Forse sorprende un poco scoprire che i temi della
sostenibilità ambientale, al centro del dibattito politico e culturale, siano
studiati dalla scienza anche come dati oggettivi per modificare la
classificazione delle ere geologiche. Ma in effetti è anche questa una prova in
più dell’incredibile impatto che Homo sapiens ha avuto sulla vita del nostro
pianeta. Se quindi ida una parte è nteressante conoscere il dibattitto scientifico
attorno al rapporto tra Olocene e Antropocene, ossia quanto abbia ormai pesato
anche in termini geologici “l’epoca umana”, dall’altra si accentuano legittime
preoccupazioni sulla nostra vera consapevolezza del peso delle nostre azioni
sul pianeta che ci ospita. Non solo per scrupolo scientifico, ma per capire in
che direzione andrà il nostro futuro…….se futuro ci sarà!
Come abbiamo creato l’Antropocene
Le discussioni
scientifiche, storiche e politiche
attorno alla nascita e alla definizione
dell’epoca umana.
Articolo di Alesio
Giacometti – dal sito on-line “La Tascabile”
Nel
corso dell’ultimo secolo la scoperta di nuovi metodi di datazione ha spinto
indietro l’origine del pianeta Terra fino a 4,54 miliardi di anni fa, un tempo
molto più antico e remoto di quanto credessero i primi geologi e naturalisti.
“Se condensassimo tutta la storia inconcepibilmente lunga della Terra in un
solo giorno”, scrivono Simon Lewis e Mark Maslin in “Il pianeta umano” (Einaudi,
2019), “i primi esseri simili a noi
comparirebbero a meno di quattro secondi dalla mezzanotte”. Commensurato
allo sterminato silenzio che l’ha preceduto, il recente clangore della civiltà
umana è come lo stridulare di una formica nell’universo. Eppure da quando
abbiamo iniziato a mettere assieme i pezzi – età della Terra, comparsa di Homo
sapiens, danni agli ecosistemi – ci siamo presto resi conto di quanto fosse
pesante l’impronta impressa dalla nostra specie. Come notano Lewis e Maslin, “già nell’Ottocento i geologi e gli studiosi
di geologia discutevano del periodo ecologico più recente come dell’epoca
umana”. Oggi le prove dell’impatto umano sul sistema Terra abbondano. Come
le placche tettoniche, le eruzioni vulcaniche e gli impatti di meteoriti,
secondo molti scienziati noi umani siamo diventati un agente geologico, una
forza tellurica e straripante, capaci di modificare l’evoluzione del pianeta.
Per questo, dicono, è arrivato il momento di introdurre l’Antropocene nella
scala dei tempi geologici: viviamo in una nuova epoca geologica, l’epoca umana.
La definizione formale di Antropocene e della sua data di inizio rimangono controversi, però, e il dibattito che si è creato attorno a questo
termine è una discussione non solo scientifica, ma anche, inevitabilmente,
storica e politica.
Tempo profondo
Tra i
libri che il giovane Darwin portò con sé nel suo viaggio da naturalista intorno
al mondo spiccava “Principi di geologia”, di Charles Lyell (1832).
Quanto era vecchia la Terra?, si domandava Darwin leggendo Lyell. Quanto tempo
aveva avuto la vita per diversificarsi nel visibilio di forme esistenti,
osservabili in natura, e di forme estinte, fossili senza nome incastonati nella
roccia? Il primo tentativo di calcolare sperimentalmente l’età della Terra era
stato condotto soltanto mezzo secolo prima dal conte di Buffon, il quale si era
persuaso che i pianeti fossero in origine blocchi di materia incandescente che
si staccarono dal Sole e raffreddarono in migliaia, forse milioni di anni.
Cercando di riprodurre in laboratorio un simile processo di raffreddamento con
piccole sfere di metallo fuso, Buffon calcolò che la Terra si fosse formata
esattamente 74.832 anni prima del suo esperimento. In Les Époques de la
nature (1778), il conte arrivò addirittura a ipotizzare che una Terra così
vecchia avesse attraversato almeno sette diverse epoche geologiche, ultima
delle quali si ardì profeticamente a chiamare l’Epoca dell’Uomo, quella in cui
“l’intera faccia della Terra reca l’impronta del potere umano”. Nel corso
dell’Ottocento la scienza delle rocce progredì enormemente rispetto i
rudimentali esperimenti di Buffon, e con essa le stime sull’età della Terra si
fecero di gran lunga più profonde, ma rimase intatta l’idea che nell’ultima
epoca geologica le azioni antropiche fossero diventate la causa primaria di
cambiamenti permanenti. In Europa, i geologi Thomas Jenkyn, Samuel Haughton e
Antonio Stoppani suggerirono di chiamare l’epoca in corso “antropozoica”,
mentre negli Stati Uniti il coevo James Dwight Dana propose l’etichetta di “età
della mente” o, in alternativa, di “era dell’uomo”. Alla fine però, fu Lyell a
spuntarla e ad imporsi sulla nomenclatura geologica coniando il termine
Olocene, ossia “del tutto recente”, per designare i dieci millenni di storia
che dalla fine dell’ultima grande glaciazione (detta würmiana) portano
alla scoperta dell’agricoltura e da lì alla civiltà moderna. Secondo Lyell la
Terra era vecchia di milioni di anni, un tempo sufficiente a validare la teoria
dell’evoluzione delle specie di Darwin. Di converso, fu proprio la comparsa di
una nuova specie fossilizzata negli archivi stratigrafici – assieme a un
cambiamento repentino nella chimica delle rocce – a diventare il principale
marcatore per la suddivisione dei tempi geologici: ai mutamenti dell’ambiente
corrispondono sempre fluttuazioni della vita, storia delle rocce ed evoluzione
delle specie sono intrecci di una fabula medesima. Il passaggio dall’Adeano
all’Archeano, avvenuto grosso modo 4 miliardi di anni fa, è ad esempio segnato
dalla comparsa dei primi esseri viventi sul pianeta Terra, batteri e archei.
Dall’Archeano al Proterozoico, 2 miliardi e mezzo di anni fa, entrano in scena
i cianobatteri, organismi multicellulari all’origine del cosiddetto “grande
evento ossidativo” che liberò ossigeno nell’atmosfera e creò le premesse per la
comparsa di esseri in grado di utilizzarlo come principale fonte di energia,
gli eucarioti. Il passaggio al successivo Fanerozoico ha invece origine con
l’esplosione cambriana e la comparsa sulla terra di un tripudio di forme
complesse di vita animale, come i vermi priapulidi che a partire da 541 milioni
di anni fa lasceranno impressa negli archivi geologici la tipica forma a “U”
della loro tana.
Leggendo
Darwin, Lyell si convinse a sua volta che l’Olocene avesse avuto origine con la
comparsa di una specie animale inedita, uno scherzo della natura
destinato a cambiare irreversibilmente il profilo geologico del pianeta: noi
stessi, gli umani. Oggi sappiamo che si sbagliava, è oramai comprovato che Homo
sapiens si separò dalle altre specie del genere Homo circa 200.000
anni fa, e non all’inizio dell’Olocene. Soltanto nel 2008 l’Olocene, con
ratifica ufficiale dell’Unione Internazionale di Scienze Geologiche, venne
riconosciuto formalmente quale epoca geologica iniziata 11.650 anni BP (before
present) e tuttora in corso. Il suo chiodo d’oro, il marcatore che ne segna
l’inizio, non è la comparsa nei sedimenti di una nuova forma di vita ma una
firma chimica, un cambiamento della concentrazione di deuterio in una carota di
ghiaccio della Groenlandia settentrionale. Inaspettatamente la definizione
scientifica dell’Olocene non fu controversa, i cambiamenti nei sedimenti
terrestri nel passaggio dall’ultima grande glaciazione a condizioni temperate
interglaciali erano evidenti, e tuttavia l’originaria connotazione semantica di
“epoca umana” finì per smarrirsi.
Antropocene
o no?
Negli
ultimi secoli abbiamo introdotto in natura più di duecento minerali prima
inesistenti, disperso particelle carboniose sferoidali e polimeri plastici
dalla cima dell’Everest alla Fossa delle Marianne, rivestito la superfice
terrestre con una tecnosfera da 30 trilioni di tonnellate di cemento e metallo.
Abbiamo condotto all’estinzione l’83% delle specie animali viventi e dimezzato
la popolazione di alberi del 50%. Abbiamo anche riversato in aria oltre duemila
miliardi di tonnellate di anidride carbonica, il cui livello di concentrazione
nell’atmosfera è oggi il più alto degli ultimi tre milioni di anni. Se
dovessimo estinguerci domani, i nostri prodotti materiali sparirebbero in meno
di diecimila anni, ma le alterazioni biogeochimiche dei cicli del carbonio, del
fosforo e dell’azoto rimarrebbero per milioni di anni, dopo di noi. “Questo cambiamento permanente del sistema
Terra”, commentano laconici Lewis e Maslin, “resterà nei sedimenti geologici per sempre”. Perché, allora, per
designare l’epoca geologica in corso – l’epoca umana, appunto – nel 2008
l’Unione Internazionale di Scienze Geologiche propese per il termine Olocene,
che non cita esplicitamente gli esseri umani quali causa importante del
cambiamento geologico e climatico? Del resto, nei primi anni Duemila
l’etichetta Antropocene era senza dubbio già nota alla comunità scientifica.
Dopo alcuni usi del termine in contesti informali sin dagli anni ’80, furono il
Nobel per la chimica Paul Crutzen e il limnologo Eugene Stoermer a recuperare
dall’oblio il concetto di “epoca umana”, introducendo per primi la parola
Antropocene in un documento con finalità scientifiche, la newsletter
dell’International Geosphere-Biosphere Programme (IGBP). E tuttavia, con la
scelta di ratificare l’ingresso dell’Olocene nella scala dei tempi geologici,
l’Unione Internazionale di Scienze Geologiche scelse di minimizzare e marginalizzare
le preoccupazioni ambientali, optando per un termine che Lewis e Maslin dicono
più ovvio, e molto meno controverso, di Antropocene come nome geologico
dell’epoca attuale. “Olocene era il termine che un accademico che
preparava i futuri geologi a vivere nell’industria petrolifera o mineraria
avrebbe scelto per quieto vivere”. Fu una decisione codarda, quindi,
cautelosa e distorsiva? La comunità dei geologi provò a correggere il tiro solo
un anno più tardi, nel 2009, con l’istituzione formale dell’Anthropocene Working Group (AWG),
un manipolo di esperti incaricati dalla Sottocommissione Internazionale di
Stratigrafia Quaternaria di raccogliere evidenze al fine di determinare se
l’Antropocene fosse una realtà accertata o, al contrario, lo si potesse
escludere dal dibattito scientifico. Tuttavia, per Lewis e Maslin l’equivoco
rimane: “l’Olocene potrebbe sopravvivere alla decisione di definire formalmente
l’Antropocene? E quindi difendere l’Olocene porta a opporsi alla definizione
formale dell’Antropocene?”. Le ultime trentatré epoche geologiche hanno una
durata media diciassette milioni di anni, con un minimo di qualche milione.
Dovesse essere fissato ufficialmente l’inizio della nuova epoca, l’Antropocene,
i soli 11.650 anni dell’Olocene rappresenterebbero un’anomalia, un’eccezione
senza precedenti nella scala dei tempi geologici.
Come
lavorano i geologi
A
differenza di quanto avvenne per l’Olocene, in genere le dispute
geocronologiche sono lunghe e conflittuali, con la scala dei tempi geologici
che rimane giocoforza sempre aperta alla scoperta di nuovi marcatori e dunque a
possibili rettifiche, talvolta spiazzanti. Nel loro libro, Lewis e Maslin ci
portano dentro la “storia nascosta dell’Antropocene”, il complesso meccanismo
decisionale con cui la comunità scientifica arriva a deliberare l’adozione
formale di una nuova epoca geologica, secondo un farraginoso processo a quattro
stadi. “Finora i geologi hanno fatto un
buon lavoro applicando sistematicamente i medesimi criteri a centinaia di
milioni di anni, - scrivono Lewis e Maslin - ma quando si arriva al periodo e all’epoca finali che comprendono il
nostro tempo questo sistema smette di funzionare”.
Nel
2015, con una dichiarazione collettiva pubblicata sul Quaternary
International, l’AWG indicò quale data di inizio della nuova epoca il 16
luglio 1945, giorno in cui la detonazione a scopo dimostrativo del primo
ordigno nucleare della storia sparse nel mondo dei radionuclidi mai visti prima
di allora. Dopo meno di un anno, però, l’AWG pubblicò su Science una
nuova dichiarazione collettiva con cui metteva in discussione la necessità
stessa di una definizione formale dell’Antropocene. Sei mesi dopo ancora, ad
agosto del 2016, l’AWG ritrattò nuovamente dichiarando che avrebbe dedicato gli
anni successivi all’elaborazione di una proposta condivisa e perentoria. Gli
anni sono passati, a maggio di quest’anno si è tenuta una votazione forse
dirimente, e pare che presto l’AWG si pronuncerà presto, definitivamente, sulla
nuova epoca geologica. Il presidente del Gruppo, il geologo del tempo profondo
Jan Zalasiewicz, ha già annunciato che il prossimo 21 novembre terrà assieme
alla storica dell’età moderna Julia Adeney Thomas una tandem lecture al
Rachel Carson Center di Monaco, e in quell’occasione potrebbe presentare il suo
“libro-verità” sull’epoca umana, The Anthropocene, in uscita per Polity
Press.
Fissare
un inizio
Pur non
facendo parte dell’AWG ed essendo oramai ravvicinata la pronunciazione
definitiva sull’Antropocene, in Il pianeta umano Lewis e Maslin
suggeriscono un loro “schema in tre parti” (“l’unico pubblicato nella
letteratura scientifica”) per il riconoscimento formale dell’Antropocene quale
epoca geologica distinta dal precedente Olocene. Primo: “esaminare le prove del fatto che l’attività
umana ha iniziato a far cambiare lo stato della Terra”; secondo: “valutare se questo nuovo stato sia visibile
nei depositi geologici”; terzo: “decidere
quando avvenne il cambiamento nella transizione della Terra da uno stato preantropocenico
a quello antropocenico”. Passando al setaccio del loro metodo a tre stadi i
possibili punti di rottura con l’Olocene – diffusione dell’agricoltura 10.000
anni fa, prima globalizzazione successiva al 1492, Rivoluzione industriale a
metà Ottocento, “grande accelerazione” susseguente al 1950 o picco del fall-out
nucleare nel 1964/65 – Lewis e Maslin suggeriscono di considerare come data
d’inizio dell’Antropocene l’anno 1610. Nel secolo precedente, le malattie
globalizzate dallo scambio colombiano che seguì la colonizzazione europea delle Americhe portarono alla morte di
circa 50 milioni di nativi e al crollo delle attività agricole in tutto il Nuovo
Mondo. Le foreste riconquistarono i terreni e i pascoli abbandonati nel giro di
qualche decennio, arrivando a sequestrare dall’atmosfera la bellezza di 12
miliardi di tonnellate in più di anidride carbonica: la concentrazione di
quest’ultima diminuì di circa 6 parti per milione, fino al valore minimo di 275
parti per milione del 1610, rilevato in una carota di ghiaccio di Law Dome, in
Antartide. La diminuzione dell’anidride carbonica determinò a sua volta un
raffreddamento della temperatura globale che coincise con la parte più fredda
della cosiddetta “piccola era glaciale”, “l’ultimo periodo globalmente freddo
prima del calore a lungo termine dell’Antropocene”. Il placido e temperato
Olocene cominciò dunque con la fine dell’ultima, grande era glaciale; l’ignoto
e surriscaldato Antropocene in corrispondenza della piccola era glaciale che
precedette il mondo moderno. Ma non si tratta di sole temperature: lo scambio
di specie animali e vegetali tra il Nuovo e il Vecchio Mondo rappresentò anche
il “momento cruciale dopo il quale i biota della Terra diventano globalmente
sempre più omogenei, creando una nuova Pangea e quindi ponendo la Terra su una
nuova traiettoria evolutiva”. Questo point-break storico ed ecologico,
ricordano Lewis e Maslin, “è stato chiamato Orbis spike perché
l’emisfero orientale e quello occidentale dell’umanità si riunirono dopo più di
12.000 anni di separazione e si creò un unico sistema economico mondiale
globale (orbis in latino vuol dire mondo)”. In termini geologici,
mezzo millennio di navigazione transoceanica e un secolo scarso di aviazione
intercontinentale hanno annullato l’azione della tettonica a placche e
omogeneizzato la diversità biologica della Terra, introducendo in ogni
ecosistema possibile le specie alloctone e quelle domesticate per
l’alimentazione umana. È come se avessimo riunito le terre emerse, “la tendenza
opposta a quella che negli ultimi 200 milioni di anni ha portato alla
separazione dei continenti”.
Riconosciuta
la fondatezza scientifica dell’Antropocene e fissato il suo punto d’inizio in
corrispondenza dell’Orbis spike, l’Olocene diventerebbe euristicamente superfluo,
uno qualunque dei tanti interglaciali tipici. Per Lewis e Maslin le alternative
logiche sono due: “eliminare del tutto
l’epoca dell’Olocene dalla scala dei tempi geologici e usarlo come nome
informale, oppure farlo retrocedere a livello inferiore – definirlo come
un’età – all’interno della precedente
epoca del Pleistocene. Nel secondo caso, lo chiameremmo Oloceniano, poiché
tutte le età definite formalmente hanno il suffisso -iano”. Ma questo è solo un
vezzo da scienziati, le conseguenze del riconoscimento formale dell’Antropocene
e della sua data d’inizio non si fermano certo qui.
Immaginari
dell’Antropocene
“Qualcuno potrebbe giudicare di scarso
interesse scientifico questo dibattito sulla definizione dell’Antropocene”,
riconoscono Lewis e Maslin. Il fatto è che il concetto di “epoca umana” ha
oramai scavalcato gli steccati accademici che lo vorrebbero circoscritto alle
tenzoni di geologi e stratigrafi, diventando terreno di incontro speculativo
tra filosofi della scienza, storici del clima, giornalisti ambientali, artisti
e attivisti. Dall’uso culturale che questi hanno fatto del concetto di
Antropocene è scaturito un dibattito mai così fecondo sui cambiamenti
climatici, sull’intreccio irrisolto e forse irrisolvibile tra natura e
cultura. Secondo Stanley Finney, presidente della Commissione
Internazionale di Stratigrafia e acerrimo oppositore all’introduzione
dell’Antropocene nella scala dei tempi geologici, tutto questo fermento
non-specialistico intorno al concetto di Antropocene non dovrebbe interferire
con le deliberazioni della comunità scientifica. L’ecologia politica,
sostiene Finney, rimanga pure fuori dalle controversie scientifiche dei
geologi. Per Lewis e Maslin è piuttosto vero che “gli scienziati non possono evitare la politica dell’Antropocene”, se
non altro perché “la scelta della [sua] data di partenza alimenterà
inevitabilmente le storie che narriamo di noi stessi e più in generale dello
sviluppo umano”. Per esempio, “agganciare
l’inizio dell’epoca umana agli impatti delle prime attività venatorie o
agricole dell’umanità potrebbe essere usato politicamente per normalizzare il
cambiamento ambientale”, che diventerebbe così una conseguenza ineluttabile
della nostra presenza sulla Terra – inutile angustiarsi. Viceversa, optare per
la “rottura recente” del fall-out radioattivo nel dopoguerra significherebbe
accentuare quelle che Lewis e Maslin chiamano “trappole del progresso”: “quelle
situazioni in cui il progresso della tecnologia verso un dato scopo – in
questo caso, un’arma letale contro nemici – finisce
per creare la possibilità di arrestare il progresso dell’umanità”. Che
storia ci racconta un’epoca umana cominciata nel 1610? Secondo i due autori de Il
pianeta umano, “se l’Antropocene è
associato allo scambio colombiano, alla morte di 50 milioni di persone e agli
inizi del mondo moderno, allora è una storia profondamente imbarazzante di
colonialismo e schiavismo”. Ma è anche la storia dell’ascesa del modo
capitalistico di vivere e della rivoluzione scientifica: “l’emergere del metodo scientifico e l’idea di progresso sono
strettamente legati al progetto europeo di colonizzazione – un nuovo tipo di
impero – e al desiderio di un elevato rendimento degli investimenti”. L’epoca
moderna ebbe inizio con quella che Yuval Noah Harari, hapax legomenon
dell’opera di Lewis e Maslin, definisce in Sapiens (2011) la “scoperta dell’ignoranza”: “pian piano
diventò evidente che non tutta la conoscenza derivava dallo studio di antichi
testi” ma che stava lì fuori, a portata delle capacità di comprensione degli
esseri umani. Colonizzazione, sfruttamento delle risorse e studio scientifico
del mondo si saldarono rapidamente insieme e divennero gli architravi di una
nuova forma di organizzazione sociale, il capitalismo “mercantile”, divenuto
poi “industriale” con lo sfruttamento dei combustibili fossili e infine “consumistico”,
con la grande accelerazione del dopoguerra. Al centro del modo di vivere
moderno, e dunque dell’Antropocene, convergono le spinte ad aumentare la
produttività del lavoro, ad incrementare lo sfruttamento delle risorse naturali
e la dominanza finanziaria, a potenziare oltre ogni misura la razionalità
utilitaristica e strumentale che rende obsoleti tutti i modi tradizionali di
vivere e pensare. Chiuse le dissertazioni scientifiche sull’Antropocene e sul
suo possibile inizio, Lewis e Maslin si appoggiano a Capitalism in the Web
of Life di Jason Moore (2015) per tracciare una loro teoria politica
generale dell’epoca geologica in cui viviamo: “secondo la proposta di Moore, l’Antropocene iniziò insieme al
sistema-mondo moderno cinquecento anni fa, quando un nuovo modo di organizzare
le persone e la natura si diffuse in tutto il mondo. Questo nuovo sistema-mondo
dà priorità alla produttività, mentre la natura è considerata poco più di una
materia prima”. Possibile che questo modo di vivere e pensare, vecchio
ormai di cinque secoli, possa durare ancora a lungo?
Come
batteri in una piastra di Petri
Per
descrivere quel che accade a una specie che cresce infinitamente in un ambiente
finito Lewis e Maslin scelgono la metafora dei batteri in una piastra di Petri:
“si moltiplicano fino a consumare le risorse disponibili e poi muoiono quasi
tutti”. Tutto sembra andare per il meglio ma poi, all’improvviso, il meccanismo
della crescita si arresta e implode, e questo vale anche per gli esseri umani.
Come racconta Jared Diamond in Collasso (2005), molte civiltà del
passato – rapanui, anasazi, maya, vichinghi – sono crollate immediatamente dopo
aver raggiunto l’apice del loro sviluppo. Che cosa succederà a noi, figli
dell’Antropocene? Siamo come batteri in una piastra di Petri oppure il nostro
attuale modo di vivere verrà soppiantato da qualcosa di nuovo? Secondo
Lewis e Maslin, i cambiamenti del modo di vivere sono rari. “Stando a quanto è avvenuto in passato, […]
sono più probabili quando si instaurano circuiti di feedback positivo,
associati a nuove forme di energia, a nuove informazioni e a una maggiore
agentività umana collettiva”. Risalendo la storia dell’umanità fino
all’Antropocene, i due autori de Il pianeta umano individuano quattro
transizioni principali, due legate alle forme d’uso dell’energia e due alla
scala dell’organizzazione sociale, che modificarono in modo fondamentale sia le
società umane sia il loro impatto sul pianeta Terra: la cattura di una quantità
maggiore di energia solare con l’invenzione dell’agricoltura, la
“globalizzazione 1.0” del modo capitalistico di vivere, l’impiego dei
combustibili fossili nella rivoluzione industriale e la “globalizzazione 2.0”
della grande accelerazione. Nel corso di questo “two-step doppio” dello
sviluppo umano si sono avvicendati cinque diversi idealtipi di società,
dall’impronta ecologica crescente: società di caccia e raccolta, società
agricole, capitalistiche mercantili, capitalistiche industriali e
capitalistiche consumistiche. “Quanti altri stati esistano oltre a questi non è
noto”. Quel che è certo, però, è che “una volta costruito un circuito di
feedback positivo, non si torna più indietro”, e che “ogni nuovo modo [di
vivere] dura meno del precedente”. Le comunità ancestrali di caccia e raccolta
hanno abitato la Terra per milioni di anni, quelle agricole per decine di
migliaia, il capitalismo ha solo mezzo millennio di vita e tuttavia potrebbe
non traguardare la fine del Ventunesimo secolo. Guardando al futuro, il nostro
attuale modo di vivere basato sulla crescita infinita sembra il meno probabile.
Ma cosa seguirà?
Per alcuni siamo davvero come batteri in
una piastra di Petri, decretati al collasso e alla regressione a forme più
sostenibili di organizzazione sociale, come la vita agricola e organica del
periodo preantropocenico. Per altri, invece, l’Antropocene rappresenta la
vertiginosa opportunità di un definitivo controllo antropico dei regimi
ambientali e climatici, magari per mezzo della geoingegneria (nostra “Parola
del mese” di Giugno 2019), che attende soltanto di essere scatenata.
“Forse la nostra specie”, scrivono
Lewis e Maslin citando di nuovo Harari, “è
diventata una “specie divina”, Homo deus, capace di utilizzare in modo intelligente tecnologie che risolvono i
nostri problemi”. Sarà davvero così? Ci ergeremo al rango di eoni o
finiremo soltanto per salvare il mondo distruggendolo in modo diverso,
sostituendo un disastro con uno ancora più grande? La cauta risposta di Lewis e
Maslin è che noi non siamo come batteri in una piastra di Petri: in fondo, il
nostro potere è riflessivo, siamo saggi abbastanza da “non continua[re] a
crescere fino all’esaurimento delle risorse alimentari o di qualche altro
fattore limitante”. Nelle ultime pagine del loro libro, i due si limitano a
constatare che i fattori determinanti lo stato di una società – energia
utilizzata, quantità di informazioni e agentività collettiva – sembrano essere
in aumento, “suggerendo una potenziale quinta transizione a un sesto modo di
vivere”. Costo delle energie rinnovabili in rapida diminuzione, aumento
esponenziale delle reti di connessione, progressi entusiasmanti nel campo
dell’automazione: tutto sembra disporsi verso una nuova forma di organizzazione
sociale. Questa dipenderà da quale storia sull’Antropocene riuscirà a imporsi
nei prossimi anni, da quale immaginario sceglieremo di adottare contro la fine
del mondo. È una battaglia aperta, immensa, capitale. Formalizzato
l’ingresso dell’epoca umana nella scala dei tempi geologici, non ci troveremo a
scrivere d’altro che di storie su come viverci dentro e, più in là, su come
provare ad uscirne.
Tutte le immagini sono tratte dal progetto Images of Change della NASA.
1. Il lago Aculeo, in Cile, nel 2014 e nel 2019
2. L’isola di
East Island, scomparsa dopo l’uragano Walaka, nell’ottobre 2018
3. Il
ghiacciaio sopra il vulcano Ok, in Islanda, nel 1986 e nel 2019.
4. La crescita
del porto di Busan, in Corea del Sud, tra 1988 e 2017.
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