sabato 27 giugno 2020

"Come la Cina è diventata una superpotenza tecnologica"


“Occidente vs Oriente” si sta ormai imponendo come il principale terreno di confronto, e di scontro, economico e politico, ma al tempo stesso anche come, nel bene e nel male, un continuo fertile scambio di differenti esperienze e visioni del futuro. Al riguardo molto ci sarebbe da dire, e molto di certo si dirà nei prossimi anni, ci limitiamo nell’introdurre il seguente articolo/intervista che racconta del ruolo e delle forme della tecnologia cinese, ad una battuta: finora si è sempre detto che quello che succedeva negli USA tempo qualche anno sarebbe arrivato ovunque, adesso è tempo di dire che quello che succede in Cina tempo qualche mese arriverà ovunque?
Come la Cina è diventata

 una superpotenza tecnologica

Intervista di Andrea Daniele Signorelli (si occupa del rapporto tra nuove tecnologie, politica e società. Scrive per La Stampa, Wired, Il Tascabile, Pagina99 e altri. Nel 2017 ha pubblicato “Rivoluzione Artificiale: l’uomo nell’epoca delle macchine intelligenti” per Informant Edizioni) a Simone Pieranni (giornalista del Manifesto, ha vissuto in Cina dal 2006 al 2014, tornandoci poi diverse volte, e ha appena pubblicato per Laterza “Red Mirror”) – sito online “Il Tascabile”
La piattaforma di messaggistica WeChat è uno dei principali simboli del graduale rovesciamento dei rapporti di forza, in campo tecnologico, e quindi politico, tra Cina e Occidente. WeChat nasce a Shenzhen, in Cina, nei laboratori del colosso digitale Tencent. In Europa fece una fugace apparizione: nel 2013, lanciato con un pubblicità in cui Lionel Messi, numero 10 del Barcellona, registrava e inviava un messaggio vocale. Al tempo i vocali non erano ancora stati introdotti in quasi nessuna delle app più popolari, qui da noi, e quello spot ci era parso una stramberia destinata a fallire, l’ennesimo tentativo di un’azienda cinese di sbarcare in Europa –  dove Whatsapp, iMessage, Messenger stavano già saturando il mercato –, con una copia di un prodotto occidentale. Dal ruolo sempre più dominante nel campo dell’intelligenza artificiale alla leadership nel settore smart city; dalla capacità di influenzare l’industria digitale del resto del mondo alle prospettive distopiche in termini di sorveglianza, liste nere e sistemi di crediti sociali: Red Mirror è un saggio che esplora l’avanzata digitale cinese e la sfida politica, tecnologica ed economica che pone al resto del mondo. Ma è proprio da WeChat che il libro inizia, con un racconto che riassume bene che cosa sia diventata questa app, oggi, per i suoi 1,2 miliardi di utenti (non solo ma soprattutto cinesi): WhatsApp, ApplePay, Google Maps, TripAdvisor, Groupon, email, MyTaxy, Uber, Google News. Tutto in un unico posto. Un sistema onnipervasivo, che riunisce in un unico ambiente ciò che noi utenti occidentali troviamo invece sparso in decine di applicazioni diverse – consentendo un’integrazione a noi sconosciuta – e che ha permesso alla Cina di fare un enorme salto verso la digitalizzazione di ogni attività. WeChat, in un certo senso, per i cinesi è internet stesso, ma più integrato, più funzionale, più efficace, più evoluto. Come direbbero alcuni: più smart. Sono finiti i tempi in cui la Cina copiava male le innovazioni che uscivano dai laboratori di ricerca della Silicon Valley, e oggi è Mark Zuckerberg che studia il modello WeChat.  “Si tratta però di un processo ancora in corso”, mi racconta Pieranni. “Per ora l’unico software cinese – quindi escludendo gli smartphone Huawei e di altri – che davvero va forte in Occidente è TikTok (di proprietà di Bytedance, ndA). Ma già adesso sempre più stranieri vanno in Cina a lavorare, anche perché, per esempio nel campo dell’intelligenza artificiale, si guadagna a volte ancora meglio che in Occidente. Arrivando più cervelli arriva anche più innovazione. La recentissima vicenda dell’ex top manager di Disney Kevin Mayer, diventato CEO di TikTok nel maggio 2020, è un altro esempio di come stia cambiando la dinamica e di quale sia la strategia cinese per entrare nel nostro mercato”. Nel frattempo i tentativi di Facebook e Google di entrare (o rientrare) sul mercato cinese non solo continuano a non dare frutti (nonostante i due colossi statunitensi siano disposti a qualunque compromesso pur di riuscire nell’impresa), ma sembrano ormai anacronistici. Perché la Cina dovrebbe (ri)accettare uno scomodo intruso come Google quando può utilizzare il motore di ricerca Baidu (la cui intelligenza artificiale è stata sviluppata da un pioniere del deep learning come Andrew Ng)? Perché dovrebbe aprire i confini a Facebook e Messenger quando i cinesi già usano Weibo, QQ e altri? “E infatti questi tentativi si sono ormai smorzati”, spiega Pieranni. “Google e Facebook avevano interesse a trovare spazio in Cina perché avevano capito molto bene, da tempo, che lì si potevano raccogliere enormi quantità di dati. Oggi credo che sia un’ipotesi tramontata: un po’ perché, con la nuova legge, i dati che raccogli in Cina devono restare su server cinesi, un po’ perché Facebook ormai coltiva buoni rapporti con la Cina allo scopo semmai di entrare nel capitale azionario di qualche azienda cinese”. I giganti cinesi (Baidu, Alibaba, Tencent) stanno mostrando di poter raggiungere quelli statunitensi (Google, Amazon, Facebook, Apple) e di poter fare a meno di parecchi di loro. Ma il successo di TikTok – forse ancor più della rivoluzione digitale di WeChat, che rimane per ora piuttosto confinata – è il simbolo più potente del rovesciamento in corso. Come avremmo reagito, solo pochi anni fa, se ci avessero detto che il social network più in voga del momento, che sta nuovamente rivoluzionando il linguaggio digitale, sarebbe stato un prodotto cinese? Per quanto imprevisti, questi scossoni non sono stati improvvisi o casuali. Sono anzi il frutto di una strategia inaugurata ormai più di un decennio fa: “Il processo era già partito da molto tempo, ma la vera svolta c’è stata nel 2008 con la crisi economica occidentale, che ha fatto diminuire gli ordini manifatturieri in Cina spronandola a spingere sull’innovazione”, prosegue Pieranni. “Era necessario non solo continuare a sviluppare un mercato interno, ma anche svincolarsi almeno in parte da una produzione manifatturiera che li teneva al livello globale più basso di guadagno. A partire dal 2008 hanno quindi iniziato a finanziare tantissime startup e a creare tante piccole Silicon Valley, tra cui Innoway a Pechino”. Fedeli al detto di Deng Xiaoping, secondo cui la Cina avrebbe cambiato il mondo nel momento in cui i cinesi all’estero sarebbero tornati a casa, il governo ha anche promosso il ritorno di scienziati e ricercatori formati in Occidente, e che in patria hanno trovato praterie da esplorare. Esiste un concetto, in campo economico, chiamato del leapfrogging, usato per descrivere il “salto della rana” che alcune economie emergenti possono fare: costrette, all’inizio, a usare tecnologie più sostenibili e efficienti, finiranno per saltare le tappe intermedie dello sviluppo industriale seguite dagli altri paesi, sorpassandoli in termini di innovazione. Per esempio, i pagamenti via smartphone in Cina hanno potuto diffondersi più rapidamente rispetto all’Occidente anche perché le carte di credito erano ancora poco diffuse. Una situazione che ha messo la Repubblica Popolare nella condizione di fare un “leapfrog”, saltando un passaggio e atterrando più avanti. Ma non è tutto. “Bisogna anche prendere in considerazione il modo in cui agisce la forte cornice cinese, dove c’è un partito che ha la capacità di coinvolgere un’intera nazione su alcuni progetti precisi”, precisa Pieranni. “Per esempio, a Xi Jinping è bastato nominare l’intelligenza artificiale in un paio di discorsi e in tempo zero sono sorti migliaia di corsi di laurea in deep learning. Oggi l’intelligenza artificiale viene insegnata già alle elementari. La capacità di mobilitazione cinese è qualcosa di cui non si può non tenere conto: quando il presidente pronuncia le parole ‘intelligenza artificiale’ tutti si buttano e si crea una feroce competizione, in cui la legge della giungla premia il valore di quelli che sono sopravvissuti dopo essersi scontrati con un mercato folle e velocissimo”. Finanziamenti, entusiasmo e capacità di mobilitare oltre un miliardo di persone: se si prendono in considerazione queste caratteristiche, si inizia a intuire quali siano i vantaggi strategici della Cina. “Ma non è tutto”, prosegue Simone Pieranni. “C’è un altro aspetto legato alla peculiarità politica della Cina. Non vorrei che passasse l’idea che i cinesi si facciano andare bene tutto, perché non è così, ma ci sono sicuramente meno barriere nei confronti dell’invasività tecnologica nella vita quotidiana. Quando in Cina si è iniziato a fare tutto con il riconoscimento facciale, nessuno ha battuto ciglio, anzi c’è stato entusiasmo nei confronti di un’innovazione che mostrava i progressi tecnologici cinesi. È una cosa che ha a che fare anche con alcune concezioni filosofiche cinesi, che impediscono la formazione di barriere etiche nei confronti dell’impatto della tecnologia sulla vita quotidiana. Tutto questo fa sì che la Cina possa procedere con balzi più ampi dei nostri”. Un altro aspetto cruciale, restando in campo di intelligenza artificiale, è quello dei dati: il bene primario con cui vengono nutriti gli algoritmi di deep learning e dei quali tutti i colossi tecnologici hanno una fame insaziabile. Anche da questo punto di vista, la Cina ha un cruciale vantaggio strategico, in quanto le leggi sono molto più permissive in termini di privacy e le consentono di raccogliere dati di ogni tipo da utilizzare per l’addestramento delle intelligenze artificiali. E che, dal punto di vista del controllo politico, un domani dovrebbero portare a quel in grado – proprio sulla base dell’analisi dei big data – di premiare i cittadini virtuosi e punire gli altri. Ma davvero i cinesi vivono con tale nonchalance la completa assenza di privacy a cui sono soggetti, tanto da accettare che, negli incroci più trafficati, dei maxischermi mostrino i volti e i nomi dei trasgressori? “Bisogna partire da un punto fondamentale: in Cina la privacy non è praticamente mai esistita. C’è sempre stato un controllo fisico molto forte. Si potrebbe risalire fino all’età imperiale, ma già nel 1949, con il maoismo, la configurazione delle città veniva immaginata affinché consentisse un controllo sociale totale da parte dei cittadini sui cittadini”, spiega Pieranni. “La cosa è proseguita anche con l’arrivo delle gated communities degli anni Novanta, cittadelle fortificate cinesi che non hanno nulla da invidiare a quelle immaginate da Ballard. Anche in questo caso, la loro progettazione è improntata alla possibilità che un cittadino ne controlli un altro. Il concetto di privacy non è mai stato preso più di tanto in considerazione, anche perché è ancora valido quel patto sociale tra partito e popolazione, che accetta il controllo e in cambio riceve città sicure”. Eppure, è proprio in quel patto sociale che si nascondono le insidie più pericolose per questo modello governativo. Per due ragioni. Abbiamo detto che i cinesi accettano tutta una serie di cose, bisogna però tenere presente che nella cultura e nel diritto cinese esiste il concetto di “revoca del mandato”: “quando chi gestisce il potere attua a lungo pratiche che la popolazione non accetta, questa ha il diritto di abbattere il potere: la stabilità cinese è più fragile di quanto non si creda”. Inoltre, la nascita e diffusione di una vera e propria classe media, tale non solo dal punto di vista economico ma anche a livello di società civile, non può che presentare sfide inedite al governo: “Con la pandemia le cose si sono un po’ arenate e, anzi, si è di nuovo potuta mostrare l’efficacia del controllo sociale nel tenere a bada il coronavirus. Nonostante questo, sta comunque nascendo una riflessione sulla privacy, anche in seguito all’ingresso del riconoscimento facciale in tutte le scuole, tutti gli uffici e anche nelle case. Eric Lee, che è il boss di Baidu, aveva per esempio iniziato da qualche tempo a porre problemi di etica dell’intelligenza artificiale e della raccolta dati”. Problemi che diventeranno sempre più pressanti, visto che la Cina è all’avanguardia anche nella progettazione delle smart city del futuro. Terminus, società di Pechino che si occupa della gestione digitale e intelligente di quartieri e compound, avrebbe già portato a termine oltre seimila progetti di smart city: città inevitabilmente verdi e sostenibili, rese intelligenti dall’uso della tecnologia, della raccolta dati, del dispiegamento di algoritmi in grado di regolare il traffico e di centrali di controllo che tutto analizzano. E in cui, ovviamente, le potenzialità di sorvegliare la popolazione aumentano a dismisura. La visione d’insieme, che unisca le città smart al progetto dei crediti sociali, mostra però come in Cina sia un corso un colossale esperimento di ingegnerizzazione della società. “È evidente come la Cina non stia proponendo solo dei nuovi sistemi urbanistici, ma dei veri e propri nuovi modelli di cittadinanza. Nelle smart city ci potrà vivere solo chi è ricco, ma tra i ricchi vi potranno accedere solo quelli che hanno un miglior punteggio. Attraverso le smart city si creano nuovi modelli sociali”. Grazie all’assenza di privacy, in poche parole, la Cina è avvantaggiata nella progettazione di dispositivi tecnologici che spesso vengono poi utilizzati per aumentare ulteriormente la sorveglianza, per esempio attraverso progetti scintillanti di città che sono in realtà un modello di sorveglianza totale in versione “verde” e digitale. Il fatto di essere uno stato autoritario ha fornito alla Cina alcuni vantaggi strategici, a partire dalla raccolta dati necessaria per lo sviluppo degli algoritmi di intelligenza artificiale. C’è ovviamente un elefante nella stanza: dal punto di vista della competizione tecnologica internazionale, il fatto di essere uno stato autoritario ha fornito alla Cina alcuni vantaggi strategici. “La conclusione che si può trarre è che la globalizzazione così com’è concepita oggi viene gestita meglio da un governo autoritario che da una democrazia, almeno a livello di competizione economica”, spiega Pieranni. “Non è necessario fare tutta una serie di compromessi con la società civile o con l’istituzione parlamentare a cui invece si è soggetti in democrazia. In effetti, se osservi ciò che avviene in Occidente in materia di governo, anche al di là delle emergenze gestite a colpi di decreto, è chiaro che questa dinamica è in atto da tempo anche da noi, e si vede anche dalle tante richieste di presidenzialismo o semipresidenzialismo. La Cina è ciò che molti paesi vorrebbero ma, per nostra fortuna, non possono essere”. L’impatto della Cina sul resto del mondo, però, non si limita all’innovazione tecnologica. Come gli Stati Uniti insegnano, una vera superpotenza che aspira all’egemonia deve puntare anche sull’industria culturale. Qualche segnale inizia a vedersi anche qui: come scrive Pieranni nel libro, il kolossal di fantascienza più importante degli ultimi anni è forse The Wandering Earth, di produzione e con attori cinesi; lo scrittore di fantascienza più famoso al mondo è il cinese Liu Cixin (da cui The Wandering Earth è stato peraltro tratto), mentre un’autrice sempre di fantascienza come Hao Jingfang è giunta fino in Italia con il suo Pechino Pieghevole (senza dimenticare il successo di parecchi videogiochi cinesi). Il dominio sulla cultura pop della Cina parte quindi dalla fantascienza? “Ci stanno puntando molto ed è anche merito di un fenomeno di massa come la vangluo wenxue, la letteratura online, con milioni di lettori ma anche di scrittori, da cui vengono tratte anche serie tv e videogiochi”, conclude Pieranni. “La Cina deve però ancora riuscire a fare il salto di qualità, perché al momento – anche per via della spinta da parte del governo – questa cosa della fantascienza rischia di trasformarsi in una bolla. In più devono liberarsi da un po’ di ‘cinesate’ e magari anche perdere un po’ di spocchia: non è possibile che in tutti i film ci sia la Cina che salva il mondo”. Nel libro Pieranni racconta anche la storia di Peng Simeng, giovane scrittrice di fantascienza che, grazie a un concorso di letteratura online, è riuscita ad abbandonare la carriera da product manager di Tencent: un’esistenza dedicata esclusivamente al lavoro che la faceva ormai sentire “come una macchina” capace solo di lavorare, “mangiare, bere, fare shopping e fare shopping”. La sua vicenda non è isolata, scrive Pieranni: gli scrittori della nuova fantascienza cinese provengono spesso da una formazione scientifica e hanno lavorato a lungo nella nuova filiera digitale, dove hanno vissuto un’oppressione simile a quella di Peng Simeng. “I ritmi sono diventati insostenibili”, conferma Pieranni. “Ormai la normalità è lavorare nove ore al giorno, che possono diventare anche 14 con gli straordinari, per sei giorni a settimana”. Visto con i nostri occhi di occidentali, l’aspetto più preoccupante è forse il fatto che questa tendenza al superlavoro si stia facendo rapidamente largo anche da noi: “C’è una sorta di sinizzazione del lavoro in Occidente: i nostri ritmi diventano sempre più simili. Nel libro riporto anche le parole di alcuni manager della Silicon Valley, che sottolineano come in Occidente si stia a discutere di diseguaglianze mentre in Cina lavorano come pazzi e raccolgono i risultati”. Anche in questo caso, la tendenza sembra quella di voler guardare al modello cinese sforzandosi di non notarne le criticità. Chiudiamo la nostra conversazione citando un altro caso esemplare e paradossale: quello relativo al controllo di stato sulla circolazione dell’informazione, che in Cina non si limita più ad affidarsi alla censura del Grande Firewall (che impedisce ai contenuti esteri sgraditi di arrivare fino agli utenti internet cinesi), ma si è fatto molto più sofisticato e si affida oggi all’intelligenza artificiale, alla polizia informatica e anche al cosiddetto “esercito dei 50 cent”, utenti pagati 50 centesimi per ogni commento favorevole al governo che postano sui social network e altrove, dirottando, o almeno bilanciando, le conversazioni critiche. “In questi casi non si può nemmeno parlare di censura, ma più di ‘accompagnamento’ dei dibattiti online”, precisa Pieranni. Il controllo dell’informazione si affida oggi all’intelligenza artificiale, alla polizia informatica e al cosiddetto “esercito dei 50 cent”, utenti pagati 50 centesimi per ogni commento favorevole al governo. “L’abbiamo visto anche in questi giorni, in cui Twitter ha cancellato migliaia di account cinesi di bot e troll che cercavano di guidare il dibattito e l’informazione su alcuni temi, tra cui le manifestazioni di Hong Kong. Anche in questo caso si tratta di metodi cinesi utilizzati oltre i confini e che diventano quindi un esempio molto interessante per i governi occidentali autoritari o simil-autoritari. Turchia e Russia imparano dalla Cina a fare queste cose”. In poche parole, si tratta di “turchi meccanici” il cui compito è di svolgere semplici e rapide operazioni sul web, per guidare la conversazione a favore del governo di Pechino. Un sistema talmente radicato, che “è diventato ormai uno sfogo per l’occupazione”, racconta Pieranni. “Parliamo di centinaia di migliaia di persone impiegate. Non è solo il governo, ogni azienda in Cina ha il suo ufficio della propaganda, che potremmo anche definire ufficio della censura. È uno dei tanti sistemi economici che la Cina ha messo in piedi. È diventato irrinunciabile”.

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