La
parola del mese
A turno si propone una parola, evocativa di pensieri
collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni
OTTOBRE 2019
Speriamo di non offendere la sensibilità di qualcuno se affermiamo che
l’attuale politica, senza distinzione di campo, molto spesso copre un (preoccupante)
vuoto di idee e di ideali ricorrendo a parole d’ordine, a slogan altisonanti e
all’apparenza coinvolgenti. Il risultato, quasi sempre, è quello di accentuare
il disincanto che scaturisce dall’accostare le parole alla realtà. E’ successo
ancora recentemente e, con buona probabilità vista l’assuefazione, ciò non
sarebbe stato da solo sufficiente per prenderla in considerazione come “parola
del mese”, ma la lettura di alcuni articoli, in particolare l’ultimo che
presentiamo in questa rassegna, ci hanno convinti che, al di là dell’uso
politico, il termine in questione forniva spunti interessanti di riflessione.
E’ questa in sostanza la ragione per cui la “Parola del mese” di Ottobre è……..
(nuovo) UMANESIMO
Per immaginarne uno “nuovo” deve necessariamente esisterne uno “vecchio”,
quello “originale”. Così la Treccani on-line definisce l’Umanesimo di
italico vanto:
Umanesimo = Periodo storico le
cui origini sono rintracciate dopo la metà del 14° sec., e culminato nel 15°:
tale periodo si caratterizza per un più ricco e più consapevole fiorire degli
studi sulle lingue e letterature classiche, considerate come strumento di
elevazione spirituale per l’uomo, e perciò chiamati, secondo un’espressione
ciceroniana, studia
humanitatis. Si parla di umanesimo
filologico per distinguere, nel 14° e 15° sec., l’attività degli
umanisti intesa al recupero, allo studio, alla pubblicazione dei testi
classici, dall’attività di quegli stessi umanisti intesa più generalmente alla
creazione letteraria e filosofica, all’elaborazione di una nuova civiltà. Si
parla poi di umanesimo volgare in relazione
allo sbocco storico dell’Umanesimo, quando, nella seconda metà del 15° sec.,
gli ideali letterari di scrittura armoniosa e ornata sono trasferiti in Italia
alle opere letterarie in volgare. Con riferimento, esplicito e implicito, all’Umanesimo
quale periodo storico, il termine è usato infine per caratterizzare ogni
orientamento che riprenda il senso e i valori affermatisi nella cultura
umanistica: dall’amore per gli studi classici e per le humanae litterae alla concezione dell’uomo e della
sua ‘dignità’ quale autore della propria storia, punto di riferimento costante
Se questo è quello vero, quello originale,
vediamo chi e come ha, in ambito politico, lo ha mediaticamente più volte citato
con l’aggiunta di ……..“nuovo”
Dal sito
on-line “fanpage.it”Che cos’è il Nuovo Umanesimo di cui parla Giuseppe Conte
Non è la prima volta
che il premier Giuseppe Conte parla di “Nuovo Umanesimo” nei suoi discorsi. Ma
cosa vuol dire con quest’espressione? Dal concetto di “humanitas” nei latini,
fino al Rinascimento e poi alle teorie del filosofo della complessità, Edgar
Morin, pare comunque che il concetto di Umanesimo sia sempre attuale “Molto spesso
negli interventi pubblici pronunciati ho evocato la forma di un nuovo
umanesimo: non ho mai pensato fosse lo slogan di un governo, ma un orizzonte
ideale per il Paese". Così parlò Giuseppe Conte, il premier
incaricato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per la
formazione di un nuovo governo, sostenuto dalla coalizione M5S e Partito
Democratico. L'attuale presidente del Consiglio dei ministri non è nuovo, come
lui stesso ha evidenziato, all'utilizzo di un'espressione del genere: Nuovo
Umanesimo. Locuzione probabilmente dovuta non solo alla formazione giuridica
del premier, ma anche alla sua concezione della politica, a partire da quella
sovrapposizione tra "popolo" e "populismo" che diede ai
tempi della formazione della prima maggioranza di governo, quella gialloverde
che per quattordici mesi lo ha sostenuto. Quando il premier Giuseppe Conte
parla di "Nuovo Umanesimo" cita, innanzitutto, il filosofo e
pedagogista Edgar
Morin, che nel volume "Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l'educazione"
usava l'espressione "nuovo umanesimo", a proposito della necessità
del genere umano di tornare a quell'umanesimo, concetto di origini
rinascimentali, che rimetteva al centro l'uomo e le sue naturali inclinazioni,
contro le storture (medievali all'epoca, del capitalismo sfrenato oggi). Ecco
cosa scriveva Morin: Come fare a riunire i saperi delle varie discipline?
Serve un pensiero complesso che permetta di unire ciò che è separato. Oggi
serve un nuovo umanesimo… Come apprendere a vivere? La conoscenza non si ha con
la frammentazione ma con l’unione. È necessaria una riforma della conoscenza
del pensiero, un nuovo umanesimo globale che sappia affrontare i temi della
persona e del pianeta. I giovani oggi si sentono persi, non trovano le ragioni
dell’essere. Durante la seconda guerra mondiale i ragazzi dovevano resistere al
nazismo, divennero partigiani, contribuirono a liberare le loro vite e le loro
nazioni. E oggi? Oggi i giovani sono chiamati ad affrontare un compito ancora
più ampio: la salvezza del genere umano. Hanno una missione grande davanti a
loro e dobbiamo educarli ad apprendere e a maturare una conoscenza adeguata ad
assolvere a questo compito fondamentale a cui sono chiamati. Nel
richiamo a quel "nuovo umanesimo globale che sappia affrontare i temi
della persona e del pianeta" è evidente l'allaccio, a sua volta, ai temi
relativi a uno sviluppo sostenibile e alle energie rinnovabili di cui ha più
volte parlato il presidente uscente e rientrante allo scranno più importante
del Consiglio dei ministri. Ma il nuovo umanesimo di cui parla Giuseppe Conte
ha, a sua volta, un forte legame all'umanesimo di stampo rinascimentale, che a
sua volta si richiamava al significato più alto della parola latina
"Humanitas", che rimanda ai tratti essenziali e costitutivi
dell'essere umano, cioè tutto ciò che è degno dell'uomo e che lo rende civile,
innalzandolo sopra la barbarie. Ovviamente, nell'accezione moderna, da Morin in
poi (di recente, nel 2017, il filosofo e storico Michele Ciliberto ha pubblicato per Laterza un volume dal titolo
"Il nuovo umanesimo") il
nuovo umanesimo diventa accoglienza della sfida della complessità e suggerisce
una più moderna – diremmo aggiornata – corretta e completa proposizione
dell’essere umano come espressione della vita.
Confidiamo che l’accostamento a Edgar Morin sia
sostenuto da constatabili elementi di fatto, per intanto visto che è stato
chiamato in causa può essere utile capire cosa ne pensa al riguardo il prof.
Michele Ciliberto (
Dal sito on-line “formiche.net”
Il Prof. Michele Ciliberto, filosofo e storico italiano, considerato uno dei massimi
esperti del pensiero di Giordano Bruno, e autore del volume “Il nuovo
Umanesimo” (Laterza) racconta a Formiche.net perché ci occorre un nuovo umanesimo, così come il premier
Giuseppe Conte e Papa Francesco hanno recentemente e più volte osservato. Nella
consapevolezza che non abbiamo ancora l’esatta percezione delle enormi
trasformazioni del nostro tempo.
È possibile un nuovo umanesimo e con quali perimetri valoriali e
ideali?
Certamente è possibile, ma ne vanno specificati al meglio gli
elementi che lo differenziano da quello più classico. Quando si parla di nuovo
umanesimo si intende riproporre l’attualità dell’umanesimo stesso come elemento
di novità. Naturalmente bisogna aver presente ciò che è stato l’umanesimo
storico.
Perché il Premier incaricato lo ha citato come bisogno sociale?
Anche lui ha percepito che in questo momento la condizione del
destino umano è di straordinaria trasformazione e precarietà. Ciò emerge dalle
sue parole. Ci troviamo in una situazione nella quale la condizione umana
dell’uomo europeo appare profondamente trasformata. Penso a quello che
nell’umanesimo è stato il rapporto con la Chiesa cattolica: in effetti anche
Papa Francesco insiste su questo aspetto.
È cambiato anche il rapporto tra Europa e Cristianesimo?
Dentro l’Europa convivono una pluralità di religioni differenti
come l’Islam, che è diffusissimo, o altre di carattere diverso. Sono venuti
meno i pilastri su cui si è basata la storia europea lungo molti secoli, dal
medioevo alla modernità. Ciò ha determinato un mutamento multilivello nella
vita dell’uomo, anche dal punto di vista della quotidianità. Lo vediamo oggi
anche nella composizione demografica dell’Italia e dell’Europa, con la presenza
di stranieri dai diversi costumi e culture. Credo che non abbiamo ancora
l’esatta percezione delle enormi trasformazioni del nostro tempo. Quindi alla
luce di ciò diventa centrale il nuovo destino dell’uomo. E porre il problema
del nuovo umanesimo significa interrogarsi su quale debba essere il destino
dell’uomo in un tempo come il nostro, denso di cambiamenti radicali che mettono
in discussione persino la sopravvivenza stessa della terra.
Se ieri il ritorno dei filosofi fu la base per immaginare un nuovo
umanesimo, oggi di quali interpreti o valori necessitiamo?
I valori fondamentali sono i grandi valori della cultura
europea. Cito il caso particolarmente drammatico della tolleranza che Alexis de
Tocqueville definisce “madre”. Oggi l’idea di tolleranza ci basta o ci troviamo
in una situazione in cui dovremmo andare al di là?
Ovvero?
Prendiamo il concetto di cittadinanza che era legato all’idea di
uno Stato Nazionale ancorato alla dimensione territoriale. Oggi in virtù della
composizione demografica italiana possiamo mantenere ancora quel concetto di
cittadino? E se non possiamo, ciò non implica che dovremmo anche cambiare il
concetto di tolleranza, andando al di là del semplice riconoscimento del
diverso ad esistere? Quindi il concetto di nuovi cittadini che sono sì
cittadini ma di uno Stato comune, che è l’Italia e di un continente comune che
è l’Europa. Per cui occorre ripensare i grandi valori della cultura occidentale
e riproporli alla luce delle trasformazioni religiose e demografiche che hanno
sconvolto l’assetto dell’Europa spingendola in una traiettoria della quale a
stento ne cogliamo i lineamenti.
Pensa ad una sorta di nuova Costituente di morale e mores?
Assolutamente sì, è un problema cardine della vita di un popolo.
La vita quotidiana lo dimostra nell’idea che abbiamo della vita e della morte.
Oggi abbiamo a disposizione numerose tecniche che consentono di allungare il
tempo della vita dell’uomo in un modo inimmaginabile, contenendo le pulsioni
della morte come mai era avvenuto prima. Sta cambiando il concetto: e ciò
concerne anche il vivere sessuale degli individui ancorato al cambiamento del
rapporto uomo-natura.
Altra chiamata in
causa, questa volta di altissimo profilo perché si riferisce a Papa Francesco
che in effetti in alcuni interventi ha introdotto il concetto di nuovo
umanesimo legandolo strettamente all’emergenza ambientale ed alla lotta alle
diseguaglianze economiche e sociali. Un richiamo di alta spiritualità
confermato dal seguente articolo di Giuseppe Lorizio, teologo della Pontificia
Università Lateranense
Dal
sito on-line “Avvenire.it” Dopo il discorso di Conte. «Nuovo umanesimo» in politica: è tempo di dirlo e di farlo.
Molto spesso, negli interventi pubblici sin qui pronunciati, ho
evocato la formula di un nuovo
umanesimo. Non ho mai pensato che fosse lo slogan di un governo. Ho
sempre pensato che fosse l’orizzonte ideale per un intero Paese». Questa frase,
pronunziata giovedì al Quirinale da Giuseppe Conte nel discorso con cui ha
accettato di verificare la possibilità di formare un nuovo esecutivo, è stata
ripresa dai media in modo spesso superficiale e talvolta in maniera irridente,
in alcuni casi come esclusivo supporto alla cultura dell’accoglienza,
soprattutto verso i migranti, e tuttavia, ha bisogno di essere ulteriormente
pensata e approfondita. Non bisogna
dimenticare che la Chiesa italiana, nel suo V convegno nazionale, celebrato a
Firenze nel 2015, è stata chiamata a riflettere sul tema del 'nuovo umanesimo'
nel suo radicamento cristologico. Il titolo di quell’evento recitava 'In Cristo
il nuovo umanesimo'. E papa Francesco nella riflessione che ha proposto ai
vescovi italiani nell’Assemblea generale del maggio scorso ha richiamato, in
particolare con riferimento alla sinodalità, il discorso che aveva pronunziato in
quell’occasione. Nell’arduo tentativo di declinare teologicamente il sintagma
'nuovo umanesimo', nella mia relazione a Firenze, io stesso avevo richiamato la
categoria fondamentale, decisamente biblica, dell’alleanza come cifra di un
autentico umanesimo radicato nella fede. Oggi mi sembra proprio questo il
contributo decisivo che i cattolici italiani possono offrire al Paese in questo
frangente, ma non solo. E si tratta di un orizzonte culturale, piuttosto che di
un’indicazione programmatica per l’azione di un Governo (come giustamente ha
rilevato Conte). Richiamando la Costituzione, si è fatto riferimento al
'primato della persona', come radice antropologica di ogni azione sociale,
politica, culturale. Come tutti sanno, o dovrebbero sapere – e qui il rammarico
per averlo troppo spesso tralasciato e dimenticato –, la nozione di 'persona',
nella sua pregnanza ontologica, è stata consegnata (o, meglio, donata)
all’Occidente dalle vicende delle dispute cristologiche e trinitarie dei primi
secoli, messe in atto in ambito cristiano. Si è pensato l’umano a partire
dall’identità di Cristo e dal mistero di Dio. Per la cultura pagana la persona
era semplicemente la 'maschera' (prosopon), ovvero rappresentava il
ruolo, che in ambito teatrale veniva assunto e interpretato dall’attore. Oltre
la funzione pubblica, il cristianesimo, invita a considerare l’uomo nel suo
rapporto con l’essere, piuttosto che col fare o col rappresentarsi. La
trasposizione in ambito politico del concetto di persona passa attraverso la
sua valenza giuridica. Come Antonio Rosmini aveva efficacemente dichiarato
della sua 'Filosofia del diritto', «la persona ha nella sua stessa natura tutti
i costitutivi del diritto: essa è dunque il diritto sussistente, l’essenza del
diritto». Questa preziosa indicazione consente il superamento sia di un crudo
giusnaturalismo, sia del contrattualismo, imperante soprattutto nella
concezione hobbesiana e rousseauniana dello Stato. Ed è su tale base
'antropologica' che si innesta la categoria dell’alleanza come modalità propria
del rapporto fra persone e fra gruppi di persone. In questa prospettiva vanno
letti gli autorevoli inviti – in particolare quello del presidente della Cei
Gualtiero Bassetti – a fondare un’autentica prospettiva politica non su dei
semplici contratti, spesso frutto di miopi compromessi, che prima o poi
esplodono, determinando la catastrofe del rapporto, ma su una visione
programmatica, basata appunto su vere e proprie alleanze. Non possiamo non
ricordare che la prospettiva rosminana si rifà alla definizione di Giovanni
Duns Scoto, che a sua volta radicalizza la visione di Riccardo di San Vittore
(per il quale la persona è intellectualis naturae incommunicabilis
existentia) fino a definirla ultima solitudo. Il Roveretano infatti
afferma che la persona è una sostanza spirituale dotata di un principio
incomunicabile. Così possiamo cogliere la caratteristica fondamentale della
persona, ossia la sua unicità. Sonny, il protagonista artificiale del
famoso film Io robot, allorché si scopre 'quasi umano' e ne prende
coscienza, afferma con stupore: «Io sono unico». La macchina si produce, la
persona si genera. Questa unicità rende preziosa ogni persona e determina
un’etica della sua salvaguardia a qualsiasi classe, cultura, religione,
regione, cultura appartenga. Ma, oltre che unicità, la persona dice
anche ulteriorità. Un aforisma che ci giunge dall’antica sapienza
(Seneca, Naturales quaestiones) recita: «Oh quam contempta res est homo,
nisi supra humana surrexerit», che cosa misera è l’umanità se non si sa elevare
oltre l’umano... In questa breve espressione si sintetizza in maniera mirabile
l’ulteriorità della condizione umana, espressa peraltro col verbo (surrexerit)
che fa riferimento alla risurrezione. Quell’«essere della lontananza » che è
l’uomo, infatti, proprio a partire dalla sua distanza originaria e dal suo
oltrepassamento realizza la più piena prossimità alle cose (Martin Heidegger).
E da questo senso della 'trascendenza' dell’umano il pensiero credente non è
certo assente, anzi lo afferma, per esempio in un famoso frammento di Blaise
Pascal, che viene a stemperare il facile ottimismo di un progresso
ideologicamente mitizzato – allorché afferma che «La natura dell’uomo non è di
avanzare sempre; ha i suoi alti e bassi» (fr. 318 ed. Brunschvicg) – e a mettere
in guardia da una possibile deriva spiritualistica dell’antropologia: «L’uomo
non è né angelo né bestia, e disgrazia vuole che chi vuol fare l’angelo fa la
bestia» (fr. 325 ed. Brunschvicg). Il nuovo umanesimo, che non intenda
esprimersi nella forma di un acritico antropocentrismo, chiede così di
declinarsi e di realizzarsi attraverso autentiche alleanze, spesso purtroppo
infrante, fra uomo e natura, fra i generi, fra le generazioni, fra il cittadino
e le istituzioni, fra emozione e ragione, fra popoli e religioni. Una saggia
fatica che certo non può essere il risultato di un programma di Governo, ma
quel programma può ben ispirare e illuminare. E che richiede una visione
culturale e antropologica alla quale i cristiani possono efficacemente contribuire.
Parrebbe quindi che il “nuovo
umanesimo” in aggiunta a importanti spinte politiche abbia un convinto beneplacito dall’altra sponda del Tevere. Ma non mancano in campo cattolico aperti
distinguo che sembrano riproporre quelli antichi rispetto all’Umanesimo
rinascimentale. Il seguente articolo a firma di tal Amato Gianfranco e curato
da don Gabriele Mangiarotti sembra infatti riproporre diffidenze mai superate
verso l’umanesimo, vecchio o nuovo che sia……..
Dal
sito on-line “CulturaCattolica.it”
Da
qualche tempo notavo, con un certo fastidio, come Giuseppe Conte si riferisse sempre più spesso ed in
maniera esplicita al cosiddetto “nuovo umanesimo”, come orizzonte valoriale
della società ideale. Il fastidio se è trasformato in preoccupazione quando
questo concetto è ufficialmente entrato a far parte di un possibile programma
di governo. Il 29 agosto 2019, infatti, l’ex “Avvocato del popolo”,
convertitosi ora in “Avvocato dei Poteri Forti”, nel suo discorso al Quirinale ha
testualmente affermato: «Molto spesso, negli interventi pubblici sin qui
pronunciati, ho evocato la formula di un “nuovo umanesimo”. Non ho mai pensato
che fosse lo slogan di un Governo. Ho sempre pensato che fosse l’orizzonte
ideale per un intero Paese». In quello stesso discorso ha parlato di “valori”
comuni, definendoli “non negoziabili”, tra cui «il primato della Persona», «il
lavoro come supremo valore sociale», «l’uguaglianza nelle sue varie
declinazioni, formale e sostanziale», «il rispetto delle Istituzioni», «il
principio di laicità», e così via. Conte è un uomo troppo intelligente e colto
per non sapere di cosa stia parlando, e per ignorare quale sia l’umanesimo cui
lui fa riferimento. Possiamo affermare che proprio su questo punto ha gettato
la maschera mostrando la sua ormai organica appartenenza – quantomeno culturale
– all’élite dell’europeismo massonico. Ricordo che ai tempi in cui si stava
redigendo la Costituzione europea, Giovanni Paolo II
incaricò un politico italiano di consegnare una sua lettera personale
all’allora presidente della Convenzione che stava lavorando al testo
costituzionale, Valerie
Giscard D’Estaing, per supplicarlo di inserire nel preambolo di
quell’importante documento il riferimento alle radici giudaico-cristiane
dell’Europa. Quando il politico italiano incontrò il presidente e gli anticipò
il contenuto della lettera che stava per consegnargli, quest’ultimo, con
l’insolenza tipica dei francesi e dei massoni, gli rispose così: «Guardi, se
questo è il contenuto della lettera, può fare pure a meno di darmela. Anzi, è
bene che la tenga in tasca e non me la consegni affatto». La lettera rimase
nella tasca del politico italiano e il riferimento delle radici
giudaico-cristiane sparì dalla bozza della Costituzione. Interessante è il
fatto di come venne sostituito quel riferimento nella prima versione del
preambolo: «Consapevoli che l’Europa è un continente portatore di civiltà; che
i suoi abitanti, giunti in ondate successive fin dagli albori dell’umanità, vi
hanno progressivamente sviluppato i valori che sono alla base dell’umanesimo:
uguaglianza degli esseri umani, libertà, rispetto della ragione; (…)». Non il
cristianesimo ma l’umanesimo. Giovanni Paolo II, che in realtà era un tipo alquanto
suscettibile, non prese bene lo sgarro all’Angelus del 20 giugno 2004, urbi et orbi, gridò in polacco: «Nie podcina sie korzeni, z
których sie wyroslo!»,
non si tagliano le radici dalle quali si è cresciuti! Per comprendere meglio la
natura di quell’umanesimo considerato vera radice della nuova Europa, è
sufficiente leggere un documento coevo molto interessante. Si tratta
dell’Allocuzione, non a caso intitolata Per un Nuovo Umanesimo,
tenuta il 6 aprile 2002 dall’Illustrissimo e Venerabilissimo Fratello Fabio Venzi, in occasione della sua nomina a
Gran Maestro della Gran Loggia Regolare d’Italia. Ma che cos’è, in realtà,
questo nuovo
umanesimo?
È molto semplice: siamo ancora una volta di fronte alla prospettiva antropocentrica e anticristiana che considera l’uomo come misura di tutte le cose. Secondo questi “nuovi umanisti”, la ragione, invece di essere considerata come lo strumento con cui l’uomo si apre alla realtà fino al suo ultimo orizzonte di mistero, viene concepita come misura, come garanzia ultima dell’esistenza stessa del reale, come gabbia entro cui ridurre la inesauribile natura della realtà. Ma l’esito di questa prospettiva è disastroso: l’uomo che si erige a misura di tutte le cose pretende, in ultima analisi, di ridurre tutte le cose alla misura delle sue capacità e del suo potere su di esse. Per i “nuovi umanisti”, infatti, lo Stato moderno è l’incarnazione del potere autoreferenziale: una realtà che si presenta come assoluta e che conferisce, essa, dignità all’uomo. Cadono nello stesso errore condannato dalla proposizione 39 del Sillabo di Pio IX: «Lo Stato, come quello che è origine e fonte di tutti i diritti, gode un certo suo diritto del tutto illimitato». Per questo inquieta un personaggio come Conte, quando parta di “valori” e di nuovo umanesimo. Mai come in questi ultimi tempi sto rivalutando le parole profetiche di quello che considero il mio Maestro, Luigi Giussani, fondatore del movimento di Comunione e Liberazione, il cui giudizio acuto sulla realtà ci manca terribilmente.Giussani aveva già affrontato decenni fa il tema del cosiddetto nuovo umanesimo, avvertendone il tratto anticristiano e totalitario e denunciandolo con queste parole: «il laicismo propone un nuovo umanesimo, vuole elidere il cristianesimo richiamando la parola “valori”. Il potere, attraverso la sottolineatura di valori da lui stabiliti, pretende dalla gente ubbidienza secondo il suo disegno. Ma senza il senso del mistero, l’affermazione di un valore come criterio unico genera “violenza”, “omologazione” e “moralismo”».
Si può anche essere devoti di Padre Pio, ma la concezione dell’uomo come centro e misura di tutte le cose rende Dio una realtà inutile, in quanto, pur se professato, il rapporto tra Lui e l’uomo è concepito come rapporto con un’astrazione, come fattore non decisivo nella determinazione dello svolgersi concreto della vita. Anche il devozionismo si può ridurre all’ateismo pratico se prevale l’idea denunciata dal teologo Cornelio Fabro, per cui «Dio, se c’è, non c’entra». Vale per i nuovi umanisti ciò che ancora una volta spiegava bene Giussani, ossia che per loro «Dio non c’entra con l’uomo concreto, con i suoi interessi, i suoi problemi, ambito in cui l’uomo è misura a se stesso, signore di se stesso, sorgente e dell’immaginazione del progetto e dell’energia concreta per la sua realizzazione, ivi compresa la direttiva etica implicata». Nell’ambito dei problemi umani dunque Dio - se c’è - è come se non fosse. Si realizza così la divisione tra un sacro e un profano, invocata dai nuovi umanisti nel principio della laicità dello Stato. Se chiedessimo oggi a Giussani di spiegarci quali sono i «valori comuni» invocati da Giuseppe Conte – in compagnia di qualche alto prelato –, e cosa sia questo nuovo umanesimo, il fondatore di C.L. ci risponderebbe con le stesse parole che si possono gustare a pagina 32 dell’ottimo volume intitolato L’io, il potere, le opere: Contributi da un’esperienza: «Io vorrei spiegare questo nuovo umanesimo, che è lo sforzo supremo operato dalla cultura dominante (atea nel senso pratico del termine) per eludere ed elidere il cristianesimo (con la collaborazione di tanti cattolici di ogni ordine e tipo), richiamando una parola importante: la parola valori. Si dice, si può anche sentire qualche alta personalità ecclesiastica affermare che scopo della Chiesa è aiutare la società civile a individuare e sorreggere una piattaforma di “valori comuni”. Ma i valori comuni anche i pagani li possono sostenere. Non può essere specifico del cristianesimo. Cosa è un valore? E ciò per cui vale la pena, in fondo, vivere». Vale davvero la pena vivere per i valori invocati dal nuovo umanista Giuseppe Conte, ovvero per «il lavoro come supremo valore sociale», per «l’uguaglianza nelle sue varie declinazioni», per « il rispetto delle Istituzioni, per il «principio di laicità», per «il primato della persona» inteso nell’accezione prometeico-umanistica del «faber est suae quisque fortunae», ovvero dell’uomo artefice del proprio destino? Duemila anni di cristianesimo ci hanno rivelato qual è il vero significato ultimo dell’esistenza umana per cui, davvero, vale la pena, in fondo, vivere.
È molto semplice: siamo ancora una volta di fronte alla prospettiva antropocentrica e anticristiana che considera l’uomo come misura di tutte le cose. Secondo questi “nuovi umanisti”, la ragione, invece di essere considerata come lo strumento con cui l’uomo si apre alla realtà fino al suo ultimo orizzonte di mistero, viene concepita come misura, come garanzia ultima dell’esistenza stessa del reale, come gabbia entro cui ridurre la inesauribile natura della realtà. Ma l’esito di questa prospettiva è disastroso: l’uomo che si erige a misura di tutte le cose pretende, in ultima analisi, di ridurre tutte le cose alla misura delle sue capacità e del suo potere su di esse. Per i “nuovi umanisti”, infatti, lo Stato moderno è l’incarnazione del potere autoreferenziale: una realtà che si presenta come assoluta e che conferisce, essa, dignità all’uomo. Cadono nello stesso errore condannato dalla proposizione 39 del Sillabo di Pio IX: «Lo Stato, come quello che è origine e fonte di tutti i diritti, gode un certo suo diritto del tutto illimitato». Per questo inquieta un personaggio come Conte, quando parta di “valori” e di nuovo umanesimo. Mai come in questi ultimi tempi sto rivalutando le parole profetiche di quello che considero il mio Maestro, Luigi Giussani, fondatore del movimento di Comunione e Liberazione, il cui giudizio acuto sulla realtà ci manca terribilmente.Giussani aveva già affrontato decenni fa il tema del cosiddetto nuovo umanesimo, avvertendone il tratto anticristiano e totalitario e denunciandolo con queste parole: «il laicismo propone un nuovo umanesimo, vuole elidere il cristianesimo richiamando la parola “valori”. Il potere, attraverso la sottolineatura di valori da lui stabiliti, pretende dalla gente ubbidienza secondo il suo disegno. Ma senza il senso del mistero, l’affermazione di un valore come criterio unico genera “violenza”, “omologazione” e “moralismo”».
Si può anche essere devoti di Padre Pio, ma la concezione dell’uomo come centro e misura di tutte le cose rende Dio una realtà inutile, in quanto, pur se professato, il rapporto tra Lui e l’uomo è concepito come rapporto con un’astrazione, come fattore non decisivo nella determinazione dello svolgersi concreto della vita. Anche il devozionismo si può ridurre all’ateismo pratico se prevale l’idea denunciata dal teologo Cornelio Fabro, per cui «Dio, se c’è, non c’entra». Vale per i nuovi umanisti ciò che ancora una volta spiegava bene Giussani, ossia che per loro «Dio non c’entra con l’uomo concreto, con i suoi interessi, i suoi problemi, ambito in cui l’uomo è misura a se stesso, signore di se stesso, sorgente e dell’immaginazione del progetto e dell’energia concreta per la sua realizzazione, ivi compresa la direttiva etica implicata». Nell’ambito dei problemi umani dunque Dio - se c’è - è come se non fosse. Si realizza così la divisione tra un sacro e un profano, invocata dai nuovi umanisti nel principio della laicità dello Stato. Se chiedessimo oggi a Giussani di spiegarci quali sono i «valori comuni» invocati da Giuseppe Conte – in compagnia di qualche alto prelato –, e cosa sia questo nuovo umanesimo, il fondatore di C.L. ci risponderebbe con le stesse parole che si possono gustare a pagina 32 dell’ottimo volume intitolato L’io, il potere, le opere: Contributi da un’esperienza: «Io vorrei spiegare questo nuovo umanesimo, che è lo sforzo supremo operato dalla cultura dominante (atea nel senso pratico del termine) per eludere ed elidere il cristianesimo (con la collaborazione di tanti cattolici di ogni ordine e tipo), richiamando una parola importante: la parola valori. Si dice, si può anche sentire qualche alta personalità ecclesiastica affermare che scopo della Chiesa è aiutare la società civile a individuare e sorreggere una piattaforma di “valori comuni”. Ma i valori comuni anche i pagani li possono sostenere. Non può essere specifico del cristianesimo. Cosa è un valore? E ciò per cui vale la pena, in fondo, vivere». Vale davvero la pena vivere per i valori invocati dal nuovo umanista Giuseppe Conte, ovvero per «il lavoro come supremo valore sociale», per «l’uguaglianza nelle sue varie declinazioni», per « il rispetto delle Istituzioni, per il «principio di laicità», per «il primato della persona» inteso nell’accezione prometeico-umanistica del «faber est suae quisque fortunae», ovvero dell’uomo artefice del proprio destino? Duemila anni di cristianesimo ci hanno rivelato qual è il vero significato ultimo dell’esistenza umana per cui, davvero, vale la pena, in fondo, vivere.
Ci piace però chiudere questo
excursus, che speriamo sia servito a meglio capire cosa si possa intendere con “nuovo
umanesimo” con un dialogo a due sul
tema. Proprio quello che ci ha indotto a questa “Parola del mese”, perché ha il
pregio di sgombrare il campo da demagogiche semplificazioni richiamando la
complessità, sempre più doverosa, di fare i conti con il senso ultimo dell’essere
“uomini” in questo mondo. Da una parte il filosofo torinese Maurizio Ferraris
dall’altra il filosofo Massimo Cacciari del quale, alcuni mesi addietro, è
uscito l’ultimo saggio dedicato, guarda caso, proprio all’Umanesimo, quello
originale, con titolo affascinante “La mente inquieta”. Ne consigliamo la
lettura con due avvertenze: non è lettura semplice, il livello della
trattazione è alto e dettagliato, ed inoltre non è la solita celebrazione di
uno stereotipato splendore, sereno e rassicurante, dell’Umanesimo italico che,
come il titolo stesso anticipa, fu invece attraversato da profonde tensioni
intellettuali.
Articolo apparso su La Repubblica del
17 Settembre 2019
L’umanesimo? Inventiamolo ora
Due filosofi, Maurizio Ferraris e Massimo Cacciari, a
confronto su una parola rilanciata, a sorpresa, dalla politica:
La parola umanesimo è tornata di grande attualità. Anche sul
fronte politico: vi si sono appellati, recentemente, sia il premier Giuseppe
Conte che Matteo Renzi. E, su un piano più ampio, papa Francesco. Qui due
filosofi, Maurizio Ferraris e Massimo Cacciari, dialogano a 360 gradi su questo
concetto cruciale.
Maurizio Ferraris. Si parla molto di umanesimo, come se fosse una questione
pacifica a cui tornare per rilassarsi, come in una vacanza intelligente. Quando
invece, ed è la tesi di partenza del tuo libro (La mente inquieta,
Einaudi), l'umanesimo è tutt'altro che un periodo pacificato, dal punto di
vista storico, e di risolto, dal punto di vista teorico. Se è così l'umanesimo
non è dietro di noi, come un momento storico, ma è davanti a noi, come un
obiettivo teorico che è ancora lontano dall'essere realizzato. Mettersi in
questa prospettiva significa abbracciare una filosofia della storia per la
quale l'umanità va verso il meglio. Ma è proprio di queste filosofie che siamo
a corto. Dopo Hegel, è difficile trovare una filosofia positiva della storia, e
anzi la coscienza comune inclina al catastrofismo: l'umanità va verso il
peggio, scienza e tecnica sono false amiche del genere umano, eccetera.
L'emergenza ambientale, il malessere sociale, la scomparsa delle comunità
tradizionali non sono il bel risultato della crescita tecnologica che ha
devastato l'ambiente, distrutto posti di lavoro, e sostituto la società con i social
network? Se questo catastrofismo fosse nel giusto, l'umanità avrebbe
buttato le migliaia di anni di storia di cui conserva memoria. Ma, a onore
dell'umano, va detto che non è così. Siamo molto più numerosi oggi di un tempo,
molti di noi sono più longevi, i nuovi lavori sono meno noiosi e inumani dei
vecchi, che col tempo spariranno e ci sono buone ragioni per pensare che in
tempi non troppo lunghi sarà così in tutto il mondo: è già moltissimo, per il
legno storto dell'umanità, ed è di qui che parte ogni umanesimo degno del
nome.
Massimo Cacciari. L'umanesimo storico è caratterizzato da un senso positivo
del termine novitas, tale da non nascondere tuttavia in alcun modo
la criticità e drammaticità del presente. Né l'istanza di oltrepassamento è
declinata in contrapposizione al valore del passato - anzi, all'opposto: la
scoperta invera l'intero itinerario che ha condotto ad essa. La filologia
dell'Umanesimo assume qui, come ho spiegato nel mio libro, tutta la sua
pregnanza filosofica: nessuna venerazione o idolatria del "classico",
ma co-scienza della propria origine. Tutto ciò, però, a differenza che
nelle ideologie positivistico-progressiste, avviene senza alcuna enfasi; niente
"magnifiche sorti e progressive". Contro queste ultime reagiscono,
sostanzialmente, le profezie catastrofiche e le filosofie della storia sul
tramonto dell'Occidente in voga un secolo fa, e la cui eco di quando in quando
si riaccende. Si tratta di due facce della stessa medaglia. L'Umanesimo
critico è altra cosa: è pittura della realtà effettuale, per quanto il nostro
occhio possa coglierla (e mai lo potrà integralmente) - è decisione che siamo
chiamati ad assumere di fronte all'immagine. La coscienza che nessuna esatta
rappresentazione dei fatti esaurisce il problema di ciò che dobbiamo fare: tale
drammatica consapevolezza costituisce lo sfondo di tutte le ricerche e le
creazioni dell'Umanesimo.
Ferraris. "Conosci te
stesso soltanto nell'azione", scriveva Goethe, e ne sanno qualcosa le
piattaforme che ci profilano proprio registrando il nostro comportamento sul
web. E la prima cosa che conosciamo è che, per agire umanamente, abbiamo
bisogno di tecnica. La natura, di per sé, ci suggerisce solo di nutrirci,
riprodurci e fuggire i predatori, e ci consegna a una vita solitaria, povera, pericolosa,
brutale, e breve. Unico animale nella cui essenza rientra il supplemento
tecnico, l'umano non viene dunque alienato dalla propria essenza a causa delle
malefatte della tecnica, ma viene rivelato dalla tecnica: è la tecnica a dirci
ciò che noi siamo, ciò che vogliamo. A questo proposito, vale la pena di
osservare una circostanza. Nella società borghese, scrive Marx, gli esseri
umani, trasformati in protesi delle macchine, sono forzati a ripetere lo stesso
gesto privo di significato dieci ore al giorno, sei o magari sette giorni alla
settimana, e per tutta la vita. Ma nella società comunista si potrà andare a
pesca alla mattina, scrivere saggi critici pomeriggio, accudire il bestiame
alla sera. Non è forse questa la vita che caratterizza la parte del mondo in
cui abbiamo la fortuna di vivere, tra viaggi low cost, vite sui social e
mobilità lavorativa?
Cacciari. Penso che i discorsi apocalittici sulla tecnica facciano
parte di quelle profezie cui ho prima accennato. Anche qui occorre considerare
che esse spesso si presentano come controcanti a ingenui culti della
"esattezza", come se sempre e in tutti i casi quella ottenibile nelle
procedure matematiche e fisiche potesse valere come modello. Occorre altresì
distinguere, seguendo una traccia già hegeliana e poi marxiana, tra
"alienazione" ed "estraniazione". È vero che il nostro
esserci si manifesta tecnicamente; lo sapevano benissimo i Greci: si tratta di
quella entechnos sophia (sapere tecnico) di cui Prometeo ci ha
fatto dono e senza la quale gli altri animali e la natura matrigna ci avrebbero
divorato da tempo. Ma ben diverso è il fatto che in questo stesso esprimerci
tecnicamente il soggetto finisce per non ritrovare se stesso nei suoi prodotti,
che si configurano come estranei al soggetto che li ha progettati, e tali anzi
da soggiogarlo a sé.
Ferraris. Ci lamentiamo di essere comandati dalla tecnica, ma senza umani
la tecnica non ha scopo, perché non ha vita. Se per ipotesi accanto a noi
venisse seppellito, in luogo asciutto e sicuro, un computer spento, l'anno dopo
lo si potrebbe riaccendere, mentre non c'è modo di rianimare i defunti, per
loro l'alternativa on/off è risolta a divinis per l'off. È questa
irreversibilità che ci rende, tra le altre cose, felici o depressi, interessati
o annoiati, assetati di potere o desiderosi di sapere. La fine è nostra, non
delle macchine, e così pure il fine, anche se, come giustamente ricordi,
possiamo avere l'impressione (ma secondo me il difetto è tutto nostro) di non
trovare il filo, e di essere estraniati a noi stessi. Non
sopravvalutiamoci, ma nemmeno sottovalutiamoci. Le macchine ci porteranno via i
lavori faticosi ed alienanti, ma sta a noi inventare nuovi lavori che ne
prendano il posto; farci pagare per il valore che produciamo sul web; e
riconoscere che se anche siamo sostituibili come produttori, siamo
indispensabili come consumatori. Possiamo costruire una macchina per fare il
sushi, e un'altra per distribuirlo, ma non ha senso una macchina consumatrice
di sushi, e se le prime due esistono e hanno un senso è perché la terza non ne
ha.
Cacciari. Il formidabile processo
per cui l'innovazione tecnico-scientifica produce un assetto dei fattori
produttivi in ogni settore, a crescente e altissima riduzione del lavoro
necessario, è un processo auspicabilissimo, certo. Ma è impossibile
considerarlo avulso dal contesto in cui ha luogo. La liberazione dal lavoro
necessario era vista, dal romanticismo ai grandi dell'idealismo, fino a Marx e
oltre, come l'instaurazione di un "lavoro dello spirito" su scala
universale. E non come il regno del tempo libero! Non ha senso parlare di
liberazione dal lavoro comandato o dipendente se non nella prospettiva di un
"lavoro dello spirito". La disoccupazione è l'opposto di
questo, anche quando venisse retribuita dieci volte il più pagato dei lavori
dipendenti. Questo è il dramma attuale: si libera lavoro lasciando l'energia
del soggetto senza impiego. La società non è organizzata (e neppure pensata!)
per impiegare l'energia che il lavoro liberato possiede. L'etica dominante rimane
ancora quella del lavoro comandato, della pena del lavoro. Qui vi è una
rivoluzione culturale da compiere. E proprio nel segno di un umanesimo
completamente ripensato.
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