domenica 3 febbraio 2019

Il "Saggio del mese" - Febbraio 2019


Il “saggio” del mese

Febbraio 2019

E’ vero, dobbiamo riconoscerlo, come CircolarMente non abbiamo finora dedicato grande attenzione ai temi di “economia pura”. Ci ha frenato, con buona probabilità, la diffidenza e la ritrosia, per altro molto diffuse, verso una disciplina “specialistica”, ostica, all’apparenza freddamente “scientifica”, con basi matematiche e statistiche. Ed inoltre divisiva e a sua volta divisa fra scuole di pensiero che si fronteggiano ricorrendo a concetti e parametri da “addetti ai lavori”. Eppure non serve certo richiamare il marxiano concetto del rapporto fra struttura, per l’appunto quella economica, e sovrastruttura, tutte le restanti attività umane, per sapere che essa riveste un ruolo centrale, decisivo, per ogni singolo individuo e la società intera. Va subito detto che non poche voci critiche mettono in discussione la presunta “scientificità” dell’economia, e la possibilità, che ne conseguirebbe, di gestire i processi economici sulla base quasi esclusiva di equazioni e algoritmi. Queste voci sostengono che questa sorta di aureola è stata strumentalmente creata ad arte dalle idee economiche “mainstream” (quelle dominanti) che nel corso del Novecento, ed in particolare nella seconda parte del secolo scorso, hanno pervaso, salvo rarissime eccezioni, tutte le più importanti istituzioni economiche mondiali. Una di queste voci discordanti è quella di Mariana Mazzucato [Mariana Mazzucato, economista statunitense nata in Italia, insegna Economia dell’Innovazione presso l’University College London, dove ha fondato e dirige l’Institute for Innovation and Public Purpose. E’ consulente di vari governi in tutto il mondo. E’ stata indicata nel 2013 tra i tre più importanti pensatori sul tema dell’innovazione. Autrice di diversi saggi, alcuni dei quali sono stati pubblicati in Italia sempre nei titoli della Laterza: “Lo stato innovatore” (2014) e “Ripensare il Capitalismo (2017)]. Abbiamo scelto come “Saggio del mese” il suo ultimo libro “Il valore di tutto” proprio perché è una coinvolgente occasione per recuperare, almeno in parte, le nostre scarse conoscenze in fatto di economia, per meglio comprendere i termini fondamentali del dibattito economico, ad iniziare dal “valore”, per capire che anche i processi economici, ben lungi dall’essere uno sviluppo inarrestabile di leggi “scientifiche”, possono procedere lungo percorsi diversi a seconda di scelte che la società nel suo complesso deve, consapevolmente, assumere, e per formarci utili opinioni in questo senso. Ci sembra infine rilevante evidenziare che le forti e lucide critiche della Mazzucato non vengono da una “estremista”, anzi: come si avrà modo di cogliere in alcune delle recensioni al suo saggio emerge, dall’insieme del suo lavoro, una sua collocazione “liberal” tutt’altro che rivoluzionaria. Ci pare quindi, a suo ulteriore merito, che anche in questo saggio la sua analisi, condivisibile o no, non sia comunque stata mossa da “presunti” pregiudizi ideologici


Per entrare nello spirito del saggio e per capirne le finalità conviene affidarci alle parole con le quali la stessa Mazzucato le anticipa…… Banchieri, imprenditori, politici: tutti parlano della necessità di ‘creare valore’ per creare ricchezza. Ma cos’è realmente il ‘valore’? Chi crea ricchezza? Come decidiamo il valore delle cose che produciamo e quanto spetta a chi le realizza? …….dobbiamo porci una serie di domande radicali: da dove viene la ricchezza? Chi crea il valore? Chi lo estrae? Chi lo sottrae?
Raccogliamo qui di seguito, in forma ovviamente molto sintetica, e seguendo in crescendo il piano dell’opera, le osservazioni che la Mazzucato analiticamente sviluppa
 ……Il valore può essere definito in molti modi ma sostanzialmente consiste nella produzione di nuovi beni e servizi…..Il valore è un termine, un concetto, una grandezza economica che individua quindi un processo, un flusso costante, non è la fotografia statica di una certa ricchezza, se per ricchezza si deve intendere uno stock di valore che si è creato fino ad un dato istante. E come tutti i processi può, deve, essere governato avendo a monte definito, in modo il più possibile concorde, quali attività economiche, e con quali modalità, concorrono a formarlo, e quindi cosa e chi è “produttivo” piuttosto che “improduttivo”.  Il richiamo a “concordare” cosa si debba intendere per valore non è casuale, la storia delle teorie economiche si è infatti da sempre mossa in direzione opposta; nelle diverse fasi storiche per valore si sono intese attività umane decisamente diverse.
………..Nella iniziale presentazione del saggio si è anticipato la sua capacità di offrire a tutti noi la possibilità di recuperare un minimo di conoscenza su alcuni elementi di base del dibattito economico. E ‘ quanto è possibile fare scorrendo i primi due capitoli, davvero chiari e precisi, che illustrano l’evoluzione di cosa si è progressivamente inteso per valore…………….
I prodomi della moderna economia vengono convenzionalmente fatti coincidere con l’affermarsi del “mercantilismo” del sedicesimo secolo, il valore, concetto al tempo ancora poco usato e spesso aleatorio, veniva semplicemente fatto coincidere con …..l’eccesso dei ricavi sulle spese…….. Un primo salto qualitativo avviene con la scuola fisiocratica francese del 1700 (Francois Quesnay) che però riferisce……alla sola produzione agricola, alla “terra”, la creazione di valore….. Tutte le restanti attività godono di questa unica fonte di valore, la sola ad essere considerata “produttiva”. L’avvento della Rivoluzione Industriale capovolge i termini della questione: Adam Smith prima, e David Ricardo poi, i padri fondatori dell’economia classica, spostano l’attenzione sul lavoro…..il valore di mercato di un prodotto è determinato dalla quantità di manodopera o lavoro impiegata nella sua produzione….Una delle conseguenze di questa centralità consisteva nel ritenere tutti i servizi, finanza compresa, settori improduttivi che non concorrevano alla creazione di valore. Ricardo in particolare elaborò su questa base la sua teoria della rendita, definita…..trasferimento di valore a chi possiede un monopolio su una risorsa scarsa…..Collegandosi alle idee di Smith e Ricardo Karl Marx nella seconda metà dell’Ottocento elabora una, non a caso, “rivoluzionaria” concezione del valore: il valore di ogni singola merce, e quello dell’intera produzione di merci……sono determinati dalla forza-lavoro……, ossia dalla quantità di  ore/lavoro impiegata e “comprata” sul mercato, nel quale il lavoro stesso è stato ridotto a merce; quel valore così prodotto copre in parte i salari, forza lavoro che si ricrea, e profitti, ossia la quota, ampiamente maggioritaria, che resta ai capitalisti in quanto detentori dei mezzi di produzione. Fra le tante intuizioni profetiche di Marx va annoverata anche quella della crescente finanziarizzazione del capitale; la finanza, a differenza di Smith e Ricardo, rientra quindi, già nella concezione marxiana, nella sfera delle attività che contribuiscono alla produzione. Le idee, filosofiche, politiche, ed economiche, di Marx diventano decisiva spinta alle crescenti lotte sindacali e politiche ed impongono, di conseguenza, alle scuole di pensiero borghesi un urgente cambio di paradigma nella concezione del valore. Ciò avviene a cavallo fra Ottocento e Novecento con un innegabile progressivo successo, perlomeno nel mondo occidentale, restando il blocco “sovietico” legato all’idea di forza lavoro marxiana, fin dai primi decenni del secolo scorso. E’ la svolta imposta dalla “scuola neoclassica”, dal “marginalismo”. Economisti quali Leon Walras, William Jevons, Alfred Marshall, non solo fissano, rendono canonico, il carattere scientifico, matematico, dell’economia, ma elaborano una nuova concezione del  valore partendo dal concetto di “utilitarismo” ……..il valore delle cose è misurato dalla loro utilità per il consumatore, non è quindi oggettivo, perché il mercato è mutevole, l’unico parametro che può incidere è la disponibilità  del prodotto offerto, più essa decresce più il prezzo/valore aumenta e viceversa………….La “rivoluzione marginalista”, sancisce quindi che, in una situazione di mercato perfetto e di libero incrocio fra domanda e offerta, il valore altro non è che il “prezzo”, ossia la preferenza che il mercato, i consumatori, accordano ad un prodotto, ad ogni tipo di prodotto, lavoro e finanza compresi,  fino al limite della “utilità marginale”, ossia della convenienza o meno ad accrescere, anche di una sola unità, la disponibilità del prodotto. Questa teoria del valore ……ancora oggi dominante…… ha comportato la cancellazione di ogni classificazione di ciò che è produttivo e di ciò che non lo è, stante l’assioma che…..tutto ciò che ha un prezzo ha un valore ed è produttivo…. Scompare quindi in questa visione lo stesso concetto di rendita, tutto ciò che è sul mercato è ed ha valore, e non è pertanto rendita. Poco hanno inciso nel contrastare la rivoluzione marginalista le idee di economisti, critici verso molte delle sue logiche, fra i quali emergono gli italiani Wilfredo Pareto e Piero Sraffa. Si è così giunti, ai giorni nostri, ad una situazione cristallizzata che vede ..la maggior parte degli studenti di economia….non conoscere altro approccio di teoria economica globale se non quello marginalista, ed in particolare, negli ultimi decenni del Novecento, nella sua neoliberista versione, ancor più rigida, aggressiva, e pretenziosamente “scientifica”.
Ma se questa è ormai la concezione predominante, mainstream, del valore, come si misura quello complessivo di una nazione, di un’area? Il Capitolo 3 ci aiuta a ripercorrere la storia dell’unità di misura altrettanto predominante: il PIL.
…..E’ importante ricordare che tutti i tipi di metodi contabili sono convenzioni che riflettono le idee, le teorie e le ideologie dell’epoca in cui sono concepiti…….la moderna concezione del PIL è influenzata dalla teoria del valore sottostante……L’influenza della concezione marginalista su cosa si debba intendere per PIL (Prodotto Interno Lordo), ossia il valore di tutto ciò che è definibile “prodotto”, è innegabile. Di fatto se, secondo il marginalismo, tutto ciò che ha un prezzo concorre alla creazione di valore in linea teorica resterebbero escluse da questo calcolo….le sole attività del Governo, pagate dalla tasse, e i percettori di “sussidi”….. All’atto pratico non mancano però problemi e contraddizioni, generati proprio dalla logica marginalista. Considerato che il PIL può, concretamente, essere misurato o guardando al valore della produzione, o al reddito generato, o sommando la spesa (domanda) per i prodotti finali, ritenere che tutto ciò che ha un prezzo generi valore da solo non aiuta a sciogliere evidenti nodi. Si pensi che, al termine di un percorso storico iniziato sin dagli albori della rivoluzione industriale, e all’interno del quale in epoche recenti hanno avuto un ruolo fondamentale, i lavori di Simon Kuznets e di John Maynard Keynes, le attività economiche che, con margini di discrezione nelle singole situazioni nazionali, possono comporre il PIL sono fissate da un manuale, il S.A.N. che, nella sua versione attuale, arriva a 662 pagine! Da questo elenco infinito di voci citiamo qui, per ovvie ragioni di spazio, solo alcuni casi emblematici in grado di farci capire come il PIL non sia affatto un inattaccabile monolite scientifico;
· La questione tecnicamente più controversa è calcolare l’incidenza della spesa statale, un esempio, all’apparenza banale, fra i tanti: quanto della spesa per la rete stradale incide sul trasporto “personale” o su quello “produttivo”? Come classifico i veicoli che passano su una strada per la quale si sono sostenute spese magari rilevanti?

· Più in generale come si deve gestire l’incidenza delle spese “intermedie” che intervengono nel processo di creazione di un “prezzo/valore” finale, specie se sono riferibili ad attività pubbliche?
· Il lavoro domestico e di cura, che non ha un prezzo sul mercato se non è affidato ad imprese, genera valore o no?
· Le abitazioni private, salvo quelle in regime di affitto, hanno un valore anche per il PIL?
· La prostituzione contribuisce? Nei paesi dove è legale la risposta è sì, negli altri è no. Ma l’attività, anche dal punto di vista strettamente economico, non è la stessa?
· E l’inquinamento? Se per affrontarlo si attivano interventi genera valore, la cui incidenza però varia a seconda se l’intervento è pubblico o privato. Se non si attuano interventi rappresenta unicamente un costo. Come valutarlo e conteggiarlo?
· Ed infine come valutare l’incidenza del famigerato “nero”, ossia il valore riferibile ad attività economiche, che pure hanno un “prezzo”, però non rilevabile? Per alcuni paesi, Italia compresa, questa è una voce che vale, purtroppo, tantissimo, ed è fondamentale capire la validità delle stime con cui viene ipotizzato per “arrotondare” il PIL
Ma la questione “centrale” per la Mazzucato è il peso del settore finanziario. Come già visto in precedenza il successo delle teorie marginaliste ha fatto sì che…..dall’essere vista come “trasferimento” di valore già esistente e come “rendita” nel senso di “reddito non guadagnato” la finanza è diventata produttrice di nuovo valore……e quindi interamente considerata nel conteggio del PIL.  Si chiude con il Capitolo 3 la parte “storica” del saggio, dedicata alla ricostruzione dei modi con i quali nelle diverse epoche economiche il valore è stato definito e dei parametri con i quali lo si è misura. Sicuramente la parte più coinvolgente per noi lettori “profani” di economia.  Nei successivi Capitoli 4 – 5 - 6 la Mazzucato sviluppa, con considerazioni inevitabilmente più tecniche” e quindi di lettura e comprensione più complesse, la sua critica al peso ed al ruolo assunto dalla finanza nella realtà odierna. Partendo dalle sue perplessità sulla teoria  marginalista del valore la Mazzucato ritiene infatti  che non solo non sia corretto farla rientrare nel conteggio del PIL, ossia nel processo di creazione di valore ritenendola un semplice trasferimento di quello da altri creato, ma che le sue finalità e le sue modalità di perseguimento di profitti (….denaro  che crea denaro….) arrechino un grave pregiudizio all’efficienza, alla sostenibilità ed all’etica dell’intera economia, alla stessa creazione autentica di valore……..la vera sfida non è definire la finanza come creazione o estrazione di valore, ma di trasformarla radicalmente, in modo che essa sia effettivamente creazione di valore……..In particolare nel Capitolo 4 sono esaminati i percorsi e le  modalità con le i quali la finanza ha potuto assurgere al  suo attuale ruolo centrale nell’economia. Hanno contribuito in questo senso non solo le “comprensibili”, per certi versi, aspirazioni al massimo profitto degli operatori finanziari, banche in primis, ma la accondiscendente complicità della politica che, troppo spesso indotta da una sua acritica adesione alle teorie economiche mainstream, ha modificato le regole del gioco in senso troppo permissivo. L’esempio più citato, e che ancora resta al centro del dibattito, è stata la concessione alle banche “commerciali” (le “nostre” banche, tradizionalmente preposte alla raccolta dei risparmi ed alla concessione di prestiti nei limiti consentiti dalla raccolta) di muoversi senza limiti sul mercato finanziario invadendo il campo precedentemente esclusivo delle “società finanziarie”. In questo mare magnum della “intermediazione finanziaria” la finanza ha così potuto non solo acquisire un peso decisivo sullo stesso settore economico della produzione reale, ma, lasciata libera di auto-conformarsi, di seguire le proprie finalità di profitto con la creazione di strumenti ad hoc, quali i “derivati” e le “cartolarizzazioni” (in parole “molto” povere i primi sono prodotti finanziari il cui prezzo “deriva” da una sorta di “scommessa” sul prezzo che ad una certa data avranno altri prodotti, reali e non, le seconde sono la vendita, fatta per ricrearsi margini di manovra, ad altri soggetti, spesso creati ad arte, dei crediti che un operatore finanziario, banche comprese, vanta nei confronti di mutuatari ai quali ha erogato prestiti), veri creatori di “denaro mediante denaro”, che si sovrappongono alla già eccessiva libertà di concessione credito (i mutui erogati da banche e finanziarie sono, anche dal punto di vista tecnico, una vera e propria “creazione di denaro”) . Con il risultato, inevitabile, del formarsi di una dimensione finanziaria del tutto slegata dal valore reale, e soggetta quindi, altrettanto inevitabilmente, al formarsi di “bolle” ingestibili che, al loro esplodere, come nel 2008 con il mitico default della Lehmann Brothers, creano danni impressionanti all’intera economia. Nel successivo Capitolo 5 la Mazzucato esamina le caratteristiche delle attività concretamente svolte dal settore finanziario così abnormemente cresciuto. Dobbiamo, va da sé, abbandonare l’immagine della banca tradizionale e sostituirla con quella di  società in grado di presiedere ad una mole enorme di transazioni che viaggiano incessantemente nell’intero pianeta….oggi il settore si è ampliato fino a coprire una immensa congerie di strumenti finanziari che formano una nuova forza nel moderno capitalismo: la gestione patrimoniale…..Se si considera che dall’insieme di queste attività, in termini di fondi erogati, solo il 15% va ad imprese non finanziarie, ossia imprese operanti nell’economia reale, emerge chiaramente un settore che si auto-alimenta “sottraendo” valore prodotto da altri. Il benessere che, nel mondo occidentale, si è effettivamente realizzato, anche in modo diffuso e grazie all’economia reale, nel famoso “trentennio d’oro” (anni 50-60-70) ha creato un patrimonio finanziario complessivo di straordinarie dimensioni: è questo il terreno di pascolo, la gestione patrimoniale, che alimenta la finanza mondiale a partire proprio dagli anni 70, quelli che hanno visto il decollo della finanziarizzazione dell’economia…..come fa la finanza a sottrarre valore? Vi sono a grandi linee tre risposte: costi di intermediazione ….caricando oneri troppo alti rispetto ai rischi…..potere monopolistico…….Sono forme di sottrazione di valore che, in aggiunta, lasciano spazio a degenerazioni speculative.  Ad esempio: se le percentuali applicate come costo di transizione mantengono, per ragione di concorrenza, una certa rigidità, si può creare un guadagno suppletivo aumentando il numero di transizioni giustificandolo con la ricerca di maggiori guadagni. E’ quello che è successo…..la frequenza degli scambi è aumentata in modo esponenziale…..al punto da rilanciare l’idea di introdurre  una tassa sulle transazioni (Tobin Tax) proprio al fine di ridurne l’esasperata e strumentale proliferazione. Ancor più impattante è la concentrazione monopolistica. Al culmine dei percorsi descritti nel Capitolo 4 si deve infatti constatare una concentrazione di potere di mercato in un numero sempre più ristretto di operatori finanziari…..nel 2010 cinque grandi banche americane controllavano il 96% dei contratti sui derivati e nel Regno Unito dieci istituzioni finanziarie oltre all’85% dei derivati gestivano il 77% del mercato dei cambi……Governi ed imprese possono quindi rivolgersi ad un numero ristretto di banche per ottenere i servizi finanziari necessari alle attività a loro in capo, e non lo possono certo fare da posizioni dominanti, anzi. Un altro fenomeno ha parallelamente accompagnato questi processi nel campo della gestione patrimoniale: la crescita spaventosa delle disuguaglianze economiche e delle rendite denunziata da Thomas Piketty nel “Capitale del XXI secolo”. Quella che agli inizi degli anni settanta era la gestione di un patrimonio relativamente diffuso, frutto del trentennio d’oro, si è trasformata nel costante accrescimento di una ricchezza, sempre più slegata da ogni processo economico reale e sempre più concentrata nelle mani di pochi, pochissimi. Va da sé che è lecito stabilire una stretta connesione fra questi due processi. A chiudere questa seconda parte del saggio, la Mazzucato esamina, nel Capitolo 6, le conseguenze della finanziarizzazione sulla stessa economia reale…..la straordinaria crescita della finanza non si è limitata al settore finanziario, essa ha permeato l’intera economia come l’industria manifatturiera e i servizi non finanziari….per certi aspetti un fenomeno ancor più straordinario della stessa espansione della finanza……Sono, a grandi linee, due i percorsi della finanziarizzazione dell’economia reale: il primo consiste nell’aver affiancato alla produzione ed alla commercializzazione l’offerta di prodotti finanziari puri (l’industria dell’auto, ad esempio, ottiene margini di ricavo più alti dal finanziamento per l’acquisto che dalla vendita dell’auto stessa), il secondo, ancor più impattante perché si inserisce in un capovolgimento delle filosofie aziendali classiche, è il riacquisto delle azioni societarie. Una strategia che consente, innegabilmente, di aumentare il valore nominale delle azioni riducendone il numero, ma che comporta per l’azienda lo spostamento di fondi tendenzialmente destinabili agli investimenti. Ciò avviene in un quadro complessivo che vede, con il concorso, interessato, dei dirigenti di alto livello aziendali (remunerati in base al rendimento azionario e legati a contratti di breve termine), e di quello, spesso inconsapevole, degli stessi azionati, e in coerenza con una teoria economica neo-liberista (Milton Friedman), l’abbandono di fatto di visioni aziendali di lungo periodo sacrificate sull’altare del guadagno azionario a breve. Un dato evidenziato dalla Mazzucato riassume, in modo esemplare ad estrema sintesi della seconda parte, lo sconvolgente spostamento dell’attenzione economica dall’economia reale alla finanza……nel 1965 solo l’11% dei laureati alla Harvard Business School andarono nel settore finanziario, solo vent’anni dopo nel 1985 tale percentuale era salita al 41% e da allora è sempre cresciuta……….Nelle parte finale del suo saggio, Capitolo 7 – 8 – 9, la Mazzucato  prende in esame  i meccanismi di creazione di valore nell’economia reale, manifattura, industrie in genere, e servizi non finanziari per  riprendere, infine,  alcune proposte  di cambiamento  da lei stessa già esaminate nel suo precedente saggio “Ripensare il Capitalismo”. ……. Non mancano problemi, per quanto concerne la produzione di valore reale, neppure nei settori economici produttivi. La stessa “economia dell’innovazione” nasconde al suo interno situazioni definibili come…..imprenditoria improduttiva……spesso riferibili proprio a quelle attività assurte a simbolo dell’innovazione. La Mazzucato fornisce, per comprendere la genesi di questa contraddizione, una chiara indicazione delle caratteristiche chiave dei processi innovativi……l’innovazione è per natura molto cumulativa, mette insieme più componenti…..è spesso il risultato di investimenti precedenti……è collettiva e richiede tempi lunghi…..In sostanza quelle che all’apparenza si presentano come invenzioni rivoluzionarie sono il frutto di investimenti a lungo termine, che si accumulano uno sull’altro nel corso degli anni fino a formare la base insostituibile per il finale “colpo di genio” innovativo…….all’inizio sono agenzie di ricerca e sviluppo pubbliche che finanziano la ricerca scientifica di base e solo quando l’innovazione è vicina ad avere applicazioni commerciali entrano in gioco  operatori privati….. Questo è quello che è successo proprio per le tanto celebrate imprese “rivoluzionarie” della Rete e dell’informatica americane. Alcuni esempi:…..l’Iphone (Apple) dipende dalla tecnologia dello smartphone realizzata grazie a investimenti pubblici durati molti anni……Internet (Microsoft, Facebook e compagnia cantante) quelli del Ministero della Difesa ……il GPS quelli della Marina Militare……lo schermo touchscreen quelli della CIA…….per l’appunto tutti finanziamenti “pubblici”. Sui quali si è “innestata” la finale indubbia genialità creativa (in generale il mondo delle “start-up) che ha, grazie a meccanismi specifici del mercato di questi settori economici, realizzato profitti sotto molti aspetti ingiustificati che hanno “falsato” la creazione di vero “valore”. Un secondo fattore di squilibrio del mercato che consente posizioni ingiustamente predominanti tali da generare profitti non commisurati al volume effettivo di investimenti, e incidendo quindi sulla creazione di valore reale, consiste nella scorretto sfruttamento dei “brevetti”. Lo strumento che teoricamente doveva proteggere un inventore dall’essere copiato, e che, garantendo una esclusiva per un periodo limitato, doveva stimolare un diffuso adeguamento tecnologico si è trasformato nella giustificazione “legale” per imporre prezzi del tutto slegati dai costi effettivi di produzione e di investimento. Ciò avviene per tre ragioni…..il campo di azione dei brevetti si è allargato a dismisura comprendendo anche la “conoscenza dietro i prodotti”, i brevetti possono, grazie a nuove norme, essere rinnovati più volte arrivando in alcuni casi a valere per molti decenni…..i brevetti sono più facili da ottenere perché le commissioni che li devono valutare spesso si trovano di fronte a complessità di giudizio tali da indurre alla concessione immediata….L’esempio che più testimonia  questo abnorme ruolo dei brevetti è quello dei medicinali di punta anti-tumorali e anti-epatiti (cure che per singolo malato costano centinaia di migliaia di dollari/euro). Emerge quindi l’evidenza che se la creazione di vero valore è inscindibile dal ruolo dell’innovazione nei processi economici reale, (Joseph Scumpeter è sicuramente l’economista che, riprendendo riflessioni profetiche di Marx, di più ha enfatizzato il ruolo dell’innovazione per il capitalismo), è fondamentale che essa sia…..adeguatamente governata per far sì che il prodotto ed il modo di produrlo portino alla creazione di valore e non ad espedienti per l’appropriazione di valore….Dall’insieme di queste considerazioni si evince che l’innovazione deve avere una direzione ed una velocità, deve cioè essere “guidata”. Compito che non può non essere che in capo alla politica, che deve inoltre valorizzare il carattere “collettivo” dell’innovazione, facendo sì che le tutte le sue ricadute positive premino in modo equo l’intera società, i produttori ed i consumatori. Questo vale, a maggior ragione, se si considera il ruolo del settore pubblico nei processi innovativi e nel suo effettivo ruolo nella creazione di lavoro. Il Capitolo 8 la Mazzucato ci offre una appassionata difesa del ruolo dello Stato in economia. Riassumendo in modo lucido i termini dell’aspro confronto fra teorie economiche, marginalisti e neo-liberisti, quelle prevalenti, da una parte e keynesiani dall’altra, emerge con chiarezza che il contributo del pubblico al valore è, spesso strumentalmente, di molto sottovalutato. Non solo le azienda statali e municipalizzate che gestiscono servizi pubblici (trasporti, poste, fornitori di energia) sono considerate, nel conteggio del PIL, come “privati”, ma la creazione di valore che, ad esempio, deriva dall’istruzione pubblica, che “forma” futuri lavoratori, non è valutata, essa rappresenta solo una spesa, quella degli stipendi degli insegnanti. E’ chiaro che con una considerazione preconcetta come questa trova buon gioco il pensiero mainstream neo-liberista di considerare lo Stato solo una zavorra da alleggerire privatizzando ed esternalizzando quanto più possibile. E diventa il presupposto per le politiche di austerità, quasi sempre cieche e controproducenti, avviate in tutto l’Occidente. Ma è lo stesso Stato che in molti casi si auto-consegna ad un ruolo marginale. Non solo non fa valere il suo effettivo apporto alla creazione di valore, ma, pressato com’è dall’obbligo di “stare entro i conti”, rinuncia al ruolo fondamentale, che le stesse logiche di mercato gli consegnerebbero visto che il privato non è “geneticamente” preposto a ciò, di investire, anche rischiando, in ricerca ed innovazione. Condannandosi così molto spesso a semplice erogatore di assistenza e sussidi redistribuitivi. Ma è nel finale Capitolo 9 che la Mazzucato, tracciato il quadro storico e strutturale del “valore”, avanza alcune sue proposte per valorizzare, incrementandolo, la creazione di vero valore e per ridimensionare il peso dei settori e delle attività che al contrario lo sottraggono al suo essere un prodotto “collettivo”. Non è a suo avviso sufficiente, per quanto necessario e condivisibile, ridefinire il PIL e le attività che concorrono a formarlo, tassare la ricchezza attuando una redistribuzione irrinunciabile……..la sfida più grande è ridefinire e misurare il contributo collettivo alla creazione di ricchezza……Una sfida che non potrà essere vinta se si resta legati al concetto di prezzo uguale valore., una relazione che, come si è visto,  falsa completamente la vera origine del valore. Un passaggio essenziale consiste nella stessa ridefinizione di “mercato”; che non può essere solamente visto come il luogo di incontro fra domanda ed offerta e la dimensione economica nella quale si definisce il prezzo delle merci. Riprendendo le magistrali indicazioni di Karl Polanyi…..i mercati sono i risultati di processi complessi di interazioni tra i differenti attori dell’economia, incluso lo Stato….invece di concentrarci su quali attività sono produttive possiamo lavorare in modo da assicurare che tutte le attività promuovano i risultati che vogliamo e quindi, da questo punto di vista, siano creatrici di valore…….E questo rimanda alla questione di fondo:….quale direzione dovrebbe prendere l’economia per giovare al maggior numero di persone…..E, aggiunge la Mazzucato, per uscire da questa folle corsa al suicidio del pianeta per inseguire il mito della crescita….non solo puntando ad una crescita sul lungo periodo  concentrandoci però meno sul tasso di crescita e di più sulla direzione della crescita…..Il concetto di vero valore sarebbe così ridefinito in termini corretti come il risultato dello spostamento delle attività che rispondono a questi obiettivi entro il perimetro delle attività produttive, escludendo, penalizzandole, tutte quelle che non sono coerenti alla direzione tracciato. Il saggio si chiude con questa frase……se non possiamo sognare un futuro migliore e cercare di realizzarlo non c’è nessuna ragione per cui dovrebbe importarci del valore. E questa è forse la lezione più grande di tutte….

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Commenti e recensioni al saggio di
Mariana Mazzucato “Il valore di tutto”

Fra i molti circolanti in Rete abbiamo selezionato alcuni commenti/recensione del saggio della Mazzuccato, per alcuni aspetti, come anticipato nella presentazione del saggio, anche critici, ma in grado di fornire a chi fosse interessato ulteriori elementi di giudizio……..

Il capitalismo estrattivo (e di piattaforma) è la forma attraverso la quale la produzione di valore viene «realizzata» nelle forme dominanti della ricchezza sociale (denaro e profitto). È in questo passaggio che la finanza ha svolto e continuerà a svolgere un ruolo essenziale nel definire gerarchie sociali e priorità nel regime di accumulazione capitalistico.
Dunque, la finanza non ha solo una funzione «parassitaria» rispetto alla tradizionale produzione di beni e servizi, bensì svolge un ruolo di coordinamento, di indispensabile infrastruttura alla stabilità – politica e, soprattutto, sociale – della produzione di merci. Quel che va però sottolineato è la dimensione abnorme, incontrollata, da spregiudicato rentier che la finanza ha ormai assunto nel capitalismo contemporaneo. Il nodo da sciogliere è se questa superfetazione abbia determinato o meno un mutamento «qualitativo» dei rapporti sociali capitalistici. Sono queste le premesse di un libro ambizioso che costituisce uno spartiacque nella produzione teorica dell’economista di origine italiana Mariana Mazzucato, che si è fatta largo nel rumore di fondo della teoria economica mainstream con il saggio sullo Stato innovatore (Laterza) dedicato al modo di produzione dell’innovazione tecnico-scientifica e sulle sue ricadute sociali. In quel testo, Mazzucato ribalta il punto di vista dominante, sostenendo che i finanziamenti statali per ricerca, sviluppo e formazione non sono improduttivi, perché senza di essi la rivoluzione della rete e tecnologica non ci sarebbe mai stata, con buona pace di chi spaccia per oro colato la favola di giovani intraprendenti che, al chiuso di maleodoranti garage, fanno la scoperta del secolo. In questo libro l’economista si spinge molto più in là, alza cioè l’asticella delle difficoltà, per superarla, facendo leva su rigore analitico, una buona documentazione e una godibile vocazione narrativa che ne fanno un libro di agile lettura. Il volume ha infatti molte chiavi di lettura. Può essere interpretato come una storia della teoria economica moderna (dai fisiocratici ai nostri giorni); una critica del neoliberismo economico; una appassionata difesa della teoria del valore vista come un filo rosso che inanella personaggi distanti tra loro come Adam Smith, David Ricardo, Karl Marx, Joseph Schumpeter, John Maynard Keynes. Ma è altrettanto evidente l’interrogazione costante del mutevole confine tra finanza e produzione, sul cosa sia il capitalismo estrattivo e cosa quello di piattaforma. Un libro, infine, da mettere in tensione, relazione con le tesi sul capitalismo estrattivo emerse negli studi di economisti indiani, filosofi e sociologi latinoamericani e dalla confluenze di percorsi teorici italo-austrialiani come quelli di Sandro Mezzadra e Brett Nielsen, autori del saggio Confini e frontiere (Il Mulino) e di Politics of Operations, opera in corso di pubblicazione da parte di Duke University Press nel quale il capitalismo estrattivo è analizzato a partire dal ruolo della logistica e del polimorfismo del lavoro vivo (la moltitudine come problema e non come soluzione politica). Un lessico e un frame teorico politico quelli di Mezzadra e Nielsen distanti dal linguaggio di Mazzucato, ma tuttavia capaci di cogliere potenzialità di liberazione da parte dei movimenti sociali che l’economista italiana relega invece solo a una dimensione istituzionale dell’agire politico (sono note le sue simpatie liberal che l’hanno però portata anche a dichiarazioni e collaborazioni con il Labour Party di Jeremy Corbyn). Dunque distinzione tra produzione di valore e sua realizzazione. Al primo polo, c’è l’organizzazione produttiva, la successione di determinazioni che assume il capitale e il lavoro. Varia nel tempo e nello spazio. Ha bisogno di innovazione, di coordinamento, di uno Stato nazionale (la nazione è la forma dominante assunta dal capitalismo nella modernità) che definisca regole e produca le necessarie infrastrutture affinché l’economia funzioni. La Mazzucato ne offre un affresco vivido, dai primi atelier sorti dopo l’accumulazione originaria di capitale fino ai campus-fabbriche ipertecnologici della Silicon Valley. Anche la finanza svolge qui la sua necessaria parte, come credito, recupero sociale dei capitali necessari per progetti imprenditoriali rischiosi, a partire dai fondi pensione, ai risparmi del ceto medio, al capitale in «eccesso» di imprese e singoli capitalisti. Il venture capital non è perciò coniglio tirato fuori in California: c’è sempre stato. Importante è la sottolineatura dell’autrice che riguarda i capitalisti di ventura: fanno di tutto meno che rischiare. Intervengono sempre quando i maggiori rischi li ha corsi chi vuol intraprendere una temeraria attività produttiva e chi (lo Stato) ha per anni inondato di denaro università e centri di ricerca pubblici e privati. I venture capital favoriscono a posteriori il decollo di una start up, avendo come contropartita una quota esagerata di futuri profitti e salvaguardandosi comunque da possibili fallimenti. Insomma, i capitalisti di ventura cadono sempre in piedi. C’è un però, nello schema delle tesi elaborate, che l’autrice non sempre riesce a padroneggiare. Il peso enorme assunto dalla finanza. Una spiegazione sta nel fatto che senza questa superfetazione finanziaria il capitalismo esploderebbe nelle sue contraddizioni. Ha un ruolo di stabilizzazione politica, per la gestione delle contraddizioni e disuguaglianze sociali: non per risolverle ma per renderle compatibili con la società del capitale. Echeggiano, tuttavia sempre sullo sfondo, le analisi sulla privatizzazione dei diritti sociali di cittadinanza attraverso la finanza (acquisti sul mercato pensione, assistenza sanitaria, formazione, mentre il credito al consumo assicura che la costante riduzione dei salari non si traduca in stagnazione). Più rilevanza hanno le tendenze all’oligopolio, presentate a ragione non come una «degenerazione» ma un fattore essenziale per imprese che hanno il pianeta come orizzonte di mercato e produttivo – le big five della Rete testimoniano tutto ciò – e di un numero di dipendenti inversamente proporzionale al fatturato. Le diseguaglianze sociali sono cioè espressione di una crescita economica senza crescita di occupazione. Anche l’elusione fiscale rientra in questo carnet de doléance. La finanza organizza infine i flussi di denaro – ormai quasi puro segno, cioè convenzione socialmente necessaria scandita da una successione astratta, automatizzata di bit e byte dentro e fuori la Rete. Qui si addensano non pochi problemi. Non è tuttavia scontato che la «cattura» del valore sia da analizzare alla stessa stregua dell’estrazione di un minerale o dell’appropriazione violenta da parte di spregiudicati imprenditori della ricchezza sociale. Il capitalismo estrattivo (e di piattaforma) è espressione di rapporti sociali incardinati su plusvalore relativo e assoluto (ne scrive così anche Mazzucato). Ignorare questo elemento significa condannare la critica a un posticcio costrutto etico, una romanticheria che salva tutt’al più l’anima. L’autrice non si vuol certo salvare l’anima, ma si ferma sull’uscio degli atelier della produzione. Preferisce cioè constatare gli elementi di disequilibrio, di instabilità del capitalismo, che va salvato, ripete più volte, da se stesso. Identico procedimento per il capitalismo delle piattaforme, il quale è sì intermediazione tra produzione e realizzazione del valore, ma anche fattore pienamente produttivo.
In altri termini, il focus si dovrebbe spostare sul lavoro vivo, sulla sua eterogeneità, nella sua organizzazione su base planetaria e locale. E sulla sua violenta ripartizione gerarchica in base alle competenze, la razza, il sesso, uno statuto mutevole e definito arbitrariamente della cittadinanza. L’assenza di un’analisi dei bacini del lavoro vivo dentro e fuori il capitalismo delle piattaforme conduce l’analisi a una generica richiesta di riequilibrio keynesiano nella redistribuzione della ricchezza, elemento che Mazzucato fa suo in più pagine. Ma il suo è un libro, non un programma politico. E ha molte frecce nel suo arco. La lettura non può che constatare che alcune di esse sono schioccate con efficacia.

Nicolò Bellanca-Il valore economico come prodotto collettivo–Blog MICROMEGA
La distinzione tra la produzione e l’estrazione di valore è apparentemente ovvia. Così Luciano Gallino la presenta all’inizio del suo Finanzcapitalismo: «L’estrazione di valore è un processo affatto diverso dalla produzione di valore. Si produce valore quando si costruisce una casa o una scuola, si elabora una nuova medicina, si crea un posto di lavoro retribuito, si lancia un sistema operativo più efficiente del suo predecessore o si piantano alberi. Per contro si estrae valore quando si provoca un aumento del prezzo delle case manipolando i tassi di interesse o le condizioni del mutuo; si impone un prezzo artificiosamente alto alla nuova medicina; si aumentano i ritmi di lavoro a parità di salario; si impedisce a sistemi operativi concorrenti di affermarsi vincolando la vendita di un pc al concomitante acquisto di quel sistema, o si distrugge un bosco per farne un parcheggio». Non appena però si esaminano i singoli passaggi di un brano come quello appena riportato, i dubbi sorgono numerosi. Costruire una casa è sempre positivo, anche quando nessuno è in grado di comprarla, o anche quando viene edificata sulla collina panoramica? Fino a che soglia una variazione dei tassi d’interesse deriva da dinamiche mercantili, e da che punto in poi è invece una manipolazione speculativa? Se per creare un posto retribuito occorre che il lavoratore intensifichi i ritmi di lavoro, cosa è preferibile per il disoccupato? E così via. Malgrado i dubbi, una qualche distinzione tra attività che creano valore e attività che lo sottraggono e lo redistribuiscono non è evitabile. L’importante è che una tale distinzione sia resa esplicita e sorretta dalle migliori argomentazioni. In caso contrario, è probabile che i gruppi più forti e organizzati facciano surrettiziamente adottare dall’intera collettività una versione della distinzione a loro favorevole. Il libro più recente di Mariana Mazzucato ruota intorno all’esigenza di chiarire chi crea valore economico nel capitalismo contemporaneo, e chi invece si limita a redistribuire, se non talvolta ad espropriare, il valore ottenuto da altri. La ricerca viene introdotta dall’autrice richiamando un’altra distinzione: quella tra l’uso informativo o performativo di un messaggio. Informativo è l’avviso apposto sui pacchetti di sigarette: “Nuoce gravemente alla salute”. Se non seguo l’avviso il rischio è mio, ma posso far divergere l’azione dal messaggio. La performatività si realizza, piuttosto, quando la parola e il comportamento coincidono, ossia quando il messaggio si traduce immediatamente in una pratica sociale. Se il cartello segnala “Vietato fumare”, esprime un divieto che, se non lo rispetto, mi rende perseguibile. Ancor meglio, se il Sindaco proclama “Siete sposati”, rende con ciò stesso esecutivo il mio matrimonio. Mazzucato sostiene che i messaggi elaborati e trasmessi dalla scienza economica hanno in prevalenza un carattere performativo, puntando a modificare direttamente la realtà sociale. Tra questi messaggi performativi, spicca il metodo adottato per misurare il flusso di nuova ricchezza delle nazioni: il PIL, ossia il valore totale dei beni e servizi prodotti nel sistema economico. Poiché la misurazione del PIL prende le mosse da un modo preciso con il quale valutiamo le attività economiche, essa contribuisce all’incremento di certe attività a scapito di altro. Più esattamente, «la moderna nozione contabile di PIL è influenzata dalla teoria del valore sottostante che è usata per calcolarlo». Se dunque vogliamo rimettere in discussione i criteri di costruzione del PIL, che peraltro sono già cambiati più volte nel tempo, dobbiamo riesaminare la teoria del valore economico. Torniamo quindi alla domanda iniziale: chi crea valore economico nel capitalismo contemporaneo? Mazzucato dedica una parte sostanziosa del libro a ripercorrere alcune tra le impostazioni teoriche storicamente più importanti. Una prima tesi risale ai fondatori dell’economia politica, gli economisti classici: per essi la creazione di valore economico è legata inestricabilmente alla produzione di nuovi beni e servizi, anziché alla circolazione di merci già prodotte. Il valore si forma lungo un processo che, combinando varie risorse, ottiene nuovi beni e servizi, mentre il valore si redistribuisce quando risorse e merci già esistenti vengono trasferite da un soggetto all’altro, e quando la loro commercializzazione comporta guadagni sproporzionati[6]. Una seconda posizione, denominata neoclassica, si afferma dalla fine del XIX secolo, mantenendosi dominante fino ad oggi: essa sostiene che è il prezzo di mercato a determinare il valore. Basta che qualcuno sia disposto a pagare per un bene o per un servizio, affinché l’attività che fornisce quella merce aggiunga valore; e basta che chi svolge quell’attività riscuota un reddito, affinché il guadagno di quel reddito sia giustificato. Dunque secondo i neoclassici ogni attività economica crea valore, purché il mercato la retribuisca; e ogni retribuzione è legittima, purché vada ad un’attività creatrice di valore. Questo approccio considera non generative di valore unicamente le attività prive di una domanda in grado di pagare, anche qualora esse soddisfino bisogni personali e sociali di decisivo rilievo; le attività del settore pubblico, che sono alimentate dalle tasse; e, infine, le attività che percepiscono un reddito «nella forma di trasferimenti, come i sussidi alle imprese o i contributi assistenziali alle famiglie». La terza e ultima tesi sulla creazione del valore che qui richiamo deriva dalle teorie keynesiane: per essa, a differenza dei neoclassici, le spese statali possono contribuire all’espansione dell’economia. Nella prima versione del Sistema di contabilità nazionale delle Nazioni Unite, risalente al 1953 e plasmata da questa tesi, il settore pubblico fu trattato non soltanto in termini di spesa, bensì pure come un fattore di crescita del reddito, il cui contributo al PIL (misurato solo con i salari da esso versati, senza contare gli acquisti statali di beni e servizi da privati) varia per gli Stati Uniti, dal dopoguerra ad oggi, fra l’11 e il 15%. D’altra parte la finanza rientrò nel PIL soltanto come input intermedio, che contribuisce al funzionamento di altri settori economici. Tuttavia, dagli anni Settanta dello scorso secolo, gli attivi del settore finanziario (prestiti, obbligazioni, azioni e derivati bancari) iniziarono a crescere fino a diventare un multiplo dell’economia reale. Ecco che, sulla spinta della natura performativa dell’economics, ciò rovesciò i criteri di calcolo del PIL: mentre il settore pubblico venne riclassificato come improduttivo, nota Mazzucato, la finanza diventò produttiva. La giustificazione avanzata fu che la “intermediazione finanziaria”, svolta dalle banche commerciali, e le “assunzioni di rischi”, affrontate dalle banche d’investimento, sono entrambe attività produttive in quanto muovono il capitale verso un’allocazione efficiente. Quando però, come spesso accade, l’allocazione dei capitali rimane ben lontana dall’efficienza, o addirittura scatena una crisi finanziaria provocando gravi perdite, il settore finanziario non perde la produttività che gli è stata conferita e non viene tolto dal calcolo del PIL.  Nell’illustrare dettagliatamente le convenzioni che presiedono al calcolo del PIL, Mazzucato documenta che esse vengono scelte non soltanto per giustificare un determinato assetto del potere economico, ma, soprattutto, per crearlo. Proponendosi di scardinare quelle convenzioni, ella persegue un programma politico, nel senso più alto del termine. La sua tesi è che la creazione di valore richiede sempre uno sforzo collettivo. Non sono i proprietari dell’impresa (gli shareholders, nel caso di una società per azioni) a generare da soli il valore economico; piuttosto, sono gli stakeholders (tutti i soggetti a vario titolo coinvolti) a innescare i percorsi innovativi, a sostenerli ripartendone i rischi, a rafforzarli con gli investimenti di lungo periodo e infine a beneficiarne con la distribuzione dei proventi. Accanto agli imprenditori e ai lavoratori, è lo stato l’altro cruciale stakeholder che partecipa alla produzione di valore istituzionalizzando i mercati, migliorando la produttività e la futura capacità di crescita dell’economia (con investimenti in educazione, innovazione, infrastrutture e salute), assumendosi rischi (con il finanziamento della ricerca di base e delle nuove tecnologie). Senza lo stato, il capitalismo semplicemente non potrebbe riprodursi. Un primo limite del libro riguarda, a me pare, il modo semplificato con cui Mazzucato usa il concetto di performatività nel discutere le posizioni sull’origine del valore economico. È indubbio che nell’economics i messaggi intellettuali diventano azioni politiche, ma l’impatto di un messaggio dipende anche dalla sua robustezza, e questa a sua volta deriva da una filosofia sociale e da una modellizzazione analitica. Quando ad esempio Adam Smith o Karl Marx s’interrogano sulla “causa della ricchezza delle nazioni”, essi rispondono appellandosi ad «un’idea precisa sulla posizione che l’uomo occupa nell’ambito della natura: solo l’uomo è vivo, la natura è morta; solo il lavoro umano crea dei valori, la natura è passiva». Si tratta di una filosofia nella quale il lavoro umano costituisce l’unico costo sociale reale dei beni, e che, traducendosi nel modello del valore-lavoro, giustifica, nel XIX e in parte del XX secolo, le rivendicazioni politiche della classe operaia. Questo approccio perde forza per il convergere di tre motivi: le sconfitte politiche del movimento dei lavoratori, il ridursi della centralità del lavoro umano nel sistema economico e le difficoltà scientifiche del valore-lavoro. Se non teniamo adeguatamente conto dell’intreccio di motivi per i quali un messaggio intellettuale può avere impatto sociale, non capiamo perché il brano di Gallino riportato in apertura suona, allo stesso tempo, così seducente e così ambiguo. Esso seduce per il retroterra filosofico, analitico e politico che ce lo fa sembrare “ovvio”; quando però iniziamo a districare un filo dall’altro, cominciamo a coglierne l’ambiguità. Nel trattare le varie posizioni, e nel presentare la propria, Mazzucato evita di confrontarsi con questo complesso intreccio di motivi, e tende a enfatizzare le sole ripercussioni politiche, riferendosi ad un’accezione ristretta della performatività. L’altro limite consiste, a mio avviso, nel ridurre la natura collettiva della creazione del valore alla partnership tra privato e pubblico. Per Mazzucato, il contributo collettivo passa esclusivamente dal settore pubblico dell’economia. Tuttavia, secondo una diversa linea di pensiero, la produttività è, dentro l’impresa, espressione di una squadra (composta da lavori con vario livello di qualifica, beni strumentali e capitali di rischio), e gli apporti individuali non sono quasi mai calcolabili; a livello sociale, la produttività non dipende soltanto, come afferma Mazzucato, dai beni collettivi forniti dalle istituzioni politiche, poiché ad essa contribuiscono pure beni collettivi che si formano nell’ambito di altre sfere istituzionali (ad esempio, il capitale sociale che si sedimenta grazie ad una determinata tradizione civica, oppure il capitale culturale ereditato dalla storia locale) e che vengono resi disponibili dall’ecosistema (ad esempio, la terra fertile oppure l’acqua pulita). Se dunque adottiamo la concezione secondo cui il valore economico è un processo collettivo, la sua creazione va attribuita ad una molteplicità di fonti: private, pubbliche, sociali e ambientali. O, comunque, non va ridotta alla coppia imprese-stato. Infine, Mazzucato ha ragione nell’osservare che la politica progressista non può limitarsi a propugnare la tassazione di redditi e ricchezze, e ad “aggiustare” le imperfezioni dei mercati esistenti. La sua proposta è che la sinistra ripensi «come dirigere a lungo termine l’economia». Si tratta di un’indicazione che recupera le ragioni profonde dell’intervento pubblico, il quale non è soltanto anticiclico, come in Keynes, bensì plasma intensità e qualità dello sviluppo. Ma non basta, a mio parere: collocandosi interamente dentro il binomio privato-pubblico, questo suggerimento trascura la problematica del cambiamento del rapporto tra economia e società, e quindi del distacco dall’orizzonte capitalista. Un tempo “uscire” dal capitalismo era la parola d’ordine di “frange estremiste” e di inguaribili utopisti. Oggi è una prospettiva inevitabile, per provare a salvare le collettività umane e il pianeta

Massimo Giannini-Così si batte la religione del profitto-La Repubblica” 15/11/18
Nel suo nuovo saggio, l’economista Mariana Mazzucato propone una strategia per fronteggiare disuguaglianze e patologie di un capitalismo rapace. Quando penso al "club dell’1 per cento" che si mangia la metà della ricchezza del pianeta, al manager che incassa un superbonus 450 volte maggiore del salario medio dei suoi dipendenti, ai 5 milioni di italiani in povertà, mi torna in mente una delle leggendarie vignette di Altan. I due soliti signorotti che parlano: «Ma in questo mondo conta solo il profitto?» «Ma no, c’è anche il lucro!». Ridiamoci sopra, anche se non c’è niente da ridere. L’esplosione delle disuguaglianze sociali spiega la crisi del nostro tempo. Il mesto tramonto delle democrazie liberali e l’alba dorata delle destre populiste. Nel discorso pubblico moderno questo non pare un incidente della Storia, che ha imboccato un tornante contromano. Sembra piuttosto un destino che si compie, ineluttabile e immodificabile. E allora viva Mariana Mazzucato, che nel solco di Piketty e Stiglitz ha il coraggio di battersi contro i falsi miti di cui si nutre la Società Diseguale nella quale siamo precipitati e alla quale sembriamo condannati. Il suo ultimo saggio, Il valore di tutto (Laterza), spiega il paradosso della vignetta di Altan. Come siamo arrivati a credere che, al di là del profitto, nel capitalismo contemporaneo ci sia spazio solo per il lucro? Quando abbiamo scambiato il reddito con la rendita, chi guadagna con chi produce? Perché abbiamo confuso la "creazione di valore" (cioè l’uso delle risorse per produrre nuove merci e servizi) con la "estrazione di valore" (cioè il trasferimento di risorse o prodotti esistenti, e il guadagno che deriva dalla loro commercializzazione)? Ci aveva già dilettato con Lo Stato innovatore, un libro quasi eversivo di quattro anni fa. Adesso, partendo da Ricardo e Marx, Mazzucato arriva al cuore del problema. Nel diciassettesimo secolo l’economia del mondo cresce grazie all’incentivazione delle attività produttive e alla penalizzazione di quelle improduttive. Nella seconda metà del diciannovesimo secolo avviene la prima mutazione: il "valore" passa da una dimensione collettiva a una declinazione individuale. Oggi la metamorfosi si compie, l’economia "di carta" e la finanza "a breve" vincono sull’industria, si afferma il primato delle gestioni patrimoniali, si impone la "massimizzazione del valore per gli azionisti". Sulla scia della Grande Recessione del 2008 nasce un capitalismo rapace e parassitario, che impone ai governi uno storytelling, deviato e deviante: «A loro alte remunerazioni, a noi gli avanzi». "Loro" sono le mosche del Capitale. I «creatori delle favole che governano il mondo», come diceva Platone. "Loro" sono i banchieri di Goldman Sachs che, nonostante i disastri del Big Crash di dieci anni fa e i 125 miliardi spesi dal governo Usa per il suo salvataggio, tra il 2009 e il 2016 accumula 63 miliardi di utili. "Loro" sono i giganti di Big Pharma, che per tre mesi piazzano sul mercato il farmaco Gilead contro l’epatite C al modico prezzo di 94.500 dollari. "Loro" sono gli Over The Top tipo Apple, che per non pagare le tasse in America sposta all’estero il suo giro d’affari da 187 miliardi di dollari, o i colossi della Gig Economy tipo Uber o Airbnb, che lucrano profitti e dividendi sulle spalle del sistema pubblico. Dimenticando che senza i colossali investimenti pubblici nell’hi-tech degli ultimi trent’anni non sarebbero mai nati Internet, il Gps, il Touchscreen, Siri, cioè tutte le piattaforme dalle quali si estrae valore per azionisti e manager. E alimentando un altro mito, che Mazzucato aveva sfatato col suo saggio precedente: quello del "privato ghepardo" che batte in velocità e in efficienza lo "Stato tartaruga". Una bugia, alla quale però crediamo ciecamente come al racconto della lotta tra il bene e il male. Senza neanche farci attraversare da un dubbio: e se fosse tutto falso? Niente da fare. Noi non abbiamo tempo per le domande. Eppure "noi" siamo il popolo bue, che sta ai margini di questa élite capace di orientare politiche industriali e fiscali e di drenare sgravi crescenti sui guadagni in conto capitale. "Noi" siamo il lavoro svilito, precario e sottopagato. Oggi - ci ricorda Mazzucato - il patrimonio dei 62 uomini più ricchi del mondo è pari a quello della metà più povera, cioè 3,5 miliardi di individui. Tra il 1975 e il 2017, solo negli Stati Uniti, il Pil reale è triplicato da 5.490 a 17.290 miliardi di dollari, la produttività è cresciuta del 60%, ma i salari reali sono rimasti invariati. Tutto il resto è finito dov’è naturale che finisca, in questo sistema traviato: nelle tasche di raider e "rentier". Gli "estrattori" travestititi da "creatori". Se questa è la malattia, Mazzucato azzarda una cura. E qui arrivano i dolori. Non perché le terapie non siano convincenti. Al contrario: sono talmente lucide che per ciò stesso diventano Utopia. Capire cos’è il valore, chi lo crea e chi lo sottrae, è la premessa per ricostruire un capitalismo sostenibile e inclusivo. Bisogna «ridare una missione all’economia», riformando le istituzioni finanziarie, cambiando le norme sui brevetti, ridando un ruolo forte allo Stato regolatore e innovatore. L’economista italiana trapiantata a Londra, che sta incappando nelle maglie strette della Brexit, non si ritrae dal confronto sull’attualità che vede l’Italia Sovranista al centro della sfida con l’Europa Tecnocratica. E lo risolve da convinta sviluppista keynesiana: "no all’austerità", che in questi anni ha soffocato la ripresa. Il basso deficit «è un obiettivo sbagliato». Per la crescita serve «una direzione di marcia», non una «lista della spesa». Servono investimenti nei settori strategici, la ricerca, l’istruzione, l’economia verde. Un programma "di sinistra", verrebbe da dire se non stessimo vivendo la sua penosa eclissi. Che culmina nell’affondo finale: è il momento di una politica capace di sostenere un sistema di tasse più progressivo, «che colpisca la ricchezza». Scrive proprio così, Mazzucato: «che colpisca la ricchezza». Una bestemmia in chiesa, per una sinistra che i ricchi li ha vezzeggiati, dimenticandosi dei poveri e degli ultimi.



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