martedì 1 ottobre 2019

La parola del mese - Ottobre 2019


La parola del mese

 A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni

OTTOBRE 2019

Speriamo di non offendere la sensibilità di qualcuno se affermiamo che l’attuale politica, senza distinzione di campo, molto spesso copre un (preoccupante) vuoto di idee e di ideali ricorrendo a parole d’ordine, a slogan altisonanti e all’apparenza coinvolgenti. Il risultato, quasi sempre, è quello di accentuare il disincanto che scaturisce dall’accostare le parole alla realtà. E’ successo ancora recentemente e, con buona probabilità vista l’assuefazione, ciò non sarebbe stato da solo sufficiente per prenderla in considerazione come “parola del mese”, ma la lettura di alcuni articoli, in particolare l’ultimo che presentiamo in questa rassegna, ci hanno convinti che, al di là dell’uso politico, il termine in questione forniva spunti interessanti di riflessione. E’ questa in sostanza la ragione per cui la “Parola del mese” di Ottobre è……..

(nuovo) UMANESIMO

Per immaginarne uno “nuovo” deve necessariamente esisterne uno “vecchio”, quello “originale”. Così la Treccani on-line definisce l’Umanesimo di italico vanto:
Umanesimo = Periodo storico le cui origini sono rintracciate dopo la metà del 14° sec., e culminato nel 15°: tale periodo si caratterizza per un più ricco e più consapevole fiorire degli studi sulle lingue e letterature classiche, considerate come strumento di elevazione spirituale per l’uomo, e perciò chiamati, secondo un’espressione ciceroniana, studia humanitatis. Si parla di umanesimo filologico per distinguere, nel 14° e 15° sec., l’attività degli umanisti intesa al recupero, allo studio, alla pubblicazione dei testi classici, dall’attività di quegli stessi umanisti intesa più generalmente alla creazione letteraria e filosofica, all’elaborazione di una nuova civiltà. Si parla poi di umanesimo volgare in relazione allo sbocco storico dell’Umanesimo, quando, nella seconda metà del 15° sec., gli ideali letterari di scrittura armoniosa e ornata sono trasferiti in Italia alle opere letterarie in volgare. Con riferimento, esplicito e implicito, all’Umanesimo quale periodo storico, il termine è usato infine per caratterizzare ogni orientamento che riprenda il senso e i valori affermatisi nella cultura umanistica: dall’amore per gli studi classici e per le humanae litterae alla concezione dell’uomo e della sua ‘dignità’ quale autore della propria storia, punto di riferimento costante

Se questo è quello vero, quello originale, vediamo chi e come ha, in ambito politico, lo ha mediaticamente più volte citato con l’aggiunta di ……..“nuovo”
Dal sito on-line “fanpage.it”
Che cos’è il Nuovo Umanesimo di cui parla Giuseppe Conte          

Non è la prima volta che il premier Giuseppe Conte parla di “Nuovo Umanesimo” nei suoi discorsi. Ma cosa vuol dire con quest’espressione? Dal concetto di “humanitas” nei latini, fino al Rinascimento e poi alle teorie del filosofo della complessità, Edgar Morin, pare comunque che il concetto di Umanesimo sia sempre attuale “Molto spesso negli interventi pubblici pronunciati ho evocato la forma di un nuovo umanesimo: non ho mai pensato fosse lo slogan di un governo, ma un orizzonte ideale per il Paese". Così parlò Giuseppe Conte, il premier incaricato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per la formazione di un nuovo governo, sostenuto dalla coalizione M5S e Partito Democratico. L'attuale presidente del Consiglio dei ministri non è nuovo, come lui stesso ha evidenziato, all'utilizzo di un'espressione del genere: Nuovo Umanesimo. Locuzione probabilmente dovuta non solo alla formazione giuridica del premier, ma anche alla sua concezione della politica, a partire da quella sovrapposizione tra "popolo" e "populismo" che diede ai tempi della formazione della prima maggioranza di governo, quella gialloverde che per quattordici mesi lo ha sostenuto. Quando il premier Giuseppe Conte parla di "Nuovo Umanesimo" cita, innanzitutto, il filosofo e pedagogista Edgar Morin, che nel volume "Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l'educazione" usava l'espressione "nuovo umanesimo", a proposito della necessità del genere umano di tornare a quell'umanesimo, concetto di origini rinascimentali, che rimetteva al centro l'uomo e le sue naturali inclinazioni, contro le storture (medievali all'epoca, del capitalismo sfrenato oggi). Ecco cosa scriveva Morin: Come fare a riunire i saperi delle varie discipline? Serve un pensiero complesso che permetta di unire ciò che è separato. Oggi serve un nuovo umanesimo… Come apprendere a vivere? La conoscenza non si ha con la frammentazione ma con l’unione. È necessaria una riforma della conoscenza del pensiero, un nuovo umanesimo globale che sappia affrontare i temi della persona e del pianeta. I giovani oggi si sentono persi, non trovano le ragioni dell’essere. Durante la seconda guerra mondiale i ragazzi dovevano resistere al nazismo, divennero partigiani, contribuirono a liberare le loro vite e le loro nazioni. E oggi? Oggi i giovani sono chiamati ad affrontare un compito ancora più ampio: la salvezza del genere umano. Hanno una missione grande davanti a loro e dobbiamo educarli ad apprendere e a maturare una conoscenza adeguata ad assolvere a questo compito fondamentale a cui sono chiamati. Nel richiamo a quel "nuovo umanesimo globale che sappia affrontare i temi della persona e del pianeta" è evidente l'allaccio, a sua volta, ai temi relativi a uno sviluppo sostenibile e alle energie rinnovabili di cui ha più volte parlato il presidente uscente e rientrante allo scranno più importante del Consiglio dei ministri. Ma il nuovo umanesimo di cui parla Giuseppe Conte ha, a sua volta, un forte legame all'umanesimo di stampo rinascimentale, che a sua volta si richiamava al significato più alto della parola latina "Humanitas", che rimanda ai tratti essenziali e costitutivi dell'essere umano, cioè tutto ciò che è degno dell'uomo e che lo rende civile, innalzandolo sopra la barbarie. Ovviamente, nell'accezione moderna, da Morin in poi (di recente, nel 2017, il filosofo e storico Michele Ciliberto ha pubblicato per Laterza un volume dal titolo "Il nuovo umanesimo") il nuovo umanesimo diventa accoglienza della sfida della complessità e suggerisce una più moderna – diremmo aggiornata – corretta e completa proposizione dell’essere umano come espressione della vita.

Confidiamo che l’accostamento a Edgar Morin sia sostenuto da constatabili elementi di fatto, per intanto visto che è stato chiamato in causa può essere utile capire cosa ne pensa al riguardo il prof. Michele Ciliberto (
Dal sito on-line “formiche.net”

Il Prof. Michele Ciliberto, filosofo e storico italiano, considerato uno dei massimi esperti del pensiero di Giordano Bruno, e autore del volume “Il nuovo Umanesimo” (Laterza) racconta a Formiche.net perché ci occorre un nuovo umanesimo, così come il premier Giuseppe Conte e Papa Francesco hanno recentemente e più volte osservato. Nella consapevolezza che non abbiamo ancora l’esatta percezione delle enormi trasformazioni del nostro tempo.
È possibile un nuovo umanesimo e con quali perimetri valoriali e ideali?
Certamente è possibile, ma ne vanno specificati al meglio gli elementi che lo differenziano da quello più classico. Quando si parla di nuovo umanesimo si intende riproporre l’attualità dell’umanesimo stesso come elemento di novità. Naturalmente bisogna aver presente ciò che è stato l’umanesimo storico.
Perché il Premier incaricato lo ha citato come bisogno sociale?
Anche lui ha percepito che in questo momento la condizione del destino umano è di straordinaria trasformazione e precarietà. Ciò emerge dalle sue parole. Ci troviamo in una situazione nella quale la condizione umana dell’uomo europeo appare profondamente trasformata. Penso a quello che nell’umanesimo è stato il rapporto con la Chiesa cattolica: in effetti anche Papa Francesco insiste su questo aspetto.
È cambiato anche il rapporto tra Europa e Cristianesimo?
Dentro l’Europa convivono una pluralità di religioni differenti come l’Islam, che è diffusissimo, o altre di carattere diverso. Sono venuti meno i pilastri su cui si è basata la storia europea lungo molti secoli, dal medioevo alla modernità. Ciò ha determinato un mutamento multilivello nella vita dell’uomo, anche dal punto di vista della quotidianità. Lo vediamo oggi anche nella composizione demografica dell’Italia e dell’Europa, con la presenza di stranieri dai diversi costumi e culture. Credo che non abbiamo ancora l’esatta percezione delle enormi trasformazioni del nostro tempo. Quindi alla luce di ciò diventa centrale il nuovo destino dell’uomo. E porre il problema del nuovo umanesimo significa interrogarsi su quale debba essere il destino dell’uomo in un tempo come il nostro, denso di cambiamenti radicali che mettono in discussione persino la sopravvivenza stessa della terra.
Se ieri il ritorno dei filosofi fu la base per immaginare un nuovo umanesimo, oggi di quali interpreti o valori necessitiamo?
I valori fondamentali sono i grandi valori della cultura europea. Cito il caso particolarmente drammatico della tolleranza che Alexis de Tocqueville definisce “madre”. Oggi l’idea di tolleranza ci basta o ci troviamo in una situazione in cui dovremmo andare al di là?
Ovvero?
Prendiamo il concetto di cittadinanza che era legato all’idea di uno Stato Nazionale ancorato alla dimensione territoriale. Oggi in virtù della composizione demografica italiana possiamo mantenere ancora quel concetto di cittadino? E se non possiamo, ciò non implica che dovremmo anche cambiare il concetto di tolleranza, andando al di là del semplice riconoscimento del diverso ad esistere? Quindi il concetto di nuovi cittadini che sono sì cittadini ma di uno Stato comune, che è l’Italia e di un continente comune che è l’Europa. Per cui occorre ripensare i grandi valori della cultura occidentale e riproporli alla luce delle trasformazioni religiose e demografiche che hanno sconvolto l’assetto dell’Europa spingendola in una traiettoria della quale a stento ne cogliamo i lineamenti.
Pensa ad una sorta di nuova Costituente di morale e mores?
Assolutamente sì, è un problema cardine della vita di un popolo. La vita quotidiana lo dimostra nell’idea che abbiamo della vita e della morte. Oggi abbiamo a disposizione numerose tecniche che consentono di allungare il tempo della vita dell’uomo in un modo inimmaginabile, contenendo le pulsioni della morte come mai era avvenuto prima. Sta cambiando il concetto: e ciò concerne anche il vivere sessuale degli individui ancorato al cambiamento del rapporto uomo-natura.

Altra chiamata in causa, questa volta di altissimo profilo perché si riferisce a Papa Francesco che in effetti in alcuni interventi ha introdotto il concetto di nuovo umanesimo legandolo strettamente all’emergenza ambientale ed alla lotta alle diseguaglianze economiche e sociali. Un richiamo di alta spiritualità confermato dal seguente articolo di Giuseppe Lorizio, teologo della Pontificia Università Lateranense
Dal sito on-line “Avvenire.it” 
Dopo il discorso di Conte. «Nuovo umanesimo» in politica: è tempo di dirlo e di farlo.

Molto spesso, negli interventi pubblici sin qui pronunciati, ho evocato la formula di un nuovo umanesimo. Non ho mai pensato che fosse lo slogan di un governo. Ho sempre pensato che fosse l’orizzonte ideale per un intero Paese». Questa frase, pronunziata giovedì al Quirinale da Giuseppe Conte nel discorso con cui ha accettato di verificare la possibilità di formare un nuovo esecutivo, è stata ripresa dai media in modo spesso superficiale e talvolta in maniera irridente, in alcuni casi come esclusivo supporto alla cultura dell’accoglienza, soprattutto verso i migranti, e tuttavia, ha bisogno di essere ulteriormente pensata e approfondita.  Non bisogna dimenticare che la Chiesa italiana, nel suo V convegno nazionale, celebrato a Firenze nel 2015, è stata chiamata a riflettere sul tema del 'nuovo umanesimo' nel suo radicamento cristologico. Il titolo di quell’evento recitava 'In Cristo il nuovo umanesimo'. E papa Francesco nella riflessione che ha proposto ai vescovi italiani nell’Assemblea generale del maggio scorso ha richiamato, in particolare con riferimento alla sinodalità, il discorso che aveva pronunziato in quell’occasione. Nell’arduo tentativo di declinare teologicamente il sintagma 'nuovo umanesimo', nella mia relazione a Firenze, io stesso avevo richiamato la categoria fondamentale, decisamente biblica, dell’alleanza come cifra di un autentico umanesimo radicato nella fede. Oggi mi sembra proprio questo il contributo decisivo che i cattolici italiani possono offrire al Paese in questo frangente, ma non solo. E si tratta di un orizzonte culturale, piuttosto che di un’indicazione programmatica per l’azione di un Governo (come giustamente ha rilevato Conte). Richiamando la Costituzione, si è fatto riferimento al 'primato della persona', come radice antropologica di ogni azione sociale, politica, culturale. Come tutti sanno, o dovrebbero sapere – e qui il rammarico per averlo troppo spesso tralasciato e dimenticato –, la nozione di 'persona', nella sua pregnanza ontologica, è stata consegnata (o, meglio, donata) all’Occidente dalle vicende delle dispute cristologiche e trinitarie dei primi secoli, messe in atto in ambito cristiano. Si è pensato l’umano a partire dall’identità di Cristo e dal mistero di Dio. Per la cultura pagana la persona era semplicemente la 'maschera' (prosopon), ovvero rappresentava il ruolo, che in ambito teatrale veniva assunto e interpretato dall’attore. Oltre la funzione pubblica, il cristianesimo, invita a considerare l’uomo nel suo rapporto con l’essere, piuttosto che col fare o col rappresentarsi. La trasposizione in ambito politico del concetto di persona passa attraverso la sua valenza giuridica. Come Antonio Rosmini aveva efficacemente dichiarato della sua 'Filosofia del diritto', «la persona ha nella sua stessa natura tutti i costitutivi del diritto: essa è dunque il diritto sussistente, l’essenza del diritto». Questa preziosa indicazione consente il superamento sia di un crudo giusnaturalismo, sia del contrattualismo, imperante soprattutto nella concezione hobbesiana e rousseauniana dello Stato. Ed è su tale base 'antropologica' che si innesta la categoria dell’alleanza come modalità propria del rapporto fra persone e fra gruppi di persone. In questa prospettiva vanno letti gli autorevoli inviti – in particolare quello del presidente della Cei Gualtiero Bassetti – a fondare un’autentica prospettiva politica non su dei semplici contratti, spesso frutto di miopi compromessi, che prima o poi esplodono, determinando la catastrofe del rapporto, ma su una visione programmatica, basata appunto su vere e proprie alleanze. Non possiamo non ricordare che la prospettiva rosminana si rifà alla definizione di Giovanni Duns Scoto, che a sua volta radicalizza la visione di Riccardo di San Vittore (per il quale la persona è intellectualis naturae incommunicabilis existentia) fino a definirla ultima solitudo. Il Roveretano infatti afferma che la persona è una sostanza spirituale dotata di un principio incomunicabile. Così possiamo cogliere la caratteristica fondamentale della persona, ossia la sua unicità. Sonny, il protagonista artificiale del famoso film Io robot, allorché si scopre 'quasi umano' e ne prende coscienza, afferma con stupore: «Io sono unico». La macchina si produce, la persona si genera. Questa unicità rende preziosa ogni persona e determina un’etica della sua salvaguardia a qualsiasi classe, cultura, religione, regione, cultura appartenga. Ma, oltre che unicità, la persona dice anche ulteriorità. Un aforisma che ci giunge dall’antica sapienza (Seneca, Naturales quaestiones) recita: «Oh quam contempta res est homo, nisi supra humana surrexerit», che cosa misera è l’umanità se non si sa elevare oltre l’umano... In questa breve espressione si sintetizza in maniera mirabile l’ulteriorità della condizione umana, espressa peraltro col verbo (surrexerit) che fa riferimento alla risurrezione. Quell’«essere della lontananza » che è l’uomo, infatti, proprio a partire dalla sua distanza originaria e dal suo oltrepassamento realizza la più piena prossimità alle cose (Martin Heidegger). E da questo senso della 'trascendenza' dell’umano il pensiero credente non è certo assente, anzi lo afferma, per esempio in un famoso frammento di Blaise Pascal, che viene a stemperare il facile ottimismo di un progresso ideologicamente mitizzato – allorché afferma che «La natura dell’uomo non è di avanzare sempre; ha i suoi alti e bassi» (fr. 318 ed. Brunschvicg) – e a mettere in guardia da una possibile deriva spiritualistica dell’antropologia: «L’uomo non è né angelo né bestia, e disgrazia vuole che chi vuol fare l’angelo fa la bestia» (fr. 325 ed. Brunschvicg). Il nuovo umanesimo, che non intenda esprimersi nella forma di un acritico antropocentrismo, chiede così di declinarsi e di realizzarsi attraverso autentiche alleanze, spesso purtroppo infrante, fra uomo e natura, fra i generi, fra le generazioni, fra il cittadino e le istituzioni, fra emozione e ragione, fra popoli e religioni. Una saggia fatica che certo non può essere il risultato di un programma di Governo, ma quel programma può ben ispirare e illuminare. E che richiede una visione culturale e antropologica alla quale i cristiani possono efficacemente contribuire.

Parrebbe quindi che il “nuovo umanesimo” in aggiunta a importanti spinte politiche abbia un convinto beneplacito dall’altra sponda del Tevere. Ma non mancano in campo cattolico aperti distinguo  che sembrano riproporre  quelli antichi rispetto all’Umanesimo rinascimentale. Il seguente articolo a firma di tal Amato Gianfranco e curato da don Gabriele Mangiarotti sembra infatti riproporre diffidenze mai superate verso l’umanesimo, vecchio o nuovo che sia……..
Dal sito on-line “CulturaCattolica.it”

Da qualche tempo notavo, con un certo fastidio, come Giuseppe Conte si riferisse sempre più spesso ed in maniera esplicita al cosiddetto “nuovo umanesimo”, come orizzonte valoriale della società ideale. Il fastidio se è trasformato in preoccupazione quando questo concetto è ufficialmente entrato a far parte di un possibile programma di governo. Il 29 agosto 2019, infatti, l’ex “Avvocato del popolo”, convertitosi ora in Avvocato dei Poteri Forti”, nel suo discorso al Quirinale ha testualmente affermato: «Molto spesso, negli interventi pubblici sin qui pronunciati, ho evocato la formula di un “nuovo umanesimo”. Non ho mai pensato che fosse lo slogan di un Governo. Ho sempre pensato che fosse l’orizzonte ideale per un intero Paese». In quello stesso discorso ha parlato di “valori” comuni, definendoli “non negoziabili”, tra cui «il primato della Persona», «il lavoro come supremo valore sociale», «l’uguaglianza nelle sue varie declinazioni, formale e sostanziale», «il rispetto delle Istituzioni», «il principio di laicità», e così via. Conte è un uomo troppo intelligente e colto per non sapere di cosa stia parlando, e per ignorare quale sia l’umanesimo cui lui fa riferimento. Possiamo affermare che proprio su questo punto ha gettato la maschera mostrando la sua ormai organica appartenenza – quantomeno culturale – all’élite dell’europeismo massonico. Ricordo che ai tempi in cui si stava redigendo la Costituzione europea, Giovanni Paolo II incaricò un politico italiano di consegnare una sua lettera personale all’allora presidente della Convenzione che stava lavorando al testo costituzionale, Valerie Giscard D’Estaing, per supplicarlo di inserire nel preambolo di quell’importante documento il riferimento alle radici giudaico-cristiane dell’Europa. Quando il politico italiano incontrò il presidente e gli anticipò il contenuto della lettera che stava per consegnargli, quest’ultimo, con l’insolenza tipica dei francesi e dei massoni, gli rispose così: «Guardi, se questo è il contenuto della lettera, può fare pure a meno di darmela. Anzi, è bene che la tenga in tasca e non me la consegni affatto». La lettera rimase nella tasca del politico italiano e il riferimento delle radici giudaico-cristiane sparì dalla bozza della Costituzione. Interessante è il fatto di come venne sostituito quel riferimento nella prima versione del preambolo: «Consapevoli che l’Europa è un continente portatore di civiltà; che i suoi abitanti, giunti in ondate successive fin dagli albori dell’umanità, vi hanno progressivamente sviluppato i valori che sono alla base dell’umanesimo: uguaglianza degli esseri umani, libertà, rispetto della ragione; (…)». Non il cristianesimo ma l’umanesimo. Giovanni Paolo II, che in realtà era un tipo alquanto suscettibile, non prese bene lo sgarro all’Angelus del 20 giugno 2004, urbi et orbi, gridò in polacco: «Nie podcina sie korzeni, z których sie wyroslo!», non si tagliano le radici dalle quali si è cresciuti! Per comprendere meglio la natura di quell’umanesimo considerato vera radice della nuova Europa, è sufficiente leggere un documento coevo molto interessante. Si tratta dell’Allocuzione, non a caso intitolata Per un Nuovo Umanesimo, tenuta il 6 aprile 2002 dall’Illustrissimo e Venerabilissimo Fratello Fabio Venzi, in occasione della sua nomina a Gran Maestro della Gran Loggia Regolare d’Italia. Ma che cos’è, in realtà, questo nuovo umanesimo?
È molto semplice: siamo ancora una volta di fronte alla prospettiva antropocentrica e anticristiana che considera l’uomo come misura di tutte le cose. Secondo questi “nuovi umanisti”, la ragione, invece di essere considerata come lo strumento con cui l’uomo si apre alla realtà fino al suo ultimo orizzonte di mistero, viene concepita come misura, come garanzia ultima dell’esistenza stessa del reale, come gabbia entro cui ridurre la inesauribile natura della realtà. Ma l’esito di questa prospettiva è disastroso: l’uomo che si erige a misura di tutte le cose pretende, in ultima analisi, di ridurre tutte le cose alla misura delle sue capacità e del suo potere su di esse. Per i “nuovi umanisti”, infatti, lo Stato moderno è l’incarnazione del potere autoreferenziale: una realtà che si presenta come assoluta e che conferisce, essa, dignità all’uomo. Cadono nello stesso errore condannato dalla
proposizione 39 del Sillabo di Pio IX: «Lo Stato, come quello che è origine e fonte di tutti i diritti, gode un certo suo diritto del tutto illimitato». Per questo inquieta un personaggio come Conte, quando parta di “valori” e di nuovo umanesimo. Mai come in questi ultimi tempi sto rivalutando le parole profetiche di quello che considero il mio Maestro, Luigi Giussani, fondatore del movimento di Comunione e Liberazione, il cui giudizio acuto sulla realtà ci manca terribilmente.Giussani aveva già affrontato decenni fa il tema del cosiddetto nuovo umanesimo, avvertendone il tratto anticristiano e totalitario e denunciandolo con queste parole: «il laicismo propone un nuovo umanesimo, vuole elidere il cristianesimo richiamando la parola “valori”. Il potere, attraverso la sottolineatura di valori da lui stabiliti, pretende dalla gente ubbidienza secondo il suo disegno. Ma senza il senso del mistero, l’affermazione di un valore come criterio unico genera “violenza”, “omologazione” e “moralismo”».
Si può anche essere devoti di Padre Pio, ma la concezione dell’uomo come centro e misura di tutte le cose rende Dio una realtà inutile, in quanto, pur se professato, il rapporto tra Lui e l’uomo è concepito come rapporto con un’astrazione, come fattore non decisivo nella determinazione dello svolgersi concreto della vita. Anche il
devozionismo si può ridurre all’ateismo pratico se prevale l’idea denunciata dal teologo Cornelio Fabro, per cui «Dio, se c’è, non c’entra». Vale per i nuovi umanisti ciò che ancora una volta spiegava bene Giussani, ossia che per loro «Dio non c’entra con l’uomo concreto, con i suoi interessi, i suoi problemi, ambito in cui l’uomo è misura a se stesso, signore di se stesso, sorgente e dell’immaginazione del progetto e dell’energia concreta per la sua realizzazione, ivi compresa la direttiva etica implicata». Nell’ambito dei problemi umani dunque Dio - se c’è - è come se non fosse. Si realizza così la divisione tra un sacro e un profano, invocata dai nuovi umanisti nel principio della laicità dello Stato. Se chiedessimo oggi a Giussani di spiegarci quali sono i «valori comuni» invocati da Giuseppe Conte – in compagnia di qualche alto prelato –, e cosa sia questo nuovo umanesimo, il fondatore di C.L. ci risponderebbe con le stesse parole che si possono gustare a pagina 32 dell’ottimo volume intitolato L’io, il potere, le opere: Contributi da un’esperienza: «Io vorrei spiegare questo nuovo umanesimo, che è lo sforzo supremo operato dalla cultura dominante (atea nel senso pratico del termine) per eludere ed elidere il cristianesimo (con la collaborazione di tanti cattolici di ogni ordine e tipo), richiamando una parola importante: la parola valori. Si dice, si può anche sentire qualche alta personalità ecclesiastica affermare che scopo della Chiesa è aiutare la società civile a individuare e sorreggere una piattaforma di “valori comuni”. Ma i valori comuni anche i pagani li possono sostenere. Non può essere specifico del cristianesimo. Cosa è un valore? E ciò per cui vale la pena, in fondo, vivere». Vale davvero la pena vivere per i valori invocati dal nuovo umanista Giuseppe Conte, ovvero per «il lavoro come supremo valore sociale», per «l’uguaglianza nelle sue varie declinazioni», per « il rispetto delle Istituzioni, per il «principio di laicità», per «il primato della persona» inteso nell’accezione prometeico-umanistica del «faber est suae quisque fortunae», ovvero dell’uomo artefice del proprio destino? Duemila anni di cristianesimo ci hanno rivelato qual è il vero significato ultimo dell’esistenza umana per cui, davvero, vale la pena, in fondo, vivere.

Ci piace però chiudere questo excursus, che speriamo sia servito a meglio capire cosa si possa intendere con “nuovo umanesimo”  con un dialogo a due sul tema. Proprio quello che ci ha indotto a questa “Parola del mese”, perché ha il pregio di sgombrare il campo da demagogiche semplificazioni richiamando la complessità, sempre più doverosa, di fare i conti con il senso ultimo dell’essere “uomini” in questo mondo. Da una parte il filosofo torinese Maurizio Ferraris dall’altra il filosofo Massimo Cacciari del quale, alcuni mesi addietro, è uscito l’ultimo saggio dedicato, guarda caso, proprio all’Umanesimo, quello originale, con titolo affascinante “La mente inquieta”. Ne consigliamo la lettura con due avvertenze: non è lettura semplice, il livello della trattazione è alto e dettagliato, ed inoltre non è la solita celebrazione di uno stereotipato splendore, sereno e rassicurante, dell’Umanesimo italico che, come il titolo stesso anticipa, fu invece attraversato da profonde tensioni intellettuali.
Articolo apparso su La Repubblica del 17 Settembre 2019
L’umanesimo? Inventiamolo ora
Due filosofi, Maurizio Ferraris e Massimo Cacciari, a confronto su una parola rilanciata, a sorpresa, dalla politica:  Inizio modulo

La parola umanesimo è tornata di grande attualità. Anche sul fronte politico: vi si sono appellati, recentemente, sia il premier Giuseppe Conte che Matteo Renzi. E, su un piano più ampio, papa Francesco. Qui due filosofi, Maurizio Ferraris e Massimo Cacciari, dialogano a 360 gradi su questo concetto cruciale.
Maurizio Ferraris. Si parla molto di umanesimo, come se fosse una questione pacifica a cui tornare per rilassarsi, come in una vacanza intelligente. Quando invece, ed è la tesi di partenza del tuo libro (La mente inquieta, Einaudi), l'umanesimo è tutt'altro che un periodo pacificato, dal punto di vista storico, e di risolto, dal punto di vista teorico. Se è così l'umanesimo non è dietro di noi, come un momento storico, ma è davanti a noi, come un obiettivo teorico che è ancora lontano dall'essere realizzato. Mettersi in questa prospettiva significa abbracciare una filosofia della storia per la quale l'umanità va verso il meglio. Ma è proprio di queste filosofie che siamo a corto. Dopo Hegel, è difficile trovare una filosofia positiva della storia, e anzi la coscienza comune inclina al catastrofismo: l'umanità va verso il peggio, scienza e tecnica sono false amiche del genere umano, eccetera. L'emergenza ambientale, il malessere sociale, la scomparsa delle comunità tradizionali non sono il bel risultato della crescita tecnologica che ha devastato l'ambiente, distrutto posti di lavoro, e sostituto la società con i social network?  Se questo catastrofismo fosse nel giusto, l'umanità avrebbe buttato le migliaia di anni di storia di cui conserva memoria. Ma, a onore dell'umano, va detto che non è così. Siamo molto più numerosi oggi di un tempo, molti di noi sono più longevi, i nuovi lavori sono meno noiosi e inumani dei vecchi, che col tempo spariranno e ci sono buone ragioni per pensare che in tempi non troppo lunghi sarà così in tutto il mondo: è già moltissimo, per il legno storto dell'umanità, ed è di qui che parte ogni umanesimo degno del nome. 
Massimo Cacciari. L'umanesimo storico è caratterizzato da un senso positivo del termine novitas, tale da non nascondere tuttavia in alcun modo la criticità e drammaticità del presente. Né l'istanza di oltrepassamento è declinata in contrapposizione al valore del passato - anzi, all'opposto: la scoperta invera l'intero itinerario che ha condotto ad essa. La filologia dell'Umanesimo assume qui, come ho spiegato nel mio libro, tutta la sua pregnanza filosofica: nessuna venerazione o idolatria del "classico", ma co-scienza della propria origine. Tutto ciò, però, a differenza che nelle ideologie positivistico-progressiste, avviene senza alcuna enfasi; niente "magnifiche sorti e progressive". Contro queste ultime reagiscono, sostanzialmente, le profezie catastrofiche e le filosofie della storia sul tramonto dell'Occidente in voga un secolo fa, e la cui eco di quando in quando si riaccende. Si tratta di due facce della stessa medaglia. L'Umanesimo critico è altra cosa: è pittura della realtà effettuale, per quanto il nostro occhio possa coglierla (e mai lo potrà integralmente) - è decisione che siamo chiamati ad assumere di fronte all'immagine. La coscienza che nessuna esatta rappresentazione dei fatti esaurisce il problema di ciò che dobbiamo fare: tale drammatica consapevolezza costituisce lo sfondo di tutte le ricerche e le creazioni dell'Umanesimo.
Ferraris. "Conosci te stesso soltanto nell'azione", scriveva Goethe, e ne sanno qualcosa le piattaforme che ci profilano proprio registrando il nostro comportamento sul web. E la prima cosa che conosciamo è che, per agire umanamente, abbiamo bisogno di tecnica. La natura, di per sé, ci suggerisce solo di nutrirci, riprodurci e fuggire i predatori, e ci consegna a una vita solitaria, povera, pericolosa, brutale, e breve. Unico animale nella cui essenza rientra il supplemento tecnico, l'umano non viene dunque alienato dalla propria essenza a causa delle malefatte della tecnica, ma viene rivelato dalla tecnica: è la tecnica a dirci ciò che noi siamo, ciò che vogliamo. A questo proposito, vale la pena di osservare una circostanza. Nella società borghese, scrive Marx, gli esseri umani, trasformati in protesi delle macchine, sono forzati a ripetere lo stesso gesto privo di significato dieci ore al giorno, sei o magari sette giorni alla settimana, e per tutta la vita. Ma nella società comunista si potrà andare a pesca alla mattina, scrivere saggi critici pomeriggio, accudire il bestiame alla sera. Non è forse questa la vita che caratterizza la parte del mondo in cui abbiamo la fortuna di vivere, tra viaggi low cost, vite sui social e mobilità lavorativa? 
Cacciari. Penso che i discorsi apocalittici sulla tecnica facciano parte di quelle profezie cui ho prima accennato. Anche qui occorre considerare che esse spesso si presentano come controcanti a ingenui culti della "esattezza", come se sempre e in tutti i casi quella ottenibile nelle procedure matematiche e fisiche potesse valere come modello. Occorre altresì distinguere, seguendo una traccia già hegeliana e poi marxiana, tra "alienazione" ed "estraniazione". È vero che il nostro esserci si manifesta tecnicamente; lo sapevano benissimo i Greci: si tratta di quella entechnos sophia (sapere tecnico) di cui Prometeo ci ha fatto dono e senza la quale gli altri animali e la natura matrigna ci avrebbero divorato da tempo. Ma ben diverso è il fatto che in questo stesso esprimerci tecnicamente il soggetto finisce per non ritrovare se stesso nei suoi prodotti, che si configurano come estranei al soggetto che li ha progettati, e tali anzi da soggiogarlo a sé.
Ferraris. Ci lamentiamo di essere comandati dalla tecnica, ma senza umani la tecnica non ha scopo, perché non ha vita. Se per ipotesi accanto a noi venisse seppellito, in luogo asciutto e sicuro, un computer spento, l'anno dopo lo si potrebbe riaccendere, mentre non c'è modo di rianimare i defunti, per loro l'alternativa on/off è risolta a divinis per l'off. È questa irreversibilità che ci rende, tra le altre cose, felici o depressi, interessati o annoiati, assetati di potere o desiderosi di sapere. La fine è nostra, non delle macchine, e così pure il fine, anche se, come giustamente ricordi, possiamo avere l'impressione (ma secondo me il difetto è tutto nostro) di non trovare il filo, e di essere estraniati a noi stessi. Non sopravvalutiamoci, ma nemmeno sottovalutiamoci. Le macchine ci porteranno via i lavori faticosi ed alienanti, ma sta a noi inventare nuovi lavori che ne prendano il posto; farci pagare per il valore che produciamo sul web; e riconoscere che se anche siamo sostituibili come produttori, siamo indispensabili come consumatori. Possiamo costruire una macchina per fare il sushi, e un'altra per distribuirlo, ma non ha senso una macchina consumatrice di sushi, e se le prime due esistono e hanno un senso è perché la terza non ne ha.
Cacciari. Il formidabile processo per cui l'innovazione tecnico-scientifica produce un assetto dei fattori produttivi in ogni settore, a crescente e altissima riduzione del lavoro necessario, è un processo auspicabilissimo, certo. Ma è impossibile considerarlo avulso dal contesto in cui ha luogo. La liberazione dal lavoro necessario era vista, dal romanticismo ai grandi dell'idealismo, fino a Marx e oltre, come l'instaurazione di un "lavoro dello spirito" su scala universale. E non come il regno del tempo libero! Non ha senso parlare di liberazione dal lavoro comandato o dipendente se non nella prospettiva di un "lavoro dello spirito".  La disoccupazione è l'opposto di questo, anche quando venisse retribuita dieci volte il più pagato dei lavori dipendenti. Questo è il dramma attuale: si libera lavoro lasciando l'energia del soggetto senza impiego. La società non è organizzata (e neppure pensata!) per impiegare l'energia che il lavoro liberato possiede. L'etica dominante rimane ancora quella del lavoro comandato, della pena del lavoro. Qui vi è una rivoluzione culturale da compiere. E proprio nel segno di un umanesimo completamente ripensato. 

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