In qualche modo sollecitato da nostri preceenti post, ed in particolare da quello sulla "Piccola stioria del paesaggio", il nostro amico e collaboratore Elvio Balboni ci invia questo suo contributo, elaborato qualche anno addietro, in cui coniuga la sue "passionacce" per l'alpinismo e la filosofia, collegandole con il richiano ad alcuni sempiterni miti. Lo pubblichiamo volentieri, ovviamente in forma di post a sè stante vista la sua lunghezza, raccomandandolo a tutti, ed in particolare a chi guardando ai quelli montani prova, così come evvidenziato nel saggio "Piccola storia del paesaggio", le stesse emozioni vissute dal Petrarca in cima al Mont Ventoux
SISIFO, PROMETEO e L'ALPINISMO,
I MITI E QUALCHE IDEA
"O
anima mia, non aspirare alla vita immortale, ma esaurisci il campo del
possibile."
Pindaro.
Gli alpinisti sono degli eroi assurdi,
come Sisifo, l'eroe proletario degli Dei, e rivoltosi, come Prometeo, spirito ribelle, malizioso e indisciplinato,
infatti essi sono sempre pronti a criticare. Come Sisifo rimangono però dei ribelli
sconfitti, si rivoltano contro l'assurdità della vita che mai approda ad una
meta stabile e perciò sempre vuole di nuovo se stessa, l'eterno ritorno
dell'identico, tutto il loro essere si adopera per il raggiungimento di
un fine, che mai riusciranno a portare a termine. Arrivati in cima, conquistata la
vetta, la felicità raggiunta sul finire dell'immane fatica si trasforma, subito
dilegua, il senso di pienezza che aveva riempito il loro io cavo
svanisce e man mano il sentimento gaio si fa triste. Subentra allora un nuovo tormento, la
necessità di colmare il vuoto interiore, cresce l'esigenza di una nuova impresa
da compiere, un nuovo fardello che ritroveranno ai piedi della prossima
montagna da affrontare. Sulla cima non si può rimanere, solo
agli esseri divini è concessa una perpetua condizione di godimento; per i
comuni mortali, la felicità e la gioia non sono che attimi che per essere
assaporati nella loro pienezza necessitano sempre di uno sforzo iniziale e
successivamente, di una rinnovata fatica: non si sfugge alla finitudine della
condizione umana, questo è il messaggio che ci consegnano Sisifo e Prometeo. Alla base della parete, giace da
sempre l'enorme macigno roccioso da spingere e riportare sulla cima: la nuova
via da tempo sognata ora si presenta in tutta la sua difficoltà, la nuova
impresa sarà ancora più ardua, l'esito sarà necessariamente incerto. Il destino
degli alpinisti è legato alla roccia, il loro sì è il sì alla vita, la loro è
una fedeltà alle "passioni umane, troppo umane", passioni legate alla
Terra. Da "6.000 piedi, al di là
dell'uomo e del tempo" proviene la brezza dionisiaca che ravviva il fuoco
rubato da Prometeo agli Dei e donato agli uomini insieme alle cieche
speranze. Tecnica e potenza dei miti danno forma
alle azioni e alle passioni degli umani.
Il mito di Sisifo
Sisifo apparteneva a quegli abitanti
primordiali della Terra che avevano ancora potuto osservare le azioni iniziali
degli Dei, viveva a Efira ed alcuni lo ritenevano il fondatore della città di
Corinto, mentre per altri pare avesse ricevuto il potere sulla città
direttamente da Medea. Quando Zeus rapì la splendida Egina,
figlia del fiume Asopo, il padre passò da Corinto, cercandola con febbrile
collera e fu allora che Sisifo si rivelò come il più scaltro e il meno
scrupoloso tra i mortali. Non esitò a denunciare Zeus, il Re
degli Dei, come l'autore del rapimento, ad una condizione però, che Asopo
facesse sgorgare una sorgente d'acqua limpida per la sua città, è così fu.Zeus naturalmente non sopportò simile
oltraggio e non si accontentò di fulminare Sisifo con una delle sua proverbiali
saette, ma inviò Thanatos, la personificazione della morte, per condurlo agli
inferi.Sisifo, lo scaltro, non si diede per
vinto, le tese una trappola riuscendo ad immobilizzarla la legò con salde corde
e la nascose in un armadio. Forse non si rese conto di quel che stava per
accadere, la sua hybris (tracotanza) mise letteralmente in pericolo l'ordine
dell'universo, con Thanatos imprigionata non moriva più nessuno. Ade il più
ricco degli Dei smise di guadagnare, il denaro che riceveva per la sepoltura
dei defunti non arrivava più ed il pianeta di conseguenza divenne sovraffollato
ed invivibile. Zeus allora fu costretto nuovamente ad
intervenire inviando Ares, il Dio della guerra, il quale era particolarmente
motivato dal fatto che non moriva più nessuno: a che pro allora combattere la
guerra? Thanatos venne liberata e Sisifo spedito negli inferi, ma la vicenda
non si concluse qui, egli si inventò un nuovo stratagemma, raccomandò alla
moglie Merope di non organizzargli alcuna onoranza funebre, come ogni sposa
dovrebbe fare nel giorno della morte del marito, dicendole: "Non chiedermi perché, te lo spiegherò
poi".
Giunto negli inferi si rivolse ad Ade
chiedendogli di poter tornare sulla Terra allo scopo di punire Merope di una
così grave mancanza. Ade, a sua volta colpito da questa mancanza di buone
maniere, acconsente con la promessa del suo immediato ritorno, ma una volta
giunto alla Terra, lì vi rimase con la
moglie, fecero molti figli e morì solo in tarda età. Così, grazie all'inganno,
riuscì a ritardare il più possibile il supplizio al quale Ade lo aveva
condannato, la perpetua fatica di spingere l'enorme macigno in cima al monte
per poi vederlo rotolare nuovamente giù e dover ricominciare da capo l'ennesima
fatica. Purtroppo non sappiamo come Sisifo
abbia ingannato Thanatos, conosciamo però lo stratagemma con il quale riuscì a
battere in furbizia Autolico (il cui nome significa Lupo) figlio di Ermes. Dal messaggero degli
Dei, Autolico, ricevette in dono la "capacità del furto e l'abile
spergiuro", al punto da riuscire a mutare gli animali bianchi in neri, a
togliere le corna a quelli che le avevano per darle a quelli che non le avevano
e viceversa, così che il proprio bestiame sempre cresceva di numero, mentre
diminuiva quello altrui. Sisifo se ne accorse e iniziò con lo
stampare delle lettere sulle zampe degli animali, ma ciò non fu sufficiente
data la capacità di Autolico di cambiarli continuamente, allora versò del
piombo fuso a forma di lettere nello zoccolo degli animali, in modo tale che
lasciassero delle tracce sul terreno facendo apparire la scritta:
"Autolico mi ha rubato". Autolico non solo accettò la sconfitta
ma apprezzò tale ingegno al punto da acconsentire a Sisifo di possedere sua
figlia Anticlea la notte antecedente le nozze con Laerte così, secondo questa
leggenda, Ulisse, il Re di Itaca, vincitore di Troia con la macchinazione del
dono del cavallo, avrebbe ricevuto i geni dell'astuzia direttamente dallo
scaltro Sisifo e non, come sostiene Omero nell'Odissea, da Laerte.
Affinità e
divergenze tra Sisifo e l'alpinista
Cosa unisce Sisifo al moderno
alpinista? L'odio per la morte e la forte
passione per la vita, il disprezzo per gli Dei, l'elogio dei gesti inutili a
discapito di una vita consumata unicamente per l'utile e per la sovrabbondanza
economica, la fedeltà superiore alla loro condizione umana,
continuamente tesa verso l'infinita ascesi e nuovamente accettata nella sua
precarietà. La loro è una forma estrema di hybris,
di tracotanza, una perpetua ed inutile azione che sfida la dimora naturale
degli Dei, il monte Olimpo. Le montagne, gli sconfinati mari, i deserti
infiniti e le desolate lande ghiacciate sono tutti luoghi sublimi
e selvaggi per eccellenza che suscitano contemporaneamente
attrazione e repulsione, così le alte e innevate vette, sono avvolte da un'aura
e da una tenebra di inaccessibilità con comuni mezzi. Le montagne sono i lunghi dove si
cerca Dio e dove si nascondono i
demoni, immortalate innumerevoli volte nelle raffigurazioni artistiche come
repulsive e irraggiungibili, frequentate da mostri e spiriti. Quando Artemide
(la dea della caccia che dona la morte scagliando silenziose frecce) si rende
visibile agli occhi degli umani, lo fa mostrandosi di notte, al chiaro di luna,
in cima ai monti dell'antica Grecia sull'Epiro: il non misurabile.
Stampe settecentesche rappresentano lo snodarsi a valle dei ghiacciai con la
forma di un immenso serpente, che si accanisce contro coloro che osano sfidarle
e sarà solo con il nuovo spirito dei lumi, alla fine del XVIII secolo, che
l'uomo moderno oserà scalare quei luoghi impervi e inaccessibili, dove ogni
identità può essere perduta e dove paradossalmente, ognuno di noi può ritrovare
se stesso. Nella lotta per vetta o per le
traversate ad alta quota, la morte viene continuamente sfidata, ma per
sconfiggerla, per poter ricominciare una nuova e appassionata azione, il
supplizio di Sisifo consiste proprio nella volontà assurda di
volerlo nuovamente ripetere, senza tregua. Il continuo alternarsi della discesa Katabasi
e della risalita Anabasi rappresenta la condizione umani
nell'estremo dei suoi due opposti poli: la inevitabile ricaduta nella
dimensione tragica e miserevole ed il rinnovato tentativo di rivoltarsi e
liberarsi da essa, la consapevole accettazione dell'assurdo, secondo il
filosofo esistenzialista francese Albert Camus, è ciò che ci
permette di trasformare il supplizio di Sisifo in un processo di liberazione,
dando così senso e pienezza alla nostra vita. Nella discesa si affaccia la tristezza
che assume il volto della pietra, "è la vittoria della pietra, è la pietra
stessa" che va nuovamente riportata in cima, il macigno è metafora
dell'insostenibile ed inevitabile pesantezza dell'essere, in quanto nulla
riesce a condurre a termine e tutto deve nuovamente ricominciare da capo,
"è il prezzo che bisogna pagare per le passioni della terra", lo
sforzo però viene compensato non dall'illusione di poter trovare sulla vetta le
divinità mitologiche o una forma di umanità superiore, ma dall'aver scelto una
modalità dell'agire che ci allontana da una quotidianità spesso frustrata e
insensata. "Se Sisifo insegna la
fedeltà superiore che nega gli Dei e solleva i macigni, l'alpinista afferma che
la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo". L'alpinista non rinnega e non abolisce
il supplizio, ma alla perpetua fatica, affianca un processo di liberazione
individuale, anche se mai definitivamente raggiunto e posseduto una volta per
tutte.
La prassi dell'alpinismo
Non appena tornati nel mondo civile
un'altra parete li aspetta, un nuovo obiettivo da raggiungere, fatica e rischio
detteranno il ritmo alla nuova avventura. L'intera settimana è segnata
dall'attesa, il nuovo desiderio li possiede, "il macigno è cosa
loro". Una attesa molto attiva: bisogna
prepararsi bene, allenamenti costanti e metodici, interminabili serie di
trazioni, prima si aumenta la forza pura, poi quella resistente, tre settimane
di carico una di scarico, ripetute in serie poi piramidali, si fa attenzione a
che tutti i muscoli del corpo siano egualmente bilanciati, privilegiando
avambracci e flessori delle dita, senza assolutamente dimenticare gli
addominali, fondamentali per gli strapiombi, il tutto si svolge indoor, i più
fortunati dispongono di un PanGullich (un pannello strapiombante con
liste di legno di differenti spessori) gli altri di un Totem che avranno
infisso sopra la porta di una stanza e sul quale possono torturare meglio i
loro tendini, facendo trazioni.
Tutto ciò per almeno due sedute
settimanali, tre per i falesisti, quattro per i sassisti (Boulder-climber) con
due uscite all'aperto per curare la resistenza aerobica, camminate veloci in
montagna, corsa, bici, ecc. per garantirsi un avvicinamento all'attacco della
via rapido e una condizione fisica in fiato. Infine lo stretching, una palla
per tutti, ma se si salta sarà probabile che salteranno fasce muscolari e
tendinee con conseguente stop di lunghi periodi. Insomma una settimana non
proprio all'insegna del divertimento, spesso si arriva al week-end già stanchi,
allo stress della settimana lavorativa si aggiunge quello dall'ossessione per l'allenamento, così il
fascino mitologico viene scalzato dalla paranoia per la prestazione. Forse risulterebbe più divertente
allenarsi su un muro di casa, proponendo al condominio di fissare delle prese
sulla parete priva di finestre, passare dall'abbaino in spaccata, fare delle
dülfer sui comignoli, per poi calarsi in doppia dalla finestra o dal balcone. Questo è l'allenamento che anticipa lo
Street Boulder e descritto da René Daumal nel bel romanzo Il Monte
Analogo sul cui significato simbolico torneremo in chiusura. L'alpinista appena può, abbandona la
metropoli e la pianura e si lancia in una nuova impresa; sceglie la meta,
prepara lo zaino la sera prima, come da manuale CAI (e non la mattina stessa
finendo inevitabilmente per dimenticare qualcosa), specialmente se la via è
impegnativa, per non scordarsi ciò che serve. Giunto alla base della parete si
prepara, svolge le corde, posiziona i rinvii e il materiale in preciso ordine,
per poter poi scegliere la protezione corretta da piazzare nel più breve tempo
possibile. Rapido sguardo sulla parete per capire
la morfologia dei primi metri d roccia, immerge le mani nel sacchetto della
magnesite appeso all'imbrago, spesso gesto non necessario ma scaramantico,
individua l'appiglio e lo strizza con la punta delle dita, carica al meglio il
proprio peso sull'appoggio, ruota il corpo per posizionare il baricentro il più
vicino possibile alla parete e se questa è strapiombante, inclina il ginocchio
verso il basso (in gergo lolotta, la retorica della "lotta con
l'alpe" è stata lasciata alle spalle) spinge con le gambe verso l'alto,
non prima di aver prefigurato nella sua mente le movenze del gesto ed aver
individuato un paio di altri appigli e appoggi al fine di trovare la successiva
posizione di equilibrio Egli trae piacere dal proprio
movimento, è una festa per i muscoli del suo corpo, accanto alla fatica di
Sisifo, vede l'immagine di se stesso riflessa nella parete, come Narciso
scorgeva il proprio volto riflesso sulla superficie dell'acqua e se ne innamora,
così egli gode dei propri gesti, del suo movimento sinuoso e si immagina
attraente come un Narciso e audace come un Prometeo. Presunzione e vanità non
gli mancano. Si affatica, si sforza, lotta contro
la gravità che al suolo vorrebbe trattenerlo ed ingabbiarlo, volge lo sguardo
verso il cielo, scala la parete e progredisce, centimetro dopo centimetro, vede
una fessura e li incastra le dita; se la fessura è un po' umida e tende a farlo
scivolare, iniziano a prendere forma nella sua mente un mix di deliranti paure
e fantasie erotiche, le mani iniziano a sudare, i brividi percorrono tutto il
corpo, la pelle si fa d'oca e sogna altre fessure, quelle calde e umide,
immaginazioni che servono ad allontanare i timori e a controllare le emozioni,
l'adrenalina va a mille, però la paura non degenera in panico. Nel momento del pericolo sa che
difficilmente potrà appellarsi al detto del filosofo Heidegger: "solo un
Dio potrà salvarci" e le figure servo/signore della fenomenologia
hegeliana si fanno dialettica realmente vissuta, si è difronte ad un aut-aut: o
servo o signore, "occorre presenza di spirito" per padroneggiare le
emozioni, la sola ragione non basta. Molti sono i gesti che verranno
ripetuti lungo la linea ascensionale, ma pochi risulteranno scontati, specialmente
se la via la si affronta per la prima volta, ed ancor più se la via non è
ancora stata aperta. In alpinismo, sopratutto nelle vie non
protette con i sicuri e moderni SPIT (tasselli d'acciaio) è meglio non cadere,
decisamente meglio, raramente si prova e riprova lo stesso passaggio. Non siamo
in falesia, su un mono-tiro con protezioni sicure e le vie possono essere
lunghe anche centinaia e centinaia di metri di dislivello e svolgersi su
differenti terreni: le solari vie di roccia, quelle di ghiaccio e neve i
terreni di misto, diversi tipi di roccia, granito, calcare, quarzite,
conglomerato, ciò che conta non è uno sguardo geologico, ma capire grazie
all'esperienza se è roccia buona o marcia, se vi sono tratti con maggiore
aderenza oppure scivolosi, se è salda oppure si sgretola e viene via. La sicurezza è data dalla
preparazione, dalla prudenza, dal rimanere un poco al di sotto delle proprie
capacità, dall'affidabilità delle protezioni; quelle trovate in posto vanno
verificate se sono in buone condizioni o se andranno sostituite e/o integrate. Per affrontare la scalata trad,
cioè autoproteggendosi con chiodi, friend, nut, si dovrà
imparare a piazzarli correttamente solo facendolo, teoria e prassi
necessariamente si incontrano. Infine per la sicurezza determinante è la
capacità di riconoscere i pericoli oggettivi costituiti dalle condizioni della
montagna e dalle condizioni climatiche.Una via interamente protetta a spit
è molto diversa da una trad, dove tutte le protezioni, comprese le
soste, che rappresentano il punto più importante della catena di sicurezza,
vengono piazzate dal primo di cordata e le sensazioni che si provano dipendono
anche dalla distanza tra una protezione e l'altra, sono due viaggi differenti,
e in caso di volo le conseguenze possono essere gravi. Il rischio non è eliminabile, e se ciò
avvenisse rappresenterebbe la morte dell'alpinismo, la riduzione di questa
magnifica attività che è mentale e pratica, fatica e gioco, che è anche
filosofia di vita, per una vita attiva e avventurosa, ad una normale disciplina
sportiva, che rimarrà sempre piacevole e divertente ma è ben altra cosa. L'essenza dell'alpinismo non risiede
in una ossessiva ed inconscia pulsione di morte, la meta non è il Valhalla dei Nibelunghi dove riposano i morti gloriosi
caduti in battaglia, probabile radice culturale dell'alpinismo eroico tra le
due guerre mondiali, inevitabilmente tragico perché portato alla massima
esaltazione, la corsa sprezzante del pericolo di morte al fine di conquistare
per primi le ghiacciate e spettrali pareti nord delle Alpi, la nord delle Grand
Jorasses sul Monte Bianco, la nord del Cervino e la Nord dell' Eiger.
Origini e
principali tappe della storia dell'alpinismo
Procediamo con ordine, la data di
nascita dell'alpinismo moderno coincide, con la conquista della sommità del
massiccio del Monte Bianco mt. 4810 la montagna europea più alta, alle ore 18
del 8 agosto del 1786 il valligiano Jacques Balmat e il medico Michel Gabriel
Pacard calcano la vetta, da Chamonix l'ascensione è seguita con trepidazione,
tutti i cannocchiali sono orientati sui due puntini che risalgono la cresta e
il panettone finale, Il colto ed entusiasta Pacard, pianta nella neve il
barometro e esegue alcuni esperimenti scientifici, siamo in piena età dei lumi,
da lì a poco scoppierà la rivoluzione francese. La storia dell'alpinismo è
inevitabilmente condizionata dalla cultura dell'epoca nella quale si svolge, il
rischiaramento della ragione è il detonatore, l'impeto del romanticismo farà da
propellente, tutte le principali vette dell'arco alpino cadranno nei decenni
successivi. Ci furono precedentemente diversi
tentativi, sulla spinta delle onde del pensiero illuminista e il fiorire della
ricerca scientifica, spesso un paravento per mettersi al riparo dalla accusa di
essere dei perdi-giorno, ed anzi, coloro che per le prime volte osarono sfidare
la montagna maledetta "la Mont Maudite" in patois,
venivano accusati di essere degli infedeli o degli alchimisti. Nei passati periodi vi furono alcune
salite rimaste famose e documentate, come quella sull'Etna dell'imperatore
Adriano, ma non diedero vita ad alcuna specifica attività alpinistica. La celebre ascensione al Mont Ventoux
del Petrarca del 1336 rappresenterà simbolicamente il distacco dal medio evo,
sappiamo che portò con se Le Confessioni di Agostino il berbero,
contenenti la scelta di conversione verso il bene e la castità e la splendida
riflessione sul tempo "se
non me lo chiedi so cos'è, se me lo chiedi non lo so più" cioè il tempo
viene scandito dalla discesa (katabasi) nella nostra riflessione
interiore, preceduta dalla ascesa (Anabasi) verso l'Olimpo. Seguirà nel
1.358 la salita di Bonifacio Rotario, vescovo di Asti, al Rocciamelone (allora ritenuta la montagna più alta
d'Italia mt. 3.538, in effetti da Susa il dislivello è di ben 3.000 metri,
pertanto era difficile trovare una simile distanza in altre zone delle Alpi e
fare dei paragoni tra le cime quando non vi erano ancora i moderni sistemi di
misurazione che portarono a cartine geografiche precise, o i GPS satellitari,
pertanto non stupisce che gli antichi greci chiamassero le montagne Epiro il
non misurabile. Queste ascensioni si svolgono ancora su un terreno
escursionistico e agreable, la vita non è messa in pericolo, però il
duplice movimento esteriore verso l'alto e interiore verso il nostro io, è
sufficiente, al letterato toscano a fargli scardinare le rigide certezze
medioevali e ad aprire la strada alla rinascimentale dignità dell'uomo
sulla quale Pico della Mirandola poggerà la costruzione del nostro destino. La prima conquista ardimentosa
coincise con l'anno della scoperta dell'America 1492 al Mont Aiguille mt. 2097
nel Vercors, regione Delfinato, avvenuta però con mezzi completamente
artificiali, arpioni militari, corde lanciate sulle quali ci si issava, la
stessa tecnica utilizzata per conquistare le fortezze, la realizzò il capitano
Antoine de Ville su preciso ordina del Re di Francia. Sono ormai stati scritti innumerevoli
libri sulla storia dell'alpinismo e comprendono tutte le montagne del pianeta,
qui espongo le principali tappe al solo fine di offrire una miglior
comprensione del pathos che lega l'alpinismo alla natura umana ed alla
mitologia. Nella prima metà dell'Ottocento cadono
tutte le vette dotate di quella che viene definita "la via normale",
cioè la via più facile di accesso alla vetta, nella seconda metà verranno
violate le montagne che richiedono non solo maggior impegno ed il pericolo è
più elevato, simili imprese sono sopratutto gli inglesi a realizzare con
l'aiuto delle guide locali, personaggi colti, bramosi d'avventura e dotati di
forza spirituale, molti dei quali ecclesiastici, e comunque con tempo libero e
dotati di mezzi economici. Nomi mitici come John Ball che per
primo esplorò le Dolomiti, il reverendo Coolidge, Walker, Leslie Stephen,
grande scrittore, Tyndall, Dent, Moore, nomi che denotano vie alpinistiche
divenute classiche, che raggiungono la cima dalla via normale cioè la
più facile via di accesso alla vetta, oppure percorrendo ardite creste, come
fece Edward Whymper che nel 1865 legò il suo nome alla più bella vetta delle
Alpi, il Cervino, salendo la cresta di Hörnli e precedendo di poche ore il
rivale italiano Jean Antoine Carrel, il quale vi giunse dalla più difficile
cresta Leone. Nella discesa morirono precipitando
quattro componenti la cordata inglese, una delle tante tragedia dell'alpinismo,
l’epoca pionieristica rinominata anche l'epoca d'oro: i primi lunghi alpen-stock,
le scarpe chiodate, le corde di canapa direttamente legate in vita e
assicurazioni a spalla. Le protezioni erano approssimative e
il concetto di “catena di sicurezza” sconosciuto, cadere in quelle condizioni
era morte pressoché certa, eppure si superarono difficoltà davvero
ragguardevoli, la fessura Mummery al
Grepon sul Monte Bianco realizzata nel 1881 venne classificata di 4 grado che
quarto, ancora oggi suscita lo stupore dei ripetitori. La seconda tappa, a cavallo tra la
fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento, si caratterizza per le
difficili salite lungo le pareti, dalle solari sud di miglior roccia, alle nord
innevate e con maggiori pericoli oggettivi, migliorano i mezzi tecnici: i
ramponi da ghiaccio, i primi chiodi e moschettoni ad opera dei monachesi
Fiechtl e Herzog, nuove tecniche di arrampicata, Dülfer inventò l'opposizione
braccia/gambe con un arco tra loro di 90 gradi per salire le fessure verticali. Il quinto grado fu appannaggio del
principe della libera, il viennese Paul Press, per lo più in solitaria e
riservando di assicurarsi con chiodi solo se fosse stato indispensabile, così
pure l'uso della corda doveva ritenersi
semplice ausilio, si dice che non arrampicasse, saliva accarezzando e sfiorando
la roccia, per lui contava la purezza dello stile.
Le vie vennero sempre più
frequentemente ripetute e senza l'accompagnamento delle guide. Si arrivò così con gli anni venti al
sesto grado, la prima via di sesto la nord-ovest alla Civetta, mille metri di
dislivello con soli 12 chiodi e un Cuneo di legno, usati non solo come
protezione della eventuale caduta ma anche come mezzo di progressione, quindi
fu una salita con passi in artificiale, realizzata da Emil Solleder, anche egli
di Monaco. Il sesto grado viene definito il massimo della difficoltà umanamente
raggiungibile, dalla scala Welzenbach, scala quindi chiusa, così che si dovette
nei decenni successivi, fino agli anni 70, svalutare le salite precedenti
perché l'ultima realizzazione risultava più difficile di quella precedente, la
contraddizione era insita nella stessa definizione. Ricordo solo i nomi di alcuni
protagonisti del sesto grado, come Emilio Comici che si destreggia ai massimi
livelli sia in libera sia in artificiale, con capolavori come la parete nord
della Cima Grande Di Lavaredo e lo Spigolo Giallo, o come il fuoriclasse Alvise
Andrich che a soli 19 anni supera lo spigolo sud-ovest della Torre
Venezia e la nord-ovest della Punta Civetta, 800 metri di parete verticale,
compatta e grigia, solcata a sinistra da una sottile fessura, Andrich supera
una placca liscia e levigata, riuscendo a piantare un chiodo di protezione
appoggiandosi alla parete con l'anca, "sulla tasca dei pantaloni"
appena in tempo prima di cadere, volerà per tre volte prima di riuscire a
vincere il difficile passaggio. Altri nomi che
diventeranno celebri si aggiungono agli apritori di vie di quinto superiore e
sesto grado, Detassis, Castiglioni, Gervasutti, Carlesso, Cassin, Vinatzer
della Val Gardena si impone all'attenzione di tutti aprendo una variante
diretta alla cima, gli ultimi 200 metri, della via Solleder, superando
difficoltà ritenute allucinanti e tutte in libera. Arriviamo così alla super-sfida, con tanto di retorica
nazionalistica, per la conquista delle tre grandi pareti Nord delle Alpi,
ancora inviolate. La prima a cadere delle tre Nord fu
quella del Cervino, la meno difficile, che però vista da vicino già fa un certo
effetto, si presenta come un gigantesco ammasso di pietre instabili, tenute
insieme da gelo e ghiaccio, il tipico terreno di misto dove tutto rimane
precario e l'assicurazione è più che altro un aiuto morale. I fratelli austriaci, Franz e Tony
Schmid, vi giunsero nel 1931, in bicicletta da Monaco di Baviera, carichi di
tutta l'attrezzatura e zaino in spalla, la salita non presenta difficoltà
singole rilevanti, è però tutta impegnativa, non avrebbe consentito distrazioni
o sbagli. Le Grandes Jorasses, viste da
Montenvers, dove si può giungere con il trenino da Chamonix, sono imponenti,
1.200 metri di ghiaccio e roccia, suddivisi da sei speroni, due, i più compatti
e noti Walker e Croz, torri granitiche interrotte da sottili strisce di
ghiaccio, un poco più discontinuo il Croz. Famose cordate si alternano in più
tentativi, tra le quali, il torinese adottivo Giusto Gervasutti con lo storico
valdostano Renato Chabod, i ginevrini Raymond Lambert e la forte alpinista
Loulou Boulaz, il francese Charlet, ottimo ghiacciatore ligio alla tradizione,
si rifiutava di usare chiodi e intagliava migliaia di scalini sui ripidi pendii
ghiacciati, infine cordate austriache, Haringer perì in discesa per il brutto
tempo. Finalmente nel 1935 lo sperone Croz fu
vinto dalla cordata Rudolf Peters e Martin Meier, precedendo di pochissimo
Gervasutti-Chabod e Lambert-Boulaz. Non fu certo una competizione
paragonabile ad una odierna gara sportiva, Gervasutti e Chabod scriveranno
pagine tra le più belle della letteratura alpinistica, nel leggerle oggi
evocano a chiunque emozioni ormai difficilmente eguagliabili . Nel 1938 il capolavoro di Riccardo
Cassin con Esposito e Tizzoni, lo sperone Walker, sicuramente la via
tecnicamente più difficile e impegnativa prima della seconda guerra mondiale,
Eiger compresa. La Walker alle Jorasses rimane
tutt'ora una delle vie più impegnative delle Alpi, ha dell'incredibile che i
forti lecchesi non avessero mai visto prima di giungervi, né lo sperone, né il
Monte Bianco. Lo stesso anno, dopo innumerevoli
tentativi molti dei quali finiti tragicamente, cade anche l'ultima grande è
terribile Nord: l'Eiger, nell'Oberland Bernese. 1.600 metri di nevai pensili
incastonati su una roccia calcarea e mediocre, tagliati a metà parete dalla
traversata Hinterstoisser, colui che la individuò, tutte le cordate si sfinirono
su questa immane parete, terrificante e repulsiva, divenne il volto di Medusa,
colei che con lo sguardo pietrifica chi osa sfidarla guardandola direttamente
negli occhi, essi non erano dotati come Perseo di uno scudo capace di fargli da
specchio e di calzari alati donategli da Ermes, ma solo di una infinita
tenacia, di fortissime capacità di resistenza ed anche di una buona dose di
fede che davvero stupisce. Caddero tra i migliori alpinisti,
Sedmayer e Mehringer giunsero fino al famoso "bivacco della morte" e
li rimasero, Tony Kurtz morì di sfinimento appeso alla corda a pochi metri
dalla salvezza, l,imbocco del tunnel della ferrovia, per non essere riuscito a
passare il nodo di giunzione delle corde di una "doppia" prolungata; perirono anche gli italiani Sandri e Menti;
si salvò invece dopo centinai di ore di lotta per la vita, il forte alpinista
tedesco Mathias Rebitsch, ritirandosi dopo aver individuato il passaggio chiave
per risolvere la scalata. L'impresa riuscì ai tedeschi Anderl
Heckmair e Vörg e gli austriaci Kasparek e Harrer, poi noto per i racconti dei
suoi viaggi in Tibet. Vale la pena riportare la descrizione
della scalata della forte cordata tedesca fatta da Harrer: "Guardai giù
lungo la nostra interminabile fila di gradini e vidi la nuova era che
sopraggiungeva a velocità sbalorditiva. Due uomini correvano
non scalavano lungo il nevaio verso di noi. Era sorprendente pensare che,
attaccando quel mattino, avessero potuto fare tutto quel cammino; erano di
certo i migliori candidati all'Eiger. Si trattava di Heckmair e Vörg
(attrezzati con ramponi a 12 punte) improvvisamente mi sentii vecchio e
sorpassato". Innovazione tecnica e sfida
all'impossibile, nella storia dell'alpinismo si affiancano, si intrecciano, si
scambiano di posizione, prima l'una e poi l'altra e viceversa ancora, fu così
anche per la conquista del sesto grado, lo sarà negli anni 50/60 per rompere il
muro del sesto grado della scala chiusa, e
della mitragliata di chiodi a pressione sui muri privi di appigli per
spingersi oltre la verticale ed anche per ritornare alla
purezza dello stile di Preuss con pochissimi chiodi di protezione, fino
all'invenzione delle moderne protezioni rimovibili. Ma cosa spinse quegli arditi,
per usare termini della cultura fascista dell'epoca, a quelle imprese oltre
l'umanamente possibile? Erano solo dei pazzi fanatici? È sufficiente darne una
spiegazione della loro azione
definendola esaltazione eroica? Perché certi alpinisti amano
arrampicare su roccia marcia, ghiacciata, sotto le cascate d'acqua, nei colatoi
battuti dalle slavine, sotto la minaccia costante delle scariche di sassi, con
la certezza che in caso di venuta di maltempo si è racchiusi in una trappola
mortale?" Se lo chiede Gian Piero Motti nella sua bella storia
dell'alpinismo, e risponde: "la realtà va studiata!" A che serve
farsi impressionare dagli aspetti tragici e funesti che purtroppo ci furono,
troppo banale dividere l'alpinismo buono da quello cattivo, occorre saper
cogliere lo zeitgeist, lo spirito dell'epoca. Lo spirito romantico aveva lasciato il
posto al decadentismo, la competizione nazionale veniva esaltata dai regimi
nazista e fascista, anzi inculcata con la propaganda, Hitler incitò con premi
la conquista dell'Eiger, in quel clima culturale l'uomo divenne nuovamente lupo,
la morte tornò a farsi sentire come pulsione superiore così che la crescente e
inaudita aggressività, finì per scaricarsi contro la natura e contro se stessi,
pur non avendo nulla da guadagnare e tutto da perdere, l'Eiger divenne il drago
da uccidere, la parete da conquistare ad ogni
costo, un dovere, il nuovo imperativo categorico. La corsa alla conquista dell'Eiger fu
preludio di quel che si sarebbe scatenato in dimensioni infinitamente più
tragiche per l'intera umanità da lì a poco. Dal punto di vista della tecnica di
scalata, si può osservare che tutte le nuove grandi imprese, sia i vincitori
sia i secondi arrivati provenivano dalla " scuola orientalista"
dolomitica e non da quella occidentale, morale: è più facile per un buon
scalatore su roccia diventare anche un bravo ghiacciatore che non viceversa. Dopo la guerra l'alpinismo raggiunse
difficoltà più elevate, il rischio rimase al centro dell'attività, ma non più
ad ogni costo! Gervasutti realizza con Gagliardone
nel 1946 il suo capolavoro, la Est delle Jorasses via di un'eleganza con pochi
paragoni, Gian Piero Motti definisce Gervasutti il Michelangelo
dell'alpinismo, non ha torto, la via verrà ripetuta poche volte, in
solitaria da Marco Bernardi nell'ottanta e più recentemente, da Andrea Giorda e
Massimo Giuliberti, accademici e istruttori della scuola di alpinismo
Gervasutti di Torino. Gervasutti cadde nello stesso anno nel
tentativo di liberare una doppia incastrata sul Pillier del Monte Bianco che
ora porta il suo nome. Molte altre sono le imprese che si
sono succedute e le figure di ottimi alpinisti, che non riporto, merita però
tratteggiare con pochi cenni quella dell'ultimo alpinista definibile, forse,
con il termine, eroico, Walter Bonatti, colui che è andato davvero oltre ciò
che era ritenuto l'impossibile. Formatosi nell'ambiente dei "pel
e oss" sulle vicine pareti della Grigna e dopo aver ripetuto tutte le vie
più difficili esistenti a vent'anni, realizza di tutto e di più, vie difficili
e spettacolari, come quella sula Est del gran Capucin nel 1951 con molti
chiodi, nel 53 partecipa, il più giovane, alla vittoriosa spedizione sul K2 la
seconda montagna più alta al mondo e pur non arrivando in cima è costretto a
bivaccare senza tenda e sacco a pelo a quota 8.000 dando prova di possedere una
tempra incredibile, nel 55 compie un impresa che lo renderà eroe nazionale
della Francia, più ancora che dell'Italia, la salita in solitaria rimanendo in
parete 5 giorni dello spigolo Sud-ovest del Petit Dru, con il celebre lancio
della corda, diventata lazo, su una affilatissima guglia e facendosi pendolare
nel vuoto per raggiungere la parete opposta. Bonatti osa l'incredibile, esaspera
l'individualismo di Gervasutti, nel 1965 compie l'impresa che per molti rappresenta l'apice, il compimento
dell'alpinismo autentico, suggella l'ideale, il sogno di un alpinista: apre una
nuova via su una temibile parete nord, in inverno e in solitaria, la Nord del
Cervino, nessuno prima mise insieme tutti e tre questi aspetti. Nei 50 anni che ci separano
dall'impresa di Bonatti, moltissime sono state le evoluzioni per poter superare
difficoltà crescenti, sia nella preparazione atletica e tecnica del gesto sia
nella invenzione di nuovi attrezzi e materiali, che hanno consentito record
sbalorditivi. Con i ramponi ad attacco rapido e
persino a monopunta, si salgono non soltanto le nord ma anche i ripidissimi
couloire e le cascate di ghiaccio salite in piolet-tration. Sulle pareti di roccia verticali e
strapiombanti vengono superati passaggi estremi, come in Yosemite, muri infiniti di granito aperti
usando centinaia di chiodi d'acciaio prima in artificiale e successivamente in
libera. Al Camp Four si prepara con
cura il materiale, dai chiodi a u in acciaio, ai rurp (realized
ultimate reality piton) chiodi a lametta ultra-sottili, ai bong cunei di
metallo da incastrare nelle fessure al posto dei vecchi e deteriorabili cunei
di legno, agli skyhooks per agganciare micro tacche, ai copperheads dei
piccoli cilindri di morbido piombo, spalmabili come chewing-gum, nelle
increspature della roccia, l'artificiale estremo, brividi lungo la schiena.
Sono giorni e giorni passati in parete
e mesi al camp IV dove si continuano a vivere le atmosfere delle comunità
hyppies, con le musiche degli anni 60 e 70 i Velvet Underground ed i Led
Zeppelin, i Doors di Jim Morrison, la voce nera della bianca Janis
Joplin's e le vibrazioni della Fender del nero Jimi Hendrix, le tre J
dei movimenti giovanili contrapposti ai giovani integrati delle tre M
(macchina, moglie, mestiere) al loro ritmo vengono ripetute vie che passeranno
alla storia come il Nose e la Salathé al Capitan, aperte qualche anno
prima da personaggi divenuti leggendari come Royal Robbins, il quale passò fino
a 17 giorni da solo in parete, non c'è da stupirsi se per lui il concetto che
meglio definisce l'alpinismo sia la Visione, la costruzione di un
realtà altra, parallela, che si raggiunge penetrando l'oggetto osservato, molti
iniziarono ad affiancare alle tecniche tradizionali di allenamento, quelle
orientali, come lo Zen e lo Yoga, così da poter ampliare la
percezione delle cose prefigurando nuove possibilità per la mente, una
condizione spirituale raggiungibile anche con l'uso di sostanze naturali, come
il Peyote un fungo dagli effetti allucinogeni o come la marijuana capace
di rilassare l'emotività senza reprimere il desiderio. Fu proprio la liberazione del
desiderio a far da detonatore la rivolta studentesca del 68, la potenza
immaginifica della fantasia al potere contro la repressione e l'autoritarismo
delle istituzioni, le gerarchie familiari ed una scuola nozionistica e
classista, contro una società che sempre più barattava la libertà e
l'emancipazione con il consumismo, una ribellione collettiva, nei cortei e
nelle assemblee, in ogni parte del mondo, da Barkley nel 66 al Maggio parigino nel
68, da Francoforte a Praga, in ogni ateneo italiano, per il Vietnam e contro
tutte le forme di imperialismo, fu in questo clima, certo in maniera più
individualistica, che si aprirono nuovi orizzonti e nuove esperienze per
l'alpinismo nostrano, il Nuovo Mattino così definito da Gian
Piero Motti.
Fu proprio con la stagione del nuovo
mattino, sul gneis-granitioide della Val dell'Orco al ghiandone della Val di
Mello, che meglio di altre ricordano le pareti granitiche della Yosemite, nella
prima parte degli anni 70 che furono aperti itinerari i cui nomi evocano la
rivoluzione californiana e la tradizione millenaria dell'Oriente, nella prima
parte degli anni 70 che furono aperti itinerari i cui nomi evocano la
rivoluzione californiana e la tradizione millenaria dell'Oriente, le rivolte e
i genocidi dei pellerossa in America, dando autonoma dignità a strutture di
media montagna senza giungere ad alcuna cima. Nella bella
raccolta curata da Enrico Camanni, Nuovi Mattini, vengono riportate le
parole di Fernanda Pivano "La vita del desiderio sprigionata in un
annullamento totale del super-io ...Unica legge l'energia vitale, unico stimolo
l'amore per la vita, unica realtà l'ansia di sopravvivenza" (Da c'era una
volta un beat). La prima fu Tempi Moderni nel 1972 al
Caporal, così battezzato per richiamare la più prestigiosa parete del Capitan,
aperta dalle cordate Motti-Boreatti e Manera-Leone, Ugo Manera il bravo
alpinista della generazione precedente, poi vennero nomi come: Itaca nel Sole,
il Lungo Camino dei Comanches, Sole nascente, via della Rivoluzione, ll diedro
Nanchez, la Cannabis e in Val di Mello e Masino Luna Nascente, il risveglio di
Kundalini, l'alba del Nirvana, Oceano Irrazionale, la dimensione per eccellenza
rimane, il viaggio, la scoperta, l'avventura, non la mera prestazione sportiva. Il via libera ai freni inibitori per
far accettare i nuovi mezzi di protezione avviene anche con l'allegria
canzonatoria e scherzi audaci, all'apertura di una nuova via alla Torre di
Aimonin, quando la seconda cordata, guidata da "Pan e Pera" il
nomignolo nel frattempo affibbiato a Manera, si trova a dover superare un
difficile passaggio, una dülfer frontale, si accorge che non vi è in posto
alcuna protezione lasciata dalla cordata precedente, un chiodo si vede diamine,
allora il nostro si decide a procedere senza protezione, arrivato poi al
termine della via, si vede sventolare sotto il naso un nut che Motti e
lo scozzese Kosterlitz avevano incastrato nella fessura e poi tolto,
dicendogli: "Pesce d'Aprile" in effetti era il primo di aprile del
1973 e così la via fu chiamata, probabilmente Manera si sfogò del pericolo
corso gratificandoli con titoli adeguati.
Queste strane nocciole non
erano ancora conosciute in Italia, i primi nut furono inventati dai
trasgressivi inglesi, bulloni rubati e tolti dalle traversine della linea
ferroviaria passandoci nel buco una fettuccia, diventano così un blocchetto da
incastrare nella fessura e facilmente asportabile. La rivolta di una generazione per
liberare l'energia repressa dalla società borghese diventa, per i protagonisti
del Nuovo Mattino, ripudio della vecchia società alpinistica, con
i suoi riti da caserma e sagrestie, rifiutando gli obblighi sacrificali della
lotta all'Alpe (a Reggio Emilia viene fondato il gruppo pace con l'Alpe)
l'espiazione su cime piene di croci, i pantaloni alla zuava e gli abiti grigi
per la carriera e per la domenica, le gerarchie, i distintivi, le accademie,
per sostituirli con abiti colorati, fasce nei capelli, orari rilassati, allegri
bivacchi sugli altopiani allietati dalla voce di giovani fanciulle, pareti
solari e cielo stellato.
Il decennio che si era aperto
all'insegna di una rivolta, anche ambigua, come lo slogan vietato vietare ma
sostanzialmente pacifica, si chiuderà nel 77 con i cupi "anni di
piombo" e la degenerazione nel terrorismo, nel periodo seguente, quello
definito del riflusso, anche l'arrampicata finirà per adeguarsi
all'unica virtù richiesta dall'esasperazione del mercato, dare sempre il
massimo, ciò che conta è la prestazione, il risultato, il record. In ogni parte del mondo si superano
pareti di mille metri su difficoltà ben oltre il settimo grado, nei mono-tiri
si è arrivati al 9c in scala francese, distinguendo se lavorati (più
tentativi) oppure on sight (a vista), nella stessa giornata sono state
salite le tre grandi Nord in pochissime ore, tutti i 14 ottomila sono stati
raggiunti da più versanti e dalla medesima persona, Messner fu il primo. (sopra
Reinold Messner sul Nanga Parbat). La prima gara di arrampicata sportiva
si tenne nel 1985 a Bardonecchia (vinta da Stefen Glowacz, nella foto a fianco)
ed i record, inseguiti e battuti uno dopo l'altro, sembrano aver soppiantato lo
spirito dell'alpinismo, ma l'alpinismo non è morto, anche se le condizioni
nelle quali lo si esercita oggi, non sono certo paragonabili a quelle nelle
quali si compì l'ultima grande impresa di Walter Bonatti.
L'alpinismo non è
morto
L'essenza dell'alpinismo consiste nel
mettersi in gioco, affrontando e calcolando il rischio, il pericolo è sempre presente
e l'imprevedibile non scompare, questo l'alpinista cerca nei luoghi sublimi,
affascinanti perché terribilmente belli, attraenti e repulsivi al tempo stesso,
anche se rispetto all'alpinismo classico il "non conosciuto" è ormai
quasi del tutto scomparso. La montagna, la natura, non va
addomesticata, o resa artificialmente accessibile a tutti, ci sono luoghi e vie
che per scelta etica devono essere lasciati come li hanno trovati e saliti i
primi scopritori, perché così come sono state aperte possano ripeterle le
generazioni future, perché si continui ad ispirarsi ad un alpinismo di
ricerca, come sostiene Alessandro Gogna, perché ognuno di noi abbia la
possibilità di dire "ho fatto questa via", l'ho ripetuta quasi
nelle medesime condizioni di un Mammery o di un Bonatti. Difficilmente si sente dire da un
alpinista, ho percorso quella via, ma "ho fatto quella via",
il fare e il conoscere si uniscono come afferma la filosofia di Gian Battista
Vico, conosciamo veramente solo ciò che facciamo, che inventiamo, come la
matematica e la storia, in questo senso l'alpinismo è un' arte, cioè la
realizzazione di un "sapere in azione", lo ricorda
molto bene Massimo Mila, critico musicale e accademico del CAI, in scritti
di montagna. Certo non è più possibile e forse neppure
auspicabile, affrontare le montagne con il medesimo grado di rischio e lo
stesso livello del non conosciuto degli anni dell'alpinismo classico. L'attrezzatura di oggi non è neppure
paragonabile a quella dei due secoli passati, la sua elevata affidabilità
tecnica potrebbe davvero suscitare in ognuno di noi, anche se non filosofi approdati al principio
disperazione che anima le analisi
di Günter Anders, a quella "vergogna prometeica" da lui individuata,
che ci fa sentire esseri umani antiquati al cospetto della perfezione
raggiunta da quei prodotti altamente tecnologici realizzati con la moderna
produzione. Per l'alpinista però, il dislivello
psicologico nei confronti del "muro invalicabile" permane, nonostante
i progressi delle tecniche di allenamento in grado di costruire muscoli più
potenti ed una maggiore resistenza aerobica; la leggerezza dei materiali, del
cibo e dell'abbigliamento da mettere nello zaino, che diminuisce sensibilmente
il peso del macigno da portare, come
la conoscenza del terreno da percorrere, ormai studiata con occhio
satellitare; si arriverà alla perlustrazione della via da percorrere con i
droni? Vi sarà la pianificazione totale? Ad anticipare con video sull'i-phone
la scalata che si sta per compiere? Troppe sono le vie intasate da una
sovrabbondanza di protezioni, snaturandone così il tracciato, deformando e
rovinando la roccia e spesso, data la confusione, diminuendo anche la stessa
sicurezza, i meno esperti rischiano di scegliere paradossalmente le protezioni
meno affidabili. Dove è possibile scegliere di
proteggersi con mezzi amovibili, come quelli inventati in California nei primi
anni 70, diventa una scelta di etica coerente nei confronti di una natura
perché rimanga nelle medesime condizioni di come è stata trovata al primo
passaggio e torni la via pulita come prima per coloro che vorranno ripeterla,
l'ultimo di cordata recupera il materiale lasciando in posto il meno possibile. Ripetere una via classica o comunque
proteggibile, trovandovi una mitragliata di spit, riducendo l'arrampicata a
mero esercizio ginnico, è la morte dell'alpinismo, vera e propria
degenerazione, Messner lo definisce: l'assassinio dell'impossibile. Il cerchio si compie, il ritorno al
futuro è sul cammino intrapreso da Preuss e si realizzerà ogni volta che
un arrampicatore solitario, un elfo, ripeterà vie che prima
furono realizzate con mezzi artificiali o di protezione, Alexander Huber, ad
esempio, ripeterà la Hasse-Brandler alla cima grande di Lavaredo in free
solo cioè: in libera, in solitaria e senza corda; difficoltà fino al 7a+
nel 2002. Capostipite fu Christophe Profit che a
21 anni, nel 1982, in tre ore e dieci minuti, scala i 1.100 metri della diretta
americana al Petit Dru in free solo, difficoltà fino a 6c. Poi nel 1986, il grandissimo Wolfgang Gullich
scalò ad incastro una fessura su un tetto orizzontale in Yosemite, aperta da
Ron Kauk, di 7a+ sempre in free solo, con 350 metri di vuoto
sotto il culo, la celeberrima Separate Realty, che riprende il titolo
del romanzo cult del 68 di Castaneda, chissà se per prepararsi
"al viaggio", la sera prima, contravvenendo alla rigida morale
luterana, si cucinò un bel piatto a base di Peyote. Gullich fu anche il primo a portare il
limite delle difficoltà al 9a con Action Directe nel 1991 dopo aver
raggiunto, 8b con Kanal um Rucken e 8c con Wall Street, tutti in
Frankejura, perse la vita a fine agosto del 1992 per un banale colpo di sonno
guidando l'auto mentre si recava ad una trasmissione radiofonica di mattino
presto.
Troppi sarebbero i nomi da ricordare che
hanno dato un contributo di prestazioni nell'affermazione del settimo grado, da
Kurt Albert, il primo settimo grado riconosciuto a Cozzolino, allo stesso
Messner, che fece un passaggio al sass Maor perfino superiore al settimo.
leegati all'immaginario della generazione che iniziò a scalare nei primi anni
ottanta e che mi fa particolarmente piacere ricordare, sono i grimpeur francesi,
come Patrick Bérhault, Patrick Edlinger e Catherine Destivelle, autentici
danzatori sulla roccia, con relativi filmati, dalle falesie della Provenza,
alle esibizioni nelle meteore in Grecia, alle imprese a piedi nudi (altro che
"la montagna a mani nude" di Desmaison, espressione che stupiva il
pubblico inesperto ) nel verticalissimo Canyon du Verdon, dove anche i nomi
delle vie richiamano la ricerca
filosofica, da sorvegliare e punire titolo di un libro di
Foucault che indaga la governamentalità e la bio-politica, alla Demande,
la prima via aperta in quella falesia alta 300 metri la cui peculiarità
risiede nel fatto che per moltissime vie prima ci si cala e poi si arriva in
cima, sempre che si riesca a passare in libera la difficoltà obbligatoria. È il concetto di libera che
caratterizza l'arrampicata e l'alpinismo. Paul Preuss non era un
improvvido, uno scriteriato, niente affatto, egli individuò sei regole che
definivano l'etica dell'alpinismo:
1) non
solo si deve essere all'altezza delle difficoltà, ma nettamente superiori ad
esse.
2) I
passaggi che si scalano in salita, si devono saper fare anche in discesa senza
uso di corda.
3) I
mezzi artificiali sono giustificati solo in caso di pericolo.
4) Le
protezioni non devono costituire il fondamento della scalata, vanno usate solo
in caso di necessità.
5) La
corda deve rimanere una facilitazione, non un mezzo indispensabile.
6) Su
tutto deve prevalere il principio di sicurezza, che si basa sull'azione
preventiva, sul giusto apprezzamento delle proprie forze, non l'utilizzo
forzato dei mezzi artificiali.
La definizione di alpinismo diventa
così esprimibile in un postulato apparentemente paradossale: "il massimo
di pericolo, affrontato con il massimo di prudenza". È sufficiente questa definizione a
contrastare giudizi assoluti e infondati quali: "fare alpinismo per chi ha
responsabilità familiari è egoismo puro". Ad ogni modo non si tratta di stabilire
una divisione tra buoni e cattivi, differenti etiche possano coesistere (vie
interamente proteggibili , vie protette a split)
ma nel rispetto di come sono state aperte e preservando un terreno di
avventura la dove la conformazione della roccia lo consenta, che senso avrebbe
raggiungere una meta aggredendola? Barando? Snaturando la roccia?Così pure non ha senso contrapporre
purezza a profanazione, vie moderne con forti difficoltà su meri verticali e
strapiombanti, di roccia compatta, sono proteggibili solo con l'uso degli spit,
ma la montagna non deve diventare un unico parco giochi così come non si deve
adeguare alla sola logica economica e professionale del business delle guide e
dei gestori dei rifugi che alle volte prevale in modo eccessivo dietro la
parvenza della sicurezza.Minor uso possibile degli strumenti
tecnici non significa affatto diventare temerari ed imprudenti, nulla di
irragionevole, un atteggiamento responsabile, come conoscere le previsioni del
tempo e le condizioni climatiche, oggi possibile con alta probabilità, è segno
di previdenza, specialmente per quelle salite dalle quali è difficile
intraprendere una via di fuga da metà parete, atteggiamento consigliabile per
la propria salvaguardia e per quella di altri che metterebbero in pericolo la
propria esistenza per organizzare il soccorso.
Cosa cerca, l'uomo
moderno, con l'alpinismo?
Quale bisogno spinge Sisifo a ripetere
ad infinitum la sua salita? E noi uomini che viviamo nell'età della tecnica a
lasciare le comodità e gli agi della vita nelle moderne metropoli ed a
spingerci in luoghi relativamente selvaggi e poco conosciuti? Cosa ci spinge alle volte, a cercare
di mangiare un frutto coltivato da noi personalmente, il bisogno di raggiungere
una meta con le proprie gambe, ad adoperare un tavolo costruito con le nostre
mani?
Forse, proprio il rifiuto di adeguarci
ad un mondo artefatto, addomesticato e servito a domicilio, il desiderio di
uscire nel mondo, la brama di andare in luoghi sconosciuti, di trovare una resistenza
e di far fatica nel vincerla, un desiderio di liberazione e di
autenticità. Resistenza e liberazione, sono anche i
termini che hanno espresso le migliori pagine scritte con il sangue nella
storia per la libertà e la pace del nostro paese, nel sacrificio della lotta
partigiana contro il nazifascismo e per la democrazia, lotta condotta
prevalentemente sui monti per colpire le retrovie delle truppe occupanti e per
sfuggire ai rastrellamenti, quanti chilometri percorsero le staffette
partigiane sui sentieri di montagna, dal colle del Lys all'inizio della Val
Susa all'attuale rifugio Stellina, nome della famosa brigata del comandante
Guido Bolaffi, per ricordare un percorso classico vicino a Torino. L'alpinista, innanzi tutto, ha un
cuore indomito che non può trovare soddisfazioni nelle normali e scontate
azioni della vita quotidiana. Cerca l'imprevedibile, vuole
l'avventura, brama l'impossibile per poterlo sfidare.
Come Ishmael, nel Moby Dick
di Herman Melville (il romanzo preferito da Giusto Gervasutti) gli alpinisti,
non solo loro, vogliono scacciare lo spleen, lasciare alle loro spalle la
tristezza e la noia, la scalata "è la loro alternativa a una palla di
pistola". La vita quotidiana risulta loro
insopportabile, sempre le stesse cose, gli stessi gesti, la medesima monotonia,
tutto è scontato, ripetitivo e banale; come i gesti degli addetti alla catena
di montaggio, della fabbrica fordista, gesti che all'inizio gli operai fanno
fatica ad acquisire e che poi continueranno a ripetere per il resto della loro
vita, anche quando avranno finito il loro turno di lavoro, come si vede in tempi
moderni di Chaplin. "Provo una grande commiserazione
per i piccoli uomini, che penano rinchiusi nel recinto sociale che sono
riusciti a costruirsi contro il libero cielo e che non sanno e non sentono ciò
che io sono e sento in questo momento. Ieri ero come loro, tra qualche giorno
ritornerò come loro". Così scrive il fortissimo dopo
la salita in solitaria al Cervino compiuta nel giorno della vigilia di Natale,
appellativo che Gervasutti si era meritato per le sue prestazioni atletiche con
lo sci-alpinismo, al trofeo Mezzalama sul Monte Rosa. È la storia stessa dell'alpinismo,
come abbiamo visto, che trasforma e supera le frasi retoriche indicative dei
condizionamenti culturali di ogni epoca, come lo stesso motto di Gervasutti :
"osa, osa sempre e sarai simile ha un Dio" o di Guido Rey "
credi e credetti la lotta con l'alpe, utile come il lavoro, bella come la fede,
nobile con un arte" scritta apparsa per decenni sulle tessere del CAI. Alla ricerca di un processo di
liberazione, un tempo di vita liberato, seppur momentaneamente, dalle
costrizioni per la sopravvivenza, dalla stretta lavoro-consumo, da un lavoro
spesso alienato e alienante, finalizzato esclusivamente all'utile economico; le
passioni e gli interessi, nella società borghese, finiscono, troppo spesso per
ridursi ad un unico interesse: l'accumulo di ricchezze, spropositato per pochi
e inseguito dai più. Una vita consumata solo per il lavoro
e dal lavoro, allo scopo di possedere il maggior numero possibile di
oggetti finisce per diventare una vita
asservita, non vissuta, vuota; ad essa si contrappone non il diritto all'ozio, l’otium
latino contrapposto al negotium, dal significato meramente
negativo di inedia, ma la scholè degli antichi greci, un’attività priva
di scopo, tempo di vita liberato, Vita Activa. L'alpinismo, come anche la libera
frequentazione della montagna, può rappresentare un antidoto che si contrappone
ad una vita scontata e unidimensionale, la conquista dell'inutile come ricorda
il bel titolo del libro della guida francese Lionel Terrey, riapre tutto il
ventaglio dei colori delle passioni che animano lo spirito umano, se per Sisifo
la felicità occorre immaginarla come consapevole accettazione della sua
condizione, per l'alpinista, se pur condensata in pochi attimi, è il risultato
che si dispiega nell'intero sviluppo della scalata; dalla meta sognata, alla
preparazione della salita, alla
conclusione della via, che non sempre coincide con il raggiungimento della
cima, l'alpinismo moderno privilegia la scelta dell'itinerario in base alle
difficoltà e alla eleganza estetica, il percorso scelto risulta ancora più
faticoso. Il filosofo Hyppolite illustra la fatica
del concetto in Hegel con la metafora della scalata alpinistica, racchiusa
nello sguardo dell'alpinista che una volta giunto ad un solo ultimo passo dalla
vetta si volta indietro e ripercorre l'intero tragitto, dalla base della
parete, al susseguirsi delle lunghezze e delle soste, al superamento del
passaggio chiave, la fatica e l’ascesi sono l'insieme del percorso, questo da
consistenza al concetto stesso, e valore alla scalata, peccato che il grande
filosofo tedesco definisse le montagne delle masse informi, altre
menti invece, vedranno in esse la raffigurazione dello slancio e della bellezza
architettonica delle cattedrali gotiche. Come la meta non è mai raggiunta una
volta per tutte e la felicità si presenta sempre nella contrazione di attimi
temporali, lo stesso processo di liberazione non è mai definitivamente acquisito,
si ricade immediatamente nell'abulimia non appena si riaffacciano le
frustrazioni e le contraddizioni della quotidianità, come la competizione
esasperata e fine a se stessa, alla gioia subentra nuovamente lo stress, e la
schiavitù si ripresenta nella forma di una completa subordinazione al risultato
da raggiungere a tutti i costi. In aria sottile il bravo
alpinista e giornalista statunitense Krakauer, descrive l'esasperazione del
business al campo base dell'Everest, 100.000 dollari per essere trascinati
sulla più alta montagna del pianeta, a quel fine si sacrifica tutto e non ci si
ferma per alcuna ragione al mondo, neppure per tenere la mano, per pochi
minuto, di un uomo morente, qualche metro sotto la vetta, la giustificazione è pronta
"ognuno sa che lì si rischia la vita, dalla morte non lo salverò, tanto
vale che io prosegua verso la cima" quello che non sa è che così facendo
quell'uomo perde ciò che è più proprio della sua condizione umana, perde la sua
umanità. L'ascensione non ha più nulla a che fare
con l'ascesi, il percorso che avrebbe dovuto innescare un processo liberatorio
per una vita vissuta in tutta la sua pienezza diventa fasullo, pura illusione,
un fallimento che finisce per vedere solo più l'alpinismo e niente altro. "L'alpinismo diventa una droga,
ti crei l'infelicita con le tue stesse mani, andavi ad arrampicare quando lo
desideravi, quando dentro di te sentivi il sangue fremere e friggere, quando
avevi desiderio di sole e di vento, di cielo e di libertà" così si esprime
Gian Piero Motti nel celebre articolo i falliti nel mensile della
rivista del CAI apparso nel 1972, uno scritto che farà di Motti un personaggio
simbolo di tutta una generazione, e prosegue "incontrerò una sera di
inverno Guido Rossa, il quale, fissandomi a lungo, con quei suoi occhi che ti
scavano e ti bruciano l'anima, con quella sua voce calma e posata, mi dirà
delle cose che avranno un valore definitivo". "Mi dirà che l'errore più grande
è di vedere nella vita solo l'alpinismo, che bisogna invece nutrire altri interessi,
molto più nobili e positivi, utili non solo a noi stessi ma anche agli altri
uomini. Non rinunciare alla montagna e perché? No; ma andare in montagna per
divertirsi, per cercare l'avventura e per stare in allegria insieme agli
amici". Guido Rossa meriterebbe un capitolo a
parte, diversi libri sono stati scritti su di lui, inizia ad arrampicare
giovanissimo, alla fine degli anni 40, anche lui come Gervasutti arriva a
Torino dall'est, lo contraddistingue un carattere anarchico e ribelle, in netto
contrasto con la severità ed il grigiore dell'ambiente alpinistico torinese, si
scatena silenziosamente ripetendo da solo vie come la sud della Noire, aprendone
alla parete dei militi dopo esservi arrivato in bicicletta, inventando dei
rudimentali spit e cliff-hanger con i quali apre la via sulle placche Gialle
alla Sbarüa che porta il suo nome, la capacità manuale gli deriva dall'essere
operaio prima alla FIAT poi all'italsider di Genova, la sua figura di alpinista
sfugge ad ogni definizione, è trasgressivo e dissacrante come quando sale in
solitaria, in giacca e cravatta e scarpe con suole di para la Gervasutti alla
Sbarua, anticipa il Nuovo Mattino di Motti e degli anni 70.
Guido Rossa non è solo un bravo
alpinista, è un operaio sindacalizzato, anche in questo ambiente è duro e
tenace, capace di essere primo di cordata e di chiudere gli accordi in
fabbrica, aderisce al partito comunista di Berlinguer, ha le qualità del leader
sindacale ma vuole rimanere un delegato operaio di base; l'esperienza in
fabbrica, con la gestione delle lotte e la lettura di buoni libri fanno di Guido Rossa un uomo dalla mente
colorata e poliedrica come fu quella di Ulisse. È un operaio colto, studia il pensiero
analitico di Wittghestein e negli avvicinamenti racconta ai compagni la critica
di Marcuse alla società appiattita in un unica dimensione. La sua coerenza etica e politica lo
condurrà alla morte, verrà assassinato dalle B.R. Il 24 gennaio del 1979 quattro
colpi alle gambe ed uno al cuore, quello mortale, pare non previsto, sparato da
Riccardo Dura, per aver tempo prima denunciato l'operaio Berardi, postino delle
B.R. in Italsider. Dura perirà in uno scontro a fuoco con
i carabinieri di Dalla Chiesa, Berardi si impiccherà nel carcere di Cuneo e il
suo avvocato difensore Arnaldi si sparerà all'arrivo della polizia, una
tragedia. La vicenda Guido Rossa è emblematica
sia del ritardo nella lotta al terrorismo, fu lasciato solo unico firmatario
della denuncia, sia dell'implosione del terrorismo e della sua sconfitta, con
quell'attentato le B.R. compirono il loro suicidio politico, oltre centomila
lavoratori e persone parteciparono, sotto la pioggia, al suo funerale,
sentirono le accorate parole di Lama segretario generale della C.G.I.L. e la
commozione di Pertini presidente della Repubblica, compresero che non vi era
più spazio per slogans ambigui come "né con lo stato né con le
B.R." Questa volta non era più plausibile indugiare, era stato ucciso
uno di loro, il più coerente. Franco Ribetti ricorderà come pochi
mesi prima, al convegno dell'accademico del CAI a Torino Rossa gli disse: "T
sas ch'a veulo feme fòra? E prosegue sempre in piemontese, va a finire che
ho rinunciato a far carriera in fabbrica per il sindacato è adesso quegli altri
mi fanno fuori". Il monito di Motti e di Rossa, affatto
dissimile dal significato dei miti di Sisifo e di Prometeo è di fare qualcosa
per gli altri, di superare la ristretta visione delle cose, l'ignoranza e il
disprezzo per i comuni mortali, cioè quella mentalità superba e presuntuosa di
chi si crede importante, di chi vive solo per la difficoltà, per primeggiare e
per realizzare la grande impresa che faccia notizia, così facendo finirà per
smarrire se stesso e la riappropriazione di senso e di liberazione che nella
pratica dell'alpinismo possiamo riscoprire. Un grande scrittore della resistenza e
della lotta di liberazione, Beppe Fenoglio, nel partigiano Johnny ci
ricorda "quant'è grande un uomo nella sua normale dimensione umana." La condizione umana, proprio perché
assurda, sceglie la rivolta di Prometeo, non per sentirsi dei super-eroi o
super-uomini, semmai un "oltre-uomo", che osa ribellarsi e sfidare
gli Dei perché sa che deve contare su se stesso, nella relazione con gli altri,
per dare un senso alla propria esistenza.
Prometeo e il fare
per altri
Secondo Esiodo, gli uomini e gli dei
hanno la stessa origine, all'inizio fu voragine o Caos un tutto
indistinto, primordiale, Gea, la madre Terra, faceva da pavimento ad Urano, non
ancora divenuto cielo stellato, il quale la sovrastava costantemente non
smettendo mai di fare l'amore, tanto che essa non riusciva neppure a partorire,
finalmente nacque il Titano, Kronos, che riuscì, con un falcetto d'acciaio,
fabbricato da Gea, a tagliare in un sol colpo gli organi genitali e il membro
virile di suo padre, Urano lanciò un urlo incredibile, si staccò da Gea e si
formò per sempre Il cosmo così come lo conosciamo, lo spazio e il tempo nel
medesimo istante. Spiegazione meno scientifica ma più
affascinante del Big-Ben. Gocce del sangue di Urano caddero
sulla Terra, nacquero i Giganti, i Centobraccia, le Meliadi, (le Ninfe dei
frassini), tutte generazioni dell'età del bronzo e dalla speme marina, nacque
la Dea Afrodite. Zeus, nacque da Kronos e Rea ed anche
egli dovette rivoltarsi al padre, ma questa è un altra storia e dovette
combattere a lungo per diventare Re degli Dei. L'uomo primordiale, nacque
direttamente dalla terra, quando essi non erano ancora mortali e neppure divisi
nei due generi, maschio e femmina e potevano partecipare ai banchetti insieme
ai divini. Il primo dei tre episodi che
caratterizzano il mito di Prometeo, avviene proprio in un banchetto, nel quale
Zeus invita Prometeo a predisporre la divisione del cibo tra gli dei e gli
uomini primordiali. Allora Prometeo prese un grosso toro,
lo tagliò in due parti e accuratamente spolpato, avvolse le bianche ossa nel
lucido e succulento grasso in modo che non si potessero vedere, sminuzzata la
carne mista a frattaglie la mise in altro lenzuolo, nessuno dei due contenuti
interni era visibile, a questo punto Zeus disse: " figlio di Giapeto, che
parti disuguali hai fatto" e Prometeo allora rispose: "Zeus,
celeberrimo e massimo tra gli Dei eterni, scegli tu la parte che ti aggrada". Zeus scelse la parte più appetitosa
alla vista, bianca e grassa, accortosi dell'inganno tesogli si adirò, ma non se
la prese direttamente con Prometeo, del quale aveva riconoscenza perché mai
lotto contro di lui, ma se la prese con gli uomini, che Prometeo visibilmente
volle aiutare con l'inganno, allora Zeus nascose loro il fuoco, che prima era
disponibile a tutti, sugli alberi, quando venivano colpiti dai fulmini. Zeus e Prometeo hanno in comune la
temerarietà, entrambi discendono da Titani. Prometeo è "colui che vede in
anticipo" metis significa prudenza, veggenza, è astuto, cioè agisce in modo tale che gli avvenimenti
vadano nella direzione precedentemente auspicata. Epimeteo “colui che impara da solo” il
fratello, è il suo opposto, prima agisce e poi riflette su cosa fa, è
l'improvvido. Entrambi i significati sono
contestualmente i due aspetti che ritroveremo in tutti i mortali, in coloro che
sempre saranno famelici, che avranno costantemente bisogno di cibo e di energie
per sopravvivere, proprio perché privati del dono divino dell'eternità, cioè di
quella sostanza contenuta nelle bianche ossa, il midollo osseo, che è simbolo
portatore di vita eterna, a questo punto si comprende come la metafora della spartizione,
rappresenti la falsa sconfitta di Zeus, anch'egli dotato di astuzia (ingoiò Metis
l'astuzia) e ingannatore, una bella lotta con Prometeo "dal pensiero
tortuoso". Quando poi gli Dei formarono sotto
terra gli uomini e vollero portarli alla luce incaricarono Prometeo e Epimeteo
di distribuire a tutti gli esseri della Terra le capacità secondo ciò che
aspettava a ciascuno. Epimeteo ottenne da Prometeo di procedere da solo alla
distribuzione. L'imprudente distribuì tutto agli
animali, dotandoli di mezzi adatti e di istinto naturale, in grado di essere
auto-sufficienti e non rimase niente per gli uomini, nudi ed indifesi. Fu allora che Prometeo dovette
nuovamente intervenire e sfidare gli Dei, rubare loro il fuoco di Efesto, che
Zeus nascose in cielo. Anche in questa impresa Prometeo
ricorse ad uno stratagemma, prese una pianta di ferola che ha la
proprietà di essere verde esternamente e secca internamente, in modo tale che
poté nascondere il fuoco, sperma pyros, nell'incavo, così da sembrare
una passeggiata protetta da un parasole di ferola.
Così Prometeo riporta agli uomini il fuoco
tecnico, che consente loro di scaldarsi e di mangiare cibi cotti, il
fuoco è il simbolo della capacità tecnica e della cultura umana, ciò che li
differenzia dagli animali e li costituisce come creature civilizzate. Insieme al fuoco Zeus nascose loro
anche il bios la vita, i germi di grano, orzo, cereali, che ora grazie a
Prometeo, e alla capacità di opporre il pollice alle altre dita della mano,
potranno coltivare arando la terra, con la fatica e potranno conservarli, a
loro non è dato di nutrirsi di nettare e ambrosia, così scesero dagli alberi e
si incamminarono nella savana alzando lo sguardo al cielo. Il fuoco umano deve però anch'esso
continuamente alimentarsi, non è fiamma divina, e proprio in questo ricorda
l'aspetto di una belva che quando si scatena non può più fermarsi, forse fino a
provocare un giorno una una reazione a catena in grado di distruggere, anche più volte, il
nostro pianeta. Questo è il rischio insito nel
concetto di progresso tecnico, il fuoco sottolinea la specificità umana, che da
un lato ricorda continuamente la sua origine divina, dall'altro la sua impronta
ferina. L'empio Prometeo profanando la dimora
dei divini non si è limitato ad una temporanea rivolta di maggio, egli
ha svelato ai mortali tutte le tecniche, rendendoli consapevoli della loro
strategica potenza, essi però da artefici del proprio destino, possono ridursi
a semplici funzionari al servizio della tecnica, incapaci di governarla, anzi
trasformarsi in belve feroci che divorano e distruggono la natura ed ogni forma
di vita. Non sfugge a questa natura ambivalente
anche il miglior alpinista, la sua azione può essere caratterizzata da Metis,
cioè da quella particolare forma d'intelligenza capace di escogitare con
ampio anticipo gli espedienti necessari per riuscire nell'impresa, quella
prontezza di spirito e scaltrezza che permette di piegare gli eventi a proprio
favore, anche e sopratutto quando la situazione tende a peggiorare, nel momento
del pericolo; oppure può o perdere il controllo di se stesso e sottomettersi al
panico, rischiando la catastrofe, oppure anch'egli ridursi a barare, con la
natura e con se stesso, trasgredendo il principio etico che si è dato e
trasformando il libero gesto dell'arrampicata in misero valore, cioè tira il
chiodo, e quel che è peggio nega di averlo fatto, la tentazione quando si
sta per volare è forte e comunque è difficile, quando si è in difficoltà,
rinunciare all'aiuto tecnico per riuscire nella progressione, la scalata
rischia in ogni momento di diventare un scala a pioli, perdendo così la sua
essenza. In ogni attività umana la difficoltà
sta nel darsi un limite, oltre al quale non si deve andare, per gli antichi Ananke,
la necessità, era più forte della tecnica e per millenni prima le divinità
e poi il Dio monoteista, hanno imposto il limite, funzionavano da Katechon, da
freno, oggi sappiamo che solo noi possiamo darci un limite, ma abbiamo
constatato che grazie al progresso tecnico successivamente sono accresciute
nuove capacità umane, da un lato la volontà spinge per superare tutti i limiti,
dall'altro la consapevolezza ci dice che potremmo oltrepassarlo fino ad un
punto di non ritorno. Nel Prometeo incatenato Eschilo
lo rimprovera e mette in guardia, "nei doni concessi non sei andato troppo
oltre? _ Si, ho impedito agli uomini di vedere la loro sorte mortale _ Che tipo
di Pharmaco hai scovato per questa malattia? _ Ho posto in loro cieche
speranze. Senza la tecnica e la speranza di
sopravvivere e vincere la morte, l'uomo non potrebbe esistere, date le sue
carenze biologiche e privo di istinto naturale, non avrebbe potuto
sopravvivere. Invece, grazie ai doni di Prometeo,
gli umani sono riusciti a sviluppare una capacità simbolica di scrittura e di
linguaggio, la facoltà di discernere e una memoria a lungo raggio, la
possibilità di costruire un mondo per noi vivibile trasformando la natura,
piegandola per supplire alle nostre carenze, ma noi oggi ci stiamo comportando
come un Prometeo scatenato che sta mettendo in serio pericolo la salute
del pianeta, la sua biodiversità e la sua bellezza.
Anche in questo l'alpinismo e lo
spirito d'avventura, possono costituire un moderno Pharmaco, un antidoto
all'eccesso di potenza e di astratta razionalità, ricorrendo al lascito di
Prometeo: il calcolo, la misura e il retto
consiglio. Il retto consiglio, come sappiamo, non
fece breccia in suo fratello Epimeteo, che pure da Prometeo fu avvisato di non
accettare un eventuale dono da Zeus. Zeus quando si accorse che gli uomini
erano tornati in possesso del fuoco, decise una doppia punizione, una rivolta
contro colui che compì l'oltraggio, l'altra direttamente inflitta ai mortali. Prometeo fu condannato ad essere
incatenato alla rupe del Caucaso per trentamila anni, di giorno un aquila gli
mangiava il fegato, che poi di notte tornava a crescere, un atroce supplizio,
fu liberato dopo 13 generazioni da Eracle, il quale abbatté il rapace
torturatore con una freccia, punito per la sua amicizia per gli umani fu
salvato perché di stirpe divina. Agli uomini invece tocco un supplizio
ben più subdolo, poiché ammantato di una bellezza folgorante che non avrà fine:
la creazione della donna. Zeus incarica Efesto, abile con il
fuoco a forgiare armi, di costruire un statua di straordinaria bellezza,
costruì una specie di manichino bagnando con acqua la creta e dandole forma
graziosa di fanciulla vergine, una Lolita mitica, che avvolta in
splendidi vesta e adornata da meravigliosi gioielli da Atena e Afrodite, andò a
bussare alla porta di Epimeteo. Alla visione di Pandora, figura affascinante e seduttrice, Epimeteo rimase
folgorato, stupefatto, una
"meraviglia che innamora" non seppe resisterle, gli aprì la porta ed
il giorno dopo lei già lo volle in sposo. Due sessi differenti, entrambi
necessari alla discendenza degli umani, le une con temperamento umido, fatte di
acqua e fango, gli altri legati al caldo, al secco. L'incanto esteriore nascondeva la vera
intenzione di Zeus, il quale la volle dotata di spirito da cagna e
sentimento da ladro, mentitrice, continuamente insoddisfatta, spesso collerica
e vendicatrice, creatura che vuole il granaio tutto per se ed è anche
caratterizzata da un appetito sessuale insaziabile, lo spirito da cagna allude
anche al carattere erotico, Pandora è il fuoco divorante, che brucia il
marito senza sosta e lo fa invecchiare prima del tempo. Imbeccata da Zeus apre il coperchio
della giara più grande, il mondo fu così invaso da tutti i mali, al suo
interno, in fondo al vaso, rimase solo Elpis: la speranza. Si instaura così la forte opposizione
tra apparenza e realtà, alla dolce e piacevole visione di Pandora, si
contrappongono i mali invisibili, silenziosi e privi di forma, come la fatica,
le disgrazie, gli incidenti, le malattie e la morte. La figura femminile è la
personificazione dei mali e delle tentazioni nella mitologia Greca, come Eva
nella tradizione biblica, questa concezione, indubbiamente maschilista, non fa
eccezione nella storia dell'alpinismo, Chabod racconta di una splendida
fanciulla, innamorata di Giusto Gervasutti, che lo raggiunse ad un rifugio sul
Monte Bianco, Gervasutti la accolse gelidamente, lui doveva concentrarsi per la
scalata del giorno dopo, lei offesa e sconsolata si precipitò a valle. Si sa, "la donna distrae dalla
lotta all'alpe"! Negli ultimi decenni si sono fatti
sentire gli effetti del movimento femminista anche in alpinismo, la frase
maschilista assume nuovo significato, i maschi si "distraggono"
perché ormai patiscono la competizione da parte del Secondo Sesso che
sempre più si manifesta come il "sesso forte", nel senso che
rimangono incantati nel vedere prestazioni superbe, ai massimi livelli, sia in
arrampicata sia in alpinismo, come la prestazione di Lynn Hill, sul Capitan,
prima donna e primo essere umano a scalare in libera la via del Nose nel
1993, le sue qualità di ginnasta
artistica le consentono la spaccata e le dita sottili sono le armi vincenti per
affrontare il diedro molto aperto e con una piccolissima fessura sul fondo,
impossibile per mani grosse e dita spesse, la sola forza pura non basta, nemesi
della storia, la capacità tecnica si esprime anche nella morfologia del corpo
femminile, l'astuto Prometeo ancora una volta si prende la rivincita su Zeus e
in questo caso anche sul genere maschile.
Oltre l'orizzonte
planetario
Gaia, La Terra non soddisfa più la
sete di conoscenza e di avventura degli alpinisti, è ormai evidente che le
nuove vie che verranno aperte, pur rispettando l'etica dell'arrampicata libera,
non produrranno più la conquista di montagne mai raggiunte e
sconosciute. Che fare? Alzeremo lo sguardo per
individuare nuove vette oltre l'atmosfera terrestre? Agli inizi fu alpinismo, poi
hymalaismo, andismo e via via le altre catene montuose, tra poco i pianeti del
sistema solare? Evolverà così il corso di questa meravigliosa attività ludica? Gli astronomi con le loro osservazioni
e le varie sonde lanciate nello spazio ci dicono che nuove mete sono
effettivamente scalabili, chissà se la brava astrofisica Margherita Hack ed ex
atleta ci avesse mai pensato? Il Monte Bianco sarà la nuova meta. No
non quello sulle Alpi, questo è più basso mt. 3.600 e si trova sul nostro satellite, non si creda
che potrà trattarsi di un ascensione molto facile per il solo fatto che la
gravità lunare e di circa sei volte inferiore a quella terrestre, si dovrà
tener conto del peso della tuta spaziale nel percorrere gli 8 Km che separano
la base dalla vetta, ciò nonostante qualche bel lancio dovrebbe riuscirci, una
scalata fattibile in giornata, dal campo base ovviamente. La preparazione delle salite alle vie
planetarie dovrà tener conto delle distanze dalla Terra e del ritorno; giorni,
mesi, anni, per la Luna non molto, Km. 384.000 possiamo programmare anche una
seconda escursione, così ammortizzeremo meglio prestazioni con tempi e costi,
sul monte Pico mt. 3715 la vetta lunare più alta. Tutto ciò vi sembra assurdo? Lo è
forse di più sapere che il debito sovrano di un paese europeo, ad esempio
l'Italia, 2.100 MML di euro, se si volesse tradurlo in banconote da € 100
cadauna e metterle in fila, coprirebbero la distanza che ci separa dalla luna
di ben sei volte. Denaro, debiti, interessi, anatocismo,
future, derivati, miliardi di miliardi di pagherò, che finiranno nelle tasche
di pochissime persone, le 88 persone più ricche al mondo dispongono di un
reddito pari a poco meno del 40% della popolazione mondiale più povera, neppure
un dollaro al giorno a testa per quasi tre miliardi di persone contro 630.000
dollari tutti i giorni per ciascuno degli 88 super-ricchi, (ricerca del centro
studi del Credit Suisse del 2012) un assurdo inaccettabile. I futuri alpinisti saranno i
miliardari? Non più accompagnati dalle guide ma da astronauti, o se preferite
dai cosmonauti, non basterà la disponibilità di tempo libero dei già agiati pionieri
inglesi del periodo romantico, ci vorranno ingenti somme finanziarie. Con tali patrimoni si potrà
pianificare la conquista della cima più alta del sistema solare, il monte
Olympus, di nuovo il cerchio si chiude, finalmente scopriremo la dimora degli
Dei dell'universo. Certo la spedizione dovrà essere
organizzata in stile militaresco, precisa in tutti i dettagli, ci vorrà un
nuovo Ardito Desio, un comandante capace e gerarchico come fu quello della
vittoriosa impresa italiana sul K2. Il monte Olympus è alto 21.183 metri,
quasi tre volte l'Everest, si trova a nord-ovest della dorsale dell'altopiano
di Thirsis, vicino al polo, sul pianeta Marte.
Sarà decisamente improbabile poter
raggiungere la sommità senza le bombole d'ossigeno, come sulle cime hymalaiane,
già a quota zero vi è una parte di ossigeno su 250 di quell'atmosfera, e senza
una adeguata tuta termica si finirebbe assiderati, di notte la temperatura
scende anche a meno 130 gradi e difficilmente supera lo zero di giorno, ci
vorranno molti giorni quindi per salire e scendere, almeno un mese. Le difficoltà in arrampicata si
trovano solo nella prima parte, un muro di 3.000 metri, aggirabile da altro
versante, l'Olympus si presenta comunque in tutta la sua imponenza la base e di
circa 800 chilometri, da Genova a Marsiglia ed anche se si percorrerà una via normale,
si potranno sempre raccogliere interessanti reperti minerari, è un vulcano
sorto circa 800 milioni di anni fa. Insomma per la riuscita nell'impresa
non si dovrà essere dei marziani ma dei semplici alpinisti-astronauti.
Alla ricerca del
Monte Analogo
In attesa dell'evolversi dei viaggi
Inter-planetari, perché arrendersi all'idea che non vi sia più nulla da
scoprire sul nostro vecchio pianeta? Perché non unire un alpinismo di
ricerca alla dimensione metafisica che sempre accompagna la nostra personale
ricerca? I’originale scrittore francese René
Daumal nel suo romanzo il Monte Analogo, costruito con un mix di
fantasia fiabesca, conoscenza scientifica e geografica, mitologia, psicologia e
conoscenza alpinistica, ci offre molteplici dimensioni simboliche di questa
montagna. In ogni sua frase è possibile scorgere
il tutto del suo pensiero.Il Monte Analogo è quella luce
rettilinea che si scorge ad un certo punto del cammino, che tiene legati gli
estremi, il cielo e la terra, è l'asse del mondo, il fuoco che attraversa il
cielo, il punto di unione della via che unisce i mortali e i divini. Quando si procede nella scalata del
Monte Analogo, si sente una forza di attrazione esercitata dall'alto che
concorre, insieme alla nostra fatica, a contrastare la gravità che ci vuole
inchiodati alla crosta terrestre, una forza che trova alimento anche dalla
decisione precedentemente presa: la volontà di voler scendere, di tornare. Ascesa-discesa, anabasi-katabasi, sono
metafora della vita, nella modalità alpinistica è scalata e discesa in corda
doppia, in quella spirituale, è askesis verso i divini e discesa nella propria
dimensione interiore, come se la vetta fosse verso il basso, il cerchio si
chiude oltre Montaigne e Petrarca, raggiunge il mito di Er nel libro
decimo della Repubblica di Platone, dove Ananke, la personificazione
della necessità e i casi della vita si combinano tra loro continuamente nel
viaggio che le anime debbono compiere nell'eterno ciclo della metempsicosi, di
vita e morte, così rammemorazione, conoscenza e azione diventano tutt'uno, un
unità cosmica che riempie il vuoto interiore. Le radici culturali di questi esercizi
per pensare e per ascendere, vanno ricercate nei testi sacri e nella tradizione
orientale, indù in particolare, nei Vedanta, nelle Upanhisad.
La progressione fisica alla vetta è
graduale, da rifugio a rifugio, sono tappe alpinistiche e allegorie della
caverna platonica, con precise regole a cui attenersi, prima di lasciare un
rifugio si deve preparare gli esseri che verranno ad occupare il posto che si è
lasciato e se arrivi ad un punto insuperabile e pericoloso, devi tornare
indietro per cancellare le tracce che hai lasciato, al fine di non confondere
coloro che ti seguono, alla catena di sicurezza del manuale dell'alpinismo si
affianca così un concatenarsi di anelli che formano l'intero viaggio
dell'esistenza umana, non si tratta solamente
della scalata alla vetta della montagna. La progressione per accedere al Monte
Analogo, non può basarsi sulla geometria euclidea, necessita di una concezione
antichissima e contemporanea nello stesso tempo, si deve affrontare lo
spazio-curvo, il rapporto causa-effetto alla base della scienza moderna è
insufficiente e fuorviante, il monte analogo è montagna simbolica, ascensione
che si svolge in un altra dimensione, parallela e contestuale alla scalata che
subisce la gravitazione terrestre, per raggiungere un sapere più elevato, che è
l'opposto di imparare a memoria la relazione, le mappe, gli insegnamenti del
maestro, non si può rimanere fermi lì, bisogna iniziare il viaggio impossibile
con le nostre gambe la nostra testa, un sogno ad occhi aperti. La montagna rimane roccia e ghiaccio,
non ha occhi, né orecchie, né cuore, è insensibile; eppure anche per i più
razionalisti, realisti e cinici, di noi, passata la porta di accesso al Monte
Analogo, possono addentrarsi in quella commedia umana che forse ci salverà
la vita, come nella fiaba orientale dei fratelli Mo e Ho che
riescono a vincere gli uomini cavi, nascosti sulle montagne e a trovare la rosa-amara
perché sono diventati un unica persona, Ho conosce il gesto e
Mo conosce la via, "padroni della paura avranno il
fiore del discernimento". Il Monte Analogo è la montagna
assurda, la sua vetta rimarrà inaccessibile con ordinari mezzi, la sua base
però deve essere accessibile a tutti gli esseri umani quali la natura li ha
fatti, non tutti raggiungeranno la cima ma nessuno è escluso dall'ascensione,
"la porta invisibile deve essere visibile, deve essere unica e deve
esistere geograficamente". La scala delle difficoltà al Monte
Analogo sarà sempre del grado massimo, sarà sempre una prova del fuoco,
susciterà sempre una emozione intensa, una tensione tra la finitudine umana e
l'infinito irraggiungibile. Eppure alla cima dobbiamo tendere,
questo è il significato etimologico del termine Titano, tendere verso l'alto,
come se la potessimo trovare il nettare, la semenza
dell'immortalità chiamata Soma negli antichi testi Veda, oppure
incontrare Siva e la sua sposa "la figlia della montagna" la cui
dimora si trova sulle vette hymalaiane, ed anche Zeus che imperterrito
continuerà a lottare con i Giganti e con i Centobraccia scagliando saette al
fine di conservare il cosmo, l'ordine dell'universo; vedendoci profanare la sua
di dimora, vorrà punirci per l'oltraggio compiuto, come fece con Sisifo e con
Prometeo, ma noi amiamo il rischio e desideriamo la pienezza del cuore, non
perdiamo altro tempo, anzi andiamo a guadagnar tempo, per noi ciò che conta è cominciare
a cercare di raggiungere.
E tu che cosa cerchi?
Rivoli Settembre
2015 Elvio Balboni.
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