venerdì 9 ottobre 2020

Il "Saggio" del mese - Ottobre 2020

 

Il “Saggio” del mese

 OTTOBRE 2020

Prosegue, con inevitabile lentezza vista la mole e la complessità dell’opera, la nostra sintesi del saggio di

Thomas Piketty “Capitale ed ideologia.

Questo mese pubblichiamo quella della Parte Seconda, dedicata all’analisi delle disuguaglianze nelle “società schiaviste e coloniali”, che unitamente alla Parte Prima, nella quale sono state analizzate le “società ternarie e proprietaristiche”, completa lo sguardo storico sulla evoluzione della struttura delle disuguaglianze fino agli albori del secolo XX. Per quanto possano sembrare aspetti lontani emerge al contrario dalla trattazione di Piketty l’influenza che queste forme della società hanno avuto sul formarsi delle caratteristiche di fondo di questo secolo, di quello che Piketty definisce il secolo “della grande trasformazione” e che analizzerà nel dettaglio nella prossima Parte Terza, la cui sintesi sarà qui pubblicata appena possibile

                                         Parte seconda

Le società schiaviste e coloniali

Capitolo 6

Le società schiaviste: la disuguaglianza estrema

(Lo studio dell’avvento della società dei proprietari ha comportato uno sguardo concentrato sull’Europa, in questo Capitolo P. inizia ad analizzare l’evoluzione della società ternaria nei paesi extra europei, un processo fortemente condizionato dal peso storico dello schiavismo prima e dal colonialismo poi)

 Società con schiavi, società schiaviste

Lo scopo di P. in questo Capitolo non è certo quello di ricostruire organicamente l’intera vicenda storica dello “schiavismo”, in assoluta la forma più estrema di disuguaglianza, in relazione alle finalità del saggio, intende limitarsi ad evidenziare le connessioni fra la forma di società trifunzionale, o ternaria, con l’eredità storica dello schiavismo, ed il connubio fra la società proprietaristica con le politiche coloniali. L’istituto dello “schiavismo” è una presenza costante e pressoché universale nella storia delle civiltà umane fin dai loro albori, ma per meglio comprenderlo è necessario operare una distinzione “tecnica” fra “società con schiavi” e “società schiaviste”. Questa distinzione è basata esclusivamente sul numero di schiavi rapportato al totale della popolazione, un conto è infatti una loro consistenza contenuta, non in grado quindi di incidere in profondità sulla struttura societaria, un altro invece una loro presenza percentualmente molto alta, pertanto capace di avere un ruolo centrale sulla struttura produttiva e sui rapporti di proprietà. La definizione di “società schiavista” può essere, su questa base, attribuita a molte società dell’antichità, comprese quelle della “classicità” occidentale. A partire dal Medioevo nel contesto europeo la sua applicazione diventa sicuramente più problematica a causa dell’incerta classificazione della “servitù della gleba”, la quale sicuramente ha coinvolto vasti strati della popolazione di quasi tutto il continente e che, per alcuni versi soprattutto per le condizioni di soggezione lavorativa,, poteva essere assimilata a quella schiavistica, ma, a differenza di questa, concedeva titolarità  di alcuni diritti non includibili nella schiavitù pura. Lungo questi stessi secoli la definizione di “società schiavista” resta invece sicuramente applicabile a molti paesi extraeuropei, in ispecie in Africa ed in Oriente, vanno citati fra gli altri il Regno del Congo, il Califfato di Sokono, l’attuale Nigeria, ed il Regno di Aceh, l’odierna Sumatra. Ma se sul suolo europeo si può ragionevolmente escludere la presenza di società schiaviste propriamente dette gran parte delle potenze europee, a partire dal XVI secolo, con l’apertura delle nuove rotte commerciali transoceaniche, si rendono protagoniste dello spaventoso dramma della “tratta di schiavi”, soprattutto atlantica, dall’Africa verso le “colonie” progressivamente insediate nella quasi totalità delle Americhe, ed in alcune significative parti dell’Oriente. Si calcola che tra il 1500 e la fine del 1700, circa 20 milioni di africani furono ridotti in schiavitù, due terzi dei quali tratti verso le Americhe, ed il restante terzo verso il Mar Rosso e l’Oceano Indiano. Una macchia storica per molti secoli vissuta dalla “cultura” europea nella più totale accettazione di una sua “normalità”. Solo a partire dal XIX secolo, con percorsi molto differenziati e sulla base di motivazioni decisamente contraddittorie, questo impressionante percorso schiavistico inizia a conoscere una reale contrazione, ed è quindi interessante, ai fini dell’analisi, il seguente quadro della consistenza percentuale di schiavi sul totale della popolazione locale riferito alle situazioni coloniali più significative (comprensiva degli Stati del Sud statunitensi divenuti indipendente solo dal 1776) 

Grafico 22


Allineate a quella americana sono le percentuali nei possedimenti coloniali europei nell’area dell’Oceano Indiano, il dato d’insieme che emerge è chiara testimonianza di cosa si debba intendere per “società schiaviste” ed al tempo stesso aiuta a comprendere ancora meglio le dimensioni del fenomeno schiavistico in capo all’Europa. Come si avrà successivamente modo di vedere ancora nel 1860, alla vigilia della guerra civile americana, gli Stati del Sud costituiscono la più alta concentrazione in termini assoluti di schiavi sfruttati, pari a ben 4.000.000. E’ questo il quadro di base sul quale interviene, a partire dai primi decenni del XIX secolo la progressiva abolizione dello schiavismo, un processo che coniuga aspetti ideologici con considerazioni di mera convenienza economica. Accanto alla “nobiltà” di molte delle condanne etiche dello schiavismo non può infatti essere taciuta la rilevanza delle valutazioni utilitaristiche che hanno progressivamente indotto a sostituire la “tratta”, sempre più costosa e complicata da gestire, con l’autoriproduzione naturale della popolazione schiavizzata già presente in loco. Questa scelta ha contribuito, nel corso del 1700, a determinare in misura molto significativa le impressionanti percentuali del precedente grafico. Il lento e complesso processo di superamento dello schiavismo “moderno” che si realizza nel corso del XIX secolo si innesta quindi con il contemporaneo passaggio dalla “società ternaria” a quella “proprietaristica” analizzato nella precedente Parte Prima. Se quindi è storicamente innegabile la totale accettazione dello schiavismo da parte delle società ternarie europee, basata da una parte sul pregiudizio ideologico della sua “naturalità”, ereditato dalla stessa classicità, e dall’altra sul rilevante peso economico delle colonie, aspetto questo decisivo per la loro stessa prolungata sopravvivenza, allo stesso modo il successivo percorso di soppressione dello schiavismo è stato analogamente ispirato dalle logiche proprietaristiche, ed in particolare dalla sacralità del “diritto alla proprietà”. Non a caso le Leggi adottate per sancire formalmente l’abolizione della schiavitù, ad esempio nel 1833 e 1843 nel Regno Unito, e nel 1794 – 1848 in Francia, hanno contemplato indennizzi molto sostanziosi per i proprietari di schiavi mentre assolutamente nulla hanno previsto per compensare degli spaventosi danni subiti, da loro e dai loro progenitori, dagli schiavi. Anche i più “nobili” abolizionisti, Tocqueville compreso, non hanno mai messo in discussione il riconoscimento, basato sulla sacralità del “diritto alla proprietà”, di un “danno subito dai proprietari di schiavi. I quali rientravano a pieno titolo nel novero delle voci che componevano patrimoni e attività economiche al pari di immobili, terre, titoli azionari. “Mansfield Park” di Jane Austen è un perfetto racconto di questa mentalità proprietaristica. E non si tratta di indennizzi formali, sia per la Francia che per il Regno Unito si calcola che le somme corrisposte abbiano rappresentato diversi punti percentuali della ricchezza totale del tempo, mediamente valutabili attorno al 5%. E va inoltre tenuto in debito conto che esborsi così significativi, finanziati dal debito pubblico, hanno rappresentato una risorsa finanziaria molto rilevante per l’insieme dei processi economici e finanziari di rafforzamento del nascente capitalismo. Una situazione esemplare sia per comprendere l’ammontare degli indennizzi sia per valutare la loro incidenza, in questo caso in negativo, sui processi economici è la fine dello schiavismo ad Haiti. Questa colonia francese ha rappresentato la prima formale abolizione della schiavitù dell’epoca moderna, essendo stata obtorto collo concessa dalla Francia nel 1825 al termine della vittoriosa ribellione degli schiavi haitiani, unica fra le tante ribellioni fallite che hanno comunque costituito una delle principali ragioni, anch’essa di pura valutazione economica, per l’accettazione della fine dello schiavismo. L’indennizzo chiesto dalla Francia al neonato governo di Haiti fu fissato in 150 milioni di franchi-oro pari al 2% di tutte le entrate francesi del tempo, e valutabile ina oltre 40 miliardi di euro attuali, ma soprattutto al 300% delle entrate haitiane del 1825. Questo debito è stato definitivamente estinto nel 1950!!!! Ed ha quindi rappresentato a lungo una pesantissima zavorra per lo stato haitiano tale da condizionarne l’intera crescita economica. Altri due situazioni schiavistiche, gli Stati Uniti ed il Brasile, sono di fondamentale importanza per comprendere l’incidenza dello schiavismo sugli scenari economici e produttivi, sulle forme della società e sulla collegata struttura delle disuguaglianze. Il caso statunitense in particolare è particolarmente significativo sia per le specifiche modalità di abolizione avvenuta a seguito della violenta guerra civile 1861-1865, sia per il contradittorio rapporto con il suo successivo ruolo di “faro della democrazia mondiale”, vantato pochi decenni dopo soprattutto dal Partito Democratico al tempo accanito sostenitore del mantenimento dello schiavismo proprio in nome del “diritto alla proprietà”. La seguente tabella attesta come ancora per tutta la prima parte dell’Ottocento lo schiavismo negriero statunitense sia continuato a crescere:

Tabella 3

Il seguente grafico visualizza, per lo stesso periodo, l’andamento percentuale degli schiavi sul totale della popolazione in cinque degli Stati chiave del Sud ed in tre del Nord

Grafico 23


P. ha in precedenza lamentato la mancanza di una maggiore disponibilità di dati e la loro migliore precisione, così non è per la situazione americana in quanto, a partire dal 1790 e con cadenza decennale, il censimento degli schiavi venne fatto con molto rigore essendo uno dei fattori per determinare i seggi della Camera ed i “grandi elettori” per la scelta del Presidente. E quindi i dati riassunti nella Tabella e nel Grafico evidenziano con esattezza la situazione schiavistica degli Stati del Sud americani in gran prevalenza finalizzata alla produzione di cotone della quale costituiva l’asse economico portante. I motivi di crescente contrasto fra Stati del Nord e del Sud, creati dalla diversità economica e produttiva che implicava una profonda differenza di struttura del mercato del lavoro, ed una conseguente inconciliabilità di opinioni sul mantenimento dello schiavismo, sono, come è noto, esplosi nella cruentissima Guerra Civile al termine della quale l’abolizione della schiavitù venne decisa, di imperio, per tutti gli Stati americani. Tale totale inconciliabilità ha reso peraltro impraticabile la stessa formula della compensazione già del suo molto problematica stante il possibile enorme ammontare degli indennizzi dovuti per l’altissima percentuale di schiavi. A distanza di più di un secolo da tale drammatica frattura restano tuttora vive le eredità conflittuali dell’abolizionismo, il tormentato superamento dello schiavismo ha infatti lasciato aperte profonde ferite nel tessuto sociale e politico statunitense come ben testimoniano persistenti recenti fatti di cronaca. L’impossibilità di una via di uscita simile a quella, comunque tutt’altro che nobile, adottata in Europa ha di fatto spostato il conflitto dal terreno economico a quello culturale e ideologico divenendo la matrice del razzismo bianco e costituendo una base fondamentale per la stessa attuale struttura delle disuguaglianze economiche negli USA. Altrettanto ricca di insegnamenti è la vicenda dell’abolizione della schiavitù in Brasile avvenuta solamente nel 1888 al termine di un percorso segnato da alcune particolarità. A differenza degli Stati Uniti il Brasile, colonia portoghese, non ha visto un rilevante aumento del numero di schiavi, avendo puntato ancora per tutto il XIX secolo solamente sulla tratta diretta dell’Africa e non sull’incremento naturale, che resta infatti stabile attorno al milione e mezzo. Questa relativa stabilità si è poi intrecciata con un fenomeno, molto più accentuato rispetto agli Stati Uniti, di “meticciato”, figli di uomini liberi e schiave, e di “emancipazione”, favorita in particolare dalla legge, denominata “ventre libero”, che affrancava i figli nati da donne schiave a fronte del loro impegno di servire fino al compimento dei 21 anni il proprietario delle madri. L’insieme di questi fenomeni, avvenuto in un contesto di demografico di forte crescita, ha progressivamente “annacquato” l’incidenza percentuale dello schiavismo in Brasile passata dal 50% del 1750 al 15-20% del 1880. Ciò non ha di certo significato che le condizioni di vita degli ex schiavi siano state differenti da quelli rimasti schiavi, nelle piantagioni di canna da zucchero, di caffè e nelle miniere lavoravano e vivevano nelle identiche disumane situazioni. Non a caso si sono registrate numerose e ripetute rivolte che hanno infine indotto la Camera ed il Senato brasiliani, espressione dei padroni di schiavi, ad accettare l’invito dell’Imperatore Pedro II (la corte di Lisbona aveva abbandonato il Portogallo in piena era napoleonica ed aveva trasformato la colonia brasiliana in uno Stato indipendente con forma Imperiale) ad abolire formalmente la schiavitù, lasciando peraltro del tutto invariata la struttura proprietaristica dell’economia brasiliana.

 

Capitolo 7

Le società coloniali: eterogeneità e potere

(In cui P. dopo aver esaminato le “società schiaviste” analizza quelle coloniali concentrando l’attenzione, anche in questo caso, sul loro intreccio con la “società dei proprietari” e la sua completa evoluzione nel moderno capitalismo

Le due fasi del colonialismo europeo

Il discrimine fra una “società schiavista” ed una “società coloniale” è difficilmente rintracciabile guardando al reale livello di disuguaglianza economica ed alle concrete condizioni di vita della parte più povera della popolazione, consistendo in misura prevalente in una ridotta disuguaglianze sociale inquelle coloniali, le quali, perlomeno formalmente, prevedevano il diritto alla mobilità, quello alla vita privata e familiare e, con fortissimi limitazioni concrete, quello alla proprietà. Nel proseguo del Capitolo verrà comunque analizzato nello specifico il regime delle rispettive disuguaglianze economiche per meglio cogliere eventuali similitudini e diversità e conseguentemente gli elementi delle loro eredità sulla attuale struttura delle disuguaglianze. Come per le società schiaviste non è certo scopo di questo saggio la storia generale delle società coloniali, P. infatti si limita, coerentemente con quanto appena prima, a estrapolare gli elementi più significativi per l’analisi delle evoluzioni che ne sono seguite. In generale si distinguono due fasi storiche di colonizzazione: la prima inizia all’alba del Cinquecento con l’apertura della vie marittime transoceaniche e termina tra il 1800 ed il 1850, la seconda succede temporalmente alla prima per terminare, quasi ovunque, tra il 1900 ed il 1940. Se nella prima è evidente una logica di pura “guerra e rapina”, nella seconda, mutato lo spirito dei tempi e scontata comunque l’esistenza di diversi elementi di continuità, compare un atteggiamento meno prepotentemente rapinoso. Analogamente al precedente criterio di distinguere “società con schiavi” da quelle “schiaviste” per le società coloniali vale il discrimine fra quelle con popolazione prevalentemente di origine europea da quelle in cui questa presenza è minima. Questo criterio consente di cogliere il succedersi di tre distinte fasi: una prima, quella di inizio della colonizzazione, in cui prevale la seconda condizione, seguita da una seconda che vede, stante il drammatico e per molti aspetti criminale crollo demografico delle popolazioni autoctone, emergere un superiore popolamento europeo, basta pensare all’intera America ed all’Australia, per chiudere con una terza, quella del secondo periodo coloniale, che torna a vedere in generale, ma con una grande varietà di situazioni, una presenza limitata di abitanti europei. Fatto salvo questo quadro a grandi linee è interessante definire, verso la fine delle rispettive vicende coloniali, questa varietà di situazioni in quanto indice di una corrispondente diversità delle politiche coloniali messe concretamente in atto. Il seguente grafico evidenzia l’incidenza percentuale del numero di europei sul totale della popolazione in alcune delle più significative società coloniali della seconda fase:

Grafico 24

E’ evidente la grande disparità fra i due estremi all’interno di una situazione che vedeva, ancora nella prima metà del Novecento, l’esistenza di una consistenza coloniale molto elevata sia come numero di paesi occupati sia come consistenza delle popolazioni coinvolte: nel 1938 l’Impero coloniale inglese aveva una popolazione totale di 450 milioni di abitanti a fronte di 45 milioni di residenti nel Regno Unito, e negli stessi anni quello francese, che peraltro vedeva nelle colonie del Nord Africa le percentuali più alte di coloni francesi, circa 95 milioni di abitanti a fronte dei 40 milioni residenti in Francia. Nel primo caso emerge quindi una politica coloniale, basata su una presenza ridotta di militari e personale tecnico amministrativo preposti allo sfruttamento delle risorse locali ed al controllo, sempre molto ferreo, delle popolazioni locali. Nel secondo, applicabile anche a quelle, sparute, italiane, la colonia era anche vista come un territorio nel quale insediare quote significative di cittadini della madre patria per risolvere problematiche occupazionali ed economiche interne. E’ comunque questo il quadro di riferimento per entrare nel dettaglio del regime delle disuguaglianze che in tutte le società considerate, schiaviste e coloniali dei due tipi, hanno qui raggiunto in generale le punte massime mai registrate nella storia. Alcuni dati per cogliere questa evidenza: a Santo Domingo, dove nel 1790 la percentuale di schiavi superava il 90%, (vedi Grafico 22) la sparuta minoranza di coloni francesi si appropriava dell’80% della ricchezza prodotta con il 20% residuo che a malapena garantiva la mera sopravvivenza del 90% schiavizzato. Analoghe percentuali sono riscontrabili in tutte le società schiaviste delle Antille e dell’Oceano Indiano. Appena leggermente diversa era la situazione nelle società schiaviste, come il Brasile e gli Stati del Sud degli USA, che avevano una percentuale di schiavi inferiore (sempre Grafico 22), qui il decile superiore si “accontentava” di una percentuale di ricchezza intorno al 60-70%. Questo dato storico vale come utile riferimento per cogliere la dinamica storica che, sul terreno delle disuguaglianze economiche, si è evoluta con il passaggio alle società coloniali. Un primo grafico permette di coglierla mettendo a raffronto la quota di ricchezza posseduta dal 50% più povero, dal 40% medio e dal 10% più ricco in tre situazioni esemplari: Haiti 1780, pieno schiavismo, Algeria 1930, culmine vicenda coloniale, Francia 1910, come si è visto nella Parte Prima, il punto più alto di disuguaglianza raggiunto in piena epoca proprietaristica, la Belle Epoque:

                                                                   Grafico 25


Appare visivamente evidente che la situazione dell’Algeria, emblematica colonia francese, è, soprattutto grazie al peso di un ceto medio in buona misura rappresentato da autoctoni reclutati nell’amministrazione pubblica algerina, abbastanza distante da quella davvero tragica di Haiti, ma con un livello di disuguaglianza pur sempre di molto superiore a quella francese del 1910. Questa situazione, già del suo paradigmatica, acquista ancora più evidenza se inserita in un contesto spazio-temporale più ampio, è quanto si coglie nel seguente grafico che mette a confronto la quota di ricchezza annuale detenuta dal decile superiore in una scala che va dalla massima disuguaglianza rilevata, Haiti 1780, a quella storicamente più bassa registrata in Svezia negli anni Ottanta del Novecento

Grafico 26


Anticipando le considerazioni che P. svilupperà nella prossima Parte dedicata alla “Grande trasformazione del 1900” questo grafico permette di cogliere bene la “commistione” che, lasciata alle spalle la tragedia schiavista di Haiti 1780, vede mescolate situazioni contemporanee con quelle rilevate al culmine delle vicende coloniali ed infine il dato “a sé stante” della Svezia. Per quanto concerne le società coloniali va sempre sottolineato che, in aggiunta alla evidente disuguaglianza economica, il decile superiore è composto esclusivamente dai coloni più ricchi. Il successivo grafico consente, fermo restando questo aspetto, di mettere a confronto le traiettorie di alcune ex colonie con quella francese rilevandone la percentuale in capo al decile superiore ad una data nel pieno della fase coloniale con una a questa successiva

Grafico 27

Se si rileva per tutte le ex colonie una fisiologica riduzione della concentrazione di ricchezza, a fronte dell’ormai insostenibile livello raggiunto nel periodo coloniale, è pur vero che tale riduzione non appare così radicale e che, analogamente con il percorso francese e con il quadro globale, gli anni duemila vedono una significativa ripresa verso l’alto.

Massima disuguaglianza nella proprietà, massima disuguaglianza nel reddito

Questi stessi dati, che confermano la caratteristica delle società coloniali, per non dire di quelle schiaviste, di essere le società con i livelli massimi di disuguaglianza raggiunta nella storia, richiedono, secondo P., una fondamentale distinzione fra il problema della ripartizione della proprietà da quello della ripartizione del reddito. La prima di queste due disuguaglianze, quella della proprietà, consiste nel livello di concentrazione, nelle mani del 10% più ricco, ed al suo interno dell’1% più ricco, di tutta la ricchezza privatamente possedibile in una determinata società. A livello teorico un alto livello di questa disuguaglianza pone evidenti problemi politici ed ideologici, ma dal punto di vista dell’esistenza materiale non necessariamente implica una situazione ingestibile. Nel senso che, anche immaginando una situazione di totale concentrazione del 100% della ricchezza nelle mani del 10% più ricco, ma fatto inevitabilmente salvo il livello minimo di sussistenza per il 90% restante, un adeguato potere di repressione, o di persuasione, può contenere la tensione sociale che ne deriva. La disuguaglianza di proprietà è quindi innanzitutto una disuguaglianza di potere. Diverso è invece il contesto per il livello di disuguaglianza del reddito, ossia del livello di concentrazione della ricchezza prodotta in una determinata società in un anno. Se, come si è detto, è possibile, a livello teorico, vivere senza possedere nulla non è viceversa possibile, per ragioni di mera sopravvivenza fisica degli esclusi, immaginare una analoga concentrazione del reddito prodotto. In una società molto povera che produce il solo reddito di sopravvivenza di fatto non può esservi disuguaglianza. Solo se la società è progressivamente più ricca diventa possibile sostenere una parallela progressione della disuguaglianza da reddito. Il seguente grafico consente di visualizzare il rapporto tra il livello di reddito prodotto e la sua concentrazione in capo al 10% ed all’1% più ricchi, è la curva della disuguaglianza massima

Grafico 28

Se, come si è appena detto, il reddito prodotto fosse pari ad 1, ossia al livello minimo per la sopravvivenza di tutta la società non potrebbero sussistere condizioni per l’emergere di disuguaglianze, la progressione della loro curva, sempre fatto salvo il mantenimento della quota di ricchezza necessaria per la sopravvivenza del restante 90% della popolazione, è matematicamente legata alla progressione del reddito prodotto. Per sostenere i massimi livelli di concentrazione del reddito, sin qui riscontrati in tutte le situazioni storiche esaminate e pari al 60%-70%, è quindi necessario che la ricchezza prodotta sia almeno tre volte tanto quella necessaria per la sopravvivenza del restante 90% della popolazione. A completamento di questo aspetto analitico occorre precisare che la nozione di “reddito di sussistenza” non è comunque un valore esclusivamente matematico, in quanto in esso confluiscono elementi che variano, anche di molto, in relazione allo specifico contesto sociale storico. Vale a dire che se resta importante la valutazione matematica della sostenibilità delle disuguaglianze, il ruolo della capacità ideologica, politica ed istituzionale di giustificare e strutturare la disuguaglianza, in tutte le sue articolazioni istituzionali e sociali, resta fondamentale, tanto da renderla possibile anche indipendentemente dai vincoli strettamente economici e tecnologici. La lezione storica ricavabile dalle società schiaviste e coloniali è esattamente questa: il peso delle condizioni di potere politico ed ideologico

I bilanci coloniali

Tornando quindi alla concreta evoluzione delle società coloniali quanto evidenziato nel paragrafo precedente diventa evidente nell’analisi dei bilanci coloniali i quali dimostrano quanto sia stata falsa e strumentale la principale giustificazione ideologica avanzata dalle potenze coloniali: quella della “missione colonizzatrice”, vale a dire della presunta vocazione a promuovere lo sviluppo economico delle popolazioni colonizzate grazie alla diffusione, attuata “a fin di bene” dai colonizzatori, della scienza, del sapere, della tecnologia. I bilanci raccontano tutt’altra storia. A supporto della giustificazione “colonizzatrice” è stato infatti vantato il costante equilibrio dei bilanci coloniali, ovviamente statali le ricchezze private non rientrano di certo in questo conteggio, vale a dire bilanci in cui tutto quanto il raccolto delle imposte locali veniva speso “in loco”. L’esame di questi bilanci fatta da P., e dall’insieme delle ricerche di cui si è detto nell’Introduzione, ha evidenziato evidenti contraddizioni sia sul fronte delle entrate che delle uscite. La tassa coloniale standard era una tassa “piatta”, la fantomatica “flat tax”, di cui molto si parla di questi tempi, vale dire una percentuale di prelievo fiscale pro-capite uguale per tutti, ossia la forma più grezza di tassazione già superata in Europa nel 1700 ancora in pieno Ancient Régime. Per le colonie ciò ha semplicemente significato che le entrate fiscali erano di fatto quasi totalmente coperte dai colonizzati. Al contempo le voci in uscita che di più incidevano sul bilancio erano quelle per il mantenimento dell’apparato amministrativo coloniale e delle truppe di occupazione. Vale a dire che i colonizzati pagavano per intero chi li vessava e li controllava. Gli investimenti sulle infrastrutture, in alcuni casi anche importanti e vantati come testimonianza della “missione colonizzatrice”, sono stati però del tutto funzionali al prelievo e trasporto, in prevalenza verso la madre patria, delle risorse locali. Ma è la spesa per l’istruzione, ossia l’investimento più significativo per una vera finalità di avanzamento sociale ed economico dei colonizzati, quella che al contrario meglio testimonia questa ipocrisia ideologica. Ne è evidente testimonianza questo raffronto fra il livello di spesa per l’istruzione sostenuto nella madre patria con quello di una delle colonia più importanti per l’Impero francese, l’Algeria

Grafico 29


Il raffronto è davvero impietoso: in Algeria, nel 1950 al culmine storico della occupazione coloniale, la spesa per l’istruzione era assorbita per più dell’80% dal decile più ricco, vale a dire i locali coloni, mentre in Francia nel 1910, ossia nella fase di maggiore disuguaglianza della società dei proprietari, il decile più ricco contava “solo” sul 38% della spesa, poco più di quanto destinato al ceto medio, ed al 50% più povero comunque era assegnato un 26% che valeva da solo ben più dell’insieme della spesa algerina per il 90% della popolazione locale. Questo dato algerino rappresenta il quadro standard di tutte le società coloniali.

Lo sfruttamento schiavista e coloniale in prospettiva storica

E’ pur vero che questa condizione di sfruttamento in loco era facilmente soggetta a turbolenze di vario genere, le economie locali, improntate al massimo prelievo possibile di ricchezza, erano, per la loro attrattività di guadagno, caratterizzate da una forte, e spesso spietata, concorrenza in loco fra compagnie e privati. Molti dei romanzi di Marguerite Duras raccontano proprio le vicissitudini, spesso rovinosamente perdenti, di ricche famiglie di coloni. Per meglio cogliere la struttura economica delle società coloniali è quindi utile valutare, oltre ai bilanci locali delle colonie, anche la loro incidenza su quelli centrali delle potenze colonizzatrici, e quindi dei profitti finanziari, pubblici e privati, che furono tratti dalle colonie. Alcuni dati, emblematici di una tendenza storica condivisa e di lunga durata, rendono chiaro il quadro:

  • ·       nel 1790, all’indomani della Rivoluzione della “Egalitè” e della “Fraternitè”, le entrate dalle colonie, a margine netto detratte cioè tutte le spese collegabili, erano pari al 7% del bilancio statale della Francia
  • ·      nel decennio 1789-1790 l’incidenza di questi profitti sul bilancio nazionale inglese era pari al 4-5%
  • ·     passando poi al secondo periodo coloniale (1850-1960), quello della massima estensione dei possedimenti realizzati,  si rileva, come dato emblematico, che le attività oltremare costituivano il 20% dei patrimoni francesi

·      il seguente grafico evidenzia, raffrontandola con il percorso di altre nazioni, l’evoluzione storicadel valore dei possedimenti coloniali dei due Imperi coloniali per eccellenza: quello francese e quello inglese

Grafico 30

Va precisato che i dati di questo grafico, che riassumono l’evoluzione del valore delle proprietà possedute all’estero al netto di quelle interne detenute da proprietari esteri, solo per Regno Unito, Francia e Germania vanno intesi in riferimento a possedimenti “coloniali”, i dati di Giappone, USA e Cina sono stati inseriti al solo fine di evidenziare l’irripetibilità dei valori raggiunti nel pieno delle “società coloniali”. Ed è questo l’aspetto più rilevante a giudizio di P.: la specifica struttura delle disuguaglianze di una buona parte delle nazioni europee è stata fortemente condizionata dall’ammontare delle risorse provenienti dalle colonie e quasi esclusivamente rimaste a disposizione del decile già più ricco. Dal grafico 30 si può ad esempio rilevare che nel 1914, alla vigilia della Prima Guerra, il saldo attivo fra i titoli detenuti all’estero e quelli interni detenuti dall’estero valeva per il Regno Unito il 180% del reddito nazionale, vale a dire quasi due anni di PIL, per la Francia un significativo 120%, mentre la Germania, ultima arrivata nel novero delle potenze coloniali, doveva “accontentarsi” di un 40%. Ed è proprio il lungo conflitto prima europeo e poi mondiale, che inizia con la Prima Guerra e si chiude con la seconda con un assetto internazionale completamente mutato, che sancisce la definitiva scomparsa delle “società coloniali”. Dal secondo dopoguerra le nuove logiche di mercato, le diverse ideologie che le sostengono, disegnano un quadro dei rapporti fra paesi ricchi e paesi poveri non meno sbilanciato ma con livelli di “rapina” decisamente mutati. Il grafico 30 evidenzia bene questo cambiamento, le tre potenze più rappresentative del quadro di fine secolo ottengono ricavi percentuali decisamente inferiori. Il governo economico del mondo non resta meno concentrato ma ha altre forme e si articola su flussi diversi. Gli attivi nei bilanci del commercio con l’estero non servono solo più a trasferire ricchezza all’interno, ma sempre più spesso sono utilizzati per acquisire, all’interno di holding mondiali, fonti di ricchezza all’estero. P. chiude questo capitolo citando, anche in questo caso, un romanzo, “Questa terra dell’uomo” di Pramoedya Amanta Toer, che racconta magnificamente le contraddittorie relazioni tra i due protagonisti, l’indigena Sanikem ed il colono olandese Herman, nell’isola di Giava intorno il 1875, a testimonianza della brutalità delle disuguaglianza coloniale.

 

Capitolo 8

Società ternarie e coloniali: il caso dell’India

(In cui P.  si sofferma in modo approfondito sulle disuguaglianze, ternarie e coloniali, dell’India vista come caso esemplare dell’intreccio fra ideologie “antiche” e “moderne”. La sintesi che proponiamo di questo Capitolo è ancor più stringata per non appesantire oltre misura la lettura dell analisi, quella delle società coloniali, già sviluppata nei Capitoli precedenti.

L’invenzione dell’India

L’India è una situazione significativa non solo perché è dalla metà del XX secolo la “più grande democrazia del mondo”, non solo perché si avvia ad essere il paese più popoloso, ma per le specifiche caratteristiche della sua struttura delle disuguaglianze e della ideologia che la sostiene. Senza tentare di addentrarsi nella ricostruzione delle complicate vicende storiche che l’hanno preceduta - ancora nel XVIII secolo, mentre le truppe britanniche ne stavano completando l’occupazione tutto il sub-continente indiano era diviso in numerosi Stati, indù e mussulmani – il nome India ha assunto una sua specifica connotazione nazionale, unitamente a quelle del Pakistan e del Bangladesh, solo nel 1947 con la fine del Raj britannico, l’Impero anglo-indiano. In un certo qual senso quindi l’occupazione coloniale inglese è stata la vera creatrice dell’attuale Repubblica Indipendente dell’India avendone unificata l’estensione territoriale. Una nazione che, anche per quanto concerne la struttura delle disuguaglianze, non può essere compresa senza tenere nella più alta considerazione possibile il suo panorama storico-religioso. Il seguente grafico, relativo all’incidenza percentuale di induisti – mussulmani – altre religioni sul totale della popolazione, aiuta a visualizzare questo sua fondamentale aspetto

                                                                    Grafico 31

Vero è che nella denominazione “induista” confluiscono, secondo i criteri dei censimenti, tutti coloro che non dichiarano apertamente di appartenere ad altre religioni ufficiali ma è indubbio che, con frequenti tensioni anche violente con le altre confessioni, è lecito definire l’India un paese induista. Questo aspetto, coniugato con la fortissima influenza della religione sull’intero vivere sociale, ha determinato in modo decisivo la struttura delle disuguaglianze indiane. Il “libro” della religione indù, il “Manusmriti” o “Codice delle Leggi”, indica con chiarezza la divisione di tutti i fedeli in quattro “varna”, quattro caste,. Ad ogni casta corrisponde una precisa funzione sociale. Alla prima casta appartengono i “bramini”, i sacerdoti, addetti a tutte le funzioni intellettuali, alla seconda i “kshatriya”, i guerrieri, cui fanno capo l’ordine e la sicurezza, alla terza i “vaishya”, i lavoratori del commercio e dell’artigianato, ed infine la quarta, la più umile, quella dei “shadra”, alla quale spetta il compito di essere al servizio delle altre tre. Agli appartenenti a queste è garantita, grazie al loro “nascere due volte”, grazie al rito dell’ “iniziazione”, la loro eterna immutabilità sociale, ai soli “shadra” resta la speranza di una vita migliore in futuro grazie alla “reincarnazione”. Si è già visto nel commento Grafico 8 della Parte Prima che i Bramini, a differenza del clero occidentale, rappresentano una classe sociale a tutti gli effetti in quanto era loro riconosciuto il diritto di sposarsi, di arricchirsi e di trasmettere patrimoni per via ereditaria, fino al punto di aver costituito fino alle soglie dell’Indipendenza indiana la vera classe dirigente indiana. Come per la “società trifunzionale” occidentale questa suddivisione sociale, in effetti “trifunzionale” se si inglobano, come nella realtà avveniva, le ultime due classi in quella unica dei “lavoratori”, era il fulcro, di ispirazione religiosa, di un dispositivo ideologico che giustificava pienamente, ed in modo non contestabile, la struttura delle disuguaglianze. In effetti la società indiana è da sempre articolata in un insieme di categorie e identità sociali molto più complesso della divisione in quattro caste, al cui interno si muovono incessantemente figure sociali, denominate “jàiti”, definite dal concreto ruolo sociale svolto nelle singole realtà locali. I censimenti introdotti dall’Impero britannico, dopo una prima ripartizione nelle quattro caste, le sole conosciute al momento iniziale dell’occupazione coloniale, hanno progressivamente registrato migliaia di jàti a comporre una stratificazione sociale del tutto unica e non paragonabile a quella occidentale. Banalmente lo stesso lavoro, la stessa mansione, aveva, ed ancora ha, molte declinazioni sociali a seconda della comunità locale in veniva svolta. Questo ha implicato una mobilità sociale più ampia, seppure ristretta nell’ambito dell’appartenenza di casta, di quella da questa ufficialmente sancita, a comporre un quadro che ha comunque attraversato pressochè intatto tutta la fase coloniale consegnando alle complessità contemporanee un’India storicamente impossibilitata ad evolversi, come per l’Europa, nella fase intermedia della “società dei proprietari”. Il seguente grafico, basato sulle dichiarazioni di appartenenza di casta rese nei censimenti, evidenza infatti, con riferimento alle quattro caste, il peso in percentuale sul totale della popolazione e la costante stabilità di divisione sociale e della collegata disuguaglianza

Grafico 32

L’India indipendente ha in effetti attuato da subito politiche volte a correggere il quadro sociale ereditato dal passato per eliminare quantomeno gli aspetti più eclatanti della divisione per caste. Sono stati introdotte leggi per abolire i privilegi di casta e attuate politiche per migliorare i servizi pubblici di istruzione, sanità e assistenza sociale per le due caste basse, va da sé non senza problemi e  limiti, dovuti alle ristrettezze finanziarie ed ai numeri impressionanti delle persone coinvolte. Sono inoltre rimaste aperte gravi contraddizioni a partire dalle occasioni per il riaffacciarsi di continue tensioni con la minoranza mussulmana. Ma l’insieme delle politiche adottate, raggruppate nella parola d’ordine “discriminazione positiva”, ha consentito, riducendo i privilegi delle due classi alte, di coinvolgere positivamente il 70% della popolazione delle due classi basse. Nella successiva Parte Quarta P. riprenderà in esame la situazione indiana nell’ambito dell’analisi dell’attuale struttura mondiale delle disuguaglianze, ma comunque già evidenzia in questo Capitolo l’insufficienza ideologica delle azioni intraprese. Il cumolo delle disuguaglianze indiane si basa certamente sulla “discriminazione negativa”, retaggio del passato lasciato del tutto intatto dalla fase coloniale, ma anche sulla altissima diversità di ricchezza patrimoniale per nulla toccata dalle riforme messe in atto, quella fiscale in primis. La ragione ideologica avanzata è del tutto simile a quella europea al formarsi della “società dei proprietari, vale a dire il timore che politiche attive di redistribuzione della ricchezza si trasformino in un incontrollabile “scoperchiamento del vaso di Pandora”. Non a caso ancora ai primi del 2000 lo slogan del partito BSP, rappresentante delle due caste basse nell’Uttar Pradesh, recitava “Sacerdoti, mercanti, soldati, cacciamoli via per sempre”, a testimoniare ferite tutt’altro che lenite.

 

Capitolo 9

Società ternarie e coloniali: traiettorie euroasiatiche

(In cui P.  , prima di iniziare ad affrontare la crisi delle società proprietaristiche e coloniali completa l’analisi globale del colonialismo e delle sue conseguenze sull’evoluzione delle disuguaglianze nei paesi extraeuropei. Anche per questo Capitolo la sintesi sarà la più stringata possibile anche in relazione al fatto che molte delle tematiche saranno comunque riprese nelle Parti successive

Il colonialismo, il predominio militare e la ricchezza occidentale

Prima di completare la panoramica globale dell’effetto sulla struttura delle disuguaglianze per i paesi investiti dalla occupazione coloniale P. analizza le ragioni storiche, le ideologie che le hanno sostenute, e le convenienze economiche che hanno determinato, delle politiche coloniali europee. La domanda di fondo può essere tradotta nel chiedersi come sia stato possibile che alcune potenze europee sia state in grado di imporre il loro controllo coloniale non solo sulle parti del mondo precedentemente occupate da società relativamente deboli ed in netto ritardo tecnologico, ma anche su zone sotto il controllo di imperi millenari di grande estensione e di notevole cultura anche tecnologica. In precedenza P. ha ritenuto opportuno suddividere l’esperienza coloniale europea in due distinte fasi: una prima che inizia all’alba del Cinquecento con l’apertura della vie marittime transoceaniche e termina tra il 1800 ed il 1850, che investe totalmente il continente americano e che inizia a porre le basi per la successiva espansione globale, ed una seconda che succede temporalmente alla prima per terminare tra il 1900 ed il 1940 e che “colonizza” in pratica l’intero pianeta. E’ soprattutto su questa seconda fase che P. concentra la sua attenzione in questo Capitolo. La tesi che qui sostiene, riprendendo analisi diffusamente condivise nell’ambito degli studi storici, è quella che ritiene che, paradossalmente, la divisione europea in molti Stati, relativamente piccoli ed in perenne contrasto, anche bellico, fra di loro, sia stata la molla, ideologica e concretamente operativa, per il successivo successo coloniale, reso possibile proprio dalla capacità fiscale ed amministrativa messa in atto per fronteggiare le dinamiche interne europee. L’analisi storica di lungo periodo dei bilanci statali evidenzia che un prelievo fiscale che si assesti attorno a percentuali non superiori al 2%-3%, con le risapute differenze di classe al loro interno, non consente di rafforzare più di tanto la struttura statale e quindi le funzioni da esso attivabili. Queste percentuali sono state quelle effettivamente praticate dalla maggior parte degli Stati di tutto il pianeta, salvo prelievi forzosi temporalmente limitati a specifiche esigenze, e tali sono rimaste, fino al XIX secolo, per tutti quelli extraeuropei mentre, a partire dal 1500 quelli europei, per fronteggiare le costanti spese, soprattutto militari, connesse con la conflittualità di cui si è detto, sono stati costretti ad aumentarle significativamente. Consente di visualizzare questi distinti trend il seguente grafico, che mette a confronto le entrate fiscali delle tre potenze europee più attive nella seconda fase coloniale con quelle dei due più grandi imperi exxtraeuropei colpiti dall’espansione coloniale (la specifica situazione dell’India è stata analizzata nel precedente Capitolo 8) calcolate sul livello di prelievo in giornate di salario di un lavoratore non qualificato, essendo il raffronto sulle entrate monetario di difficile attuazione stante la notevole diversità delle valute

Grafico 33

Tradotte, nei limiti del possibile, in percentuali di prelievo fiscale le curve evidenziano che i tre paesi coloniali europei iniziano ad elevarle, dalla comune base di partenza dell’1%-2% attorno al 1500, al 6%-8% verso il 1750 per poi balzare all’8%-10% del 1850. I due Imperi extraeuropei si mantengono costanti, lungo l’intero arco temporale in esame, attorno a valori percentuali del 2%. Appare quindi possibile affermare che le pressioni derivanti dai molti secoli di dispute territoriali europei siano state la molla per arrivare ad un gettito fiscale in grado di approntare un apparato militare, ed una collegata struttura amministrativa, decisamente consistente e spendibile in più direzioni. Mentre, negli stessi secoli, la relativa tranquillità di controllo dei propri territori imperiali non è stata di adeguato stimolo ad analoghi potenziamento e ammodernamento per i due grandi Imperi esaminati. I quali all’appuntamento della storia che li ha visti fronteggiare l’invadenza europea sono pertanto arrivati in condizioni di evidente inferiorità. La consapevolezza di disporre di un potenziale molto elevato coniugata con quella dell’importanza di assicurarsi fonti costanti delle risorse sempre più necessarie alla crescita economica sono alla base del definirsi delle logiche coloniali europee. Non per nulla è infatti opinione condivisa dagli storici quella che la stessa Rivoluzione Industriale sia stata possibile anche grazie all’utilizzo su vasta scala di materie prime, in primis cotone, ed energetiche, soprattutto legname, provenienti dal resto del mondo, e che essa vada quindi considerata come l’esito di una stretta interazione tra Europa, America, Africa ed Asia che ha però premiato, ancora per tutto il XX secolo, solamente l’Europa. Questo è, secondo P., il quadro d’insieme che coniuga potenza militare, solidità dell’apparato statale, crescita economica, ideologia di espansione aggressiva, vale a dire le doti alla base delle logiche coloniali europee della seconda fase del colonialismo. I cui effetti sul resto del mondo, dopo il già devastante impatto su Africa ed America della prima fase, non tardano a farsi sentire sull’intera scena mondiale. Dell’India si è detto l’attenzione si sposta quindi su Cina, Giappone e Medio Oriente.

                           La società trifunzionale e la costruzione dello Stato cinese

P. anticipa che nelle Parti Terza e Quarta alla Cina sarà dedicato ampio spazio stante la sua originale struttura delle disuguaglianze maturata nel corso della seconda parte del XX secolo. Questa originalità non è però spiegabile solamente con la Rivoluzione comunista e l’adozione di una particolare economia di mercato, incidono infatti alcuni elementi ereditati dalle struttura sociali precedenti. Anche per queste la Cina è un caso a sé stante. Per tutta la sua storia questo immenso paese, che vanta una cultura avanzatissima fin da molti millenni addietro, è stato un Impero, per alcuni periodi costituito da un insieme di sottostanti Regni, decisamente organizzato secondo una configurazione ideologica trifunzionale ma con alcune originali caratteristiche. Alla base delle quali sta l’influenza, consistente e perdurante, del confucianesimo, una autentica “saggezza civica da non confondere con una “normale” religione monoteista, che ha ispirato l’ideologia e la concreta gestione dell’Impero cinese fin dal V secolo a.e.c. L’essenza del confucianesimo come ideologia dell’ordine politico consiste nel ruolo centrale che assegna a scienziati e letterati che costituiscono l’effettiva struttura statale, la quale deve essere ispirata alla conservazione delle usanze ed al rispetto verso la proprietà. La struttura trifunzionale cinese poggia quindi, accanto al ceto signorile dei guerrieri e al resto della popolazione lavoratrice, non su una sorta di clero ma su un ceto di “saggi”, rigorosamente selezionati attraverso esami e concorsi, che assicura l’insieme delle attività statali. Va inoltre precisato che le consistenze demografiche delle due classi alte cinesi non hanno mai raggiunto livelli tali da rendere ingestibile la conservazione dello status quo sociale. Il ceto dei “saggi” non è mai stato superiore allo 0,01% della popolazione, mentre la classe nobiliare dei guerrieri si è storicamente assestata attorno al 3%. Il confucianesimo è, proprio per le sue concezioni ideologiche e filosofiche, sostanzialmente una ideologia conservatrice, aspetto che per la Cina ha comportato un costante immobilismo sociale in una economia che ha così mantenuto, anche nei secoli della modernità europea, una impronta rurale ed al più commerciale. Il precedente Grafico 33 ha inoltre evidenziato il permanere di un livello di prelievo fiscale decisamente basso, tale quindi da consentire a malapena il mantenimento degli organismi imperiali, esercito e ceto dei “saggi” compresi. Il connubio fra questi due elementi, ideologia confuciana e ridotte risorse finanziarie statali, ha posto la Cina in inevitabile posizione di inferiorità di fronte alle mire coloniali europee a partire dal XVII secolo. La vastità dell’Impero coniugata con la possibilità di attuare accordi commerciali estremamente favorevoli, i cosiddetti “trattati diseguali” imposti da una sorta di “alleanza coloniale” che raggruppava tutte le potenze europee al termine delle “guerre dell’oppio” (una droga diffusamente utilizzata in Cina divenuta un merce prodotta e commercializzata, con la forza delle armi, dalle vicine colonie orientali europee,  dopo infruttuosi tentativi cinesi di  messa al bando) hanno infatti reso superflua e non conveniente una occupazione coloniale “classica”. Questo particolare sistema di controllo coloniale, per quanto particolare e per certi aspetti meno asfissiante, ha comunque ulteriormente impedito alla Cina la possibilità, già frenata da confucianesimo e mancanza di risorse, di una evoluzione della struttura delle disuguaglianze. Non sono conseguentemente mancate tensioni e conflitti sociali nel corso della millenaria storia cinese, ma solo con l’aggravio dello sfruttamento coloniale sono assurti a livelli tali da imporre progressivi cambiamenti. A partire dalla “rivolta di Taiping”, 1850-1864, una sollevazione dei contadini poveri che fece circa trenta milioni di morti su una popolazione totale di quattrocento milioni, e che fu così estesa e potente da indurre lo stesso Marx ad affermare nel 1853 che la rivoluzione totale cinese fosse ormai matura, e poi passando per altre successive numerose  rivolte, la più famosa delle quali è la “ rivolta dei boxer” del 1899-1901, la tensione sociale è cresciuta senza sosta fino a sfociare nella vincente rivoluzione popolare del 1911. La definitiva caduta dell’Impero e la nascita della Repubblica di Cina non sanciscono, nonostante le speranze delle classi povere, un autentico cambio di rotta. L’ideologia alla base della Costituzione cinese del 1911, ovviamente caldamente incoraggiata dal persistere del controllo coloniale europeo, è infatti fortemente ispirata da una visione “proprietaristica” dei rapporti economici e sociali. Solo il successivo precipitare degli eventi storici nel dramma della Prima Guerra e subito dopo nell’aggressività imperialistica giapponese, con la crudele occupazione della Manciuria nel 1831, impediscono, non diversamente da quanto successo in India, l’instaurarsi di una “società dei proprietari”, analoga a quella Europa, portando la Cina verso una evoluzione che sfocerà in tutt’altro modello sociale.

Il Giappone e la modernizzazione accelerata di una società ternaria

Anche le situazioni dell’India e della Cina esaminate in precedenza confermano la diffusione globale, e di lunga durata, della forma di “società ternaria o trifunzionale”, seppure articolata localmente con parziali varianti, ed al tempo stesso il ruolo fondamentale delle politiche coloniali europee, che da tale forma di società sono precedentemente uscite con percorsi endogeni, nel promuovere processi forzati del loro superamento da parte dei paesi colonizzati. Non diverso è il caso del Giappone. L’Impero giapponese del periodo Edo, formatosi al termine di un lungo periodo feudale, si è presentato, per tutto il periodo della sua esistenza 1600-1868, come una società fortemente gerarchizzata di tipo trifunzionale, ma, a differenza di quanto visto in Cina ed in India, caratterizzata dalla indiscussa prevalenza, capace di ridimensionare il ruolo dello stesso Imperatore, della nobiltà guerriera degli “shogun”, che incidevano sul totale della popolazione per un consistente 5%-6%, affiancati da una classe di religiosi, sacerdoti shintoisti e monaci buddisti, che rappresentava non più dell’1%-1,5% del popolo giapponese, per il resto composto dalla classe lavoratrice divisa, in modo molto più accentuato rispetto alle altre situazioni esaminate, fra lavoratori urbani e rurali, con questi ultimi relegati ad uno status paragonabile a quello degli “intoccabili” indiani. Questa strutturazione sociale è stata investita verso la metà del 1800 dall’ultima arrivata nel novero delle potenze coloniali, gli USA che, in due veloci conflitti, ancora una volta grazie alla notevole disparità tecnologica in campo, impongono le consolidate relazioni commerciali di sfruttamento coloniale senza però ricorrere alla occupazione diretta del Giappone. L’impatto del “protettorato” americano colpisce profondamente il forte orgoglio nazionale giapponese segnando la fine del periodo Edo e, a partire dal 1868, l’avvento dell’epoca Meiji che rimette al centro del potere politico la figura dell’Imperatore affiancato da due Camere di rappresentanza, sulla falsariga di quelle europee, quella dei Pari, gli eredi dei shogun, e quella dei Rappresentanti a base fortemente censitaria. Si avvia con questi protagonisti un periodo di profonde ed articolate riforme ispirate dal senso di rivalsa giapponese, finalizzate a recuperare il ritardo tecnologico ed economico con l’Occidente, ed in qualche modo obbligate a mitigare la struttura delle disuguaglianze del precedente periodo trifunzionale Senza idealizzare la politica di integrazione sociale, basata soprattutto sull’istruzione di massa, in grado comunque di superare l’anacronistica divisione tra lavoratori urbani e rurali, va riconosciuto che nel giro di pochi decenni il Giappone, che è comunque rimasto una società fortemente gerarchizzata, è riuscito a recuperare in gran misura il pesante gap nei confronti dell’Occidente, nonostante la persistente incidenza del peso coloniale statunitense. Anche in questo caso, seppure con un percorso decisamente particolare l’uscita dalla forma di società ternaria non è quindi avvenuta attraverso l’europeo passaggio nella società proprietaristica, ma ha catapultato il Giappone direttamente nelle strutture sociali, e delle disuguaglianze, tipiche del XX secolo, quelle che saranno analizzate nella prossima Parte Terza. Un tratto costitutivo della, originaria ed originale, strutturazione sociale giapponese è comunque rimasta: l’eredità dell’ideologia shogun ha improntato il processo giapponese dei primi decenni del Novecento di modernizzazione di un fortissimo nazionalismo e di una dominante impostazione militaristica, i cui effetti si dimostreranno evidenti nel XX secolo orientale.

Proprietarismo e colonialismo: la globalizzazione della disuguaglianza

Prima di ripercorrere a chiusura di questo capitolo i tratti generali delle società coloniali, e della loro profonda influenza sulla struttura globale delle disuguaglianze, P. tratteggia alcune caratteristiche di due situazioni non meno significative della fase coloniale: i paesi mussulmani del Medio Oriente e l’apartheid sudafricano, che qui riassumiamo in forma ancor più sintetica. Per quanto concerne i primi è ben nota la profonda influenza della religione mussulmana su ogni aspetto della vita collettiva, economia e struttura delle disuguaglianze comprese, con una profonda diversità fra quelli ad ispirazione “sunnita” e quelli ad ispirazione “sciita”. Se in questi secondi riveste un ruolo decisivo l’élite clericale degli iman e dei mujtahid, tale da consentire il ricorso ad una definizione di “società bifunzionale” con il solo clero sciita a ricoprire le funzioni di guida ideologica e di gestione amministrativa, e tutto il resto del popolo chiamato ad essere lavoratore piuttosto che guerriero, nei primi è invece rintracciabile la configurazione più classica di “società ternaria”, con un clero fortemente ridimensionato rispetto alla nobiltà guerriera ed una struttura del potere molto gerarchizzata con al suo vertice la figura del califfo. Entrambe queste situazioni, proprio per la forte influenza conservatrice del credo religioso mussulmano, sono rimaste sostanzialmente bloccate fino al XIX secolo allorquando le mire coloniali francesi, britanniche e russe, dopo aver progressivamente smembrato il precedente impero ottomano, hanno imposto un ferreo controllo militare, specialmente dopo la scoperta del petrolio nel 1908, ed una ripartizione territoriale, attuata al termine della Prima Guerra, basata su Stati “inventati” del tutto slegata quindi dalle reali configurazioni etniche. La sommatoria di divisioni religiose e configurazioni statali fittizie ha mantenuto lo status quo sociale, con una quota elevatissima della ricchezza in mano straniera, fino al secondo dopoguerra quando tutto, come si vedrà, sarà rimescolato da un quadro internazionale completamente mutato. Del tutto anomala è invece la vicenda sudafricana, che vede affermarsi nel secondo dopoguerra una sorta di colonialismo di ritorno proprio nella fase storica in cui il colonialismo stava arrivando al suo culmine per poi velocemente scomparire, perlomeno nella sua forma classica. Nel Sudafrica il colonialismo inglese e quello olandese-boero hanno imposto una delle forme di disuguaglianza più estrema del tutto basata su logiche ideologiche proprietaristiche. Il noto regime dell’Apartheid altro non è stato che la risposta, cinicamente razionale, dei proprietari coloni alla insostenibilità del vecchio regime coloniale. Questo regime sanciva la divisione rigorosa del territorio in una zona, pari al 93% del paese, di esclusiva proprietà dei coloni “bianchi”, il 20% della popolazione, va da sé quella più ricca, ed una seconda zona pari al 7% del territorio nella quale era confinato il restante 80% della popolazione “nera” ridotta a condizioni di fortissima indigenza. Un regime quindi che ha unito l’ideologia proprietaristica più brutale con una sfacciatamente razzista.

Conclusioni

L’esame sin qui condotto delle diverse traiettorie con le quali in tutto il mondo è stata progressivamente la forma della  “società ternaria” ha evidenziato in modo chiaro che tutti questi percorsi, per quanto caratterizzati da elementi specifici, richiedono un comune indispensabile elemento: quello di dare un senso alla proprie disuguaglianze grazie a narrazioni che vengono elaborate mirando ad un concetto di “bene comune” che universalmente è però votato alla giustificazione delle classi dominanti. In aggiunta a questa considerazione di carattere generale questi stessi percorsi, che si completano ognuno con le proprie specifiche caratteristiche nei primissimi decenni del 1900, hanno determinato scenari socio-economici e politico-ideologici che ormai disegnano in modo pressochè omogeneo, o quantomeno fortemente intrecciato, la struttura delle disuguaglianze del mondo del XX secolo. Quello che P. si accinge ad analizzare nella seguente Parte Terza.


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