL,
ossia nel processo di creazione di valore ritenendola un semplice trasferimento
di quello da altri creato, ma che le sue finalità e le sue modalità di
perseguimento di profitti (….denaro che crea denaro….) arrechino un grave pregiudizio all’efficienza, alla sostenibilità
ed all’etica dell’intera economia, alla stessa creazione autentica di valore……..la vera sfida non è definire la finanza come creazione o
estrazione di valore, ma di trasformarla radicalmente, in modo che essa sia
effettivamente creazione di valore……..In particolare nel Capitolo 4 sono
esaminati i percorsi e le modalità con
le i quali la finanza ha potuto assurgere al
suo attuale ruolo centrale nell’economia. Hanno contribuito in questo
senso non solo le “comprensibili”, per certi versi, aspirazioni al massimo
profitto degli operatori finanziari, banche in primis, ma la accondiscendente
complicità della politica che, troppo spesso indotta da una sua acritica
adesione alle teorie economiche mainstream, ha modificato le regole del gioco
in senso troppo permissivo. L’esempio più citato, e che ancora resta al centro
del dibattito, è stata la concessione alle banche “commerciali” (le “nostre” banche, tradizionalmente
preposte alla raccolta dei risparmi ed alla concessione di prestiti nei limiti
consentiti dalla raccolta) di muoversi senza limiti sul mercato finanziario
invadendo il campo precedentemente esclusivo delle “società finanziarie”. In
questo mare magnum della “intermediazione finanziaria” la finanza ha così
potuto non solo acquisire un peso decisivo sullo stesso settore economico della
produzione reale, ma, lasciata libera di auto-conformarsi, di seguire le
proprie finalità di profitto con la creazione di strumenti ad hoc, quali i
“derivati” e le “cartolarizzazioni” (in parole “molto” povere i primi sono prodotti finanziari il cui prezzo
“deriva” da una sorta di “scommessa” sul prezzo che ad una certa data avranno
altri prodotti, reali e non, le seconde sono la vendita, fatta per ricrearsi
margini di manovra, ad altri soggetti, spesso creati ad arte, dei crediti che
un operatore finanziario, banche comprese, vanta nei confronti di mutuatari ai
quali ha erogato prestiti), veri creatori di “denaro mediante denaro”, che si sovrappongono alla già
eccessiva libertà di concessione credito (i mutui erogati da banche e finanziarie sono, anche dal punto di vista
tecnico, una vera e propria “creazione di denaro”) . Con il risultato,
inevitabile, del formarsi di una dimensione finanziaria del tutto slegata dal
valore reale, e soggetta quindi, altrettanto inevitabilmente, al formarsi di
“bolle” ingestibili che, al loro esplodere, come nel 2008 con il mitico default
della Lehmann Brothers, creano danni impressionanti all’intera economia. Nel
successivo Capitolo 5 la Mazzucato esamina le caratteristiche delle attività
concretamente svolte dal settore finanziario così abnormemente cresciuto.
Dobbiamo, va da sé, abbandonare l’immagine della banca tradizionale e
sostituirla con quella di società in
grado di presiedere ad una mole enorme di transazioni che viaggiano incessantemente
nell’intero pianeta….oggi il settore si è ampliato
fino a coprire una immensa congerie di strumenti finanziari che formano una
nuova forza nel moderno capitalismo: la gestione patrimoniale…..Se
si considera che dall’insieme di queste attività, in termini di fondi erogati,
solo il 15% va ad imprese non finanziarie, ossia imprese operanti nell’economia
reale, emerge chiaramente un settore che si auto-alimenta “sottraendo” valore
prodotto da altri. Il benessere che, nel mondo occidentale, si è effettivamente
realizzato, anche in modo diffuso e grazie all’economia reale, nel famoso
“trentennio d’oro” (anni 50-60-70) ha creato un patrimonio finanziario complessivo
di straordinarie dimensioni: è questo il terreno di pascolo, la gestione
patrimoniale, che alimenta la finanza mondiale a partire proprio dagli anni 70,
quelli che hanno visto il decollo della finanziarizzazione dell’economia…..come fa la finanza a sottrarre valore? Vi sono a grandi
linee tre risposte: costi di intermediazione ….caricando oneri troppo alti
rispetto ai rischi…..potere monopolistico…….Sono forme di sottrazione di
valore che, in aggiunta, lasciano spazio a degenerazioni speculative. Ad esempio: se le percentuali applicate come
costo di transizione mantengono, per ragione di concorrenza, una certa rigidità,
si può creare un guadagno suppletivo aumentando il numero di transizioni
giustificandolo con la ricerca di maggiori guadagni. E’ quello che è
successo…..la frequenza degli scambi è aumentata in
modo esponenziale…..al punto da rilanciare l’idea di introdurre una tassa sulle transazioni (Tobin Tax)
proprio al fine di ridurne l’esasperata e strumentale proliferazione. Ancor più
impattante è la concentrazione monopolistica. Al culmine dei percorsi descritti
nel Capitolo 4 si deve infatti constatare una concentrazione di potere di
mercato in un numero sempre più ristretto di operatori finanziari…..nel 2010 cinque grandi banche americane controllavano il
96% dei contratti sui derivati e nel Regno Unito dieci istituzioni finanziarie
oltre all’85% dei derivati gestivano il 77% del mercato dei cambi……Governi
ed imprese possono quindi rivolgersi ad un numero ristretto di banche per
ottenere i servizi finanziari necessari alle attività a loro in capo, e non lo
possono certo fare da posizioni dominanti, anzi. Un altro fenomeno ha
parallelamente accompagnato questi processi nel campo della gestione
patrimoniale: la crescita spaventosa delle disuguaglianze economiche e delle
rendite denunziata da Thomas Piketty nel “Capitale del XXI secolo”. Quella che
agli inizi degli anni settanta era la gestione di un patrimonio relativamente
diffuso, frutto del trentennio d’oro, si è trasformata nel costante
accrescimento di una ricchezza, sempre più slegata da ogni processo economico
reale e sempre più concentrata nelle mani di pochi, pochissimi. Va da sé che è
lecito stabilire una stretta connesione fra questi due processi. A chiudere
questa seconda parte del saggio, la Mazzucato esamina, nel Capitolo 6, le
conseguenze della finanziarizzazione sulla stessa economia reale…..la straordinaria crescita della finanza non si è limitata
al settore finanziario, essa ha permeato l’intera economia come l’industria
manifatturiera e i servizi non finanziari….per certi aspetti un fenomeno ancor
più straordinario della stessa espansione della finanza……Sono, a grandi
linee, due i percorsi della finanziarizzazione dell’economia reale: il primo
consiste nell’aver affiancato alla produzione ed alla commercializzazione
l’offerta di prodotti finanziari puri (l’industria dell’auto, ad esempio, ottiene
margini di ricavo più alti dal finanziamento per l’acquisto che dalla vendita
dell’auto stessa), il secondo, ancor più impattante perché si inserisce in un
capovolgimento delle filosofie aziendali classiche, è il riacquisto delle
azioni societarie. Una strategia che consente, innegabilmente, di aumentare il
valore nominale delle azioni riducendone il numero, ma che comporta per
l’azienda lo spostamento di fondi tendenzialmente destinabili agli
investimenti. Ciò avviene in un quadro complessivo che vede, con il concorso,
interessato, dei dirigenti di alto livello aziendali (remunerati in base al
rendimento azionario e legati a contratti di breve termine), e di quello,
spesso inconsapevole, degli stessi azionati, e in coerenza con una teoria
economica neo-liberista (Milton Friedman), l’abbandono di fatto di visioni
aziendali di lungo periodo sacrificate sull’altare del guadagno azionario a
breve. Un dato evidenziato dalla Mazzucato riassume, in modo esemplare ad
estrema sintesi della seconda parte, lo sconvolgente spostamento
dell’attenzione economica dall’economia reale alla finanza……nel 1965 solo l’11% dei laureati alla Harvard Business
School andarono nel settore finanziario, solo vent’anni dopo nel 1985 tale
percentuale era salita al 41% e da allora è sempre cresciuta……….Nelle parte finale del suo saggio, Capitolo
7 – 8 – 9, la Mazzucato prende in
esame i meccanismi di creazione di
valore nell’economia reale, manifattura, industrie in genere, e servizi non
finanziari per riprendere, infine, alcune proposte di cambiamento da lei stessa già esaminate nel suo
precedente saggio “Ripensare il Capitalismo”. ……. Non mancano problemi, per
quanto concerne la produzione di valore reale, neppure nei settori economici
produttivi. La stessa “economia dell’innovazione” nasconde al suo interno
situazioni definibili come…..imprenditoria
improduttiva……spesso riferibili proprio a quelle attività assurte a
simbolo dell’innovazione. La Mazzucato fornisce, per comprendere la genesi di
questa contraddizione, una chiara indicazione delle caratteristiche chiave dei
processi innovativi……l’innovazione è per natura
molto cumulativa, mette insieme più componenti…..è spesso il risultato di
investimenti precedenti……è collettiva e richiede tempi lunghi…..In
sostanza quelle che all’apparenza si presentano come invenzioni rivoluzionarie
sono il frutto di investimenti a lungo termine, che si accumulano uno
sull’altro nel corso degli anni fino a formare la base insostituibile per il
finale “colpo di genio” innovativo…….all’inizio
sono agenzie di ricerca e sviluppo pubbliche che finanziano la ricerca
scientifica di base e solo quando l’innovazione è vicina ad avere applicazioni
commerciali entrano in gioco operatori
privati….. Questo è quello che è successo proprio per le tanto celebrate
imprese “rivoluzionarie” della Rete e dell’informatica americane. Alcuni
esempi:…..l’Iphone (Apple) dipende dalla tecnologia
dello smartphone realizzata grazie a investimenti pubblici durati molti
anni……Internet (Microsoft, Facebook e compagnia cantante) quelli del Ministero
della Difesa ……il GPS quelli della Marina Militare……lo schermo touchscreen
quelli della CIA…….per l’appunto tutti finanziamenti “pubblici”. Sui
quali si è “innestata” la finale indubbia genialità creativa (in generale il
mondo delle “start-up) che ha, grazie a meccanismi specifici del mercato di
questi settori economici, realizzato profitti sotto molti aspetti
ingiustificati che hanno “falsato” la creazione di vero “valore”. Un secondo
fattore di squilibrio del mercato che consente posizioni ingiustamente
predominanti tali da generare profitti non commisurati al volume effettivo di
investimenti, e incidendo quindi sulla creazione di valore reale, consiste
nella scorretto sfruttamento dei “brevetti”. Lo strumento che teoricamente
doveva proteggere un inventore dall’essere copiato, e che, garantendo una
esclusiva per un periodo limitato, doveva stimolare un diffuso adeguamento
tecnologico si è trasformato nella giustificazione “legale” per imporre prezzi
del tutto slegati dai costi effettivi di produzione e di investimento. Ciò
avviene per tre ragioni…..il campo di azione dei
brevetti si è allargato a dismisura comprendendo anche la “conoscenza dietro i
prodotti”, i brevetti possono, grazie a nuove norme, essere rinnovati più volte
arrivando in alcuni casi a valere per molti decenni…..i brevetti sono più
facili da ottenere perché le commissioni che li devono valutare spesso si
trovano di fronte a complessità di giudizio tali da indurre alla concessione
immediata….L’esempio che più testimonia
questo abnorme ruolo dei brevetti è quello dei medicinali di punta
anti-tumorali e anti-epatiti (cure che per singolo malato costano centinaia di
migliaia di dollari/euro). Emerge quindi l’evidenza che se la creazione di vero
valore è inscindibile dal ruolo dell’innovazione nei processi economici reale,
(Joseph Scumpeter è sicuramente l’economista che, riprendendo riflessioni
profetiche di Marx, di più ha enfatizzato il ruolo dell’innovazione per il
capitalismo), è fondamentale che essa sia…..adeguatamente
governata per far sì che il prodotto ed il modo di produrlo portino alla
creazione di valore e non ad espedienti per l’appropriazione di valore….Dall’insieme
di queste considerazioni si evince che l’innovazione deve avere una direzione
ed una velocità, deve cioè essere “guidata”. Compito che non può non essere che
in capo alla politica, che deve inoltre valorizzare il carattere “collettivo”
dell’innovazione, facendo sì che le tutte le sue ricadute positive premino in
modo equo l’intera società, i produttori ed i consumatori. Questo vale, a
maggior ragione, se si considera il ruolo del settore pubblico nei processi
innovativi e nel suo effettivo ruolo nella creazione di lavoro. Il Capitolo 8
la Mazzucato ci offre una appassionata difesa del ruolo dello Stato in
economia. Riassumendo in modo lucido i termini dell’aspro confronto fra teorie
economiche, marginalisti e neo-liberisti, quelle prevalenti, da una parte e
keynesiani dall’altra, emerge con chiarezza che il contributo del pubblico al
valore è, spesso strumentalmente, di molto sottovalutato. Non solo le azienda
statali e municipalizzate che gestiscono servizi pubblici (trasporti, poste,
fornitori di energia) sono considerate, nel conteggio del PIL, come “privati”,
ma la creazione di valore che, ad esempio, deriva dall’istruzione pubblica, che
“forma” futuri lavoratori, non è valutata, essa rappresenta solo una spesa,
quella degli stipendi degli insegnanti. E’ chiaro che con una considerazione preconcetta
come questa trova buon gioco il pensiero mainstream neo-liberista di
considerare lo Stato solo una zavorra da alleggerire privatizzando ed
esternalizzando quanto più possibile. E diventa il presupposto per le politiche
di austerità, quasi sempre cieche e controproducenti, avviate in tutto
l’Occidente. Ma è lo stesso Stato che in molti casi si auto-consegna ad un
ruolo marginale. Non solo non fa valere il suo effettivo apporto alla creazione
di valore, ma, pressato com’è dall’obbligo di “stare entro i conti”, rinuncia
al ruolo fondamentale, che le stesse logiche di mercato gli consegnerebbero
visto che il privato non è “geneticamente” preposto a ciò, di investire, anche
rischiando, in ricerca ed innovazione. Condannandosi così molto spesso a semplice
erogatore di assistenza e sussidi redistribuitivi. Ma è nel finale Capitolo 9
che la Mazzucato, tracciato il quadro storico e strutturale del “valore”,
avanza alcune sue proposte per valorizzare, incrementandolo, la creazione di
vero valore e per ridimensionare il peso dei settori e delle attività che al
contrario lo sottraggono al suo essere un prodotto “collettivo”. Non è a suo
avviso sufficiente, per quanto necessario e condivisibile, ridefinire il PIL e
le attività che concorrono a formarlo, tassare la ricchezza attuando una
redistribuzione irrinunciabile……..la sfida più
grande è ridefinire e misurare il contributo collettivo alla creazione di
ricchezza……Una sfida che non potrà essere vinta se si resta legati al
concetto di prezzo uguale valore., una relazione che, come si è visto, falsa completamente la vera origine del
valore. Un passaggio essenziale consiste nella stessa ridefinizione di
“mercato”; che non può essere solamente visto come il luogo di incontro fra
domanda ed offerta e la dimensione economica nella quale si definisce il prezzo
delle merci. Riprendendo le magistrali indicazioni di Karl Polanyi…..i mercati sono i risultati di processi complessi di
interazioni tra i differenti attori dell’economia, incluso lo Stato….invece di concentrarci su quali attività sono produttive
possiamo lavorare in modo da assicurare che tutte le attività promuovano i
risultati che vogliamo e quindi, da questo punto di vista, siano creatrici di
valore…….E questo rimanda alla questione di fondo:….quale direzione dovrebbe prendere l’economia per giovare
al maggior numero di persone…..E, aggiunge la Mazzucato, per uscire da
questa folle corsa al suicidio del pianeta per inseguire il mito della
crescita….non solo puntando ad una crescita sul
lungo periodo concentrandoci però meno
sul tasso di crescita e di più sulla direzione della crescita…..Il
concetto di vero valore sarebbe così ridefinito in termini corretti come il
risultato dello spostamento delle attività che rispondono a questi obiettivi
entro il perimetro delle attività produttive, escludendo, penalizzandole, tutte
quelle che non sono coerenti alla direzione tracciato. Il saggio si chiude con
questa frase……se non possiamo sognare un futuro
migliore e cercare di realizzarlo non c’è nessuna ragione per cui dovrebbe
importarci del valore. E questa è forse la lezione più grande di tutte….
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Commenti e recensioni al
saggio di
Mariana Mazzucato “Il valore
di tutto”
Fra i molti circolanti in Rete abbiamo selezionato
alcuni commenti/recensione del saggio della Mazzuccato, per alcuni aspetti,
come anticipato nella presentazione del saggio, anche critici, ma in grado di
fornire a chi fosse interessato ulteriori elementi di giudizio……..
Il capitalismo estrattivo (e
di piattaforma) è la forma attraverso la quale la produzione di valore viene
«realizzata» nelle forme dominanti della ricchezza sociale (denaro e profitto).
È in questo passaggio che la finanza ha svolto e continuerà a svolgere un ruolo
essenziale nel definire gerarchie sociali e priorità nel regime di
accumulazione capitalistico.
Dunque, la finanza non ha solo una funzione «parassitaria» rispetto alla tradizionale produzione di beni e servizi, bensì svolge un ruolo di coordinamento, di indispensabile infrastruttura alla stabilità – politica e, soprattutto, sociale – della produzione di merci. Quel che va però sottolineato è la dimensione abnorme, incontrollata, da spregiudicato rentier che la finanza ha ormai assunto nel capitalismo contemporaneo. Il nodo da sciogliere è se questa superfetazione abbia determinato o meno un mutamento «qualitativo» dei rapporti sociali capitalistici. Sono queste le premesse di un libro ambizioso che costituisce uno spartiacque nella produzione teorica dell’economista di origine italiana Mariana Mazzucato, che si è fatta largo nel rumore di fondo della teoria economica mainstream con il saggio sullo Stato innovatore (Laterza) dedicato al modo di produzione dell’innovazione tecnico-scientifica e sulle sue ricadute sociali. In quel testo, Mazzucato ribalta il punto di vista dominante, sostenendo che i finanziamenti statali per ricerca, sviluppo e formazione non sono improduttivi, perché senza di essi la rivoluzione della rete e tecnologica non ci sarebbe mai stata, con buona pace di chi spaccia per oro colato la favola di giovani intraprendenti che, al chiuso di maleodoranti garage, fanno la scoperta del secolo. In questo libro l’economista si spinge molto più in là, alza cioè l’asticella delle difficoltà, per superarla, facendo leva su rigore analitico, una buona documentazione e una godibile vocazione narrativa che ne fanno un libro di agile lettura. Il volume ha infatti molte chiavi di lettura. Può essere interpretato come una storia della teoria economica moderna (dai fisiocratici ai nostri giorni); una critica del neoliberismo economico; una appassionata difesa della teoria del valore vista come un filo rosso che inanella personaggi distanti tra loro come Adam Smith, David Ricardo, Karl Marx, Joseph Schumpeter, John Maynard Keynes. Ma è altrettanto evidente l’interrogazione costante del mutevole confine tra finanza e produzione, sul cosa sia il capitalismo estrattivo e cosa quello di piattaforma. Un libro, infine, da mettere in tensione, relazione con le tesi sul capitalismo estrattivo emerse negli studi di economisti indiani, filosofi e sociologi latinoamericani e dalla confluenze di percorsi teorici italo-austrialiani come quelli di Sandro Mezzadra e Brett Nielsen, autori del saggio Confini e frontiere (Il Mulino) e di Politics of Operations, opera in corso di pubblicazione da parte di Duke University Press nel quale il capitalismo estrattivo è analizzato a partire dal ruolo della logistica e del polimorfismo del lavoro vivo (la moltitudine come problema e non come soluzione politica). Un lessico e un frame teorico politico quelli di Mezzadra e Nielsen distanti dal linguaggio di Mazzucato, ma tuttavia capaci di cogliere potenzialità di liberazione da parte dei movimenti sociali che l’economista italiana relega invece solo a una dimensione istituzionale dell’agire politico (sono note le sue simpatie liberal che l’hanno però portata anche a dichiarazioni e collaborazioni con il Labour Party di Jeremy Corbyn). Dunque distinzione tra produzione di valore e sua realizzazione. Al primo polo, c’è l’organizzazione produttiva, la successione di determinazioni che assume il capitale e il lavoro. Varia nel tempo e nello spazio. Ha bisogno di innovazione, di coordinamento, di uno Stato nazionale (la nazione è la forma dominante assunta dal capitalismo nella modernità) che definisca regole e produca le necessarie infrastrutture affinché l’economia funzioni. La Mazzucato ne offre un affresco vivido, dai primi atelier sorti dopo l’accumulazione originaria di capitale fino ai campus-fabbriche ipertecnologici della Silicon Valley. Anche la finanza svolge qui la sua necessaria parte, come credito, recupero sociale dei capitali necessari per progetti imprenditoriali rischiosi, a partire dai fondi pensione, ai risparmi del ceto medio, al capitale in «eccesso» di imprese e singoli capitalisti. Il venture capital non è perciò coniglio tirato fuori in California: c’è sempre stato. Importante è la sottolineatura dell’autrice che riguarda i capitalisti di ventura: fanno di tutto meno che rischiare. Intervengono sempre quando i maggiori rischi li ha corsi chi vuol intraprendere una temeraria attività produttiva e chi (lo Stato) ha per anni inondato di denaro università e centri di ricerca pubblici e privati. I venture capital favoriscono a posteriori il decollo di una start up, avendo come contropartita una quota esagerata di futuri profitti e salvaguardandosi comunque da possibili fallimenti. Insomma, i capitalisti di ventura cadono sempre in piedi. C’è un però, nello schema delle tesi elaborate, che l’autrice non sempre riesce a padroneggiare. Il peso enorme assunto dalla finanza. Una spiegazione sta nel fatto che senza questa superfetazione finanziaria il capitalismo esploderebbe nelle sue contraddizioni. Ha un ruolo di stabilizzazione politica, per la gestione delle contraddizioni e disuguaglianze sociali: non per risolverle ma per renderle compatibili con la società del capitale. Echeggiano, tuttavia sempre sullo sfondo, le analisi sulla privatizzazione dei diritti sociali di cittadinanza attraverso la finanza (acquisti sul mercato pensione, assistenza sanitaria, formazione, mentre il credito al consumo assicura che la costante riduzione dei salari non si traduca in stagnazione). Più rilevanza hanno le tendenze all’oligopolio, presentate a ragione non come una «degenerazione» ma un fattore essenziale per imprese che hanno il pianeta come orizzonte di mercato e produttivo – le big five della Rete testimoniano tutto ciò – e di un numero di dipendenti inversamente proporzionale al fatturato. Le diseguaglianze sociali sono cioè espressione di una crescita economica senza crescita di occupazione. Anche l’elusione fiscale rientra in questo carnet de doléance. La finanza organizza infine i flussi di denaro – ormai quasi puro segno, cioè convenzione socialmente necessaria scandita da una successione astratta, automatizzata di bit e byte dentro e fuori la Rete. Qui si addensano non pochi problemi. Non è tuttavia scontato che la «cattura» del valore sia da analizzare alla stessa stregua dell’estrazione di un minerale o dell’appropriazione violenta da parte di spregiudicati imprenditori della ricchezza sociale. Il capitalismo estrattivo (e di piattaforma) è espressione di rapporti sociali incardinati su plusvalore relativo e assoluto (ne scrive così anche Mazzucato). Ignorare questo elemento significa condannare la critica a un posticcio costrutto etico, una romanticheria che salva tutt’al più l’anima. L’autrice non si vuol certo salvare l’anima, ma si ferma sull’uscio degli atelier della produzione. Preferisce cioè constatare gli elementi di disequilibrio, di instabilità del capitalismo, che va salvato, ripete più volte, da se stesso. Identico procedimento per il capitalismo delle piattaforme, il quale è sì intermediazione tra produzione e realizzazione del valore, ma anche fattore pienamente produttivo.
In altri termini, il focus si dovrebbe spostare sul lavoro vivo, sulla sua eterogeneità, nella sua organizzazione su base planetaria e locale. E sulla sua violenta ripartizione gerarchica in base alle competenze, la razza, il sesso, uno statuto mutevole e definito arbitrariamente della cittadinanza. L’assenza di un’analisi dei bacini del lavoro vivo dentro e fuori il capitalismo delle piattaforme conduce l’analisi a una generica richiesta di riequilibrio keynesiano nella redistribuzione della ricchezza, elemento che Mazzucato fa suo in più pagine. Ma il suo è un libro, non un programma politico. E ha molte frecce nel suo arco. La lettura non può che constatare che alcune di esse sono schioccate con efficacia.
Dunque, la finanza non ha solo una funzione «parassitaria» rispetto alla tradizionale produzione di beni e servizi, bensì svolge un ruolo di coordinamento, di indispensabile infrastruttura alla stabilità – politica e, soprattutto, sociale – della produzione di merci. Quel che va però sottolineato è la dimensione abnorme, incontrollata, da spregiudicato rentier che la finanza ha ormai assunto nel capitalismo contemporaneo. Il nodo da sciogliere è se questa superfetazione abbia determinato o meno un mutamento «qualitativo» dei rapporti sociali capitalistici. Sono queste le premesse di un libro ambizioso che costituisce uno spartiacque nella produzione teorica dell’economista di origine italiana Mariana Mazzucato, che si è fatta largo nel rumore di fondo della teoria economica mainstream con il saggio sullo Stato innovatore (Laterza) dedicato al modo di produzione dell’innovazione tecnico-scientifica e sulle sue ricadute sociali. In quel testo, Mazzucato ribalta il punto di vista dominante, sostenendo che i finanziamenti statali per ricerca, sviluppo e formazione non sono improduttivi, perché senza di essi la rivoluzione della rete e tecnologica non ci sarebbe mai stata, con buona pace di chi spaccia per oro colato la favola di giovani intraprendenti che, al chiuso di maleodoranti garage, fanno la scoperta del secolo. In questo libro l’economista si spinge molto più in là, alza cioè l’asticella delle difficoltà, per superarla, facendo leva su rigore analitico, una buona documentazione e una godibile vocazione narrativa che ne fanno un libro di agile lettura. Il volume ha infatti molte chiavi di lettura. Può essere interpretato come una storia della teoria economica moderna (dai fisiocratici ai nostri giorni); una critica del neoliberismo economico; una appassionata difesa della teoria del valore vista come un filo rosso che inanella personaggi distanti tra loro come Adam Smith, David Ricardo, Karl Marx, Joseph Schumpeter, John Maynard Keynes. Ma è altrettanto evidente l’interrogazione costante del mutevole confine tra finanza e produzione, sul cosa sia il capitalismo estrattivo e cosa quello di piattaforma. Un libro, infine, da mettere in tensione, relazione con le tesi sul capitalismo estrattivo emerse negli studi di economisti indiani, filosofi e sociologi latinoamericani e dalla confluenze di percorsi teorici italo-austrialiani come quelli di Sandro Mezzadra e Brett Nielsen, autori del saggio Confini e frontiere (Il Mulino) e di Politics of Operations, opera in corso di pubblicazione da parte di Duke University Press nel quale il capitalismo estrattivo è analizzato a partire dal ruolo della logistica e del polimorfismo del lavoro vivo (la moltitudine come problema e non come soluzione politica). Un lessico e un frame teorico politico quelli di Mezzadra e Nielsen distanti dal linguaggio di Mazzucato, ma tuttavia capaci di cogliere potenzialità di liberazione da parte dei movimenti sociali che l’economista italiana relega invece solo a una dimensione istituzionale dell’agire politico (sono note le sue simpatie liberal che l’hanno però portata anche a dichiarazioni e collaborazioni con il Labour Party di Jeremy Corbyn). Dunque distinzione tra produzione di valore e sua realizzazione. Al primo polo, c’è l’organizzazione produttiva, la successione di determinazioni che assume il capitale e il lavoro. Varia nel tempo e nello spazio. Ha bisogno di innovazione, di coordinamento, di uno Stato nazionale (la nazione è la forma dominante assunta dal capitalismo nella modernità) che definisca regole e produca le necessarie infrastrutture affinché l’economia funzioni. La Mazzucato ne offre un affresco vivido, dai primi atelier sorti dopo l’accumulazione originaria di capitale fino ai campus-fabbriche ipertecnologici della Silicon Valley. Anche la finanza svolge qui la sua necessaria parte, come credito, recupero sociale dei capitali necessari per progetti imprenditoriali rischiosi, a partire dai fondi pensione, ai risparmi del ceto medio, al capitale in «eccesso» di imprese e singoli capitalisti. Il venture capital non è perciò coniglio tirato fuori in California: c’è sempre stato. Importante è la sottolineatura dell’autrice che riguarda i capitalisti di ventura: fanno di tutto meno che rischiare. Intervengono sempre quando i maggiori rischi li ha corsi chi vuol intraprendere una temeraria attività produttiva e chi (lo Stato) ha per anni inondato di denaro università e centri di ricerca pubblici e privati. I venture capital favoriscono a posteriori il decollo di una start up, avendo come contropartita una quota esagerata di futuri profitti e salvaguardandosi comunque da possibili fallimenti. Insomma, i capitalisti di ventura cadono sempre in piedi. C’è un però, nello schema delle tesi elaborate, che l’autrice non sempre riesce a padroneggiare. Il peso enorme assunto dalla finanza. Una spiegazione sta nel fatto che senza questa superfetazione finanziaria il capitalismo esploderebbe nelle sue contraddizioni. Ha un ruolo di stabilizzazione politica, per la gestione delle contraddizioni e disuguaglianze sociali: non per risolverle ma per renderle compatibili con la società del capitale. Echeggiano, tuttavia sempre sullo sfondo, le analisi sulla privatizzazione dei diritti sociali di cittadinanza attraverso la finanza (acquisti sul mercato pensione, assistenza sanitaria, formazione, mentre il credito al consumo assicura che la costante riduzione dei salari non si traduca in stagnazione). Più rilevanza hanno le tendenze all’oligopolio, presentate a ragione non come una «degenerazione» ma un fattore essenziale per imprese che hanno il pianeta come orizzonte di mercato e produttivo – le big five della Rete testimoniano tutto ciò – e di un numero di dipendenti inversamente proporzionale al fatturato. Le diseguaglianze sociali sono cioè espressione di una crescita economica senza crescita di occupazione. Anche l’elusione fiscale rientra in questo carnet de doléance. La finanza organizza infine i flussi di denaro – ormai quasi puro segno, cioè convenzione socialmente necessaria scandita da una successione astratta, automatizzata di bit e byte dentro e fuori la Rete. Qui si addensano non pochi problemi. Non è tuttavia scontato che la «cattura» del valore sia da analizzare alla stessa stregua dell’estrazione di un minerale o dell’appropriazione violenta da parte di spregiudicati imprenditori della ricchezza sociale. Il capitalismo estrattivo (e di piattaforma) è espressione di rapporti sociali incardinati su plusvalore relativo e assoluto (ne scrive così anche Mazzucato). Ignorare questo elemento significa condannare la critica a un posticcio costrutto etico, una romanticheria che salva tutt’al più l’anima. L’autrice non si vuol certo salvare l’anima, ma si ferma sull’uscio degli atelier della produzione. Preferisce cioè constatare gli elementi di disequilibrio, di instabilità del capitalismo, che va salvato, ripete più volte, da se stesso. Identico procedimento per il capitalismo delle piattaforme, il quale è sì intermediazione tra produzione e realizzazione del valore, ma anche fattore pienamente produttivo.
In altri termini, il focus si dovrebbe spostare sul lavoro vivo, sulla sua eterogeneità, nella sua organizzazione su base planetaria e locale. E sulla sua violenta ripartizione gerarchica in base alle competenze, la razza, il sesso, uno statuto mutevole e definito arbitrariamente della cittadinanza. L’assenza di un’analisi dei bacini del lavoro vivo dentro e fuori il capitalismo delle piattaforme conduce l’analisi a una generica richiesta di riequilibrio keynesiano nella redistribuzione della ricchezza, elemento che Mazzucato fa suo in più pagine. Ma il suo è un libro, non un programma politico. E ha molte frecce nel suo arco. La lettura non può che constatare che alcune di esse sono schioccate con efficacia.
Nicolò Bellanca-Il valore economico come
prodotto collettivo–Blog MICROMEGA
La distinzione tra la produzione e l’estrazione di valore è
apparentemente ovvia. Così Luciano Gallino la presenta all’inizio del suo Finanzcapitalismo:
«L’estrazione di valore è un processo affatto diverso dalla produzione di
valore. Si produce valore quando si costruisce una casa o una scuola, si
elabora una nuova medicina, si crea un posto di lavoro retribuito, si lancia un
sistema operativo più efficiente del suo predecessore o si piantano alberi. Per
contro si estrae valore quando si provoca un aumento del prezzo delle case
manipolando i tassi di interesse o le condizioni del mutuo; si impone un prezzo
artificiosamente alto alla nuova medicina; si aumentano i ritmi di lavoro a
parità di salario; si impedisce a sistemi operativi concorrenti di affermarsi
vincolando la vendita di un pc al concomitante acquisto di quel sistema, o si
distrugge un bosco per farne un parcheggio». Non appena però
si esaminano i singoli passaggi di un brano come quello appena riportato, i
dubbi sorgono numerosi. Costruire una casa è sempre positivo, anche quando
nessuno è in grado di comprarla, o anche quando viene edificata sulla collina
panoramica? Fino a che soglia una variazione dei tassi d’interesse deriva da
dinamiche mercantili, e da che punto in poi è invece una manipolazione
speculativa? Se per creare un posto retribuito occorre che il lavoratore
intensifichi i ritmi di lavoro, cosa è preferibile per il disoccupato? E così
via. Malgrado i dubbi, una qualche
distinzione tra attività che creano valore e attività che lo sottraggono e lo
redistribuiscono non è evitabile. L’importante è che una tale distinzione sia
resa esplicita e sorretta dalle migliori argomentazioni. In caso contrario, è
probabile che i gruppi più forti e organizzati facciano surrettiziamente
adottare dall’intera collettività una versione della distinzione a loro
favorevole. Il libro più recente di Mariana Mazzucato ruota intorno
all’esigenza di chiarire chi crea valore economico nel capitalismo
contemporaneo, e chi invece si limita a redistribuire, se non talvolta ad
espropriare, il valore ottenuto da altri. La ricerca viene introdotta
dall’autrice richiamando un’altra distinzione: quella tra l’uso informativo o performativo di un
messaggio. Informativo è l’avviso apposto sui pacchetti di sigarette: “Nuoce gravemente
alla salute”. Se non seguo l’avviso il rischio è mio, ma posso far divergere
l’azione dal messaggio. La performatività si realizza, piuttosto, quando la
parola e il comportamento coincidono, ossia quando il messaggio si traduce
immediatamente in una pratica sociale. Se il cartello segnala “Vietato fumare”,
esprime un divieto che, se non lo rispetto, mi rende perseguibile. Ancor
meglio, se il Sindaco proclama “Siete sposati”, rende con ciò stesso esecutivo
il mio matrimonio. Mazzucato sostiene che i messaggi elaborati e trasmessi
dalla scienza economica hanno in prevalenza un carattere performativo, puntando
a modificare direttamente la realtà sociale. Tra questi messaggi performativi,
spicca il metodo adottato per misurare il flusso di nuova ricchezza delle
nazioni: il PIL, ossia il valore totale dei beni e servizi prodotti nel sistema
economico. Poiché la misurazione del PIL prende le mosse da un modo preciso con
il quale valutiamo le attività economiche, essa contribuisce all’incremento di
certe attività a scapito di altro. Più esattamente, «la moderna nozione
contabile di PIL è influenzata dalla teoria del valore sottostante che è usata
per calcolarlo». Se dunque vogliamo rimettere in discussione i criteri di
costruzione del PIL, che peraltro sono già cambiati più volte nel tempo,
dobbiamo riesaminare la teoria del valore economico. Torniamo quindi alla
domanda iniziale: chi crea valore economico nel capitalismo contemporaneo?
Mazzucato dedica una parte sostanziosa del libro a ripercorrere alcune tra le
impostazioni teoriche storicamente più importanti. Una prima tesi risale ai
fondatori dell’economia politica, gli economisti classici: per essi la
creazione di valore economico è legata inestricabilmente alla produzione di
nuovi beni e servizi, anziché alla circolazione di merci già prodotte. Il
valore si forma lungo un processo che, combinando varie risorse, ottiene nuovi
beni e servizi, mentre il valore si redistribuisce quando risorse e merci già
esistenti vengono trasferite da un soggetto all’altro, e quando la loro
commercializzazione comporta guadagni sproporzionati[6]. Una
seconda posizione, denominata neoclassica, si afferma dalla fine del XIX
secolo, mantenendosi dominante fino ad oggi: essa sostiene che è il prezzo di
mercato a determinare il valore. Basta che qualcuno sia disposto a pagare per
un bene o per un servizio, affinché l’attività che fornisce quella merce
aggiunga valore; e basta che chi svolge quell’attività riscuota un reddito,
affinché il guadagno di quel reddito sia giustificato. Dunque secondo i
neoclassici ogni attività economica crea valore, purché il mercato la
retribuisca; e ogni retribuzione è legittima, purché vada ad un’attività
creatrice di valore. Questo approccio considera non generative di valore
unicamente le attività prive di una domanda in grado di pagare, anche qualora
esse soddisfino bisogni personali e sociali di decisivo rilievo; le attività
del settore pubblico, che sono alimentate dalle tasse; e, infine, le attività
che percepiscono un reddito «nella forma di trasferimenti, come i sussidi alle
imprese o i contributi assistenziali alle famiglie». La terza e ultima tesi
sulla creazione del valore che qui richiamo deriva dalle teorie keynesiane: per
essa, a differenza dei neoclassici, le spese statali possono contribuire
all’espansione dell’economia. Nella prima versione del Sistema di contabilità
nazionale delle Nazioni Unite, risalente al 1953 e plasmata da questa tesi, il
settore pubblico fu trattato non soltanto in termini di spesa, bensì pure come
un fattore di crescita del reddito, il cui contributo al PIL (misurato solo con
i salari da esso versati, senza contare gli acquisti statali di beni e servizi
da privati) varia per gli Stati Uniti, dal dopoguerra ad oggi, fra l’11 e il
15%. D’altra parte la finanza rientrò nel PIL soltanto come input intermedio,
che contribuisce al funzionamento di altri settori economici. Tuttavia, dagli
anni Settanta dello scorso secolo, gli attivi del settore finanziario
(prestiti, obbligazioni, azioni e derivati bancari) iniziarono a crescere fino
a diventare un multiplo dell’economia reale. Ecco che, sulla spinta della
natura performativa dell’economics,
ciò rovesciò i criteri di calcolo del PIL: mentre il settore pubblico venne
riclassificato come improduttivo, nota Mazzucato, la finanza diventò produttiva. La
giustificazione avanzata fu che la “intermediazione finanziaria”, svolta dalle
banche commerciali, e le “assunzioni di rischi”, affrontate dalle banche
d’investimento, sono entrambe attività produttive in quanto muovono il capitale
verso un’allocazione efficiente. Quando però, come spesso accade, l’allocazione
dei capitali rimane ben lontana dall’efficienza, o addirittura scatena una
crisi finanziaria provocando gravi perdite, il settore finanziario non perde la
produttività che gli è stata conferita e non viene tolto dal calcolo del PIL. Nell’illustrare dettagliatamente le
convenzioni che presiedono al calcolo del PIL, Mazzucato documenta che esse
vengono scelte non soltanto per giustificare un determinato assetto del potere
economico, ma, soprattutto, per crearlo. Proponendosi di scardinare quelle
convenzioni, ella persegue un programma politico,
nel senso più alto del termine. La sua tesi è che la creazione di valore
richiede sempre uno sforzo collettivo. Non sono i proprietari dell’impresa (gli
shareholders,
nel caso di una società per azioni) a generare da soli il valore economico;
piuttosto, sono gli stakeholders
(tutti i soggetti a vario titolo coinvolti) a innescare i percorsi innovativi,
a sostenerli ripartendone i rischi, a rafforzarli con gli investimenti di lungo
periodo e infine a beneficiarne con la distribuzione dei proventi. Accanto agli
imprenditori e ai lavoratori, è lo stato l’altro cruciale stakeholder che partecipa
alla produzione di valore istituzionalizzando i mercati, migliorando la
produttività e la futura capacità di crescita dell’economia (con investimenti
in educazione, innovazione, infrastrutture e salute), assumendosi rischi (con
il finanziamento della ricerca di base e delle nuove tecnologie). Senza lo
stato, il capitalismo semplicemente non potrebbe riprodursi. Un primo limite
del libro riguarda, a me pare, il modo semplificato con cui Mazzucato usa il
concetto di performatività nel discutere le posizioni sull’origine del valore
economico. È indubbio che nell’economics
i messaggi intellettuali diventano azioni politiche, ma l’impatto di un
messaggio dipende anche dalla sua robustezza, e questa a sua volta deriva da una
filosofia sociale e da una modellizzazione analitica. Quando ad esempio Adam
Smith o Karl Marx s’interrogano sulla “causa della ricchezza delle nazioni”,
essi rispondono appellandosi ad «un’idea precisa sulla posizione che l’uomo
occupa nell’ambito della natura: solo l’uomo è vivo, la natura è morta; solo il
lavoro umano crea dei valori, la natura è passiva». Si tratta di una filosofia
nella quale il lavoro umano costituisce l’unico costo sociale reale dei beni, e che,
traducendosi nel modello del valore-lavoro, giustifica, nel XIX e in parte del
XX secolo, le rivendicazioni politiche della classe operaia. Questo approccio
perde forza per il convergere di tre motivi: le sconfitte politiche del
movimento dei lavoratori, il ridursi della centralità del lavoro umano nel
sistema economico e le difficoltà scientifiche del valore-lavoro. Se non
teniamo adeguatamente conto dell’intreccio di motivi per i quali un messaggio
intellettuale può avere impatto sociale, non capiamo perché il brano di Gallino
riportato in apertura suona, allo stesso tempo, così seducente e così ambiguo.
Esso seduce per il retroterra filosofico, analitico e politico che ce lo fa
sembrare “ovvio”; quando però iniziamo a districare un filo dall’altro,
cominciamo a coglierne l’ambiguità. Nel trattare le varie posizioni, e nel
presentare la propria, Mazzucato evita di confrontarsi con questo complesso
intreccio di motivi, e tende a enfatizzare le sole ripercussioni politiche,
riferendosi ad un’accezione ristretta della performatività. L’altro limite
consiste, a mio avviso, nel ridurre la natura collettiva della creazione del
valore alla partnership tra privato e pubblico. Per Mazzucato, il contributo
collettivo passa esclusivamente dal settore pubblico dell’economia. Tuttavia,
secondo una diversa linea di pensiero, la produttività è, dentro l’impresa,
espressione di una squadra (composta da lavori con vario livello di qualifica,
beni strumentali e capitali di rischio), e gli apporti individuali non sono
quasi mai calcolabili; a livello sociale, la produttività non dipende soltanto,
come afferma Mazzucato, dai beni collettivi forniti dalle istituzioni
politiche, poiché ad essa contribuiscono pure beni collettivi che si formano
nell’ambito di altre sfere istituzionali (ad esempio, il capitale sociale che
si sedimenta grazie ad una determinata tradizione civica, oppure il capitale
culturale ereditato dalla storia locale) e che vengono resi disponibili
dall’ecosistema (ad esempio, la terra fertile oppure l’acqua pulita). Se dunque
adottiamo la concezione secondo cui il valore economico è un processo
collettivo, la sua creazione va attribuita ad una molteplicità di fonti:
private, pubbliche, sociali e ambientali. O, comunque, non va ridotta alla
coppia imprese-stato. Infine, Mazzucato ha ragione nell’osservare che la
politica progressista non può limitarsi a propugnare la tassazione di redditi e
ricchezze, e ad “aggiustare” le imperfezioni dei mercati esistenti. La sua
proposta è che la sinistra ripensi «come dirigere a lungo termine l’economia».
Si tratta di un’indicazione che recupera le ragioni profonde dell’intervento
pubblico, il quale non è soltanto anticiclico, come in Keynes, bensì plasma
intensità e qualità dello sviluppo. Ma non basta, a mio parere: collocandosi
interamente dentro il binomio privato-pubblico, questo suggerimento trascura la
problematica del cambiamento del rapporto tra economia e società, e quindi del
distacco dall’orizzonte capitalista. Un tempo “uscire” dal capitalismo era la
parola d’ordine di “frange estremiste” e di inguaribili utopisti. Oggi è una
prospettiva inevitabile, per provare a salvare le collettività umane e il
pianeta
Massimo Giannini-Così si batte la religione del profitto-La
Repubblica” 15/11/18
Nel suo nuovo
saggio, l’economista Mariana Mazzucato propone una strategia per fronteggiare
disuguaglianze e patologie di un capitalismo rapace. Quando penso al "club
dell’1 per cento" che si mangia la metà della ricchezza del pianeta, al
manager che incassa un superbonus 450 volte maggiore del salario medio dei suoi
dipendenti, ai 5 milioni di italiani in povertà, mi torna in mente una delle
leggendarie vignette di Altan. I due soliti signorotti che parlano: «Ma in
questo mondo conta solo il profitto?» «Ma no, c’è anche il lucro!». Ridiamoci
sopra, anche se non c’è niente da ridere. L’esplosione delle disuguaglianze
sociali spiega la crisi del nostro tempo. Il mesto tramonto delle democrazie
liberali e l’alba dorata delle destre populiste. Nel discorso pubblico moderno
questo non pare un incidente della Storia, che ha imboccato un tornante
contromano. Sembra piuttosto un destino che si compie, ineluttabile e
immodificabile. E allora viva Mariana Mazzucato, che nel solco di Piketty e
Stiglitz ha il coraggio di battersi contro i falsi miti di cui si nutre la
Società Diseguale nella quale siamo precipitati e alla quale sembriamo
condannati. Il suo ultimo saggio, Il valore di tutto (Laterza), spiega il
paradosso della vignetta di Altan. Come siamo arrivati a credere che, al di là
del profitto, nel capitalismo contemporaneo ci sia spazio solo per il lucro?
Quando abbiamo scambiato il reddito con la rendita, chi guadagna con chi
produce? Perché abbiamo confuso la "creazione di valore" (cioè l’uso
delle risorse per produrre nuove merci e servizi) con la "estrazione di
valore" (cioè il trasferimento di risorse o prodotti esistenti, e il
guadagno che deriva dalla loro commercializzazione)? Ci aveva già dilettato con
Lo Stato innovatore, un libro quasi eversivo di quattro anni fa. Adesso,
partendo da Ricardo e Marx, Mazzucato arriva al cuore del problema. Nel
diciassettesimo secolo l’economia del mondo cresce grazie all’incentivazione
delle attività produttive e alla penalizzazione di quelle improduttive. Nella
seconda metà del diciannovesimo secolo avviene la prima mutazione: il "valore"
passa da una dimensione collettiva a una declinazione individuale. Oggi la
metamorfosi si compie, l’economia "di carta" e la finanza "a
breve" vincono sull’industria, si afferma il primato delle gestioni
patrimoniali, si impone la "massimizzazione del valore per gli
azionisti". Sulla scia della Grande Recessione del 2008 nasce un
capitalismo rapace e parassitario, che impone ai governi uno storytelling,
deviato e deviante: «A loro alte remunerazioni, a noi gli avanzi».
"Loro" sono le mosche del Capitale. I «creatori delle favole che
governano il mondo», come diceva Platone. "Loro" sono i banchieri di
Goldman Sachs che, nonostante i disastri del Big Crash di dieci anni fa e i 125
miliardi spesi dal governo Usa per il suo salvataggio, tra il 2009 e il 2016 accumula
63 miliardi di utili. "Loro" sono i giganti di Big Pharma, che per
tre mesi piazzano sul mercato il farmaco Gilead contro l’epatite C al modico
prezzo di 94.500 dollari. "Loro" sono gli Over The Top tipo Apple,
che per non pagare le tasse in America sposta all’estero il suo giro d’affari
da 187 miliardi di dollari, o i colossi della Gig Economy tipo Uber o Airbnb,
che lucrano profitti e dividendi sulle spalle del sistema pubblico.
Dimenticando che senza i colossali investimenti pubblici nell’hi-tech degli
ultimi trent’anni non sarebbero mai nati Internet, il Gps, il Touchscreen,
Siri, cioè tutte le piattaforme dalle quali si estrae valore per azionisti e
manager. E alimentando un altro mito, che Mazzucato aveva sfatato col suo
saggio precedente: quello del "privato ghepardo" che batte in
velocità e in efficienza lo "Stato tartaruga". Una bugia, alla quale
però crediamo ciecamente come al racconto della lotta tra il bene e il male.
Senza neanche farci attraversare da un dubbio: e se fosse tutto falso? Niente
da fare. Noi non abbiamo tempo per le domande. Eppure "noi" siamo il
popolo bue, che sta ai margini di questa élite capace di orientare politiche
industriali e fiscali e di drenare sgravi crescenti sui guadagni in conto
capitale. "Noi" siamo il lavoro svilito, precario e sottopagato. Oggi
- ci ricorda Mazzucato - il patrimonio dei 62 uomini più ricchi del mondo è
pari a quello della metà più povera, cioè 3,5 miliardi di individui. Tra il
1975 e il 2017, solo negli Stati Uniti, il Pil reale è triplicato da 5.490 a
17.290 miliardi di dollari, la produttività è cresciuta del 60%, ma i salari
reali sono rimasti invariati. Tutto il resto è finito dov’è naturale che
finisca, in questo sistema traviato: nelle tasche di raider e
"rentier". Gli "estrattori" travestititi da
"creatori". Se questa è la malattia, Mazzucato azzarda una cura. E
qui arrivano i dolori. Non perché le terapie non siano convincenti. Al
contrario: sono talmente lucide che per ciò stesso diventano Utopia. Capire
cos’è il valore, chi lo crea e chi lo sottrae, è la premessa per ricostruire un
capitalismo sostenibile e inclusivo. Bisogna «ridare una missione
all’economia», riformando le istituzioni finanziarie, cambiando le norme sui
brevetti, ridando un ruolo forte allo Stato regolatore e innovatore.
L’economista italiana trapiantata a Londra, che sta incappando nelle maglie
strette della Brexit, non si ritrae dal confronto sull’attualità che vede
l’Italia Sovranista al centro della sfida con l’Europa Tecnocratica. E lo
risolve da convinta sviluppista keynesiana: "no all’austerità", che
in questi anni ha soffocato la ripresa. Il basso deficit «è un obiettivo
sbagliato». Per la crescita serve «una direzione di marcia», non una «lista
della spesa». Servono investimenti nei settori strategici, la ricerca,
l’istruzione, l’economia verde. Un programma "di sinistra", verrebbe
da dire se non stessimo vivendo la sua penosa eclissi. Che culmina nell’affondo
finale: è il momento di una politica capace di sostenere un sistema di tasse
più progressivo, «che colpisca la ricchezza». Scrive proprio così, Mazzucato:
«che colpisca la ricchezza». Una bestemmia in chiesa, per una sinistra che i
ricchi li ha vezzeggiati, dimenticandosi dei poveri e degli ultimi.
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