Le recenti impressionanti alluvioni che hanno interessato buona parte
dell’Europa centrale sono l’ennesima riprova della drammatica evoluzione del
cambiamento climatico. Ed ancora una volta sono state una inequivocabile
evidenza della insufficiente risposta che le comunità umane stanno mettendo in
atto. Dopo diversi decenni di ripetuti e sempre più precisi richiami all’azione
immediata da parte delle discipline scientifiche che studiano questi fenomeni,
dopo il continuo succedersi di avvenimenti in ogni parte del mondo che
confermano le peggiori previsioni, ancora si stenta a cogliere anche solo una
adeguata presa di coscienza della gravità della situazione per non dire delle conseguenti
azioni concrete. Si è ancora in una fase in cui prevalgono appelli e proclami, si
è ancora fermi a “buone intenzioni” tradotte però in azioni concrete del tutto
insufficienti ed inadeguate. Lo stesso tanto sbandierato “New green deal”
europeo rischia, come attestano le cronache di questi giorni, di essere
fortemente frenato da logiche nazionalistiche molto più attente ai “costi economici”
che all’emergenza climatica, in linea peraltro con la contraddittoria logica
che lo ispira, quella di conciliare il mantenimento ad ogni costo della “crescita”
con la difesa ambientale. Per sperare di realizzare compiutamente nei prossimi
dieci/vent’anni una svolta vera, in grado quantomeno di mitigare le pesanti
conseguenze che in ogni caso colpiranno pesantemente l’intero pianeta, è sempre
più urgente che le coscienze individuali e collettive di tutta l’umanità si
interroghino con coraggio e che, conseguentemente, istituzioni e poteri
adottino concrete politiche rigorose e senza sconti. E’ in buona misura scoraggiante
e deprimente essere ancora fermi a questa constatazione, al dover proporre
elementi di riflessione in questo senso. Eppure così è se vi pare. Anche l’articolo
che qui di seguito proponiamo va in questa direzione proponendo una sintetica ricostruzione
storica di quanto finora NON si è fatto, l’individuazione di alcuni fattori di
vario genere che hanno fatto da freno e di altri che potrebbero essere al
contrario di aiuto, ed infine una proposta di carattere istituzionale
finalizzata a superare lo stallo provocato dalle logiche nazionalistiche. L’appello
lanciato dai luoghi del disastro da Angela Merkel su un più marcato ruolo dalla
UE ci sembra che vada esattamente in questa direzione
Perché la lotta alla crisi climatica
è una sfida etica e politica
Articolo di Alessio Giacometti (sociologo, editorialista, attento
alle problematiche ambientali, scrive su “Il Tascabile”, la newsletter MEDUSA,
Le Macchine Volanti, Singola e altre riviste).
Il prossimo primo novembre è una data tra le più
importanti e attese dell’anno per chi si occupa di riscaldamento globale: a
Glasgow, prenderà avvio la ventiseiesima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti
climatici, meglio nota con l’acronimo COP29. L’evento, rimandato di un
anno per via della pandemia di coronavirus, vedrà i leader della Terra riunirsi
tutti allo stesso tavolo, con l’ultimo report dell’Intergovernmental Panel on
Climate Change (IPCC) a portata di ciascuno, e all’ordine del giorno
l’obiettivo comune di disegnare articolate geometrie politiche per stabilizzare
la concentrazione atmosferica di gas a effetto serra. È un rito annuale che si
ripete dal 1995, quando ad andare in scena fu la COP numero 1 di Berlino. Ma la
convinzione che con la diplomazia climatica si possa far fronte al
riscaldamento globale risale ancora più indietro, alla nascita della
Convenzione quadro sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite (Unfccc) in
occasione del Summit della Terra di Rio, nel 1992, e all’istituzione dello
stesso IPCC alla World Conference on the Changing Atmosphere del 1988.
Trent’anni e più di conferenze internazionali per il clima appaiono un lasso di
tempo sufficiente per trarne un bilancio, e porre magari la più scomoda e
diretta tra le domande: quella della diplomazia climatica è una
storia di un lento ma incontestabile successo, oppure di un disastroso
fallimento? Il giudizio di Dale Jamieson (professore di
filosofia e studi ambientali alla New York University) è tagliente: i tentativi di prevenire il
riscaldamento globale con la politica internazionale sono tutti immancabilmente
naufragati. Nel suo “Il tramonto della ragione. L’uomo e la
sfida del clima”, scritto prima dell’accordo di Parigi sui
cambiamenti climatici (tradotto e pubblicato quest’anno da Treccani) Jamieson ricostruisce la cronistoria
dell’insuccesso della diplomazia climatica partendo dagli anni Sessanta, quando
l’idea che i gas serra stessero destabilizzando il clima era ormai ampiamente
accettata dai climatologi e i movimenti per la difesa dell’ambiente iniziavano
a muovere i primi passi. Nel ventennio successivo, però, a imperare furono
l’incertezza sul da farsi e la strumentalizzazione politica delle evidenze
scientifiche intorno all’origine antropica del riscaldamento globale: …Tra coloro che studiavano il cambiamento
climatico stava cominciando ad aprirsi una linea di faglia. Mentre alcuni
mettevano in guardia contro un approccio “attendista”, altri invocavano
esattamente quello. C’era chi riteneva che la scienza stesse premendo per
ulteriori ricerche e finanziamenti, e c’era chi pensava che appoggiasse
l’azione politica. Gli economisti tendevano a favorire la ricerca rispetto
all’azione; da una prospettiva esclusivamente economica, infatti, ritardare
l’azione fino all’ultimo momento possibile avrebbe implicato di agire quando
fosse stata risolta la maggior parte delle incertezze, quando i costi della
riduzione fossero diminuiti, e quando il rischio di mancare il bersaglio fosse
minore……Qualcosa a livello internazionale si
scosse soltanto sul finire degli anni Ottanta, ma la stagione dei primi accordi
per il clima venne di fatto sospesa dal conservatorismo neoliberale e
negazionista dei due Presidenti repubblicani che si avvicendarono in quegli
anni alla guida degli Stati Uniti, Ronald Reagan e George Bush senior. Le loro
politiche ambientali, osserva Jamieson, furono straordinariamente coerenti: “fare il
meno possibile per il cambiamento climatico e razionalizzare il tutto sia
gettando dubbi sulla scienza sia gonfiando le stime dei costi di un’eventuale
azione”. Il rifiuto da
parte degli Stati Uniti di un intervento precoce e determinato per abbattere da
subito le emissioni ebbe un’influenza enorme sui primi trattati per il clima, e
culminò nella celebre dichiarazione di Bush al Summit di Rio sulla non
negoziabilità dello stile di vita degli americani. Pochi mesi dopo, Bill
Clinton sconfisse Bush alle elezioni e scelse come vicepresidente Al Gore, che
aveva appena dato alle stampe il suo primo bestseller ecologista: La
terra in bilico. Come ricorda lo stesso Jamieson, “gli
ambientalisti si sentirono al tempo stesso sollevati ed euforici”. Eppure, nel corso del suo doppio
mandato presidenziale, lo stesso Clinton non fece altro che confermare il
disimpegno degli Stati Uniti dalle politiche climatiche internazionali. Si deve
soprattutto all’indolenza dei diplomatici americani l’improvvida clausola
del pledge and review, (prometti
e rinnova) ossia degli impegni
volontari, non vincolanti e rivedibili che portarono il Protocollo di Kyoto del
1997 a non stabilire alcun obiettivo concreto di riduzione delle emissioni per
il Paese più inquinante al mondo (la Cina) e nemmeno a trattenere nell’accordo
il secondo maggiore emettitore della lista (gli Stati Uniti). Le COP
successive, comprese quelle che ebbero luogo durante la presidenza di George
Bush junior e Barack Obama, non furono che un impietoso tentativo di arrivare
al summit successivo con un compromesso finalmente vincolante per i
firmatari. Neanche l’accordo di Parigi del 2015, dinnanzi al quale si
ferma la ricostruzione storica proposta da Jamieson, ha avuto la forza di
scardinare lo scacchiere ossificato della diplomazia climatica. Gli Stati Uniti
continuano ancor oggi a recitare la parte del giocatore cinico e baro che
possiede da solo il peso sufficiente a far saltare il banco, Cina ed India si
trovano nelle vesti dei principali imputati con l’alibi però di non essere tra
i responsabili delle emissioni storiche, l’Unione Europea indossa invece la
maschera dello scolaretto diligente e convinto d’aver fatto il suo
delocalizzando all’estero le attività con maggiori emissioni, e infine il resto
del mondo nel ruolo di vittima innocente e sacrificale di un riscaldamento
globale causato dal progresso altrui. Sullo sfondo di
questa pantomima, una curva delle emissioni di gas serra che ha sempre
continuato a crescere, dalle 22 gigatonnellate di CO2 rilasciate
globalmente nel 1990 alle 38 del 2019, con gracili ed estemporanee battute
d’arresto soltanto in corrispondenza del collasso del comunismo nel
1991, della crisi finanziaria nel 2008 e della pandemia di SARS-CoV-2 nel
2020. Eppure,
nel fallimento storico della diplomazia climatica Jamieson rileva qualcosa di
più latente e profondo, identificabile con il tramonto del progetto illuminista
di porre la scienza e la ragione al centro di un nuovo ordine sociale. “Anziché
essere un’umanità che governa razionalmente il mondo e se stessa”, scrive, “siamo alla mercé di mostri che abbiamo
creato noi”. Sulla ragion pratica abbiamo fondato le leggi della
convivenza civile, del libero mercato e del buon governo, ma allora perché non
siamo riusciti a mobilitare la sua forza anche per rispondere efficacemente e
tempestivamente al riscaldamento globale? La spiegazione che azzarda Jamieson
chiama in causa ostacoli all’azione di natura psicologica (“il
cambiamento climatico non è percepito con i sensi, ma deve essere pensato; e
noi non siamo bravi a farlo”) ed evoluzionistica (“la
nostra dotazione biologica ci rende difficile non tanto risolvere, ma anche
solo riconoscere questo tipo di problema”), tuttavia la motivazione forse meno astratta – e
dunque più credibile e “politica” – è che il riscaldamento globale rappresenti
“il più grande problema di azione collettiva mai
affrontato dall’umanità”. Quello dell’azione collettiva è un
classico problema da teoria dei giochi: risolverlo è
nell’interesse di tutti, ma nessuno è incentivato ad agire senza la garanzia
che anche gli altri facciano lo stesso. Di più: comunque scelgano di comportarsi le
controparti, a ognuno converrebbe più la defezione che l’impegno comune.
Abbattere globalmente le emissioni di gas serra è quindi un problema di azione
collettiva che rende necessario tenere a bada i free rider della
diplomazia climatica ed evitare che la responsabilità condivisa dell’atmosfera
esiti nella più classica tra le tragedie dei beni comuni, poi c’è anche da
bilanciare i diversi interessi intergenerazionali che gravitano intorno allo
stato del clima. Spiega Jamieson: “ogni generazione è incentivata a non
controllare le proprie emissioni giacché trae da esse un beneficio,
scaricandone peraltro i costi sulle generazioni successive. Inoltre, poiché
ogni generazione (salvo la prima) soffre per le emissioni delle generazioni
precedenti, beneficiare delle proprie emissioni nel presente può sembrare una
giusta compensazione”. Come se ne esce? Secondo Jamieson i
motivatori più potenti di cui disponiamo per risolvere i problemi di azione
collettiva sono l’economia e l’etica, ovvero la ragion pratica e la ragion
pura, che tuttavia si sono rivelate clamorosamente impreparate di fronte alle
grandi questioni pragmatiche e morali poste dalla scoperta del riscaldamento
globale.
Salvare il mondo con la ragione
La diplomazia climatica non funziona
perché da una parte non riesce a convergere sul fatto che è nell’interesse
economico futuro di tutte le parti in causa agire in maniera vigorosa nel
presente, dall’altra perché si fonda su una filosofia morale obsoleta, incapace
di tutelare gli enti di natura. Prendiamo la motivazione economica a ridurre le
emissioni: chi s’impegna a decarbonizzare oggi sostiene un costo in cambio di
un beneficio futuro. Qual è il valore attualizzato al presente di quel
beneficio? Quanta utilità futura potremmo trarre da ogni dollaro investito in
questo momento per mitigare il riscaldamento globale? E conviene decarbonizzare
subito oppure tra qualche decennio, quando (forse) avremo tecnologie più
efficaci, saremo tutti più ricchi e ridurre le emissioni ci costerà
proporzionalmente meno sacrificio? Com’è ovvio non esiste una risposta univoca
e insindacabile a questi interrogativi, così finisce tutto per dipendere dal
tasso di sconto che si decide di adottare nelle analisi economiche: “se
i costi futuri del cambiamento climatico sono fortemente scontati, allora nel
presente sono giustificati solo modesti investimenti per la salvaguardia del
clima; ma se il tasso di sconto è basso, allora sono giustificate politiche
aggressive”. Sull’entità del tasso
di sconto da adottare per attualizzare i costi futuri del riscaldamento globale
si contrappongono due scuole di pensiero: quella “descrittiva” di William
Nordhaus e quella “normativa” di Nicholas
Stern, (entrambi economisti e
insigni cattedratici) Stern è più cauto e
pessimista, la sua analisi contempla addirittura la possibilità che la razza
umana possa anche estinguersi nel giro di qualche secolo. Nordhaus lo accusa di
sporcare le sue considerazioni economiche con giudizi di valore sul rischio di
un collasso ambientale e sulla disuguaglianza sociale tollerata,
quando dovrebbe preoccuparsi del fatto che nella realtà attuale nessuno sembra
davvero disposto a farsi carico di una drastica riduzione delle emissioni. I
loro tassi di sconto differiscono al tal punto che l’imposta sul carbonio
ottimale calcolata da Stern è di un ordine di grandezza maggiore rispetto a
quella di Nordhaus. Dalla diatriba tra i due Jamieson
conclude che “la teoria economica non ha le risorse per fissare il tasso di sconto in
un modo che risulti conveniente su una scala temporale rilevante per il
cambiamento climatico”. Detto
altrimenti: la razionalità economica non è in grado di stabilire da sola quanto
energicamente e tempestivamente agire contro il riscaldamento globale. Il fatto
preoccupante è che nemmeno l’etica, la ragion pura, appare sufficientemente
reattiva al clima che si scalda. Che la ragione possa essere fonte di una
sensibilità morale lo diceva già Kant: non è necessario scrivere ciò che bene e
ciò che è male su monumentali codici di pietra, dal momento che la ragione in
sé ci permette di sentire il bene, e dunque di sceglierlo. John
Rawls, (il filosofo morale
più importante del Novecento), avrebbe poi chiamato questa capacità della ragione
“senso intuitivo di giustizia”: di fronte a un dilemma morale, la
maggior parte degli esseri umani avverte “naturalmente” quel che è più giusto
fare. In ecologia il senso intuitivo di giustizia si manifesta per esempio nel
disagio misto a dolore che possiamo provare al cospetto di una foresta d’alberi
abbattuti, oppure alla vista della sofferenza degli animali macellati in un
mattatoio. Il senso morale che si attiva per le emissioni
atmosferiche di gas serra, però, non sembra destarsi con altrettanta efficacia
e prontezza: gli sconsiderati
spostamenti in aereo per una vacanza in una località esotica, per intenderci,
non urtano ancora con la nostra sensibilità morale e dunque non li biasimiamo,
così come il possesso di una grossa automobile, anziché disturbarci ed essere
socialmente stigmatizzato, viene considerato un simbolo di status desiderabile.
Neanche la violazione dei protocolli ambientali internazionali ci scandalizza
poi così tanto, perché? Il senso di giustizia si è evoluto per regolare i
rapporti tra gli esseri umani, in società a bassa densità e con accesso a
risorse ambientali percepite come illimitate, perciò strumentalizzabili ed
escludibili dal dominio della valutazione morale. Le responsabilità etiche si
fermano così alle mura della polis, al di fuori delle quali vengono
concessi la violenza e la depredazione nei confronti tutto ciò che non è umano,
clima compreso. Per Kant è l’umano a essere il fine, con
la natura sempre e comunque ridotta a mezzo, mentre
nella nota “posizione originaria” di Rawls, dietro al fantomatico velo di
ignoranza sulla propria posizione in società, troviamo un manipolo di umani che
scelgono per se stessi i principi di libertà e uguaglianza: dei non-umani non
c’è la minima traccia, Rawls non ne fa alcuna menzione nella sua teoria
liberale della giustizia. Tra gli eticisti del clima c’è chi suggerisce di
considerare il riscaldamento globale come violazione dei diritti umani, ma si
tratta ancora un a volta di una proposta viziata di un antropocentrismo ormai
vetusto, incline a salvaguardare il clima soltanto perché ad esclusivo
vantaggio degli umani. Bisognerebbe al contrario estendere la responsabilità
morale ai non-umani, conferire al clima e agli ecosistemi diritti protetti per
legge, superare la concezione strumentale degli enti di natura e fare
dell’ambiente il fine, non il mezzo o lo sfondo, della condotta umana. Volendo
dare all’ecologia una definizione condivisibile, questa potrebbe essere una tra
le migliori. A detta di Jamieson, i nostri progressi morali di fronte al clima
che si scalda sono troppo lenti perché rimaniamo ancorati a un’etica climatica
che lega la responsabilità al danno. Che la “causazione del danno” abbia un
ruolo centrale nella concezione della responsabilità morale è un’idea messa in
circolazione due secoli fa da John Stuart Mill, ma questo caposaldo dell’etica
classica non pare del tutto capace di attagliarsi al riscaldamento globale. Per
esempio: la responsabilità dell’emissione è in chi produce il
combustibile fossile, in chi lo consuma o in chi ne rende legale l’estrazione e
l’utilizzo? La consapevolezza di quanto i propri
comportamenti possano inquinare l’atmosfera fa la differenza fra la
responsabilità e la colpa, i mezzi a disposizione del singolo individuo tra
l’emissione evitabile e quella inevitabile. La morale dovrebbe scattare
automaticamente e farci percepire come scorretto quell’atto che comporta un
danno ambientale maggiore rispetto a un’alternativa facilmente disponibile. Ma
siamo ancora lontani da realtà morale del genere. Diceva Rawls che proprio come
una teoria scientifica viene abbandonata quando non è più vera, una teoria
politica e morale dovrebbe essere modificata quando non è più giusta. Le
rivoluzioni nel campo dell’etica e della giustizia non sono poi così rare: “una
di queste ultime fu associata all’ascesa del capitalismo”, ricorda Jamiesion. “Quelli
che in precedenza erano considerati vizi morali (per esempio, l’egoismo) furono
ridefiniti e trasformati in virtù”. Oggi ci troviamo alle soglie di un nuovo rivolgimento:
col clima che si scalda ci faremo tutti utilitaristi nel senso originario, più
nobile e letterale del termine, che fa coincidere la giustizia con la
massimizzazione dell’efficienza sociale e la minimizzazione del dolore,
compresa però anche la sofferenza recata all’ambiente e al resto del vivente.
Quale autorità si farà depositaria di una giustizia globale di questo tipo,
finalmente emancipata dagli interessi specisti e improntata a quelle che lo
stesso Jamieson chiama “virtù verdi”? Con ogni probabilità
non sarà lo Stato-nazione, l’attore al centro della diplomazia climatica
contemporanea, ma qualcosa di più vasto e di là da venire, eppure già nato in
quegli stessi tavoli internazionali in cui si decide oggi il futuro del clima.
Un Leviatano per il clima
Lo
Stato-nazione è un assetto politico utile a mantenere il pianeta vivibile
oppure un ostacolo? Nell’ultimo trentennio la diplomazia
climatica ha naturalizzato l’idea che debba essere la cooperazione interstatale
a occuparsi del riscaldamento globale, ridotto così a problema di giustizia tra
gli Stati, ma come fa notare lo stesso Jamieson “l’atmosfera non si cura dei
confini nazionali e una molecola di diossido di carbonio ha sul clima lo stesso
effetto ovunque venga emessa”. Ogni tentativo Stato-centrico di risolvere
il riscaldamento globale si scontra quindi con la discrepanza tra l’autorità
degli attori in gioco e la portata planetaria del problema che si pone. Sarebbe però sbagliato scorgere nel susseguirsi
anodino delle COP per il clima la storia di un’ingloriosa disfatta, o almeno
questo è ciò che pensano Geoff Mann (professore di economia politica alla Simon
Fraser University di Burnaby, in Canada) e Joel Wainwright (geografo della Ohio State University) Nel loro “Il
nuovo Leviatano. Una filosofia politica del
cambiamento climatico” (pubblicato anche questo da Treccani, nel 2019), avanzano un giudizio meno critico sulle
COP per il clima e in particolare sull’accordo di Parigi, considerato l’atto di
nascita di una nuova autorità sovranazionale per la regolazione e il controllo
delle emissioni. Un “Leviatano climatico”, appunto, espressione dell’adattamento
del politico al clima che si scalda. Quella del Leviatano è una figura biblica
e mitologica che Thomas Hobbes ha introdotto in filosofia politica per
designare la sovranità potente e terrifica dello Stato, cui viene conferita
autorità dal contratto sociale stipulato dai singoli individui per sfuggire
alla vita “solitaria, povera, brutale e corta” degli esseri umani in balia
della natura. Il nuovo Leviatano immaginato da Mann e Wainwright è frutto
invece del contratto sociale “verde” sottoscritto dagli Stati-nazione per
costituire una forma di sovranità mondiale: un Leviatano di secondo grado
insomma, capace di “governare un pianeta più caldo e di gestire gli inevitabili
cambiamenti economico-politici che ne scaturiranno”. Di
fronte a questioni planetarie come il riscaldamento globale, infatti, i
rapporti tra Stati rimangono paralizzati dai principi secolari di sovranità e
autonomia nazionale, che dalla pace di Westfalia del 1648 in
avanti condannano le relazioni interstatali a “una perpetua anarchia
caratterizzata da reciproco sospetto, incessanti preparativi per la difesa
(guerra) e, nella migliore delle ipotesi, una stabilità basata sull’egemonia”.
L’idea di un regime
cosmopolitico che sedi le tensioni e ricomponga gli interessi dei singoli Stati
non è nuova: negli anni l’hanno sostenuta per le più diverse ragioni pensatori
del calibro Kant, Russell ed Einstein, ma è stata anche osteggiata da chi, come
Arendt, ne leggeva l’anticamera del totalitarismo. Secondo Mann e Wainwright le
pressioni esercitate dalla crisi climatica spingeranno necessariamente verso la
formazione di una governance transnazionale che “assuma il comando,
dichiari un’emergenza e porti ordine sulla Terra, il tutto in nome della
sopravvivenza umana”. Il nuovo Leviatano godrà di un’autorità
tecnica che si pone al di sopra delle parti, le cementa in un’unità compatta ma
artificiale, fonde politica e morale. Ricostituirà una sovranità di ordine
superiore “capace di coordinare gli investimenti, distribuire le capacità
produttive e distruttive e tenere a bada i free rider”, con l’obiettivo di esercitare una governance mondiale
in tempi climatici turbolenti. “Quando si tratta di clima, sarà lui a decidere,
ed è precisamente a questo fine che viene costituito”. Se sarà giunto il momento
di applicare un qualche progetto di geo-ingegneria, sarà il Leviatano
climatico a stabilirlo. Non è chiaro quale forma politica possa assumere
un’entità del genere, se sarà più simile alla “repubblica mondiale” sognata da
Kant per la pace perpetua dei popoli o a un totalitarismo regolatore che
applicherà in ogni dove provvedimenti aggressivi di sorveglianza e rigore. A
giudizio di Mann e Wainwright molto dipenderà dal ruolo che sarà riconosciuto
al capitalismo: sarà trattato come un problema oppure come la soluzione ai
cambiamenti climatici? Il nuovo Leviatano avrà le sembianze di una
tecnocrazia centralizzata e pianificatrice oppure di una coalizione climatica
internazionale che demanderà proprio al mercato il compito di occuparsi della
gestione del carbonio? Per i
due autori l’alternativa ad oggi più realistica, la sola forse
davvero possibile, è quella di uno “Stato globale keynesiano” che affronti il
riscaldamento globale con una netta intensificazione delle misure già esistenti
di regolazione politica del libero mercato – sussidi alle energie rinnovabili,
stimoli governativi e green new deal, tassazione del carbonio, mercato dei
permessi di emissione, sistemi di compensazione e altre politiche climatiche
oggi per la maggiore. Negli ultimi anni
questo “keynesianismo verde planetario” ha incontrato il favore di araldi di
spicco tra i quali gli economisti Thomas Piketty, Joseph Stiglitz e il già
citato Nicholas Stern, ma anche di intellettuali influenti come Naomi
Klein o di profeti discutibili come Jeremy Rifkin. Per Mann e Wainwright la
ragione di una tale egemonia va rintracciata nella promessa di un miracolo: “articolare
una trasformazione rivoluzionaria senza una rivoluzione”, azzerare le emissioni senza
pregiudicare la crescita del capitale. Cambierà tutto, ma in modo incruento,
con la sensazione diffusa che non sarà mutato alcunché di rilevante. Anche
Jamieson appare concorde nel ritenere il riformismo ambientale di uno Stato
globale keynesiano la migliore delle opzioni sul tavolo, quando chiude il suo
saggio raccomandando sette priorità politiche, tre principi di governo e
un’azione immediata per evitare un cambiamento climatico catastrofico – un
programma minimo di misure per salvare la Terra, o almeno per rendere il
riscaldamento sostenibile. Congetture? Forse. Ma il prossimo primo
novembre, a Glasgow, si passa ancora una volta dalla teoria alla pratica, e
toccherà scegliere per davvero una linea etica ed economica comune a tutte le
nazioni contro il clima che cambia.
tra il dire e il fare ...
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