Il “Saggio” del mese
Come
preannunciato nella breve introduzione alla “Parola” del mese – “socialità”, il
tema del rapporto tra individuo e società, dei rapporti interpersonali che in
essa si realizzano e che al tempo stesso concorrono a definirla, è al centro
del “Saggio” di questo mese, che cerca, in particolare, risposte ad alcune
domande centrali: quali sono le idee, i concetti che ispirano, più o meno
consapevolmente, i percorsi di vita individuali che creano e danno forma alla convivenza
politico-sociale? Quali sono le ragioni di fondo che motivano e indirizzano l’agire
sociale? Cosa di più ispira e caratterizza il nostro inserimento nei rapporti
interpersonali collettivi? Quali sono in sostanza i basilari della stessa democrazia,
perlomeno nelle forme che essa ha assunto in Occidente? In una fase storica in
cui i rapporti interpersonali, intesi in senso lato, sono inquinati da
diffidenze, paure, rifiuto aprioristico dell’altro, ed in cui emergono
pericolose tendenze che stanno mettendo a dura prova il concetto stesso di
democrazia, le sue forme e la sua sostenibilità, tentare di rispondere a queste
domande può essere una utile riflessione per quanto lontano possa essa possa
portarci visto che per farlo adeguatamente ci invita a guardare alle
ragioni ultime della cultura democratica. Il “Saggio” di questo mese si misura
proprio con questa riflessione, lo fa richiedendoci uno sforzo di
concentrazione (ma da sempre CircolarMente si ribella all’idea di mandare in
vacanza estiva la nostra mente) ma quanto meno ripagandoci con un viaggio istruttivo
attraverso alcuni passaggi alti della cultura filosofico/politica della
modernità)

Da
tempo Axel Honneth ((filosofo,
politologo, accademico tedesco, considerato il più importante filosofo della
terza generazione della Scuola di Francoforte dopo la prima generazione di Max
Horkheimerr e Theodor Adorno e la
seconda di Jurgen Habermas) ha
individuato nel concetto di “riconoscimento” la risposta a queste domande ponendolo
al centro della sua intera riflessione sociologica e filosofica e di molte
delle sue opere, in buona parte tradotte anche in italiano. Questo suo ultimo
saggio presenta, con una esposizione tanto lucida quanto sintetica, una sorta
di summa di questo suo percorso
1) Storia delle idee e storia
dei concetti: una premessa metodologica
Ad avviso di Honneth il
concetto di riconoscimento è oramai entrato a far parte del nostro repertorio
politico-culturale di base ……lo si
intenda come la necessità di un rispetto reciproco tra i membri con pari
diritti di una stessa comunità o come l’esigenza insopprimibile di riconoscere
la specificità dell’altro o ancora come la necessaria legittimazione delle
minoranze culturali………… (le frasi in corsivo
blu sono estratti integrali del testo di Honneth). Per
meglio comprendere il significato di questo concetto è indispensabile
ripercorrerne la genesi e la complessa costruzione, evitando da subito di
incorrere in un pericoloso errore, quello di ritenere che di esso esista una
interpretazione univoca: così non è ……..a differenza di altri concetti chiave dell’attuale discorso
politico – per esempio Stato, libertà e sovranità – l’idea che ci aleggia nella
mente quando parliamo di riconoscimento non corrisponde ad un termine univoco,
storicamente ben definito……. Al contrario, come bene si vedrà nel
proseguo del saggio, il concetto di riconoscimento è stato formulato
linguisticamente in modo diverso: Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) usava
l’espressione “amour propre”, Adam Smith (1733-1790) parlava di un “osservatore esterno”
trasferito all’interno, e solo a partire da Friedrich Hegel (1770-1831)
compare una meglio definita categoria di “riconoscimento” (Anerkenmung). ……..non si tratterà dunque della storia lineare di un
concetto, sarà piuttosto una storia delle idee in cui si partirà da un nucleo
concettuale di base cercando di seguirne gli sviluppi……. Sviluppi che si muoveranno in varie direzioni
assumendo significati sempre nuovi e istruttivi, sfumature e tonalità
strettamente connesse alle condizioni socio-culturali del paese in cui nascono
e si affermano, senza cadere, Honneth è al riguardo categorico, nella
pericolosa (si pensi alle mitologie
fasciste e naziste) tradizione, smentita dai concreti percorsi storici,
dell’esistenza di uno “spirito del popolo”, di una “anima della nazione”. In
particolare Honneth concentra la sua attenzione su tre paesi, su tre aree
culturali: Francia, Gran Bretagna e Germania convinto com’è che, senza negare
valore ad altre culture ………i
classici del pensiero politico moderno provengono da essi……. e
che …….a partire dal Diciassettesimo
secolo le vicende politiche e sociali dei tre paesi in questione rispecchino
tre diversi modelli evolutivi della moderna società borghese……
L’incrocio di questi due aspetti consente, secondo Honneth, di ritenere che
dall’insieme di questi tre distinti percorsi emerga lo schema di base a cui il
concetto di riconoscimento si conforma nell’intero contesto europeo.
2) Da Rosseau a Sartre: riconoscimento e perdita di sé
Si trascina da tempo la discussione su quale
filosofo abbia per primo introdotto il concetto di “riconoscimento”, in una delle
varie forme che concorrono a formarlo. Si è già detto di Hegel, ma secondo
altri studiosi esisterebbero appigli, consistenti in alcune sue affermazioni
sul peso dell’esigenza “psicologica” di distinguersi e primeggiare che “spinge”
le persone nell’ambito sociale e di comunità, per retrodatare tale primato a
Thomas Hobbes (1588-1679). Honneth ritiene
invece che, fermo restando il merito di Hegel di averlo per primo organicamente
definito, le origini del concetto di riconoscimento possano esser rintracciate
in Jean-Jacques Rousseau e nei suoi precursori seicenteschi: i moralisti
francesi. Siamo quindi nella Francia del Seicento in una fase storica in cui
però ……..l’idea
del riconoscimento sociale come movente costitutivo dell’essere umano moderno
era “nell’aria” in molti paesi europei…… I fermenti legati al
progressivo, e vincente, affacciarsi sulla scena sociale della “borghesia”
iniziano ad incidere sul vecchio ordine sociale basato sulle antiche appartenenze
di classe. La gerarchia sociale non è più vista come un ordine immutabile per
volontà divina e sempre più ci si chiede quali meccanismi e quali percorsi di
affermazione sociale potranno sostituirla …….la società moderna articolata in classi
porta in primo piano il problema del riconoscimento sociale in vaste regioni
d’Europa….. E’ in questo contesto, in cui la credibilità sociale
dell’individuo, non più attestata dalla sola nascita, diventa oggetto di
conquista che prendono corpo le riflessioni dei moralisti francesi ed in
ispecie di Francois de La Rochefoucauld (1613-1680
scrittore, filosofo e aforista francese) che si dipanano attorno al concetto di
“amour propre”. La Rochefoucauld, nobile di nascita, riflette in particolare
sulla tendenza, sempre più spiccata, dei nuovi soggetti sociali di presentarsi
in società, al fine di guadagnare riconoscimento, sotto la luce più vantaggiosa
possibile. Questo istinto umano, a suo avviso ”naturale”, trova però nel nuovo
contesto sociale ampi spazi per manifestarsi diffusamente fino a giungere ad
eccessi ipocriti di simulazione. Secondo La Rochefoucauld il movente che porta a
questi eccessi consiste proprio nell’ …….l’amour propre, il desiderio smodato di mostrarsi ai
propri simili sotto una luce esemplare…… A tal punto che non
soltanto diventa difficile distinguere il vero dal falso nelle virtù vantate, ma
appare sempre più chiaro che …..l’amour propre può alla fine ingannare il soggetto stesso
il quale, abituandosi a simulare qualità che non possiede, finisce per perdere
di vista la sua vera personalità…… Va dato merito a La Rochefoucauld
di aver aperto, con queste sue affermazioni, n buona parte espresse sotto forma
di aforismi, una prima breccia, ma egli si ferma su questa soglia in parte
perché troppo condizionato dai suoi pregiudizi nobiliari ed in parte perché non
possiede lo spessore intellettuale necessario per meglio riflettere sui
rapporti intersoggettivi sociali. La sua idea di riconoscimento si ferma quindi
al …….ri-conoscere
qual è il valore effettivo di una certa persona…… Ma è in questa
breccia dell’amour propre che si
affaccia la riflessione, ben più solida di Jean-Jacques Rousseau. Seppure non
privo dei pregiudizi moralistici di La Rochefoucauld, aspetto che per altro permeerà
tutto il percorso storico della concezione francese del riconoscimento,
Rousseau, richiamandosi ad Agostino, distingue tra un amore di sé (amour de
soi), conforme alla volontà divina, ed uno, l’amour propre, indotto da una
vanità peccaminosa. La sua idea di amour propre si evolve quindi in quella di
…..un
bisogno, non naturale, ma evolutosi storicamente, di imporsi come superiori
agli occhi dei propri simili aspirando così ad un rango sociale più elevato……..
Se l’amore di sé si basa su giudizi di valore etico e religioso, su ciò che è
buono e giusto, l’amour propre guarda invece ad un giudizio esterno,
all’approvazione sociale. Si passa così in Rousseau a vedere nel riconoscimento
un processo culturale strettamente connesso alla condizione sociale, che
implica una smania di primeggiare e che connette in una relazione malsana il
riconoscimento esterno con il giudizio di quella sorta di giudice interiore, la
nostra coscienza critica, che ci sembra possa (auto)confermare l’ottenimento
dell’obiettivo di primeggiare. E quindi …….il riconoscimento a cui mira l’amour propre consiste
quasi esclusivamente nel valutare quelle qualità che distinguono il soggetto
dalla massa…… Queste affermazione di Rousseau non sono prive di
contrasto con il resto del suo pensiero filosofico: diventa infatti difficile
conciliare questo giudizio negativo sulla motivazione di fondo del
riconoscimento sociale, espresso nel suo “Secondo discorso”, con le premesse
positive e fiduciose del Contratto sociale, in cui viene al contrario riconosciuta
all’individuo la facoltà di autodeterminarsi in concorso fecondo con il resto
della comunità sociale. La sola possibilità di conciliazione fra due posizioni
all’apparenza opposte, sostenuta da alcuni studiosi, potrebbe consistere in una
sorta di “evoluzione” dell’amour propre che, favorita da un cambiamento
nell’ordine sociale, progressivamente lo porterebbe dalla smania di primeggiare
sugli altri ad una forma di rispetto tra uguali, base indispensabile per la
formazione della “volontà generale” e per la costituzione del “Contratto
sociale”. Ma non è questa la posizione di Honneth: gli ultimi scritti di
Roussesau sono, a suo avviso, un continuo e costante riaffacciarsi dell’amara e
pessimistica constatazione della forza dell’amour propre, del prevalere
dell’istinto a primeggiare come modo prevalente di rapporto dell’individuo con
la comunità, con la società intera. Una posizione tanto innegabile quanto in
evidente contrasto con quella parte del pensiero di Rousseau che lo ha, ancor
prima della Rivoluzione francese, imposto come il filosofo del Contratto
Sociale per poi protrarsi in questa veste per tutto il secolo successivo. ……in Francia
l’importanza della sfida democratica e della questione sociale orientano
l’attenzione verso i grandi temi della politica, per questo tipo di
problematiche la questione del riconoscimento sociale e dei suoi effetti
sull’individuo nella prassi quotidiana passa inevitabilmente in secondo piano…….
Per una ripresa di attenzione verso queste tematiche occorre attendere il
Novecento, il rapporto tra l’Io e gli altri soggetti torna centrale soprattutto
nel pensiero di Jean-Paul Sartre (1900-1980). Nella sua opera
fondamentale “L’essere ed il nulla” la domanda che si pone, in effetti molto
lontana da quelle di Rousseau, è quella di indagare se e come cambia il nostro
stato esistenziale nel momento in cui entriamo in rapporto con gli altri. Ma
pur partendo da presupposti così diversi Sartre giunge a ………un risultato che
non è identico a quello di Rousseau ma
che tuttavia gli assomiglia non poco…… Va da sé che i duecento anni
che separano i due pensatori non sono passati invano: l’approccio di Sartre è
ovviamente strettamente connesso con le correnti filosofiche, molto più
elaborate e complesse, che caratterizzano la filosofia del Novecento, ed in
particolare con quella della fenomenologia (basata sull’analisi dei fenomeni per come si presentano
alla coscienza dell’individuo). Da questo punto di osservazione la domanda per Sartre
non è …..quali
conseguenze possa avere un certo bisogno (come quello di primeggiare
socialmente)
ma si tratta
piuttosto d indagare, analizzando i fenomeni connessi, se e come si modifica lo
stato esistenziale del soggetto nel momento in cui incontra un altro soggetto…….
Riassunta molto sinteticamente, e sottolineando il suo carattere di schema
teorico - la realtà dei rapporti interpersonali
è ovviamente molto più articolata e complessa – l’idea di Sartre consiste nel
ritenere che lo stato di coscienza che un soggetto ha di sé (ètre on soi – l’essere per sé) inevitabilmente si modifica
nel momento in cui, entrando in rapporto con un altro soggetto, viene
sottoposta al giudizio di questo secondo soggetto (ètre avec autres - essere
con altri). L’atto, il fenomeno, del riconoscimento può, dopo questo primo
impatto, evolvere in molte direzioni e
forme, ma resta decisivo il fatto che ……l’esperienza del riconoscimento da parte dell’altro
contiene inevitabilmente fin dall’inizio anche l’esperienza di un
disconoscimento del proprio “essere per sé……. Difficile immaginare
un approccio più distante dal pensiero di Rousseau eppure in un qualche modo emerge
un tratto comune, per ambedue i pensatori il riconoscimento induce a
cambiamenti negativi ….per Rousseau questa conseguenza negativa nasce dal fatto
che la conferma pubblica delle nostre qualità non ci permette di capire se
queste qualità ci appartengono davvero mentre per Sartre lo sguardo dell’altro
ci fissa inevitabilmente ad alcuni aspetti della nostra personalità privandoci
della possibilità di riprogettare di continuo il nostro essere….. Per
ambedue cioè il riconoscimento implica una trasformazione negativa, una perdita
del proprio intimo Io. Sarte è il primo pensatore francese, dopo Rousseau e dopo
quasi due secoli di sostanziale indifferenza verso questa tematica, che torna a
riflettere sul riconoscimento, e lo fa
quindi con un approccio radicalmente diverso stante lo sviluppo del pensiero
filosofico avvenuto nel frattempo, ma la conclusione a cui sembra giungere è
ancora una volta tutt’altro che positiva. Non diversamente da quello che è
possibile riscontrare nei successivi sviluppi del pensiero francese. Anche
quando si passa dal porre al centro dell’attenzione il rapporto tra singoli
individui al considerare i meccanismi di riconoscimento che avvengono al
livello dell’intero sistema sociale, anche quando, come nelle riflessioni di
Louis Althusser (1918-1990) e di Jacques Lacan (1901-1981), si nega come punto
di partenza l’esistenza “a priori” di un soggetto, di un “Io” che entra in
rapporto con altri. Una svolta radicale che porta l’idea di riconoscimento
molto lontana da quella di Roussea – la ricerca di un giudizio positivo – non
meno che da quella di Sartre – l’esperienza di sé di un soggetto che viene
riconosciuta e modificata dall’incontro con un altro soggetto – per diventare
quella di un meccanismo sociale che nel momento in cui identifica un soggetto
gli attribuisce specifiche caratteristiche sociali. Per Althusser ciò avviene
in prevalenza sulla base di una sorta di “schiavitù volontaria” …….per la quale gli
esseri umani sono in generale disposti a svolgere quelle attività che l’ordine
sociale dominante richiede loro tanto da essere “riconosciuti” precisamente
come quei soggetti di cui quell’ordine sociale ha bisogno…… Per
Lacan invece il riconoscimento è un
complesso processo di assegnazione di attributi che fornisce risposte al
bisogno, al desiderio, che si manifesta fin dalla prima infanzia, di essere
“riconosciuti” dall’altro, dalla madre in primo luogo, e che si sviluppa lungo
percorsi segnati dall’ordine linguistico e sociale dominante, ma in ogni caso
resta ……un
processo sociale che attribuisce al soggetto qualità e caratteristiche
funzionali al mantenimento dell’ordine dato…… Secondo Honneth in
sostanza l’intero percorso del concetto di riconoscimento nella cultura
sociale, politica e filosofica francese attesta …….la tendenza a vedere nell’intersoggettività
più un problema che una chance……. L’aspetto che meglio può spiegare
questo tratto distintivo dell’idea francese di “riconoscimento”, e che in
qualche modo collega tutti i pensatori presi in esame al di là delle profonde
differenza tra di loro, resta in definitiva il suo stretto legame con il
contesto sociale, con le ricadute che esso ha sul rapporto tra soggetto e
società: il riconoscimento vale cioè, al di là delle ricadute specifiche sul
soggetto, in quanto conquista di una identità sociale. Appena al di là della
Manica il processo di costruzione del concetto di riconoscimento assume invece
caratteristiche non poco dissimili.
3) Da Hume a Mill: riconoscimento e autocontrollo
….Se per la Francia si può dire che la filosofia sociale deve fare
i conti innanzitutto con la gerarchia sociale ed i relativi conflitti per la
Gran Bretagna la sfida con cui deve confrontarsi è (sempre
nel Seicento e Settecento) il
progressivo diffondersi delle pratiche tecnico-economiche in uno spazio
pubblico fino allora presidiato dai principi morali tradizionali….. A
differenza quindi della Francia in Inghilterra il tipo umano posto al centro
dell’analisi dei meccanismi del riconoscimento sociale diventa …….un soggetto il cui movente esclusivo è
l’egoismo economico personale…… a cui si affiancano i
timori che questo movente esclusivo annulli tutti i consolidati vincoli morali
sociali. Attorno a questo tema il campo ben presto si divide fra chi, come i
seguaci di Hobbes e gli estimatori della “Favola delle api – Vizi privati e
pubbliche virtù” di Bernard de Mandeville (1670-1739, ritiene prevalente l’istinto egoistico e chi al contrario
ancora confida nella virtù della solidarietà sociale. Ed è nelle fila di questi
ultimi che nel corso del Settecento inglese lentamente affiora un’idea del
riconoscimento sociale molto lontana dalla diffidenza francese verso
l’intersoggettività umana. E’ nell’opera di David Hume (1711-1776)
“Trattato sulla natura umana” che troviamo la prima organica riflessione sul
comportamento sociale umano, all’interno della quale spiccano due aspetti ……..di particolare interesse e sono quelli che
riguardano direttamente la concezione di Hume del riconoscimento interumano……
Hume riprende, correggendole ed integrandole, precedenti considerazioni e
ritiene che le qualità degli altri individui non sono giudicate solo in base al
criterio del vantaggio o del danno che
esse possono arrecare al bene di una comunità, ma che intervengano a rafforzarlo
…..sentimenti naturali di favore
o biasimo ricondotte al piacere o al dispiacere…… che
queste qualità suscitano in noi. E fra questi sentimenti naturali quello che ha
maggior peso nelle dinamiche di riconoscimento è quello della “simpathy”, della
simpatia intesa come la ……..la
capacità comune a tutti gli esseri umani di intuire e al tempo stesso di rivivere
gli stati mentali dei nostri simili…… Secondo Hume un legame
invisibile di reciproca simpatia ci spinge a reagire con atteggiamento
favorevole a quelle qualità degli altri che avvertiamo come utili e positive perché
percepite simili alle nostre. Vero è, ed è lo stesso Hume a riconoscerlo, che
non è ancora possibile parlare di un pieno “riconoscimento” solo sulla base di
questa condivisione “simpatica”, deve intervenire un ulteriore fattore di
attribuzione all’altro di doti e ruoli. Non sfugge a Hume una seconda
propensione naturale: la simpatia si rafforza, o viceversa si indebolisce, a
seconda della distanza sociale che ci separa dalla persona che ne è l’oggetto
……..noi simpatizziamo di più con
chi ci è vicino che con chi ci è lontano, con chi conosciamo più che con gli
estranei, con i nostri concittadini più che con gli stranieri…….
Questa seconda propensione rischia, con il suo carico di pregiudizi, di
inibire, di condizionare, il peso della naturale “simpathy”. Ad evitarlo
interviene uno sforzo razionale di compensazione, di gestione oggettiva.
Passato il primo istante dell’eventuale istintivo raffreddamento interviene nel
nostro giudizio, nel nostro riconoscimento dell’altro, un “giudice imparziale”
capace di un giudizio oggettivo indipendente dai possibili pregiudizi. Honneth
evidenzia come non sia chiaro nella trattazione di Hume in cosa consista questo
sorta di osservatore “esterno”, se esso sia un giudizio collettivo che la
storia di una comunità, di una società, ha progressivamente costruito, ovvero
se esso sia una costruzione individuale interiore che si forma sulla base delle
nostre esperienze concrete di vita. Fino a giungere ad una sostanziale
contraddizione tra il ruolo che egli attribuisce alla razionalità ……la ragione richiede un tale comportamento
imparziale…… e le sue idee sul ruolo decisivo dei nostri impulsi sul
nostro agire morale. Scontate queste perplessità secondo Honneth è comunque in
Hume che si possono rintracciare le prime basi per un riconoscimento più
articolato e ragionato, sono le basi sulle quali si formano gli stessi meccanismi
della nostra individuale …….reputazione
nel mondo….. Ed è anche su questo che Honneth misura la distanza fra
Rousseau e Hume ….se in
Rousseau il desiderio di approvazione sociale trascina l’individuo in un
vortice in cui egli finisce per smarrire sé stesso, lo stesso desiderio è per
Hume un movente salutare che spinge l’individuo a sottoporre i propri intenti
al giudizio di un osservatore imparziale in vista del bene comune…. Se
il pensiero di Hume sembra comunque ancora muoversi in un contesto slegato dall’ambito
socio-culturale le sue intuizioni sono però, da lì a poco, riprese da Adam Smith
proprio per avviare ….una
reazione filosofica all’economizzazione strisciante dei costumi morali nella
Gran Bretagna del Settecento……. Il pensiero di Adam Smith
è stato a lungo diviso in due parti fra loro slegate: da una parte l’economia
della “Ricchezza delle nazioni” dall’altra la filosofia morale della “Teoria
dei sentimenti morali”. Solo dalla fine dell’Ottocento è prevalsa la convinzione
che le due parti formino un unicum inscindibile. Ed il collante consiste
proprio nell’idea di Smith che il ruolo propulsivo del mercato non può non
avere un suo contraltare in una concezione morale dei rapporti interpersonali.
E questo trait d’union è anche la base teorica della sua concezione del
riconoscimento. Smith fa sua la visione di Hume della “simpathy” ma riesce a
superare l’incompletezza della sua definizione di quel “giudice imparziale” che
interviene a mitigare le incoerenze dei nostri giudizi sul valore dell’altro
con cui entriamo in contatto ……sarà
appunto Adam Smith a completare il suo (di Hume) progetto mostrando come l’individuo
apprenda gradualmente a far dipendere il suo comportamento morale da forme
sempre più comprensive di riconoscimento morale….
La domanda di partenza è la stessa di Hume:
in base a quale criterio formuliamo i nostri giudizi sui caratteri e sui
comportamenti sociali degli altri individui? La “simpathy” da sola non può
farci rivivere le emozioni altrui nello stesso identico modo in cui sono
dall’altro vissute. La “simpatia”, che resta un predisposizione d’animo
fondamentale anche per Smith, non può però essere una vera immedesimazione
nell’altro, deve perciò accompagnarsi ad una capacità di “immaginazione”, di
condivisione empatica delle emozioni altrui. Che ha un suo naturale
corrispettivo nella fiduciosa aspettativa che le nostre emozioni siano a loro
volta condivise. La generica simpathy di Hume trova già in queste prime
precisazioni una migliore definizione ma…..Smith si rende conto che ancora nulla si dice su quali
regole dovremmo seguire nei nostri rapporti sociali…… Ed è qui, in
questo ulteriore passaggio, che Smith elabora una idea del “giudice imparziale”
più elaborata e completa di quella di Hume. Il flusso della reciprocità emotiva
che si crea nella fase del riconoscimento intersoggettivo richiede ad ambedue i
soggetti un supplemento di approvazione, una sorta di giudizio favorevole da
parte di un terzo, di un osservatore neutrale. E più cresce il carico emotivo
che accompagna la fase del riconoscimento più cresce il numero degli spettatori
neutrali chiamati a dire la loro in veste di arbitri e …………questa progressiva presenza del soggetto
–altro come istanza approvante, o disapprovante, arriva ad un punto tale da farlo coincidere con la “ragione “stessa……..
Smith, diversamente da Hume, non lascia spazio a dubbi sul fatto che questo
spettatore giudicante ……..vada inteso più nel senso di una voce interiore, come
voce della coscienza, che nel senso di un giudice fisicamente esistente……
Smith va ancora oltre e si interroga sulle ragioni, sulle motivazioni che ci
spingono a far entrare in scena questo processo di controllo dei nostri
comportamenti emotivi. La risposta è al tempo stesso utile a completare la sua
visione morale del riconoscimento e a fornire un primo importante collegamento
con la sua idea “tecnica” del mercato. Siamo spinti a ciò non da una generica
volontà di “guadagnarci” elogio ed approvazione sociale, ma dalla esigenza di
“meritarci” l’elogio e l’approvazione. …….l’autorevolezza dell’osservatore imparziale introiettato
si fonda tutta sul desiderio di essere degni di lode e sulla ripugnanza che si
prova per l’idea di non esserlo….. Ed è proprio qui che si misura la
distanza dalle idee di Hume, per il quale gli esseri umani spinti da un bisogno
egoistico di reputazione sociale sono “disposti” ad accettare il ruolo
dell’osservatore esterno. Smith va molto oltre, ritiene che ai naturali e
istintivi moti della “simpathy” si debba aggiungere una sorta di riconoscimento
di secondo grado, quello che può venire dal sentirci meritevoli di approvazione
sociale, una attestazione che l’osservatore esterno, interiorizzato, ci spinge
a cercare. Come accennato in precedenza sta in questa visione, secondo Honneth,
il correttivo morale alla collegata celebrazione che Smith fa nella “Ricchezza
delle nazioni” del mercato e dell’utilità sociale degli interessi privati. ……il mercato
capitalistico è moralmente giustificabile solo nella misura in cui si conforma
alla prospettiva idealizzata di un giudice imparziale e ben informato…..Smith
non è, a suo avviso, un fautore cieco dei vantaggi del libero mercato ….l’economia di
mercato non deve lasciare fuori dalla porta il riconoscimento, quel
riconoscimento che accordiamo ai nostri simili ascoltando la voce del nostro
giudice interiore……. La posizione di Smith, riletta da questo punto
di vista, connettendo quindi la sua visione economica con quella morale, non
resta isolata nel panorama della filosofia inglese. Ottanta anni dopo Smith non
sono dissimili le idee di John Stuart Mill (1806-1873). La reazione allo strapotere delle logiche
egoistiche di mercato, e delle ricadute negative sulla salute “morale”
collettiva, che nel 1600 e 1700 spinge prima Hume e poi Adam Smith a celebrare
il ruolo delle relazioni interpersonali, e del riconoscimento in particolare, è
anche, nel 1800, alla base di non diverse riflessioni di Stuart Mill, per molti versi indiscusso alfiere del
liberalismo economico. ……Mill, nello stesso spirito di Smith, si domanda fino a
che punto l’uomo possieda sentimenti sociali…… Una domanda che Mill
si pone con più evidenza nel saggio “Sulla libertà”, il cui baricentro,
coerentemente con il suo liberalismo, resta l’esigenza politico-sociale di
mettere ogni individuo nella condizione di realizzare con la massima libertà le
doti che la natura gli ha fornito. Eppure è proprio in questa stessa opera che
Mill evidenzia la necessità di una riflessione morale sui possibili eccessi del
liberalismo, una riflessione che lo porterà nell’ultimissima fase della sua
attività intellettuale a confrontarsi senza pregiudizi con le stesse primitive
istanze socialiste. La questione per Mill si pone, restando comunque tutta
interna al liberalismo, su quali forme di controllo sociale possano essere
messe in atto quando il processo di autorealizzazione individuale faccia
collidere gli interessi, aventi quindi pari dignità, di due individui,
piuttosto che due gruppi. La soluzione prevista da Mill è che ……le esternazioni,
gli stili di vita di un individuo o di un gruppo possano essere legittimamente
censurati nel caso in cui possano danneggiare o limitare gli analoghi tentativi
di un altro individuo o gruppo (harm principle – il principio del danno)……..
Nel saggio “Sulla libertà” Mill giunge però a ritenere che sia opportuno non
giungere alla soglia limite del contrasto aperto e che …….il mezzo più adeguato per evitare in
anticipo, o per comporre in seguito, questi conflitti consista nell’indurre i
soggetti con la lode ed il biasimo a considerare gli interessi dei loro simili……
Ricompaiono quindi anche in Mill, al culmine della sua mai sconfessata professione
di fede nel liberalismo, quegli stessi meccanismi, della lode e della
ripugnanza, che sono, come si è visto, alla base delle riflessioni di Hume e
Smith sui meccanismi di riconoscimento sociale. Certo l’approccio segue
percorsi differenti ma è evidente che anche per Mill l’individuo è naturalmente
portato al bisogno profondo di essere socialmente apprezzato e quindi di temere
il biasimo sociale. Anche per Mill, evidenzia Honneth, il legame sociale che
tiene insieme una comunità è perciò intrecciato con i fili del riconoscimento
reciproco, tanto da indurlo a scrivere che ……la paura di dispiacere ai propri simili ci
spinge a seguire il volere della comunità anche senza trarne un vantaggio
egoistico…. Honneth è consapevole del fatto che non esistono elementi
tali da sostenere l’esistenza di una consapevole ed omogenea linea di pensiero
che colleghi i tre filosofi inglesi presi in esame. Tutti tre hanno seguito
personali e distinti percorsi di riflessione. Certo è che la comune necessità
di valorizzare la natura sociale dell’individuo, alla quale comunque
pervengono, testimonia che anche i maggiori ispiratori del pensiero liberale
non erano indifferenti agli eccessi di avidità di guadagno, di prevalere dell’interesse
privato e di spregiudicatezza sociale intrinsecamente connessi alle logiche di
mercato. Come meglio si vedrà in seguito all’interno di queste comuni remore si
aprono, anche in Inghilterra, spazi di interessante collegamento con quanto in
contemporanea sta maturando nel contesto filosofico tedesco
4) Da Kant a Hegel: riconoscimento e autodeterminazione
Si sono fin qui visti due
diversi modi della “modernità” europea di considerare il ruolo, il peso ed i
modi del “riconoscimento” sociale. Quello francese, basato sull’amour propre,
diffidente verso un passaggio che può minacciare la nostra vera individualità,
e quello anglosassone, con al centro il moto della “simpathy”, che ne coglie al
contrario la positiva ricaduta dell’autocontrollo sui nostri istinti egoistici.
…….quello francese in cui il
riconoscimento è inteso per lo più dal punto di vista dell’altro che
attribuisce o no determinate qualità, e quello anglosassone in cui prevale il punto di vista del soggetto
che attribuisce all’altro il potere normativo di giudicare il nostro comportamento…… Non
esiste quindi in nessuno dei due un processo di riconoscimento inteso come un
atto simultaneo e reciproco fra due soggetti. Questo accade solamente nel
contesto tedesco in cui compare non solo questa simultaneità, questa
reciprocità, ……ma
anche una vera e propria teoria del riconoscimento…..
Non mancano anche per la Germania ragioni sociali e politiche a spiegare questo
salto di qualità. Non si assiste nell’area germanica ad un contrasto sociale
aperto e violento come quello francese fra nobiltà e borghesia, e non si
manifestano neppure timori simili a quelli inglesi della perdita della identità
morale messa in crisi dalle logiche egoistiche del mercato. Il mosaico tedesco
di piccoli principati e di alcune città “libere” non consente una dimensione
sufficientemente unitaria ed ampia per l’emergere di dinamiche come quella
francese o quella inglese. Nell’area germanica la borghesia è, agli inizi della
modernità ed ancora per un lungo periodo successivo, imbrigliata come
autorevolezza economica e politica da autentici retaggi feudali ma al tempo
stesso altamente considerata per il suo ruolo nell’amministrazione,
nell’educazione e soprattutto nella vita culturale. Qui …..gli studiosi, i filosofi, gli artisti più
importanti non provengono, come in Francia, soprattutto, ed in Gran Bretagna
dal ceto nobiliare, ma quasi senza eccezione dalla media e talvolta anche dalla
piccola borghesia….. Appare evidente che in contesto così caratterizzato la
questione del riconoscimento non poteva non assumere peso e modalità totalmente
differenti. Una differenza che appare in forma piena già nelle idee del primo
pensatore tedesco che la affronta da precursore: Immanuel Kant (1724-1804),
basandola su una categoria dello spirito corrispondente a quelle dell’amour
propre francese e della simpathy inglese: la categoria dell’ “Achtung”, del
“rispetto”. A questo concetto Kant assegna un ruolo fondamentale nel corpo
della sua filosofia morale, ma è un ruolo che si può comprendere solo prendendo
in considerazione l’architettura complessiva della sua critica della ragione
……..tutta la nostra conoscenza è
il prodotto della sintesi tra le categorie della ragione, intese come strutture
trascendentali, e le impressioni sensibili……. Vale a dire che
tutto ciò che possiamo dire del mondo è in sostanza, per quanto basato sui
sensi, un prodotto della ragione umana, della razionalità. E ciò vale non solo
per la conoscenza del mondo fisico ma anche per l’agire umano in generale e
quello morale in particolare. Honneth, considerato il tema al centro di questo
saggio, non pretende certo di fornire una qualche sintesi complessiva del
pensiero kantiano, ma ne evidenzia, con riferimento allo specifico del
riconoscimento, alcuni aspetti sicuramente rilevanti. E quindi sottolinea come Kant
riprenda da Rousseau l’idea di intendere l’ambito morale come un ambito
pienamente autonomo piuttosto che dallo stesso Adam Smith, nello sforzo di
risolvere il problema di come l’individuo determini i suoi orientamenti morali,
la prospettiva di un osservatore giudice del nostro agire. Ma il salto
filosofico che Kant opera va ben oltre
questi spunti condivisi, nella “Critica della ragion pratica” egli afferma che
…….il nostro agire morale, come
per ogni forma di conoscenza, dipende in misura decisiva, se non esclusiva,
dall’attività della ragione…… Honneth aveva nel Capitolo precedente, evidenziato
come già Smith fosse giunto, nel suo sforzo di meglio precisare la natura
dell’osservatore imparziale, a farlo coincidere, come sommatoria di più
passaggi, alla “ragione”, senza però meglio precisare cosa egli intenda con
questo termine. Kant al contrario lo afferma con assoluta precisione ……la
ragione morale coincide con ciò che tutti gli esseri razionali possono ritenere
moralmente giusto……Vale a dire che l’intervento della ragione nell’ambito della
morale significa che essa detta le regole a cui attenersi per un agire
giudicato moralmente corretto dai nostri simili. Ma che cosa può concretamente
indurre il soggetto ad aderire a questo ruolo della ragione nel campo della morale?
Quale movente può sviluppare la predisposizione a seguire la legge morale? ……ed è a questo punto che la filosofia
morale di Kant chiama in causa il rispetto, l’Achtung…… Alla
categoria del “rispetto”, nella sua accezione più estesa, spetta esattamente il
compito di dare nome all’inclinazione che ci spinge a vedere ……negli altri l’immagine fedele degli sforzi
che la legge razionale come tale ci richiede….. Vale a dire che il
rispetto è un sentimento, diverso da tutti gli altri che emergono dal nostro vivere
concreto, “prodotto” dalla ragione stessa che ci porta ad essere così convinti
della sua necessità da accettare che diventi una limitazione alle nostre
inclinazioni egoistiche. Fino ad assurgere alla piena coincidenza fra il
soggetto meritevole di rispetto e la legge morale; una frase celebre di Kant
suona esattamente così …..ogni
rispetto verso una persona è propriamente solo rispetto verso la legge di cui
essa (quella persona) ci
offre l’esempio….. E’ esattamente questo, secondo Kant, il compito del rispetto
che ci dobbiamo reciprocamente l’un l’altro: quello di riconoscere nell’altro
il nostro stesso sforzo di realizzare la legge morale. Esce quindi di scena nel
pensiero di Kant il ruolo del riconoscimento sociale, il rispetto risponde ad
una logica morale e razionale che non richiede alcun supplemento di un ritorno
di gratificazione e prestigio sociale. Il riconoscimento, che si delinea in
forma embrionale nel concetto kantiano di rispetto, è quindi radicalmente
diverso da quello che si è visto nel contesto francese ed anglosassone. …….non si tratta di un riconoscimento a cui
il soggetto ambisce ma al contrario di un riconoscimento che attribuisce o
addirittura deve agli altri soggetti…. Ed in questo senso il
rispetto, ed il riconoscimento che ne deriva, sono dovuti a tutti i soggetti
umani, e portano, volontariamente ad una limitazione dei propri interessi
egoistici per fare spazio a quelli, di corrispondente pari valore dei nostri, degli
altri soggetti. E’ evidente secondo Honneth che questo implica, come ricaduta
concreta sul piano dei rapporti sociali, la pari dignità morale di tutti i
cittadini. Resta però in qualche modo aperta nel pensiero kantiano una
difficoltà logica: se da un lato il rispetto dovrebbe secondo Kant manifestarsi
spontaneamente ogni qual volta si avvia un rapporto interpersonale, dall’altro
sembra poter essere efficace solo se all’altro viene riconosciuto il diritto al
rispetto in base ad una non meglio precisata preliminare forma di giudizio. Ed
è esattamente su questo scoglio logico che si innestano le ulteriori
precisazioni del riconoscimento messe a punta prima da Johann Fitche (1762-1814) e poi
da Friedrich Hegel (1770-1831). Ambedue sono motivati da una perplessità
di carattere generale verso il sistema morale kantiano: ……..che cosa davvero motiva gli esseri umani a
seguire dei precetti morali razionali?....... e sono convinti che la
risposta di Kant affidata ad un “sentimento” per quanto di natura particolare
come quello del rispetto,, fosse ambigua, inadeguta. Di pochi anni più anziano
di Hegel è Fitche il primo a trovare, all’interno della sua generale visione
filosofica, una nuova risposta a questa domanda. Anche in questo caso, come per
Kant, Honneth non si avventura in una sintesi generale delle idee fitchiane, ma
ne riprende alcuni passaggi fondamentali per giungere al nocciolo del concetto
di riconoscimento. La critica generale mossa da Fitche a Kant consta nella tesi
che la costruzione/rappresentazione della realtà non è un pura operazione
mentale ma va pensata come una operazione pratica di un Io perennemente attivo.
Questo Io tuttavia, per raggiungere piena coscienza della sua capacità di
rappresentazione della realtà, ovvero della sua autonomia da essa, deve
necessariamente entrare in rapporto con l’altro. Fin tanto che si misura con la
sola materia mondo non può infatti ricavarne l’intuizione delle proprie
capacità, questa intuizione si manifesta
solo dall’incontro con altri soggetti a lui simili nella sua soggettività. Ed è
questa la dimensione entro la quale si concretizzano i rapporti interpersonali.
Il testo in cui Fitche affronta in modo analitico queste tematiche è il suo
saggio “Fondamento del diritto naturale secondo i principi della scienza” che
……può essere considerato il
documento base dell’idea specificamente tedesca di riconoscimento…….. Già il titolo stesso lascia intendere come
per Fitche il rapporto tra i soggetti sia un “rapporto giuridico”, che si
determina sulla base di una precisa caratteristica. Questa caratteristica
consiste nel fatto che ….l’incontro con un altro soggetto viene
percepito dal soggetto nella forma di un “appello”…….
una sorta di messaggio che lo invita ad agire. Vale a dire che fra i due
soggetti che entrano in contatto si innesta una rapporto che parte dalla libera
scelta del soggetto che interpella di lanciare questa forma di messaggio, di
appello, al soggetto che viene interpellato il quale è a sua volta altrettanto
libero di raccogliere o meno l’invito. Questo incontro può avvenire soltanto
perché, come si è visto, ambedue si riconoscono come esseri razionali. Quello
che è decisivo, oltre alla necessità di entrare in rapporto per la ragione poco
innanzi evidenziata, è il fatto che ambedue i soggetti, quello che interpella e
quello che viene interpellato, sono consapevoli che l’incontro avviene per
libera scelta di entrambi e che ambedue devono essere disposti a limitare i
propri interessi egoistici per fare spazio a quelli dell’altro. Fitche
definisce questa disponibilità reciproca “autolimitazione volontaria”, ma al di
là del termine utilizzato essa in gran misura coincide con il “rispetto”
kantiano …..l’appello
va quindi inteso come un segnale in cui è implicito il reciproco “rispetto”….. Ma
perché l’incontro, l’appello, l’autolimitazione, diventino fruttuosi, reali
deve realizzarsi una ulteriore condizione, quella che determina il vero e
proprio “riconoscimento”, una condizione che Fitche introduce con parole
divenute celebri ……nessuno
dei due può riconoscere l’altro se tutte e due non si riconoscono
reciprocamente e nessuno dei due può trattare l’altro come un essere libero se
tutte due non si trattano così reciprocamente…… Rispetto a Kant
pertanto Fitche vede nel reciproco rispetto non una non meglio definita volontà
di obbedire ad un precetto morale razionale ma come il presupposto necessario
della comprensione di ogni rapporto comunicativo e della presa di coscienza
della propria capacità di rappresentazione del mondo, della realtà. Ed in
questo senso ……perché
i due soggetti si sentano motivati al reciproco rispetto morale non occorre
chiamare in causa nessun “sentimento”, per indurli ad un tale rispetto è
sufficiente lo sforzo di interpretare le parole di chi gli sta davanti….. Appare
evidente, secondo Honneth, come il salto logico della costruzione del
riconoscimento operato da Fitche sia radicalmente innovativo rispetto a Kant ed
ancor più riguardo a quanto elaborato nelle esperienze francesi ed inglesi. Il
merito di Fitche di aver in effetti introdotto una vera e definita concezione
del riconoscimento consiste nel suo aver messo al centro dei rapporti
interpersonali non il valore sociale (Francia), non la capacità di
autocontrollo morale (Gran Bretagna) quanto piuttosto la nostra personale
libertà, quella che siamo disponibili a limitare affinché a sua volta ci venga
riconosciuta. ……..secondo
Fitche la trasformazione di una libertà semplicemente naturale, spontanea,
nella legittima aspirazione, condivisa da tutti gli esseri razionali, ad
autodeterminarsi….. Honneth da un lato evidenzia il salto di qualità operato da
Fitche dall’altro non può non condividere le critiche, emerse già al tempo, che
lo schema fitchiano soffra di un evidente limite di astrazione: il modello del
riconoscimento elaborato può davvero essere applicato a soggetti “in carne ed
ossa”? A tentare di sanare questo rischio di astrattezza salvando il valore del
concetto elaborato interviene la ripresa dell’idea di riconoscimento da lì a
poco attuata da Hegel, che la articola nel corso della sua intera attività
filosofica in due successive ed in parte differenti concezioni all’interno
della generale critica che egli muove a Kant ed a Fitche, critica che consiste
nella considerazione che …….non
esiste separazione tra un mondo “empirico” ed un mondo “intellegibile”…… Lo
scopo della filosofia non consiste secondo Hegel nello stabilire le condizioni
necessarie per condurre la ragione umana ad autorealizzarsi, ma deve essere
quello di ripercorrere i fenomeni reali compiuti dallo Spirito (che non è per Hegel
una entità trascendente, né la sola coscienza di sé psicologica o mentale, ma
molto più concretamente la cultura umana che si forma nel suo processo
evolutivo di liberazione da ogni condizionamento naturale per raggiungere una
piena autonomia). Appare evidente che in questa architettura filosofica deve
esserci, a maggior ragione, immediata coincidenza tra storia reale e storia
della Spirito. …….già il giovane Hegel tenta di riprendere
il modello fitchiano del riconoscimento in un modo tale da fornire concreta
fisionomia ad eventi che sono comunque costitutivi per la genesi dello Spirito…… Ed
è l’amore tra l’uomo e la donna a rispecchiare, in questa giovanile fase del
pensiero hegeliano, un concreto rapporto interpersonale che testimoni ……..il riconoscersi reciprocamente come
“esseri liberi”….. Per il giovane Hegel l’autolimitazione ai propri interessi
egoistici che in amore si compie per fare posto all’altro è la forma più
evidente di quel rispetto reciproco che aveva dato tanto filo da torcere a
Kant. Hegel completa poi questa concezione del riconoscimento interpersonale
che si concretizza nel processo amoroso con una tesi divenuta famosa ……queste forme di riconoscimento reciproco
di cui l’amore è l’esempio per eccellenza suggeriscono un “ritrovare sé stessi
nell’altro”……. Ovvero un processo di riconoscimento che per realizzarsi
pienamente necessita di tre condizioni: deve essere reciproco – deve consistere
in una duplice autolimitazione che si completi – deve essere evidente e intellegibile
nelle sue forme espressive. La restrizione esemplificativa del riconoscimento
alla relazione amorosa non ha per Hegel solo un valore esemplare, ma testimonia
il salto logico compiuto. Egli non è interessato ad individuare le “strutture”
universali, eterne e valide ovunque, dei rapporti interpersonali, ma guarda
alle forme storiche che testimoniano alcuni tratti specifici dell’evoluzione
dello Spirito. In questo senso si spiega anche la successiva evoluzione dalla
visione giovanile del riconoscimento. Seguire l’evoluzione complessiva delle
forme dello Spirito lo porta inevitabilmente ad ampliare i fenomeni esemplari
in senso storico e sociale che via via prende in esame. Hegel si vede in
qualche modo “costretto” ……a
riformulare il ruolo del riconoscimento come fattore di libertà (dello
Spirito) spostandolo
decisamente in direzione della teoria sociale…… Questa estensione
dello sguardo comporta cambiamenti importanti:: innanzitutto il fatto che il
riconoscimento non esprime più un atto individuale ma diventa l’espressione dei
valori nei quali i soggetti sono cresciuti, la loro “seconda natura” che di
fatto decide, seguendo una costante evoluzione storica, quali aspetti della
soggettività avranno di volta in volta più valore. E, legato a ciò, il fatto
che questi processi di riconoscimento in costante evoluzione possono esprimersi
anche nella forma di aperti conflitti sociali, in ispecie là dove l’ordine sociale
dominante attribuisce ai soggetti un diverso peso valoriale. In un celebre
capitolo della “Fenomenologia dello Spirito” Hegel tratta ad esempio
dell’impossibilità di un riconoscimento fra uguali fra “servo” e “padrone”.
L’evoluzione in Hegel del concetto di riconoscimento trova in questi passaggi
la sua evidenza più completa ……Rousseau,
Hume, Smith, prima, e lo stesso Kant, dopo, vedono nel riconoscimento una
“inclinazione” naturale, Hegel lo pensa come un interesse razionale, come
l’interesse della ragione per la propria realizzazione……. In
questo modo Hegel, concretizzando le intuizioni di Fitche, trasforma il
concetto kantiano di “rispetto” in senso storico e sociologico. I rapporti
interpersonali sono guidati dalle norme su cui poggiano le rispettive
esistenze. ……se poi
questi contesti di riconoscimento vengono percepiti come troppo angusti sarà la
nostra instancabile volontà di autonomia a far sì che nuovi conflitti preparino
il terreno a nuova e forme di riconoscimento…… Secondo Honneth è
difficile sostenere, sulla base del concreto processo di evoluzione del
successivo pensiero filosofico germanico, che le idee hegeliane abbiano
prodotto una organica e duratura idea “tedesca” di riconoscimento, anzi è semmai
possibile sostenere il contrario, ma è altrettanto certo che sotto traccia qualcosa
sia sempre rimasto se ancora nell’opera teatrale di Bertold Brecht (1898-1966) si
coglie con evidenza l’idea guida che …….ogni incontro tra esseri umani è condizionato dall’attesa
reciproca di un trattamento “da pari a pari” e che ogni violazione di questa auspicata parità debba generare
conflitti…….
5) Forme di riconoscimento a confronto: un tentativo di
riassunto sistematico
Honneth, al termine della sua
analisi della costruzione del concetto di riconoscimento nelle tre aree
culturali prese in esame, manifesta un comprensibile scetticismo sulla
possibilità che da tre percorsi così differenziati possa emergere una qualche
forma di sintesi unitaria. ….questi
tre paradigmi differiscono in modo evidente non solo dal punto di vista delle
aspettative e degli atteggiamenti assunti dai soggetti ma anche dal punto di
vista degli effetti che l’incontro intersoggettivo produce sui soggetti interessati…….
Anche procedendo per astrazione, cercando quindi di individuare l’idea di fondo
di riconoscimento che emerge nei tre contesti culturali e tralasciando le
diversità più inconciliabili, appare infatti evidente che in Francia il riconoscimento
è qualcosa a cui il soggetto aspira, mentre in Gran Bretagna diventa la
possibilità di essere accolti come membri legittimi della propria comunità, per
diventare in Germania la condizione di base per il soggetto per costruirsi come
essere razionale ed autonomo. Nel primo caso il soggetto si abbandona al
giudizio sociale, nel secondo si sforza di controllare i propri comportamenti
per guadagnare legittimazione morale, nel terzo lotta per la propria autonomia
all’interno della comunità sociale. Nel paradigma francese il riconoscimento è
di fatto un processo negativo, in quello anglosassone diventa positivo e
socialmente vantaggioso, in quello germanico i due giudizi si pareggiano nel
reciproco rispetto. Ciò fermo restando la domanda che Honneth si e ci pone è quella
di capire……..se si
tratta di tre angolazioni diverse da cui esaminare lo stesso fenomeno oppure di
tre aspetti complementari che potrebbero
ancora comporsi in un quadro unitario……. Occorre in questo senso
considerare che i tre diversi approcci hanno continuato a seguire traiettorie
diverse anche nella elaborazione filosofica e sociologica contemporanea e che
nel linguaggio comune, unificato dalla globalizzazione neo-liberista, il
concetto vincente, ancor che sicuramente deformato perché privato di ogni
autocontrollo dell’egoismo, è certamente quello anglosassone. Il riconoscimento
è ovunque, in Occidente, in gran misura un …….sinonimo di distinzione sociale e un attestato di buona
condotta, la lode piuttosto che il biasimo sono le pubbliche attestazioni di
riconoscimento…… al punto da essere ormai alla base dell’educazione infantile,
della creazione adolescenziale della propria identità sociale e della
valutazione del comportamento, e del collegato successo sociale, degli adulti.
Ma Honneth non demorde e, cercando di enucleare elementi unificanti, ritiene
possibile una integrazione dei tre modelli. ……si vedrà infatti che alcuni elementi delle tradizioni di
pensiero sin qui esaminate si prestano più di altri ad integrarsi con il
restante panorama teorico confluendo in un quadro coerente della nostra
dipendenza dal riconoscimento sociale….. Questa possibile
integrazione può essere tentata solo dopo aver individuato, fra i tre modelli
in esame, quello che di più si presta ad essere assunto come il più promettente
a spiegare una visione della società come un tutto, per poi, ciò fatto, capire
quali correzioni, quali ampliamenti sarebbero necessari per recuperare un
legame con i restanti due paradigmi. Non appare una sorpresa, dopo quanto
esaminato nei precedenti capitoli, che Honneth ritenga il modello tedesco, in
ispecie nella sua ultima versione hegeliana, quello più adatto ad essere
assunto come base di partenza. Lo è perché, in misura maggiore rispetto agli
altri due, si sforza di comprendere ……che cosa significa per noi esseri umani vivere in un mondo
caratterizzato innanzitutto dal fatto di orientarci su norme condivise……. Ma
in particolare perché, nell’idea di riconoscimento di Hegel, si coglie lo
sforzo di collegare i meccanismi alla base dei rapporti interpersonali non solo
e non tanto alle loro articolazioni astratte ma anche se non soprattutto …….alle
forme storiche sedimentate nelle istituzioni umane e quindi alle norme via via
differenti che le hanno ispirate……. Hegel, storicizzando il mondo
delle idee sui rapporti umani, di fatto rende le stesse basi teoriche del
riconoscimento “fatti storici” consentendo così, anche nelle loro versioni
francese e inglese, di essere valutate come forme specifiche “all’interno” del
complessivo percorso dello “Spirito” hegeliano verso la conquista della piena
autonomia umana dalla natura. Questo “inglobamento” storico consente non solo
di riflettere su un unicum storico e teorico, ma anche di chiederci ……se ed
in quale misura gli altri due modelli possano a loro volta contribuire a
correggere e perfezionare la specifica teoria proposta da Hegel…….. permettendoci
in questo modo di pervenire a quella sintesi unitaria dei tre modelli cercata
da Honneth. Il primo significativo passo in questa direzione consiste nel non impossibile
compito di gettare un ponte tra la teoria hegeliana del riconoscimento, assurta
quindi a canovaccio di base, e l’idea, tipicamente anglosassone, della funzione
di controllo di quel “osservatore interno” che abbiamo incontrato nel Capitolo
3. Un passo che si rende necessario proprio per quei limiti oggettivi,
analizzati in precedenza, che la riflessione hegeliana ha nella sua
individuazione delle ragioni che inducono i soggetti sociali a seguire le norme
morali create dalla comunità in cui vivono. Eppure è questo un aspetto decisivo
per la sua stessa idea dell’uomo come soggetto spirituale che agisce non solo
per impulsi naturali ma soprattutto perché guidato proprio dalle “norme”
razionali, che storicamente, attraverso un lungo processo di costruzione, egli
stesso ha via via perfezionate e fatto progredire. …….E’ proprio su questo punto, in cui si
tratta di spiegare il passaggio dalla creazione di norme comuni ad un vero e
proprio accordo sociale, che la teoria
del riconoscimento inglese sembra in grado di completare ed integrare la
teoria hegeliana…… Hegel risolve la questione ricorrendo ad un generico concetto
di ispirazione aristotelica: quello di “abitudine”, legato all’idea, anch’essa
di derivazione aristotelica, del comportamento morale come nostra “seconda
natura”. Sembra cioè che il rispetto delle norme morali, spesso faticosamente
costruite nel corso del tempo, avvenga soltanto perché questa “seconda natura”
ci induce a ciò giocando sulla forza dell’abitudine alle stesse. Appare
evidente il grande vantaggio che Hegel avrebbe avuto nel superare questo
scoglio se……avesse
accolto le riflessioni di Hume e Smith sulla formazione degli abiti morali che
spiegano i processi psicologici che
portano gli individui ad interiorizzare le norme adottate dalla comunità……. La
molla della “abitudine” appare davvero troppo debole, quella di Adam Smith
della aspirazione dell’individuo ad essere accolto nella comunità proprio
seguendo le regole morali da essa dottate è paradossalmente molto più
hegeliana, perché rappresenta una coerente traduzione concreta dell’impulso
spirituale che spinge l’uomo a realizzare la sua razionalità. Non solo: l’idea
hegeliana (aristotelica) che gli impulsi morali
si traducano nel tempo, con l’abitudine, in una sorta di automatismo
quasi “fisico” impallidisce di fronte a quella ben più completa ed articolata
di Hume e di Smith che vedono il processo di appropriazione delle norme morali
basato sul …..fatto che
l’individuo impara a riprodurre al proprio interno le aspettative dell’ambiente
sociali in cui vive fino al punto che
tali aspettative, tradotte nella voce
della coscienza dell’osservatore interno, riescono a controllare dall’interno
il suo comportamento……. L’idea di Smith di questo “giudice interiore” è una corretta
ed importante evoluzione proprio del concetto aristotelico della “seconda
natura”, risolve una lacuna significativa dell’idea hegeliana di
riconoscimento, e conforta l’idea di Honneth di rappresentare un punto di
giunzione fra i concetti di riconoscimento tedesco e anglosassone assai lontani
tra di loro nella loro impostazione complessiva. Ben più complesso, secondo
Honneth, è il tentativo di individuare un collegamento con l’idea francese di
riconoscimento. Per le oggettive profonde differenze dagli altri due modelli e
per il fatto che, come si è visto nel Capitolo 2, la comune visione negativa
del riconoscimento ha due distinte coniugazioni: quella classica di Rousseau e
quella più vicina ai nostri giorni di Sartre, di Lacan e di Althusser. Honneth
inizia a valutare la possibilità di un punto di incontro con la visione di
Rousseau dell’amour propre e della collegata possibile perdita dell’Io per
ottenere il riscontro sociale. Lo fa recuperando quelle timide aperture, anche
se in buona parte nuovamente rinnegate in età avanzata, che Rousseau ha verso
un possibile ruolo positivo del riconoscimento incrociandole con il
corrispondente giudizio di Hegel sull’incidenza negativa che ambizione e smania
di successo possono avere sul “rispetto” alla base dei rapporti interpersonali.
In particolare Hegel in significativi passi delle sue opere si dimostra attento
ai …….fenomeni psicologici derivanti
dall’esclusione di determinati individui o gruppi dalle pratiche collettive di
riconoscimento reciproco…… Come possono reagire coloro che non
vedono soddisfatte, a torto o ragione che sia, le loro aspettative di
riconoscimento? L’attenzione hegeliana a questa domanda, coerente con la sua
visione dell’uomo come soggetto storico concreto, si traduce in una
constatazione che lo avvicina di molto ai timori di Rousseau ……..questi membri della società sarebbero così
sbilanciati sul lato egoistico da non poter far altro che dar prova della
propria onorabilità con pretenziose ostentazioni dei propri talenti, sarebbero
cioè spinti da una smodata inclinazione alla vanteria e all’esibizionismo….. E’
possibile pertanto sostenere che anche Hegel abbia inteso le forme dell’amouir
propre, che ben conosceva, come un distorto effetto psichico del mancato riconoscimento.
E quindi che per entrambi i due filosofi ……l’egoismo, la vanità, l’ambizione sono possibili fenomeni
reattivi in una comunità fondata sul riconoscimento reciproco……
Restano tra i due differenze enormi ma sul piano della psicologia del riconoscimento
sociale, sulle sue possibili distorsioni egoistiche, le idee di Rousseau
possono obiettivamente integrare quelle di Hegel. Si può dire la stessa cosa
anche per l’altro ramo della visione francese, così lontano da Rousseau,
culminante con gli scritti di Louis Althusser? Con la sua idea negativa del
riconoscimento sociale visto come una imposizione all’individuo dei ruoli
assegnati dai rapporti di forza sociali? Impresa ancora più complessa secondo
Honneth ma che trova una feconda prospettiva in importanti considerazioni che
Hegel fa a margine di una sua clamorosa contraddizione logica relativa al ruolo
della donna nell’ambito del rapporto coniugale. La contraddizione, non risolta,
consiste nell’evidente incongruenza fra due affermazione che al riguardo Hegel
svolge. Se da una parte alla donna, n quanto soggetto, individuo, compete al
pari dell’uomo il diritto universale dello Spirito di anelare alla conquista della
propria personale autonomia dall’altra però, non appena viene vista nel ruolo
di moglie, di madre, la donna viene chiamata …….a quella sensibilità sentimentale che le impone di sottomettersi
all’uomo e di cercare il proprio compito nella casa…….
Non solo una evidente incongruenza ma una inaccettabile tradizionalistica forma
di misoginia. Ma come tenta Hegel di conciliare due affermazioni in così
evidente contrasto? La sola opportunità è quella di individuare una ragione, in
qualche modo sostenibile, in base alla quale la donna possa “liberamente”, ed
in armonia con la stesa autonomia di Spirito di cui è titolare, accettare la
propria sottomissione. Hegel deve cioà negare alla donna la possibilità di
piena autonomia e di rifiuto della sottomissione alla quale è destinata ……..in virtù di qualcosa che si trova al di
fuori della norma di riconoscimento, qualcosa che la limita a monte…… Questo qualcosa sta, secondo Hegel, nella
“natura”, nella presunta vocazione “naturale” alla sottomissione, nel suo destino
naturale alla culla ed al focolare. Un’idea ancora una volta non solo
insopportabile e conservatrice ma che soprattutto contraddice clamorosamente la
stessa fondamentale idea hegeliana di uno spirito che per conquistare la
propria autonomia non esita ad entrare in conflitto con i condizionamenti
naturali. Questo diritto nel caso della donna viene negato proprio chiamando in
causa la forza di uno stato di natura giudicato non modificabile. Dalla
incongruenza logica della riflessione di Hegel, del tutto incapace di dare soluzione
ad una contraddizione che resta nel suo ragionamento del tutto irrisolta, è
possibile al contrario uscirne fuori adottando la riflessione critica di
Althusser sui limiti che ai percorsi di riconoscimento sono imposti da rapporti
e meccanismi sociali funzionali al potere. Quando questi meccanismi, esattamente
come nel caso della donna in Hegel e più in generale nei contesti sociali
capitalistici, al termine di un lunghi percorsi di forzata imposizione si sono
ormai sedimentati in profondità nella rete dei rapporti interpersonali essi
vengono vissuti dagli stessi individui che ne sono vittime come …….aspetti costitutivi della propria natura……..
al punto che ……il
rapporto di riconoscimento che in teoria dovrebbe garantire la libertà da
dominio diventa uno strumento di dominio in quanti vengono risucchiati in una
forma di riconoscimento che costringe i soggetti interessati a considerarsi
portatori di proprietà immutabili perché ritenute naturali……
Honneth afferma quindi che un limite evidente e contraddittorio della teoria
hegeliana del riconoscimento, può essere risolto, accrescendone la stessa
validità complessiva, proprio da un’idea
di riconoscimento, quella di Althusser, del tutto diversa ma sicuramente meglio
attrezzata a riconoscere l’incidenza delle logiche di potere sui meccanismi
sociali dei rapporti interpersonali, recuperando così non solo un prezioso e
risolutivo contributo logico ma una fruttuosa relazione fra due modelli di
riconoscimento, quello tedesco e quello francese, anche nella sua versione
contemporanea, che restano complessivamente molto distanti tra di loro.
Al termine di questo tentativo
di conciliazione ed integrazione in un unico concetto “assemblato” di
riconoscimento Honneth ribadisce, al di là delle singole questioni affrontate,
che il modello tedesco di Fitche ed Hegel resta l’architrave fondamentale di
una teoria unificata di riconoscimento in primo luogo perché essi ……..non intendevano semplicemente indicare un
fenomeno rilevante per la vita sociale ma la sua stessa condizione costitutiva,
noi creiamo le condizioni per una coesistenza sociale solo riconoscendoci
reciprocamente come persone….. I rapporti interpersonali che si
possono realizzare sulla base del reciproco rispetto di impronta tedesca
restano quelli meglio improntati alla realizzazione concreta di coesistenze
comunitarie. Un contributo importante in questo senso viene però dalla figura
dell’osservatore interno definita da Adam Smith, una figura che meglio spiega
le ragioni e le modalità con le quali tutti noi siamo indotti, dal bisogno di
sentirci accolti dalla comunità sociale, a fare nostre le norme morali che
pongono precisi limiti ai nostri egoismi e d interessi particolari. Occorre
inoltre avere consapevolezza che in questo quadro ottimale eventuali situazioni
di mancato riconoscimento rischiano di essere motivo per il riaffermarsi di
forme egoistiche di vanità ed ambizione che non solo pregiudicano i rapporti
interpersonali ma che, come indicato da Rousseau, impediscono la vera coscienza
e realizzazione del proprio Io. Un secondo aspetto determinante nello scegliere
il modello tedesco come base per il riconoscimento consiste poi nella sua
volontà di non essere solo un modello astratto per divenire un processo storico
reale …….di cui fanno parte le
forme istituzionali, gli abiti morali e gli uomini in carne ed ossa alle prese
con le prime e con i secondi……. Questo aspetto è
certamente decisivo ma automaticamente implica la corrispondente consapevolezza,
sollecitata dalle contemporanee idee, ancorché critiche, di riconoscimento, di
quanto e come possano gravare le possibili ragioni di conflitto sociale sia
sull’ampiezza del suo campo di applicazione sia sulle figure che ne sono
direttamente coinvolte. …….ora
sappiamo che una teoria del riconoscimento ispirata ad Hegel non può fare a
mano di una diagnosi delle patologie
possibili, un esame dei blocchi sempre in agguato, un’analisi del carattere
conflittuale del riconoscimento reciproco.