Il “Saggio” del mese
OTTOBRE 2019
A
Settembre abbiamo pubblicato come “Saggio del mese” il libro di Hansjòrg Kùster
“Storia dei boschi”. Ci è sembrato opportuno continuare a ricorrere alle
competenze di Kùster anche per questo mese di Ottobre. Per due ragioni. La
prima consiste nel fatto che questo suo secondo saggio, al di là della
successione temporale di uscita editoriale, si collega alla sua dettagliata
ricostruzione della storia del patrimonio boschivo. La seconda nel fatto che a
breve avvieremo il nostro programma 2019/2020 con una iniziativa strettamente
legata alla tematica al centro di questo secondo saggio di Kùster. L’iniziativa
sarà quella di promuovere il progetto di costituzione di un’area protetta lungo
le rive della Dora che coinvolge diversi comuni della valle e della prima
cintura torinese e nel quale Avigliana rientra in misura significativa. Il
saggio del mese di Ottobre è……
Hansjòrg Kùster –
Piccola storia del paesaggio.
In copertina Caspar David Friedrich – Le bianche scogliere di Rùgen 1818
(particolare)
Louis
Gauffer (1761-1801) – La valle dell’Arno dal Paradisino di Vallombrosa
Che
cos’è il paesaggio?
Raffaellino da Reggio (1550.1578) – Affresco
nella loggia della villa Lante della Rovere
Aprile 1336 Francesco Petrarca sale in cima al Mont Ventoux, nelle Alpi occidentali francesi a poca distanza da Avignone. Non poteva certo prevedere che il suo racconto di quella giornata sarebbe diventato nel mondo dell’alpinismo il resoconto della prima “ascensione” su una cima raggiunta per il solo piacere di farlo, e nel mondo della letteratura la più antica descrizione di un “paesaggio”. Eppure lo stesso Petrarca ammette nel suo racconto di non essere stato il primo a raggiungere quella cima, durante l’ascensione incontra infatti un pastore che dice di esservi già salito, probabilmente per rincorrere qualche sua capra. Allora perché assegnare al Petrarca il primato del primo paesaggista? Perché in aggiunta ai monti, alle valli, ai boschi, visti anche dal pastore, Petrarca guarda a quelle stesse forme della natura cercando di interpretarle, stabilendo dei collegamenti, dei raffronti, con ciò che aveva visto in precedenza. Raccoglieva, guardando in quel modo il panorama che si apriva dalla cima del Ventoux, l’invito di Sant’Agostino a non fermarsi all’immagine superficiale di ciò che ci circonda, ma di guardare più in là, più a fondo, di conoscere meglio gli elementi che compongono quell’immagine. Se il pastore, e tanti uomini prima di lui, avevano guardato, per interessi ed esigenze concrete ed immediate, quello che di conseguenza restava un “panorama”, Petrarca osserva dalla cima del Ventoux le cose animate e quelle inanimate, la natura e le opere dell’uomo, e riflettendo su tutti questi aspetti, con il filtro del suo vissuto e della sua cultura, mette a fuoco un vero “paesaggio”. La stessa cosa, seppure in un differente contesto narrativo, viene poco dopo fatta dal Boccaccio in una delle sue novelle. Un gruppo di giovani fiorentini, per sfuggire alla peste, si rifugia in una villa posta in cima ad una collina. In poche righe, e quindi in modo più sintetico rispetto al Petrarca, anche Boccaccio descrive quanto è possibile vedere dalla villa con lo sguardo di chi si sta relazionando ad un “paesaggio”. Nasce dal gusto italiano di quel periodo per la realizzazione di “giardini all’italiana” una sorta di “moda” per la costruzione di “belvederi” in cui il giardino è sì al centro del paesaggio ma in stretto rapporto con tutto il contesto che lo circonda. Il primo belvedere che volutamente è stato costruito con questa attenzione e sensibilità è quello realizzato nel 1500 dal Bramante in Roma, magnificamente e dettagliatamente descritto dal Vasari nelle sue “Vite di ……..” Tutte queste esperienze consentono a Kùster di precisare la sua definizione di “paesaggio” che si basa sostanzialmente su due aspetti distinti ma fra di loro strettamente connessi. Da una parte stanno gli elementi oggettivi che compongono un paesaggio: gli elementi della natura e quelli artificiali, prodotti dall’attività umana, ormai pressochè ovunque inseparabili dai primi, e quindi le cose visibili e quelle invisibili, ossia quelle che stanno in quel paesaggio perché hanno concorso alla sua formazione, e quindi ancora le forme spontanee e quelle modificate dall’uomo della natura stessa. Dall’altra sta la “soggettività” dello sguardo che si volge verso questi elementi oggettivi. Un paesaggio non è mai solamente “visto”, è sempre interpretato. E le interpretazioni variano con il variare del retroterra culturale ed emotivo di chi vi è di fronte. Non tutti leggiamo alla stesso modo lo stesso sfondo oggettivo. Per ambedue questi aspetti è opportuno quindi parlare di “cultura”. Esiste cultura nei processi che hanno costruito gli elementi oggettivi di un paesaggio, ed esiste cultura nel modo in cui ci relazioniamo ad essi. Un paesaggio non viene mai solamente visto, con esso entriamo sempre in una relazione culturale che ci consente di “interpretarlo”. Vedremo successivamente quali forme culturali concorrono a formare questa interpretazione. Un altro elemento è decisivo per tentare di ricostruire una “storia” del paesaggio. Proprio per le sue caratteristiche costitutive il paesaggio non è mai un elemento “fisso, stabile”, anzi è per definizione un processo in continua e costante evoluzione. Per la semplicissima ragione che sono in continua e costante evoluzione gli elementi oggettivi che lo compongono, sia quelli naturali che quelli artificiali, così come le culture e le sensibilità degli sguardi che su di esso si posano. Queste distinte evoluzioni sono anch’esse in continuo e costante rapporto, ma per lo scopo del saggio è utile seguire in modo distinto la loro evoluzione. Kùster parte dalla storia degli elementi della natura nel paesaggio.
Aprile 1336 Francesco Petrarca sale in cima al Mont Ventoux, nelle Alpi occidentali francesi a poca distanza da Avignone. Non poteva certo prevedere che il suo racconto di quella giornata sarebbe diventato nel mondo dell’alpinismo il resoconto della prima “ascensione” su una cima raggiunta per il solo piacere di farlo, e nel mondo della letteratura la più antica descrizione di un “paesaggio”. Eppure lo stesso Petrarca ammette nel suo racconto di non essere stato il primo a raggiungere quella cima, durante l’ascensione incontra infatti un pastore che dice di esservi già salito, probabilmente per rincorrere qualche sua capra. Allora perché assegnare al Petrarca il primato del primo paesaggista? Perché in aggiunta ai monti, alle valli, ai boschi, visti anche dal pastore, Petrarca guarda a quelle stesse forme della natura cercando di interpretarle, stabilendo dei collegamenti, dei raffronti, con ciò che aveva visto in precedenza. Raccoglieva, guardando in quel modo il panorama che si apriva dalla cima del Ventoux, l’invito di Sant’Agostino a non fermarsi all’immagine superficiale di ciò che ci circonda, ma di guardare più in là, più a fondo, di conoscere meglio gli elementi che compongono quell’immagine. Se il pastore, e tanti uomini prima di lui, avevano guardato, per interessi ed esigenze concrete ed immediate, quello che di conseguenza restava un “panorama”, Petrarca osserva dalla cima del Ventoux le cose animate e quelle inanimate, la natura e le opere dell’uomo, e riflettendo su tutti questi aspetti, con il filtro del suo vissuto e della sua cultura, mette a fuoco un vero “paesaggio”. La stessa cosa, seppure in un differente contesto narrativo, viene poco dopo fatta dal Boccaccio in una delle sue novelle. Un gruppo di giovani fiorentini, per sfuggire alla peste, si rifugia in una villa posta in cima ad una collina. In poche righe, e quindi in modo più sintetico rispetto al Petrarca, anche Boccaccio descrive quanto è possibile vedere dalla villa con lo sguardo di chi si sta relazionando ad un “paesaggio”. Nasce dal gusto italiano di quel periodo per la realizzazione di “giardini all’italiana” una sorta di “moda” per la costruzione di “belvederi” in cui il giardino è sì al centro del paesaggio ma in stretto rapporto con tutto il contesto che lo circonda. Il primo belvedere che volutamente è stato costruito con questa attenzione e sensibilità è quello realizzato nel 1500 dal Bramante in Roma, magnificamente e dettagliatamente descritto dal Vasari nelle sue “Vite di ……..” Tutte queste esperienze consentono a Kùster di precisare la sua definizione di “paesaggio” che si basa sostanzialmente su due aspetti distinti ma fra di loro strettamente connessi. Da una parte stanno gli elementi oggettivi che compongono un paesaggio: gli elementi della natura e quelli artificiali, prodotti dall’attività umana, ormai pressochè ovunque inseparabili dai primi, e quindi le cose visibili e quelle invisibili, ossia quelle che stanno in quel paesaggio perché hanno concorso alla sua formazione, e quindi ancora le forme spontanee e quelle modificate dall’uomo della natura stessa. Dall’altra sta la “soggettività” dello sguardo che si volge verso questi elementi oggettivi. Un paesaggio non è mai solamente “visto”, è sempre interpretato. E le interpretazioni variano con il variare del retroterra culturale ed emotivo di chi vi è di fronte. Non tutti leggiamo alla stesso modo lo stesso sfondo oggettivo. Per ambedue questi aspetti è opportuno quindi parlare di “cultura”. Esiste cultura nei processi che hanno costruito gli elementi oggettivi di un paesaggio, ed esiste cultura nel modo in cui ci relazioniamo ad essi. Un paesaggio non viene mai solamente visto, con esso entriamo sempre in una relazione culturale che ci consente di “interpretarlo”. Vedremo successivamente quali forme culturali concorrono a formare questa interpretazione. Un altro elemento è decisivo per tentare di ricostruire una “storia” del paesaggio. Proprio per le sue caratteristiche costitutive il paesaggio non è mai un elemento “fisso, stabile”, anzi è per definizione un processo in continua e costante evoluzione. Per la semplicissima ragione che sono in continua e costante evoluzione gli elementi oggettivi che lo compongono, sia quelli naturali che quelli artificiali, così come le culture e le sensibilità degli sguardi che su di esso si posano. Queste distinte evoluzioni sono anch’esse in continuo e costante rapporto, ma per lo scopo del saggio è utile seguire in modo distinto la loro evoluzione. Kùster parte dalla storia degli elementi della natura nel paesaggio.
Elementi
della natura
William Turner (1775-1851) – Eruzione del
Vesuvio
Per trattare del rapporto natura-paesaggio
occorre partire dalla piena consapevolezza che tutti gli elementi naturali che
intervengono nel costituirlo sono soggetti a processi improntati al continuo
mutamento: le piante nascono, crescono e muoiono, le rocce si sfaldano e
franano, i terreni mutano composizione, le acque cambiano costantemente le
forme del loro scorrimento, la luce varia in base al passare del giorno, delle
stagioni e degli ostacoli che si frappongono al suo illuminare la scena, gli
animali, grandi e piccoli fino al microscopico, per le loro esigenze vitali
modificano anch’essi tutti questi elementi. Tutte queste variazioni sono
“paesaggio”. Per poter comprendere quali elementi naturali compongono un
determinato paesaggio, e quali specifici processi li hanno conformati fino a
raggiungere la (provvisoria) forma con la quale compaiono in esso, sono
sicuramente indispensabili le conoscenze scientifiche di ogni singola tipologia
di elemento. Occorre ad esempio sapere se le sue rocce sono di granito o di
calcare, a quale famiglia appartengono gli alberi, se la conformazione del
terreno è di origine fluviale o glaciale, e così via. Ma è indubbio che la sua
valutazione complessiva non può essere la semplice sommatoria di ogni singola
componente scientifica, che per quanto in grado di essere precisa e dettagliata
è comunque incapace di restituirci “l’insieme” paesaggistico. Questa capacità
di sintesi, che pure deve poggiare su quelle competenze, richiede uno sforzo di
relazione fra di esse più affine alle logiche di una disciplina umanistica, ad una
sorta di connubio fra storia e filosofia, che non a quelle delle scienze
“dure”. Avremo modo di vedere successivamente che il nostro rapporto con un
paesaggio ed il nostro modo di comprenderlo poggiano su pensieri e “metafore”
umane non necessariamente scientifiche. Un paesaggio inoltre, qualunque
paesaggio, non sarà mai riproducibile in laboratorio e la sua comprensione pertanto
richiede sempre uno sforzo di astrazione adeguato alla sua complessità. Un
primo elemento classificatorio del rapporto paesaggio-elementi naturali che lo
compongono consiste nell’individuazione delle tipologie di processi che lo
hanno determinato. Ed esempio è necessario capire se esso è il risultato di
fenomeni naturali “catastrofici”: eruzioni, terremoti, movimenti geologici, ma
anche incendi, alluvioni, intense variazioni climatiche. Oppure se siamo di
fronte al risultato di una lenta, progressiva ed ordinata evoluzione non
disturbata di eventi eccezionali. E’ poi necessaria l’astrazione dalle
condizioni stagionali nelle quali quel rapporto si concretizza: lo stesso
paesaggio muta radicalmente se osservato in inverno piuttosto che in estate, e
la sua comprensione completa dovrà necessariamente essere una sorta di “media”
dei vari aspetti che esso assume nel ciclo annuale. Si capisce allora quanto
sia complessa questa comprensione se anche solo una significativa gelata
invernale può modificare radicalmente il paesaggio in relazione alla tipologia
di alberi che lo formano, non tutte infatti reagiscono a variazioni climatiche
importanti allo stesso modo. Un bosco, lo stesso bosco, può quindi assumere
aspetti completamente diversi a seconda dell’anno in cui lo osserva. E’ quindi
impossibile, dal punto di vista delle sue componenti naturali, definire una
“versione” unica e definitiva di un paesaggio; la natura è per antonomasia
cambiamento, mutamento, evoluzione. Tutti questi processi si possono allora meglio
ripercorrere e percepire quando si è in possesso di immagini, narrazioni, che
lo descrivono in diverse fasi del suo divenire. Restando ancora nel contesto della
storia degli elementi della natura nel paesaggio è inoltre opportuno
comprendere il rapporto tra paesaggio ed ecosistema. Sembra infatti quasi ovvio
per molti studiosi di scienze naturali mettere sullo stesso piano questi due
concetti, in effetti entrambi designano unità naturali fisicamente
individuabili in un determinato contesto spaziale, anche se essi molto
raramente hanno confini esattamente definiti. Ma, tornando a quanto appena
detto sulla sua caratteristica costitutiva, un paesaggio non è mai la sola
sommatoria dei suoi componenti naturali. Allo stesso modo quindi per percepirlo
pienamente non è né essenziale né sufficiente, per quanto possa comunque
rappresentare una rilevante sua fotografia, conoscere tutti i rapporti dell’ecosistema
che lo forma.
Elementi
della cultura
Il ciclo dei mesi (XV° secolo) affresco
Castello del Buonconsiglio di Trento
Mentre la natura è continua modificazione
del paesaggio lo scopo dell’intervento dell’uomo su di esso mira, al contrario,
a raggiungere una qual certa stabilità, uno stato di gestibile fissità. Un
risultato che è, per l’appunto, conseguibile solo in relazione alla esecuzione
di “interventi” sull’ambiente, sul paesaggio, progettati e attuati, quasi sempre grazie all’ausilio di strumenti tecnici
anch’essi frutto di una “progettazione”, che rientrano a pieno titolo in una
“cultura”. In questo senso si deve parlare di elementi culturali del paesaggio.
Per centinaia di migliaia di anni, seguendo il corso della sua evoluzione, l’uomo
si è relazionato con l’ambiente, con il territorio, in forme del tutto simili a
quelle delle altre specie animali: raccoglieva e cacciava, si rifugiava in
ripari naturali. La pratica della caccia si è via via perfezionata implicando
anche una sorta di sfruttamento della conformazione del terreno, del paesaggio.
I punti elevati erano ottimi punti di osservazione per individuare prede e
successivamente per coordinare le operazioni di caccia. Ma tutto ciò non era
diverso da quanto messo in atto da altri animali predatori, e non solo non
prevedeva un qualsiasi intervento di modifica dell’ambiente, lo stesso sguardo
che quei nostri antenati volgevano intorno, non diversamente da quello delle
altre specie animali, non era certo mirato ad osservare un “paesaggio”. Anche
solo limitandoci alla presenza dell’homo sapiens questa umana “immersione”
neutra nella natura si è protratta per svariate decine di migliaia di anni. Si
può quindi iniziare a parlare di elementi culturali del paesaggio solo a
partire dalla rivoluzione agricola e dalla collegata nascita di insediamenti
stabili. La cultura contadina, ossia la preparazione del terreno, la scelta
delle sementi, la loro semina, la loro cura, la loro raccolta, si è
manifestata, fatto estremamente curioso, pressochè in contemporanea in diverse
parti del pianeta, così lontane tra di loro da rendere problematica l’ipotesi
di una diffusione per passaggi comunicativi. Poco più di diecimila anni fa nel
Sudest asiatico, in Sud America, in Africa, ma soprattutto in Medio Oriente,
nella terra dei fiumi, si assiste alla creazione di “campi”. Inizialmente
l’impatto sul paesaggio ha effetti limitati: le operazioni agricole non
comportavano in effetti trasformazioni significative. Si sfruttavano i terreni
naturalmente meglio adatti allo scopo, li si predisponeva allo scopo con
interventi decisamente leggeri, si sostituiva la vegetazione spontanea con
quella seminata, si raccoglievano i frutti del raccolto. Se per ragioni
contingenti quell’area doveva essere abbandonata, nel breve volgere di poche
stagioni essa riprendeva sostanzialmente il suo aspetto originario. L’evoluzione
progressiva della “cultura” agricola ha però via via “appesantito” il suo
impatto sull’ambiente naturale. Questa sua incidenza, sempre più significativa sul
paesaggio si è evoluta attraverso tre diverse modalità. La prima, meglio
collegabile all’agricoltura del Medio Oriente, è consistita non tanto nella
nascita dei campi, quanto piuttosto nelle opere di canalizzazione delle acque
dei fiumi indispensabile per l’irrigazione dei campi in aree interessate da
lunghi periodi di siccità. Canali, sbarramenti, deviazioni del letto del fiume,
hanno inciso in modo sempre più evidente sulla conformazione del territorio e
del paesaggio avendo ovvie caratteristiche strutturali. Inoltre queste opere
richiedevano un numero sempre più grande di “braccia” per la loro realizzazione
e manutenzione, braccia che dovevano necessariamente essere molto vicine alle
coltivazioni. La nascita di villaggi via via sempre più grandi, fino a meritare
l’appellativo di “città”, sono altri elementi culturali collegabili a questa
forma di primo significativo impatto sul paesaggio sui quali Kùster tornerà più
avanti in modo approfondito. La successiva diffusione delle pratiche agricole in
tutta l’area mediterranea consente l’affermarsi di una seconda modalità. Lungo
tutte le coste mediterranee, nelle aree pianeggianti costiere e del primo
entroterra alla foce dei fiumi, la cultura agricola ha preso le mosse con
tecniche identiche a quelle della terra dei fiumi seppure su scala di gran
lunga ridotta viste le limitate estensioni delle terre sfruttabili. Lo sviluppo
demografico reso possibile proprio dalla rivoluzione agricola e dalla collegata
sedentarietà ha in breve richiesto di sfruttare, là dove possibile, anche
terreni su pendii. Ha così inizio in questo modo la tecnica del “terrazzamento”. Una tecnica
che nell’arco di millenni ha avuto una vastissima diffusione, inizialmente in
tutta l’area mediterranea e successivamente anche all’interno di tutto il
continente europeo sulle zone collinari e fino alle prime pendici delle sue
catene montuose. Così come per le canalizzazioni delle acque anche i
terrazzamenti sono diventati, molto più dei soli campi, elementi culturali di
modifica duratura del paesaggio, essendo pienamente ispirati, non a caso, da
quella aspirazione alla stabilità di cui si è detto. Non solo: i terrazzamenti
si sono dimostrati il terreno ideale per determinate coltivazioni in aggiunta a
quelle inziali dei cereali. Ulivi e viti diventano infatti, in tutta l’area mediterranea,
una componente paesaggistica strettamente legata al terrazzamento e la base di
tutte le civiltà che sulle sue acque si sono affacciate. Una terza modalità,
già analizzata da Kùster per la sua incidenza sulla storia dei boschi nel suo
precedente saggio, si è manifestata invece più all’interno del continente in
aree nelle quali la presenza di nuclei umani era decisamente minore, si parla infatti
quasi ovunque, e in un arco di tempo durato diverse migliaia di anni, di gruppi
di un centinaio o poco più di individui che si muovevano in territori molto
complessi ed in gran parte ricoperti da boschi e foreste. In questi ambiti
l’avvento dell’agricoltura non si poteva collegarsi immediatamente a forme
consistenti di sedentarietà. Il terreno per la coltivazione doveva essere
“sottratto” al bosco con faticosi disboscamenti; in relazione alla consistenza
numerica standard di questi gruppi umani l’area disboscata non superava i
trentacinque ettari (un quadrato di tre chilometri e mezzo di lato). Il legname
ricavato dal disboscamento veniva utilizzato per la costruzione delle
abitazioni, in una prima lunghissima fase consistente in una unica “casa lunga”
con più fuochi familiari al suo interno. Per quanto limitata nella sua estensione
questa modalità di coltura agricola, stante il suo protrarsi millenario, ha
avuto sul paesaggio boschivo europeo un notevole impatto. Che aveva in successione
una sua particolare evoluzione. Lo sfruttamento dell’humus, certamente non
fertilizzato, ma soprattutto il degrado della “casa lunga”, che dopo qualche
decennio implicava di fatto una sua completa ricostruzione, sono stati elementi
che hanno incentivato un fenomeno di “nomadismo” agricolo. Non essendo di fatto
più conveniente insistere sull’area disboscata, meno fertile e con meno alberi
di alto fusto comodi ad essere spostati per la costruzione della casa grande,
questi nuclei umani preferivano abbandonarla e spostarsi in una nuova nella
quale avviare un nuovo ciclo di disboscamento. Una nuova parte del territorio e
del paesaggio veniva così ad essere interessata dal medesimo impatto di quelle
precedenti, sulle quali il bosco lentamente poteva tornare a crescere, ma con
modalità che non consentivano più di ripristinare esattamente le condizioni
originali precedenti il disboscamento. Questo fenomeno, tecnicamente definito
“successione secondaria”, produceva un nuovo tipo di bosco, con altri tipi di
alberi, diversamente distanziati fra di loro. Quel paesaggio, anche dopo
l’abbandono umano, era definitivamente mutato dalla sua condizione originaria. Tutte
queste tre modalità testimoniano, proprio per le loro caratteristiche di
stabilità, un aspetto centrale per la storia del paesaggio: là dove la cultura
umana ha inciso in modo significativo si è determinato un processo comunque irreversibile,
vale a dire che tutte le modificazioni intervenute incidono in forma stabile
sul suo aspetto e saranno, per un occhio attento ed esperto, leggibili ad
aeternum. Analogamente anche la pratica, collegata all’avvento
dell’agricoltura, dell’allevamento di bestiame e della pastorizia ha avuto un
impatto rilevante sulla storia del paesaggio. Se è vero che la creazione dei
“pascoli” veri e propri non si avrà che diversi millenni dopo, in questa prima
fase il bestiame era infatti semplicemente lasciato libero di pascolare nel
bosco e la pastorizia sfruttava terreni incolti di pregio limitato, ambedue queste
pratiche hanno inciso notevolmente. L’istinto a brucare anche i germogli
arborei ha avuto conseguenze significative sul paesaggio boschivo, limitando la
crescita di alberi di alto fusto e diradando il bosco. Kùster non a caso dedica
ampio spazio a queste originali modalità di impatto sull’ambiente degli
elementi culturali legati all’avvento dell’agricoltura. Innanzitutto perché essi
sono rimasti sostanzialmente stabili per diversi millenni, di fatto mantenendo
in gran misura le loro forme originali fino a dopo il Medioevo per poi passare
a forme evolute solo con l’avvento dell’agricoltura intensiva resa possibile
dalla meccanizzazione moderna. In secondo luogo perché in esse sono presenti fin
dall’inizio, e con carattere durevole, tutti gli elementi costitutivi di quello
che è fin da allora definibile come “paesaggio agricolo”, al di là della sua
estensione e modernizzazione. Nascono infatti già allora i “confini” fra le
zone usate per l’agricoltura e l’allevamento e quelle “originali”. Certo sono
confini fra un tipo di paesaggio e l’atro che i spostano, che si modificano,
che variano a seconda delle fase da divisioni nette ad altre via via più
sfumate, ma che comunque segnano una “separazione” sempre e comunque rilevabile.
Là dove i confini restano netti e chiaramente identificabili si può allora più
facilmente leggere parlare da una parte di un “paesaggio culturale” e
dall’altra di un “paesaggio naturale”. Là dove l’espansione degli elementi
culturali progressivamente viceversa non segna, più o ancora, un confine netto
si crea un “paesaggio misto” di più complicata decifrazione. Occorre però
tenere conto che anche nel paesaggio culturale agisce sempre e comunque una
dinamica naturale, ovviamente meno facile da deciifrare e più sfumata nelle sue
forme. Un elemento fondamentale differenzia però l’impatto sul paesaggio
dell’evoluzione culturale umana. Se, come Kùster più volte ci ricorda, la
modificazione per intervento culturale ha carattere irreversibile, dall’altra
occorre constatare che solo con l’avvento della modernità (Kùster cita come
punto di svolta l’idea di Cartesio del rapporto uomo-natura, siamo nel pieno
del 1600) l’uomo acquisisce consapevolezza della sua “potenza” di modificazione
della natura. Quello che per millenni è stato attuato come una sorta di
“sviluppo naturale”, vissuto senza piena coscienza della sua importanza, si
trasforma nell’esercizio cosciente di un presunto diritto ad agire come
“creatore” dell’ambiente. Una consapevolezza che, se ha le sue origini negli
stessi racconti mitologici e religiosi della “creazione” con la loro consegna
all’uomo del ruolo di dominus su tutto il creato, solo con la modernità e
l’esplosione della tecnica essa assume un carattere di autentica onnipotenza.
La collegabile consapevolezza dei guasti che da ciò sono derivati, non solo sul
paesaggio, ancora ai nostri giorni stenta a farsi strada.
Stampa cinese raffigurante il lavoro nelle
risaie
Accanto all’agricoltura un secondo elemento
culturale ha condensato in sé significativi impatti umani sul paesaggio: come
già anticipato si tratta della “città”. Che va intesa in senso letterale, concreto,
come concentrazione urbana e al contempo come sintesi del più ampio concetto di
civiltà. Non solo per le affinità etimologiche dei termini civis-ciitadino,
civitas-città, civitatis-civiltà, ma anche perché nello spazio urbano si sono
concentrate tutte le attività e le competenze umane che hanno implicato un
impatto sul territorio e sull’ambiente. La nascita delle città è strettamente
collegata all’avvento dell’agricoltura e delle forme di “potere” e di
“governo”. In particolare è stata la necessità di costruire, gestire e
regolamentare l’uso delle opere di irrigazione artificiale dei campi, a costituire
uno dei più importanti presupposti per la costituzione di un potere
riconosciuto a cui affidare tali compiti. Un potere che necessitava di una sede
fissa, di un palazzo di rappresentanza, attorno al quale sono via via cresciute
le connesse attività “cittadine”: dai luoghi di culto a quelli per il
commercio, dal braccio armato alle normali abitazioni di una popolazione che,
proprio grazie all’agricoltura, era in costante crescita demografica. Rispetto
ai precedenti insediamenti rurali la città ha da subito rappresentato una più
netta separazione dal territorio circostante, diventando una presenza
paesaggistica completamente distinta e a sé stante anche grazie alle mura e
fortificazioni che per molti secoli l’hanno cinta. Le città nascevano,
conoscevano periodi di sviluppo, e potevano poi, se mutavano le condizioni
della loro sussistenza, anche declinare fino a scomparire del tutto. Nella fasi
di crescita e sviluppo fagocitavano al loro interno ogni elemento paesaggistico
precedente fino ad essere esse stesse un particolare paesaggio, quello che
ancora oggi definiamo “paesaggio urbano”. Che ha conosciuto nel corso dei
millenni una sua specifica evoluzione legata alla evoluzione culturale complessiva
ed a quella tecnologica in particolare. La separazione fra paesaggio urbano e
paesaggio rurale si è mantenuta molto a lungo netta e facilmente individuabile,
perlomeno fino a quando la crescita delle città ha raggiunto dimensioni davvero
importanti, tali da creare una sorta di zona intermedia nella quale gli
elementi urbani sfumavano in modo progressivo e complicato in quelli rurali. In
questo quadro storico, in diversi momenti, vanno inserite alcune tipologie di
insediamenti legati alla gestione del controllo padronale delle attività
agricole; rientrano ad esempio in questa categoria le “villae” romane, sedi del
proprietario dei campi che posizionate in punti elevati e terrazzate consentivano
lo sguardo sul territorio circostante e sulle attività agricole. Una tipologia
di insediamento che si è poi successivamente sviluppata in case forti, in
castelli, in residenze di campagna, con connessi nuclei abitativi, e che si è così
inserita nell’insieme de paesaggio rurale circostante come elemento a sé stante.
Ma è ovviamente soprattutto in funzione della città, e delle attività in essa
concentrate, che nel corso del tempo si sono aggiunti e consolidati interventi
umani sul territorio. Strade ed acquedotti sono stati solo i primi elementi
artificiali di un lungo e crescente elenco, esploso con la modernità con tutta
la rete di conduttore che alimentano e collegano la città, che si sono
inseriti, non raramente in forma violenta, nel contesto paesaggistico,
modificandolo radicalmente ovvero condizionandone comunque lo sviluppo
naturale. Il ruolo decisivo che la “città”, intesa come luogo fisico in cui si
sono progressivamente concentrate tutte le attività e tutti gli elementi che
compongono la “civiltà”, ha avuto ed ha sull’intero insieme paesaggistico
naturale si è articolato in una influenza diretta là dove essa, sviluppandosi
ed ampliandosi in orizzontale (si pensi alle moderne “megalopoli”) ha inglobato
il paesaggio circostante, ed un’influenza indiretta là dove le necessità di
“alimentare” la città, i suoi abitanti e le sue attività, ha impattato
pesantemente su territori, e collegati paesaggi, anche lontani se non
lontanissimi. Valgono come esempio i selvaggi disboscamenti per fornire legna e
legnami, la captazione artificiale delle acque, le aree di smaltimento dei
rifiuti urbani, l’insediamento di attività “pesanti” non sopportabili dal
tessuto urbano, le miniere a cielo aperto. Confluiscono pertanto nel concetto
di città una enorme varietà di elementi culturali che hanno esercitato sulla storia
del paesaggio un impatto impressionante sia come estensione sia come
consistenza. In effetti la città, essendo al tempo stesso calamita e volano
dell’impatto umano sull’ambiente, è una sorta di formidabile lente di ingrandimento
per meglio comprendere l’intera storia del paesaggio e lo stesso modo in cui
l’uomo ad esso si è rivolto per leggerlo ed interpretarlo.
Il paesaggio come metafora
Caspar David Friedrich (1774-1840) – Viandante sul mare di nebbia
Come si è detto lo sguardo del Petrarca sul
paesaggio circostante dalla cima del Ventoux era guidato dalla sua cultura e
dalle sue aspettative emozionali sicuramente molto forti in quella particolare
circostanza. Non diversamente ogni qual volta guardiamo un paesaggio tutti noi,
in aggiunta all’eventuale coinvolgimento emotivo, lo “leggiamo” filtrandolo
sulla base della nostra cultura e, secoli dopo il Petrarca, guidati da alcune
“idee” di paesaggio che si sono da allora consolidate in modo tanto diffuso
quanto inconsapevole. Tutti i paesaggi, come si è visto, sono per definizione,
in costante evoluzione, mutano seguendo i ritmi di cambiamento della natura.
Quella che osserviamo è quindi un’immagine, una istantanea, che raccoglie tutti
i mutamenti fin lì già avvenuti e che è in temporanea sospensione in attesa di
quelli che sicuramente da lì in poi avverranno. Le immagini dei paesaggi hanno
quindi sempre a che fare con il passato, con la storia. Per individuarli in quello specifico contesto ricorriamo
di norma a “chiavi di lettura” in grado di guidarci proprio perché legate ad
una idea di passato, di storia, che già riteniamo collegabile a quel paesaggio.
Sono chiavi di lettura acquisite inconsapevolmente e diventate a tutti gli
effetti una sorta di stereotipo, di “metafora”. Diventiamo in questo modo e
grazie alla loro “influenza associativa” predisposti, fino all’esercizio
mentale di una sorta di collegamento scontato, a leggere in un determinato
paesaggio il selvaggio piuttosto che il minaccioso, l’avveniristico, il
bucolico, il decadente, l’armonico, il disordinato, l’esotico, il misterioso, e
via discorrendo. Non si tratta di chiavi di lettura generiche ed astratte
perché poggiano su idee, e di collegati valori, che si sono consolidate
nell’immaginario collettivo nel corso del tempo. Dobbiamo quindi essere consapevoli
di quanto possa essere complesso “leggere” asetticamente, scieentificamente, un paesaggio per coglierne tutti gli elementi,
naturali e culturali, che sono intervenuti per formarlo. Un conto è “godere” di
un paesaggio, un godimento che con buona probabilità consisterà proprio nel suo
coincidere con la “chiave di lettura” con la quale ci siamo ad esso accostati,
un altro è quello di “decifrarlo” per individuare tutti gli elementi utili alla
sua comprensione e, quando necessario, alla sua gestione. Kùster, con questa preliminare
avvertenza, presenta le più importanti “metafore” paesaggistiche che la cultura
ha via via costruito.
Il “sublime” della natura selvaggia: un concetto che
nasce dall’osservazione di una natura tanto potente ed imponente, quanto
minacciosa e incontrollabile. Un’immagine legata a foreste fitte e misteriose,
piuttosto che a esplosioni vulcaniche, valanghe inarrestabili, fiumi impetuosi.
Un concetto antico come l’uomo che la razionalità illuministica ha inutilmente
tentato di svuotare, e che al contrario il Romanticismo ha ricelebrato come
metafora della sfida umana alla potenza fascinosa della natura. Una sensibilità
che inesorabile ci coglie ogni qual volta guardiamo ad un paesaggio che ci pare
sconosciuto perché ancora “posseduto” dalla natura incontrollata e
incontrollabile
Paradiso e giardino: Nel persiano
antico la parola paradiso designa quello che noi chiamiamo giardino. E nelle
mitologie paradiso e giardino, luoghi riservati e in quanto tali recintati,
delimitati, spesso si accavallano. Recintati perché ogni giardiniere vuole
creare qualcosa di prezioso, da saper apprezzare, e che deve quindi essere curato,
tenuto ordinato, difeso, salvaguardato. Il giardino ben curato è allora metafora
di un paesaggio, di una natura resa perfetta dalla cura dell’uomo, dalla sua
cultura. Vale a dire un “paraadiso”
L’Arcadia e il giardino all’italiana: nell’antichità classica
tutta l’area, specie quella costiera, del Mediterraneo si è in gran misura uniformata:
vite, ulivo, macchia selvaggia, cipressi, pini, agrumeti sono quasi ovunque
diventati elementi fissi di paesaggi molto simili fra di loro. Paesaggi che la
fine dell’antichità ci ha consegnati indissolubilmente legati all’idea di un
mondo classico caduto in rovina ma sempre capace di affascinarci ed insegnarci
molte cose. Sono questi, sinteticamente, gli elementi del movimento culturale
che alle soglie della modernità prese il nome greco di Arcadia, gli stessi elementi
che formano il cosiddetto giardino all’italiana. Metafora quindi di un tempo
antico che si riflette in un paesaggio per mantenere intatto tutto il suo
fascino ed il suo valore
Il giardino alla francese: E’ più grande e
più ordinato, nelle geometrie e negli elementi che lo formano, di quello
italiano. Nasce nel 1500 in concomitanza, non casuale, con le riforme agrarie
per rappresentare visivamente la grandezza del potere e la necessità di ordine
su tutto il territorio. Presto copiato, proprio per queste sue caratteristiche,
da molti altri stati e staterelli europei. E’ la metaforica rappresentazione di
un paesaggio che, grazie a ordine e potenza e al conseguente governo sull’intera
natura, l’opera dell’uomo plasma e ricrea
Il bosco pascolativo ed il giardino alla
francese:
A partire dal 1700 inizia a ridursi il frenetico utilizzo di legna e legnami
che a partire dall’alto Medioevo hanno rappresentato la materia prima
essenziale per tutta l’Europa. L’epoca di vastissimi disboscamenti si chiude
con l’arrivo del motore a vapore e con nuovi fonte energetiche, carbone fossile
in primis. La Gran Bretagna si era per prima già in buona misura smarcata dal
fabbisogno di legna da fonti interne grazie alle massicce importazioni dalle
colonie dell’Impero. Molte delle aree disboscate, restando senza immediata
utilizzazione ed entrando, grazie al processo delle “enclosures”, nel pieno
possesso di nobiltà e borghesia, vengono destinate a parco. Una forma di parco
che ha vasti prati verdi, in parte usati come pascolo, segnati da pochi alberi
che crescendo solitari raggiungono dimensioni considerevoli. E’ il parco
all’inglese. Metafora di un ritorno ad
uno stato naturale ormai del tutto illusorio visto il peso ineliminabile
dell’intervento umano.
La libertà dell’America e la varietà
dell’Asia orientale: Tutte le forme europee di giardino non sono però in
grado, neppure volendolo, di restituire in pieno l’idea di una natura vera e
selvaggia. Nel 1800 i resoconti della vastità panoramica dei territori
americani creano il mito di una natura fatta di paesaggi sconfinati nei quali
la mano dell’uomo resta invisibile. I grandi parchi del Nord America,
Yellowstone e Grand Canyon fra gli altri, diventano una sorta di sogno di spazi
ancora da conquistare e quindi da proteggere. Un sogno che viene presto
copiato, su scale di molto inferiori, anche in Europa. Parchi metaforici
dell’illusione di spazi liberi ed incontaminati. Le suggestioni che arrivano
dall’estremo Oriente sono di segno opposto. La moda europea dell’orientalismo e
delle cineserie, si pensi all’influenza della pittura giapponese sullo stesso
Impressionismo, porta all’imitazione di giardini, di spazi riempiti dalla
varietà più ampia possibile di tipi di piante, di fiori, di vasche d’acqua, di
cespugli multicolori. Per quanto limitata nella sue realizzazione è la metafora
di un paesaggio costruito minuziosamente dalla mano dell’uomo a ingentilire
orizzonti ristretti come opere di minuteria artistica
La libertà delle Alpi svizzere: Nell’Europa del
1800 diventa un punto di riferimento la storia della Svizzera, un paese fatto di
alte montagne, di pascoli verdi e di graziosi chalet, che, strenuo difensore
della propria autonomia, riesce a tenersi estraneo agli interminabili conflitti
fra tutti gli altri Stati. Questa ammirazione “politica” diventa ammirazione
per questi paesaggi svizzeri: puliti, ordinati, ogni elemento, naturale e culturale,
sembra essere stato posato da mani sapienti esattamente dove doveva stare.
Scoppia la moda degli chalet. Se ne costruiscono ovunque. Anche in riva al
mare. Metafore di una natura paesaggistica che sa rappresentare senso di
libertà coniugato con la bellezza dell’ordine
La foresta tedesca: La Germania che
Tacito descriveva come interamente coperta da “orride foreste” è il paese che
paga il prezzo più alti dei grandi disboscamenti. Ma, a partire dal 1700, è
anche il paese che riscopre proprio nella foresta il simbolo della propria
identità nazionale e che per primo avvia vastissime opere di rimboschimento. Il
colpo d’occhio dall’alto è stupefacente, il bosco sembra appoggiato sul terreno
ad accompagnare la sua conformazione. La vista dal basso è molto meno
affascinante. Dritti e geometrici filari di conifere, sottobosco quasi
inesistente, fauna sparuta e di scarsa varietà. Un bosco meticolosamente e
matematicamente tagliato e ripiantato. Metafora di un paesaggio boschivo
ricostruito con criteri di finanza economico-naturale
Le terre selvagge ad Est:
L’industrializzazione ottocento/novecentesca ha avuto velocità molto differenti
fra un’Ovest persino troppo appesantito ed un’Est lasciato ai margini ancora ai
nostri giorni. Si sono così in buona parte conservate le differenze
paesaggistiche originali fra queste due parti del continente. Ad Est sono
rimasti intatte vaste aree forestali più diversificate, con più alternanza fra
conifere e latifoglie, più ricche di biodiversità alternate a vaste,
vastissime, pianure solo in parte destinate a coltivazioni intensive.
Percorrerle da l’idea di un ritorno ad una natura selvaggia come le genti che
le dimoravano fin dai tempi in cui ad ondate da lì partivano per conquistare
pezzi dell’Ovest. Ma è un “selvaggio” che dà l’idea di provvisorio, di qualcosa
che aspetta la mano di qualcuno per essere in qualche modo messo a frutto.
Metafora dei paesaggi incompiuti, belli di una belleza “sospesa”
I “bei vecchi tempi del villaggio” e
l’industria:
L’evoluzione delle città e dei villaggi sono da sempre viste come due storie
distinte e separate, anche se invece sono molto stretti gli intrecci fra queste
due dimensioni. Questa separazione, non del tutto giustificata, si è comunque
accentuata con la impressionante accelerazione dello sviluppo urbano avvenuta
nel Novecento ed in particolare nella sua seconda metà. Il paesaggio urbano è
inesorabilmente diventato la rappresentazione concreta, a partire dalle zone
industriali, della dittatura degli elementi culturali paesaggistici. Una
dittatura che ha consegnato di riflesso al paesaggio rurale il consolatorio
merito di una sorta di “amarcord dei bei tempi andati”. Un merito non del tutto
legittimo, a ben leggerlo anche il paesaggio rurale è costituito, seppure su
un’ovvia scala minore, da molti elementi culturali. Eppure resta vivo come metafora
di un paesaggio la cui bellezza deriva in buona parte, da confuse rimembranze “spirituali”,
tutte da verificare, di un tempo così lontano da essere rimpianto forse proprio
perché poco e male ricordato..
Un rapido sguardo dei cataloghi di una
qualsiasi agenzia di viaggio può testimoniare quanto questi depliant presentino
luoghi ed itinerari collegabili ai paesaggi qui sintetizzati e alle metafore ad
essi collegate: esattamente ciò che tutti noi turisti, ancor prima di partire,
ci aspettiamo di trovare.
La
natura protetta ed il futuro del paesaggio
Valentin Ruths (1825-1905) – Paesaggio di
brughiera
Peter Bruegel il Vecchio (1525-1569) –
Fienagione
La “piccola storia del paesaggio” di Kùster
si chiude con una riflessione sul suo possibile futuro. Ovviamente una concreta
previsione a lungo termine è del tutto impossibile, troppi sono infatti i
fattori che possono incidere sia in senso positivo che negativo. E’ però
necessario avviare una seria riflessione sugli scenari che già attualmente
hanno ricadute significative sul suo futuro. Se da una parte l’accresciuta
sensibilità e la pressione sempre più attenta e consistente di un arco ampio di
movimenti attenti all’argomento lasciano sperare che non si ripetano gli scempi
compiuti nel passato dall’altra queste stesse sensibilità ecologiche pongono,
da subito, questioni significative. Ad esempio: come ci si deve regolare in
merito alla realizzazione di impianti tecnologici, quali le pale eoliche e i
pannelli fotovoltaici, utili a superare la dipendenza dai combustili fossili ma
che hanno un indubbio forte impatto sull’aspetto paesaggistico? E come gestire,
sia dal punto di vista naturale che da quello paesaggistico, la crescente
dismissione di impianti industriali di vecchia e superata concezione piuttosto
che di cave e miniere a cielo aperto ormai esaurite? Quanta e quale archeologia
industriale può essere considerata elemento culturale significativo? Come
governare l’evoluzione della produzione agricola, intensiva e non, che con
abbandoni e dismissioni piuttosto che con la ripresa di antiche colture, incide
significativamente sull’insieme del paesaggio rurale? Sono solo alcune delle
questioni alle quali si può rispondere non limitandoci ad una, peraltro
inderogabile, riflessione e confronto sulle linee guida che dovrebbero ispirare
le politiche di conservazione e valorizzazione del paesaggio. L’urgenza di soluzioni
ambientali sostenibili implica una corrispondente urgenza anche per quelle ad
esso riferibili. Si tratta quindi di tradurre il prima e meglio possibile quella
riflessione e quel confronto in strumenti legislativi basati su conoscenze ed esperienze
specifiche. Al momento attuale, per quanto riguarda l’Europa, la “Convenzione
del paesaggio” adottata dal Consiglio Europeo lo definisce in termini tanto
corretti quanto sicuramente da integrare, a livello di ogni singolo paese, con
disposizioni legislative coerenti e conseguenti. Il paesaggio viene infatti definito come ……..una determinata parte del territorio così
come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di
fattori naturali e umani, e dalla loro
interrelazione…… Deve al contempo restare ferma la consapevolezza che il dibattito sul futuro
del paesaggio non può e non deve essere avulso da collegate valutazioni di
ordine economico e sociale, non farlo significa impedire che attorno alle
soluzioni adottabili si crei consenso motivato e diffuso. E’ quindi sempre più
necessario che tutte le competenze, le discipline ed i saperi, collegabili al
paesaggio, smettano di svilupparsi in modo settoriale e che quanto prima si
arrivi ad una vera e propria “scienza del paesaggio”. In questa scienza non
possono non confluire: storia, estetica, storia dell’arte, filosofia,
geografia, geologia, ecologia, sociologia, economia, scienze agrarie,
pianificazione territoriale e architettura paesaggistica. Sono tutte portatrici
di conoscenze indispensabili per una valutazione onnicomprensiva dei tre ordini
di elementi che concorrono a definire il paesaggio: quelli naturali, quelli
culturali, e quelli metaforici. E’ possibile preservare, ovvero recuperare, un
determinato paesaggio solo se tutti i soggetti e le competenze coinvolti si
accordano sulla direzione da seguire. Può sembrare complesso riunire un così
vasto insieme, ma non esistono alternative se non si vuole correre il rischio
di assumere decisioni che, non avendo tenuto in debito conto tutti i fattori,
si dimostrino errate o quantomeno parziali. La sintesi può essere data da una
definizione che riprende il senso di tutta la storia paesaggistica, quella qui sinteticamente
vista, e proiettandola verso il futuro
………il paesaggio è uno spazio
culturalmente determinato che punta alla sostenibilità……..
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