Il “Saggio” del mese
LUGLIO
2021
Come
evidenzia con lucida esattezza Enrico Donaggio (Docente
di Filosofia della Storia presso l’Università di Torino)
nella sua post-fazione al saggio scelto per questo mese il concetto di “lavoro”
è di relativa recente adozione. E’ infatti solo con la Modernità occidentale
che si assiste alla “invenzione del lavoro”, alla messa in evidenza
come specifica entità a sé stante dell’attività che per millenni, senza neppure
il diritto ad un nome proprio, era stata relegata in una sorta di zona d’ombra
della società popolata da servi, schiavi, animali. Da lì in poi il lavoro è
assurto, con innegabile evidenza, a componente fondamentale della società, come
“entità economica” e soprattutto come “condizione esistenziale” per tutta, o
quasi, l’umanità prima occidentale e poi universale. Ed il “lavoro” ha così
occupato da allora in poi un ruolo centrale in tutte le discipline che
analizzano, mirando a governarla, la vita economica, sociale e politica. In
questo quadro un’attenzione specifica è da sempre stata indirizzata alle “forme del lavoro”,
alla sua concreta articolazione in un contesto sempre più costituito dalle
logiche dell’economia capitalistica di mercato e dalla applicazione, da queste
ispirata, delle innovazioni tecnologiche alle modalità produttive. Il saggio di
questo mese di Luglio si muove in questo ambito concentrando in particolare la
sua attenzione sulle due forme che hanno caratterizzato il lavoro nell’ultimo
secolo: quella del “taylorismo/fordismo” e quella della “globalizzazione
neo-liberista”
Danièle
Linhart (Docente di Sociologia presso
l’Università di Parigi)
partendo
dalla innegabile constatazione della disumanità del lavoro nelle “catene di
montaggio) e passando poi a quella che definisce la “super-umanizzazione” di
quello individualizzato dell’economia neo-liberista propone una lettura
fortemente critica di una trasformazione a suo avviso tutt’altro che
disinteressata e positiva. In questa sintesi percorreremo le considerazioni che
a suo avviso giustificano il giudizio che anticipa fin dal risvolto di
copertina:
Per
l’ideologia oggi in voga la disumanità del lavoro taylorista e fordista ha
semplicemente smesso di esistere. Non c’è posto per lavoratori alienati e
sfruttati, per un lavoro devastante, senza senso né anima, nella grande
narrazione del neoliberismo. Qui dominano soltanto il benessere psicofisico, la
partecipazione emotiva ed etica, l’espressione e la conquista di sé, insomma
l’autonomia e la felicità di chi produce e consuma. Ma questa maniera
apparentemente più umana di far lavorare i propri dipendenti altro non è che un
dispositivo manageriale che, con mezzi e retoriche diversi, persegue
ostinatamente gli stessi obiettivi del taylorismo e del fordismo: la
sottomissione e l’assoggettamento. Attraverso la riduzione dei lavoratori non
più a pezzi di un ingranaggio, ma a individui soli e vulnerabili, troppo e
nient’altro che umani, incitati alla competizione, all’autosfruttamento e alla
servitù volontaria. Una continuità d’intenti e ossessioni che le classiche
letture del post-fordismo spesso mancano di cogliere.
Prima di addentrarci nel testo della Linhart ci è però sembrato utile ritornare ad alcuni chiarificatori passaggi della già richiamata post-fazione di Enrico Donaggio
Donaggio evidenzia, così come Piketty per definire il
concetto di “ideologia”, che anche il concetto di “lavoro” è percepito in modo
diffuso e consolidato grazie a “narrazioni”, a modi diffusi di raccontarlo e
definirlo che, in ogni specifica fase storica, di esso mettono in luce e
diffondono i tratti percepiti, in quel contesto, come quelli principali. Ciò è
avvenuto fin dal Settecento, nella fase storica occidentale in cui, come si è
visto, di “lavoro” si inizia a parlare. Ed è avvenuto da subito con una frontale
contrapposizione, quella fra Denis Diderot (1713-1784, filosofo ed enciclopedista francese, uno dei
massimi rappresentanti dell’Illuminismo europeo) e Adam Smith (1723-1790, filosofo ed economista scozzese, da molti definito il padre
dell’economia capitalistica classica). Riflettendo il primo sul modo concreto di lavorare in una cartiera ed
il secondo su quello di una fabbrica di spilli entrambi si chiedono se il nuovo
modo di lavorare manifatturiero sia un passaggio positivo per l’uomo. Diderot
risponde di si, la ripetitività del gesto lavorativo esenta dal pensare, e
l’assenza di pensiero è, stranamente, per l’enciclopedista il ….. più umano dei
doni ….. Paradosso per paradosso
per Smith è l’esatto contrario: la routine produttiva istupidisce e porta alla
morte intellettuale ….. chi spende tutta la sua vita compiendo poche semplici
operazioni diventa tanto stupido ed ignorante come può esserlo un essere umano …. La definizione di padre dell’economia classica
sta in questo caso molto stretta per Smith, in questa sua considerazione si
rintraccia infatti una delle prime, e più feroci, critiche del lavoro
capitalistico. Ed un’altra sua frase, ripresa dallo stesso Marx, approfondisce
vieppiù il giudizio …. tra un facchino ed un filosofo la natura ha messo meno
differenza che tra un mastino ed un bracco
….. Intendendo con ciò che le differenza fra gli uomini, resi simili
dalla natura, poggiano proprio sulla diversità del lavoro svolto. Di lì a poco
una seconda contrapposizione aiuta a comprendere il contrastato intrecciarsi di
narrazioni del lavoro: da una parte Andrew Ure (1778-1857, medico scozzese, consulente commerciale della
“Confindustria” inglese del tempo) che, analizzando i costi di produzione della manifattura dei primi
dell’Ottocento, evidenzia come quello umano, ed in ispecie quello minorile e
femminile, ha il vantaggio non trascurabile di costare molto meno di quello
delle macchine. Un considerazione così cinica da far inorridire Friedrich
Engels nel suo famoso testo del 1845 “La
situazione della classe operaia in Inghilterra”. Il Novecento occidentale con
la definitiva e totalizzante realizzazione del lavoro conferma poi
l’intrecciarsi contraddittorio di due narrazioni in apparenza inconciliabili,
quella di esaltazione e quella di condanna del lavoro capitalistico. E’ proprio
nelle pagine di due sensibilissimi osservatori novecenteschi che si possono
ritrovare gli elementi di una narrazione che spezza definitivamente questo
intreccio mettendo a nudo l’errata convinzione marxista che il lavoro, proprio
perché reso crudele dalle logiche di profitto, sarebbe divenuto la molla per la
ribellione dei lavoratori aprendo così la strada ad una nuova umanità. Simone
Weil (1909-1943,
filosofa francese) nel suo “La condizione operaia”, scritto sulla
base di una sua concreta esperienza lavorativa in una fabbrica fordista, evidenzia
con disillusa lucidità che non di ribellione si può parlare, ma di …… docilità
rassegnata, mansueta, disumana …… e Werner Sombart (1863-1941, sociologo tedesco, uno dei più
importanti scienziati sociali europei del Novecento) riflettendo sull’american way of life coniuga una formula
tanto sarcastica quanto impietosa ….. davanti al roast beef e alla torta di mele l’utopia
socialista va in fumo …. E’ in questa desolante constatazione che si
apre la breccia per una nuova narrazione del lavoro, un racconto che però non
parte più “dal
di dentro la fabbrica” ma “all’uscita da essa”. Fino a divenire la base
del compromesso che ha retto buona parte dei “Trenta gloriosi”, il trentennio
occidentale di massima espansione produttiva, e dell’affermarsi del consumismo
anche grazie alla positiva incidenza dello Stato sociale. ….. accettazione del
lavoro disumano in cambio di consumo di merci ….. Poi verso la fine del Novecento in questa breccia si
insinua una nuova narrazione, proprio quella analizzata dalla Linhart in questo
suo saggio
&&&&&&&&&&&&&&&&&&
Capitolo 1 =
Viaggio nel paese di imprenditori di uomini
A ben vedere la molla che sembra aver messo in moto la grande
trasformazione, prima ideologica e poi concretamente attuata nella realtà
produttiva, avvenuta verso la fine del XX secolo è riconducibile ad un conciso
slogan “ottimizzare
le risorse umane”. Una operazione che si è da subito vestita con il
pretenzioso abito di una “rivoluzione umanistica” ispirata da un
declamato ideale …… mettere l’uomo al centro del modello …… peccato però che, come meritata ricompensa,
quest’uomo è bene che……. si impegni a fondo secondo i metodi propri di questo
modello ….. La scelta dell’accattivante titolo del saggio trova già
qui, in queste prime frasi, la sua spiegazione: il richiamo alla “Comédie humaine”
di Balzac poggia sull’evidenza che la narrazione mainstream di un neo-liberismo
idealisticamente votato a liberare, difendere e valorizzare, le potenzialità
umane del lavoratore altro non è che una sfacciata “commedia”, “umana” perché ha al suo centro
una precisa concezione dell’uomo. Daniéle Linhart, a lungo Direttrice del
settore del CNRS (Centro Nazionale Ricerche Sociali) francesi preposto allo
studio dell’evoluzione delle forme lavorative fornendo consulenze alle maggiori
imprese francesi, partecipando a
moltissime iniziative e dibattiti, e inter-agendo con numerosi “Responsabili
delle risorse umane” (in precedenza più prosaicamente “Direttori del
personale”) ha maturato
sul campo le sue considerazioni sulla svolta “umanistica” avvenuta a cavallo
del millennio nei modi di intendere il “lavoro” e nella loro concreta
applicazione. Una svolta che è stata dettata dal superamento del modello
fordista di produzione e di organizzazione aziendale, reso possibile
dall’avvento di automazione, robotica, informatizzazione e Intelligenza Artificiale,
e che si è sviluppata in stretto rapporto con l’ideologia neoliberista ed il
suo porre “l’individuo”
al centro dell’intero sistema sociale ed economico. Lo studio, “dal di dentro”,
di questo processo le ha consentito di fissare in particolare alcuni stadi
lungo i quali esso si è articolato. Un primo stadio, deliberatamente teorizzato
come fondamentale premessa, consiste nel …… produrre amnesia …..Occorre
cioè che “la
risorsa umana” dimentichi chi era prima di entrare nel modello
umanista di produzione e, se già lavorava, come e perché lavorasse. Una
operazione traducibile con il termine di derivazione informatica “reset totale”.
La memoria, base sulla quale più o meno consapevolmente, ogni individuo
costruisce l’immagine di sé, la propria personalità, può infatti rappresentare ….. un’arma potente
di resistenza ….. Questa risorsa umana, resa così potenzialmente
libera da pregiudizi e resistenze, è a questo punto nella condizione ideale per
entrare nel secondo stadio e divenire, con termini più volte letteralmente
usati dai “responsabili delle risorse umane”: …… un militante incondizionato dell’impresa …..,
vale a dire un dipendente totalmente pronto ad aderire alla “mission
aziendale”. Sarebbe un errore ritenere che questa adesione sia in
qualche modo imposta, resa obbligatoria con pressioni e minacce. Al contrario,
ed è questo il terzo stadio, essa è resa lo sbocco naturale di una sorta di premurosa
benevolenza verso la componente esistenziale della risorsa umana, la quale deve
poter così sviluppare l’idea di essere “visto e trattato” come persona nella
sua completezza. Il modello umanista, ben consapevole che divenire militanti
incondizionati dell’impresa è operazione che assorbe l’intera personalità del
dipendente, punta quindi a dare l’impressione di essere attento e disponibile a
rimuovere ogni fonte di inquietudine, di disturbo, persino quelle che rientrano
nelle singole sfere private. Rientra in gioco il primo stadio: la produzione di
amnesia. Se si esige molto dai dipendenti e se questi inevitabilmente portano
con sé un bagaglio di fattori esistenziali “interni ed esterni” che possono
essere di freno alla metamorfosi diventa allora utile fornire una serie di
“aiuti e sollievi”, tramite servizi di vario genere (asili e ambulatori
aziendali, convenzioni con fornitori di beni e servizi, assicurazioni
integrative, il cui costo, va da sé, rientra nel conteggio salariale globale)
che facciano il più possibile dimenticare tali fattori ….. ridando così spazio e tempo alla totale
immersione nella missione aziendale …. Ed è anche attraverso questo
stadio che si sono così creati i presupposti per il quarto stadio: quello del
…… patto di
fiducia …… quello che deve costantemente
essere alla base del rapporto fra impresa e dipendente. Quest’ultimo deve avere
sempre la certezza di un quadro di relazioni, nel dare e nel ricevere, basato
sulla reciproca totale fiducia del rispetto dei reciproci impegni. Un percorso
così complesso, articolato, impegnativo di costruzione di un rapporto di lavoro
che pone al suo centro il lato umano dei dipendenti non si costruisce in tempi
brevi, ma ha richiesto e ancora richiede, un costante perfezionamento, una
continua messa a punto, che chiama in causa competenze anche extra azienda. Ad
esempio più volte si è letto di convegni aziendali con ospiti d’onore militari
di alto livello, sportivi e personaggi pubblici di gran successo, per non dire
di religiosi e missionari. Ognuno di queste “competenze”, in apparenza
lontanissime dalla dimensione aziendale, portavano testimonianze facilmente
leggibili di impegno,
dedizione,
concentrazione sugli obiettivi, gioco di squadra, fiducia reciproca, attenzione
alle esigenze altrui. Tutte componenti rintracciabili nei quattro stadi
sinteticamente tracciati dalla Linhart
e tutte utili a formare un dipendente “imprenditore di sé stesso” pienamente votato
alla missione aziendale. Il contraltare di questa presunta umanizzazione del
lavoro è però rappresentato dalla cancellazione di una componente del
lavoratore che storicamente era ritenuta centrale, fondamentale ….. la sua
professionalità ….. Entra ancora
una volta in gioco il peso delle trasformazioni tecnologiche applicate alla
produzione, al lavoro in genere, che si sono grazie ad esse …… proceduralizzati
…. Trasformati cioè in sequenze procedurali determinate da algoritmi
e complementi automatizzati, nelle quali l’apporto professione è già calcolato,
prefissato, smettendo così di essere una variabile in grado di incidere.
Umanizzazione e proceduralizzazione hanno cioè resa obsoleta ….. la
professionalità dei dipendenti, la loro etica professionale, il loro istinto a
dare al lavoro la loro impronta, di riconoscervisi …… L’impresa è in questo modo divenuta un luogo
in cui le uniche vere e decisive competenze sono nella sfera delle alte
dirigenze, sono loro i veri attori del sistema, di fronte a loro, in un ruolo
che solo un inganno creato ad arte, come in una commedia, può far percepire
come “da protagonista” non ci sono che ….
persone
con fragilità, desideri, sogni, paure, ambizioni, ricerca di riconoscimento,
spirito di competizione …..
riconosciute cioè nella loro umanità, ma in questa stessa abbandonati perché
resi più fragili avendo dismesso i panni del “professionista” per vestire
quelli del “collaboratore”.
Ai margini dell’esclusione della disoccupazione finiscono quelli già lasciati
indietro dalla marginalità sociale e dal mancato accesso ai percorsi formativi,
ma anche quelli che non si adattano a rientrare in questa umanizzazione del
lavoro. Tutti però, nella vulgata neo-liberista, hanno perso perché non hanno
saputo, o peggio ancora non hanno voluto, combattere. Ritornano allora ancora
attuali le parole di Etienne de la Boétie (1560-1563, filosofo francese) che nel suo “Discorso della servitù volontaria” scriveva …… fintanto che
hanno qualcosa di umano per lasciarsi assoggettare gli uomini devono essere
stati o costretti o ingannati…..
Capitolo 2 = La
grandezza del taylorismo e del fordismo. Dalla volontà di potere al potere della
volontà
Questa costruzione di un nuovo modo di concepire ed
organizzare il lavoro, non diversamente da quanto è storicamente sempre
successo, si è consolidata strada facendo in una “narrazione” ideologica, volta al
tempo stesso a giustificarla e a rafforzarla in modo diffuso. Questa narrazione
si è basata su una fondamentale premessa: la critica alla innegabile disumanità
della precedente “forma lavoro” tayloristica e fordista imponeva per
contrappasso una svolta in senso “umanista”
del modo di concepire il lavoro. Una dichiarazione di intenti tanto lodevole
quanto smentita alla prova dei fatti, come si visto nel precedente Capitolo 1. Ma
come inaggirabile punto di partenza della nuova narrazione va comunque
esaminata nelle sue forme e nella sua sostanza. Partendo da un raffronto con
quelle messe in atto da taylorismo e fordismo, per meglio cogliere similitudini
e diversità. E’ bene evidenziare che un adeguato esercizio critico nei
confronti di taylorismo e fordismo è un’operazione culturale ancora da
completare, essendo solo recentemente divenuto più approfondito nella stessa
sinistra sindacale e politica occidentale. A lungo infatti anche a sinistra le
pesanti condizioni lavorative ad essi connesse sono state in qualche modo
accettate, se non apertamente giustificate sull’altare di un’idea di
“progresso” ininterrotto in grado di ridurre povertà e di garantire …… regole
scientifiche, e non più arbitrarie, di erogazione del lavoro- ….. A
maggior ragione quindi è bene ripercorrerne i capisaldi teorici. Frederick
Taylor (1856-1915,
ingegnere ed imprenditore statunitense) mette a punto, verso la fine dell’Ottocento, un sistema di
organizzazione della produzione industriale, che da lui prenderà il nome,
sollecitato da una precisa constatazione: il rapporto di lavoro “classico”
prevedeva la cessione di ore di lavoro ma di fatto lasciava al lavoratore, ed
alla sua professionalità, le modalità concrete di erogazione della prestazione
indipendentemente dai macchinari utilizzati. Per ottenere un reale aumento di
produttività era quindi fondamentale immaginare un sistema di produzione capace
di “espropriare” questa prerogativa e di estrarre dalle ore di lavoro il loro
massimo potenziale. Il titolo del libro di Taylor, “L’organizzazione scientifica del lavoro”,
pubblicato nel 1911, indica chiaramente il fattore decisivo utilizzato
per ottenere tale risultato; la scienza, la tecnologia. Si tratta di una
autentica rivoluzione resa possibile dalla preliminare radicale trasformazione
del “datore
di lavoro”, chiamato a smettere il ruolo di “finanziatore”
fin lì in gran prevalenza esercitato per assumere quello di “ingegnere”
a capo della “direzione
della produzione”. Un ruolo che si traduceva nello studio analitico
di ogni gesto lavorativo, di ogni passaggio di lavorazione, per coglierne
l’essenza e renderla “scientificamente” ottimizzabile grazie all’adozione di
specifici accorgimenti tecnologici ed organizzativi. L’idea di fondo di Taylor
è quindi consistita ……. nell’interporre la scienza, grazie alla tecnologia, nel
vivo del rapporto tra dipendenti e datori di lavoro ….. Si comprende allora bene il suo negare ogni
qualsivoglia risvolto politico del cambiamento, restando centrale la
valorizzazione della dimensione tecnica resa possibile da una “scienza” neutra
ed oggettiva ….. la
direzione non è autoritaria e arbitraria
quando si fonda sulla scienza …… Ma fin da subito questa nuova
modalità di produrre si carica, nelle stesse parole di Taylor, di una valenza
etica, di un di più valoriale che investe in modo positivo l’aspetto umanistico
del lavoro. Se quel che, prima, era buono per gli operai non lo era per il bene
comune fino a frenare le potenzialità di sviluppo e crescita dell’economia, la
nuova “organizzazione scientifica del lavoro” apriva prospettive di
miglioramento produttivo in grado di creare nuovi posti di lavoro, nuova
ricchezza per tutti, nuovo progresso sociale. Il risultato storico concreto ha in
effetti confermato straordinari aumenti di produttività e l’immissione nel
mondo della produzione di fabbrica di consistenti nuove masse di lavoratori,
spesso provenienti dal sempre più marginale settore agricolo, consentendo anche
maggiori consumi generalizzati. Ma ha evidenziato, vista dalla parte dei
lavoratori, una terribile contropartita ……. il totale spossessamento della padronanza del lavoro ….. Il rivoluzionario modo di produrre di Taylor
è infatti sostanzialmente riducibile all’aver trasformato …..gli operai di
mestiere in semplici esecutori …..
in parte risarciti nella veste di consumatori. Sulla strada tracciata di Taylor
si inserisce, a suo ulteriore compimento, l’organizzazione dell’impresa e della
produzione ideata da Henry Ford (1863-1947, imprenditore statunitense fondatore dell’omonima casa
automobilistica). Nel 1913, due anni dopo la pubblicazione del
libro di Taylor, Ford, assimilata in pieno la sua filosofia produttiva,
introduce un ulteriore elemento innovativo: la catena di montaggio. Un’idea
tanto semplice quanto, dal punto di vista della produttività, geniale che Ford
riassume con queste parole ….. portare il pezzo da lavorare agli uomini e non più il
contrario, così che un operaio non deve mai fare più di un passo e non deve mai
piegarsi ….. L’incremento di
produttività è spettacolare, del 70%, ma ancora una volta a prezzo di un ancor
più pesante deterioramento delle condizioni di lavoro. I ritmi di lavoro
imposti dalla catena, l’impossibilità di muoversi dal posto, la ripetitività
ossessiva delle operazioni, diventano una sorta di incubo per i dipendenti, al
punto che la malattia nervosa che ne consegue, splendidamente rappresentata da
Chaplin in “Tempi moderni”, era da loro chiamata “fordite”. I ritmi di lavoro alla
base di tale successo produttivo implicano un ricambio impressionante, e
produttivamente penalizzante, della manodopera con un tasso di rotazione che
arriva a toccare punte del 380%. Le misure adottate da Ford per contrastare
queste complicazioni danno il segno più maturo della sua innovativa visione
sociale: aumenti salariali, la paga giornaliera è raddoppiata, giornata di otto
ore di lavoro, scavalcamento della rappresentanza sindacale, ma soprattutto
controllo totale del modo di vita degli operai. Riprendendo le pratiche del “capitalismo
filantropico” europeo (per il quale lo stabilimento era il centro dell’intera vita comunitaria
grazie al nascere attorno ad esso di quartieri
con scuole, mense, chiese, oratori, negozi e servizi, centri dopolavoristici) Ford attua una fitta rete di strutture di controllo
dell’intera “umanità” dei suoi dipendenti, ispirata tanto da pervasività che da
nascondimento …… dirigere
l’impresa implica una capacità di gestire l’intera dimensione di vita tenendola
al contempo nascosta ….. In
questa si inserisce la scelta di creare, a livello di direzione aziendale, un
apposito dipartimento antesignano delle attuali “gestione delle risorse umane”,
che negli anni Trenta si evolve in un corso specifico di laurea, l’Harvard
School of Business Administration, che forma il quadro dirigente dei servizi di
direzione e del personale. Un altro decisivo aspetto che conferma le intuizioni
“moderne” di Ford è l’attenzione dedicata alla comunicazione: nasce il giornale
di impresa che arriva ad una tiratura di 700.000 copie. Ford aveva in sostanza
capito che un’organizzazione della produzione così esasperata e impattante
necessitava di un supporto, per nulla secondario, di tipo “umanistico”, il
quale da subito assume la veste del “paternalismo aziendale” finalizzato a creare
consenso e a vigilare sulle condizioni di sostentamento, fisico e spirituale,
della forza lavoro. (Per molti di noi, restando in ambito locale,
queste caratteristiche del “fordismo” richiamano alla memoria quelle, per molti
versi identiche e spesso vissute direttamente, adottate a partire dagli anni
trenta nelle più grandi industrie torinesi a partire dalla Fiat). Un riconoscimento della forza attrattiva della visione
taylorista e fordista viene dallo stesso campo avverso della sinistra mondiale:
prima Lenin e poi Stalin sono affascinati dai livelli produttivi così raggiunti
tanto da impiantare, ma con inevitabile minore efficacia gestionale, anche
nella Russia sovietica “l’organizzazione scientifica del lavoro”. E lo stesso
Gramsci, paradossalmente non cogliendo appieno il peso della “egemonia
culturale” connesso al taylorismo e fordismo, si è limitato a criticarne la sola
ripartizione dei benefici. E su questa linea si è sostanzialmente mosso per
quasi tutto il Novecento anche il movimento sindacale sia statunitense che
europeo. Eppure nelle pieghe minime di questa organizzazione scientifica così
minuziosamente attenta ad ogni singolo dettaglio lentamente si insinua
l’insopprimibile tendenza dei dipendenti di riprendersi spazi di professionalità,
di abilità lavorative individuali, di capacità di mettere a nudo limiti e
problematiche del modo di lavorare, ben testimoniati dalle esperienze di “sciopero bianco”
(una rigorosa applicazione di consegne, norme, prescrizioni
che altro non produce che il blocco della stessa catena di montaggio). E’ un sotterraneo ripresentarsi di tratti di umanità sul
posto di lavoro, il cui contraltare negativo, non essendo in grado di tradursi
in una completa alternativa, è però consistito nella capacità delle direzioni
tecniche d’impresa, sempre più scientificamente strutturate, di riappropriarsi
subdolamente, ossia senza riconoscerne il merito, di queste pratiche
migliorative. Per Taylor e Ford, e per tutte le imprese che hanno adottato la
loro “organizzazione scientifica del lavoro” l’imperativo è sempre stato lo
stesso …. gli
operai devono comportarsi in rigorosa conformità ai modelli operativi e devono
aderire all’idea di comportamenti anche sociali fissati dalla gerarchia …..
Capitolo 3 = Lavoro.
Morale e felicità: un nuovo modello manageriale
Nuove ed ancor più efficienti innovazioni tecnologiche hanno
accelerato, rendendola tecnicamente possibile, la crisi del modello di lavoro
tayloristico e fordista che nel secondo dopoguerra, nei decenni (50-60-70)
passati alla storia come i “gloriosi trenta”, aveva raggiunto l’apice delle sue
potenzialità in termini produttivi e di controllo sociale. Le sofferenze, non
solo fisiche, tipiche di tale modello di lavoro sono in gran misura state
consegnate alla storia, ma altre, non meno pressanti, sembrano averle
immediatamente rimpiazzate. Una prima innegabile considerazione si impone: l’organizzazione
tayloristica/fordista del lavoro, per quanto ferocemente invasiva, ha sempre costituito per i lavoratori una reale dimensione collettiva. Grazie alla
rete delle rappresentanze sindacali, alla condivisione oggettiva di situazioni
produttive comuni, ancora per tutti i gloriosi trenta ha sempre avuto senso
ragionare in termini di “lavoratori al plurale”. La prima fotografia indicativa
del nuovo modo di lavorare mette invece a nudo una verità opposta…… la solitudine
del lavoratore ….. Certo non mancavano in taylorismo e fordismo
pratiche che miravano all’individualizzazione ma la l’insopprimibile dimensione
collettiva dell’intero ciclo produttivo restava un aspetto centrale. Ed infatti
solo a metà degli anni Settanta, in stretta relazione con l’introduzione di
differenti modalità produttive, rese possibili dalla automatizzazione robotica
ed dalla informatizzazione, iniziano ad emergere le condizioni per vedere nell’individualizzazione
la dimensione lavorativa alla quale tendere. Ed è in questo quadro che prendono
piede processi e fattori a ciò finalizzato: orari variabili, polivalenza delle
mansioni, sistemi di incentivazione e promozione, introduzione di logiche di
mercato lungo la catena di montaggio …… ogni lavoratore
deve considerarsi il cliente di chi lo precede ed il fornitore di chi lo segue ….. In questa crescente dimensione
individualizzata il lavoratore sempre più deve reggere da solo il peso concreto
del lavoro e sempre più da solo deve misurarsi con le ”offensive ideologiche” che
accompagnano le trasformazioni organizzative. Le quali si sono sempre più
tradotte in accentuata scomposizione del quadro delle mansioni, contrazione
delle qualifiche classiche e parallelo incremento di quelle addette ai settori
“dei servizi”, innalzamento del livello di istruzione, frammentazione delle
mansioni lungo l’intera filiera di lavorazione, producendo di conseguenza una
atomizzazione molto accentuata dei ruoli lavorativi. Non a caso
nell’immaginario collettivo, bel oltre la reale situazione produttiva, parlare
di lavoro si è sempre meno riferito a quello “operaio”, ossia il lavoro
collettivo per eccellenza, e sempre più ha visto spostarsi l’attenzione alla
miriade di qualifiche, in continua evoluzione, del settore dei servizi, fino a coinvolgere
lo stesso non meno variegato mondo dei quadri dirigenti. L’esperienza decennale
sul campo della Linhart, di cui si è detto in precedenza, avvenuta propria a
partire dalla fine degli anni Settanta in piena coincidenza con il
concretizzarsi di questo processo, le ha consentito di schematizzarlo in alcuni
passaggi esemplari. Il primo, avvenuto all’indomani delle sconfitte dei grandi
movimenti di lotta degli anni Sessanta e Settanta, è consistito nel recupero
dell’immagine aziendale, della narrazione del ruolo dell’impresa presentata
come una vera e propria comunità, i cui organigrammi non hanno più la classica
struttura piramidale ma raffigurano al vertice…… il mercato, il cliente ….. l’obiettivo al quale tende una articolazione
orizzontale dell’impresa con fianco a fianco la Direzione, i quadri e la
manodopera. A questo recupero idealizzato dell’impresa è poi seguito, negli
anni Novanta, la profusione di codici etici e deontologici, delle regole comuni
di vita lavorativa, finalizzati a definire i corretti comportamenti del …… dipendente
virtuoso …. Ed infine a chiudere il cerchio una successiva
fase nella quale la narrazione ha mirato a saldare definitivamente il rapporto
tra mission aziendale e soddisfazione personale del dipendente: …… le esigenze in
termini di lavoro, di impegno, di disponibilità permettono al singolo
dipendente di soddisfare le sue stesse aspirazioni professionali ……
Il lavoro diventa in questo modo il terreno in cui misurarsi per far vedere,
avendolo innanzitutto personalmente scoperto e messo alla prova, il proprio
valore. Non stupisce più di tanto che un’operazione ideologica così complessa
ed articolata abbia seminato per strada non poche vittime: gli over 50 per
primi. Troppo influenzati dalla ideologia precedente che fissava, al di là
della retorica paternalistica, una netta separazione fra dipendente ed impresa
non erano materiale umano convertibile al nuovo. Le vaste campagne di
pre-pensionamenti, di incentivazione all’uscita dal lavoro altro scopo non
hanno avuto che di far entrare nel ciclo lavorativo materiale umano nuovo e più
formabile: i giovani. Sono innumerevoli gli studi che evidenziano la loro
fisiologica maggiore ricettività delle nuove sfide, la disponibilità ad
accettare orari ed impegni diversificati visti come premessa per mettersi alla
prova, ad immergersi in un continuo mutare di incarichi, di spostamenti, di
responsabilità, di sovraccarico di lavoro. In cui ognuno fa corsa a sé anche se
si è collocati in spazi, i mitici …. open space …..
che paradossalmente propongono un’immagine di condivisione, di gioco di
squadra. Ed all’interno dei dipendenti giovani una attenzione specifica in più proprio
ai quadri dirigenti, la componente aziendale che di più deve essere la forza
d’urto nella battaglia sul mercato. Sono queste le qualifiche che di più
consentono di misurare a quali livelli sia giunta l’identificazione del successo
individuale con il buon andamento aziendale, si potrebbe proprio dire che …. l’ideale di
questi quadri ed il quadro aziendale ideale mostrano una totale somiglianza …. Ma è un gioco infernale in cui il giovane
quadro aziendale si illude di restarne padrone. Ma non è così: l’elenco di chi
perde è straordinariamente molto più lungo di quelli che, almeno per un poco,
sembrano vincere. Tutti sono comunque accomunati da una situazione esistenziale
in cui è la sofferenza a prevalere, una sofferenza per nulla diversa da quella,
seppur originata da condizioni lavorative diverse, che investiva i dipendenti
nella precedente forma lavora tayloristica e fordista. ….. negli open space tutti sono immersi in una
dura concorrenza, tutti sorvegliano tutti e sono a loro volta sorvegliati ….. Non esattamente un’isola felice. L’autonomia
individuale che inizialmente poteva sembrare una sorta di ideale di successo alla
lunga genera inquietudine, angoscia, dubbio di sé, mancanza di fiducia negli
altri. Se il quadro esistenziale del lavoro racconta una sua mutata
dimensione non sembra, come contraltare,
che si sia realizzata una corrispondente autentica rottura con il passato dei
criteri di fondo di organizzazione del lavoro. Non sono infatti mutati i
capisaldi della struttura aziendale che mantiene una separazione rigorosa tra
il lavoro di “concezione”,
riservato al “management”,
e quello di “esecuzione”,
affidato al resto dei dipendenti, e allo stesso modo sono rimasti fermi i
principi economici “dei costi e dei tempi” quali base di
valutazione di ogni fase lavorativa. Semmai sono i dipendenti stessi che devono
definire i modi per applicarli al mutare delle situazioni concrete di lavoro
utilizzando in prima persona tutti gli strumenti messi a punto a tal fine: ad
esempio budget, tempi, margini di errore, livelli di stock, individuazione fasi
morte. Sono, a ben vedere, gli stessi identici principi della tayloristica
“organizzazione scientifica del lavoro”. Questo coinvolgimento attivo nella
produzione è quindi in gran prevalenza il risultato di tutte le pratiche
ideologiche messe in atto per far coincidere dipendente e mission aziendale. E
quando queste non sono ancora state compiutamente assimilate interviene un
formidabile concreto strumento di pressione: “la precarizzazione”, la
sensazione trasmessa al dipendente di essere costantemente sul filo di rasoio.
Lo sono per ovvia definizione i dipendenti con contratti a termine, se vogliono
sperare in un rinnovo o addirittura nel passaggio a tempo indeterminato. Ma lo
sono anche quelli che già “stabilizzati” restano comunque sotto la spada di
Damocle di possibili cambiamenti peggiorativi. La realtà abituale del lavoro
odierno è infatti costituita da un insieme di prassi che mirano esattamente a
creare questo senso di precarietà: ristrutturazioni e riorganizzazioni
incessanti, ricomposizione dei mestieri, fusioni, esternalizzazioni e
re-internalizzazioni, mobilità sistematica, cambiamento continuo di strumenti
informatici e procedure lavorative. E’ un’onda costante che genera stress e
paure …. tutti
i dipendenti non si sentono più a casa nel loro lavoro, nella loro impresa, con
i loro colleghi, l’ambiente naturale è quello del cambiamento perpetuo …..
Il primo tratto distintivo del lavoratore che viene minato fino al suo totale
annullamento è la sua professionalità, la somma delle sue precedenti esperienze
lavorative. L’acquisito possesso di un mestiere, di una specifica capacità
lavorativa non viene più considerata una dote, sostituita dal possesso di una
prerogativa al tempo stesso più ampia e meno definita…… la competenza ….. quasi sempre traducibile in …. attitudine,
capacità di adattamento, saper essere …..
Poco importa che privare il dipendente della professionalità significa di fatto
sottrargli una parte decisiva della sua identità lavorativa, quello che conta è
acquisire adeguata certezza della sua ….. adesione umana prima ancora che professionale
…… agli obiettivi aziendali. Ed è questa la dote, la propensione, che viene
valutata anche nei percorsi di selezione del personale da assumere, là dove i
curricula sono scorsi per individuare non tanto specifiche abilità
professionali ma il personale spirito con cui sono state vissute esperienze
lavorative precedenti. Ed è in questo insieme concatenato di processi e
strategie che consiste, in sintesi, la proclamata …… umanizzazione del lavoro ……, ossia, se spogliata della sua retorica
ideologica, la ….. commedia umana del lavoro ….. Vale a dire che, quando professionalità e
identità professionale sono di fatto negate, il dipendente è ridotto nella sua
nuda umanità, con il carico di timori, di stati di pressione, di incertezze
che, come si è visto, il clima diffuso e costante di precarizzazione accentua a
dismisura. E che quindi, in continuità ideologica con taylorismo e fordismo,
anche nella attuale fase neo-liberista si sono mantenute situazioni di lavoro
finalizzate a far si che ……. I lavoratori siano più facili da contenere e da gestire
in quanto uomini che in quanto professionisti ….. Sembra poi altrettanto evidente che, all’interno di questa
continuità ideologica, con il neo-liberismo sia avvenuto un ulteriore salto di
qualità negativo: l’individualizzazione del lavoro ha infatti cancellato ogni
dimensione collettiva, di gruppo, impedendo anche quel conforto che era tutto
sommato ancora rintracciabile nel modo di produrre tayloristico e fordista ……. negli attuali
rapporti di produzione è proprio l’uomo, quello che la commedia del lavoro
poneva enfaticamente al centro del modello, ad essere in pericolo, sempre meno
associato a riferimenti collettivi, sempre più vulnerabile e fragile …..
Lottare contro
l’obsolescenza programmata del futuro
Alcune riflessioni scaturite per associazione
RispondiEliminaL’idea che ciascuna persona possegga delle potenzialità che devono essere valorizzate per il suo benessere individuale e della collettività in cui vive è ampiamente condivisibile e non certo reazionaria. Ciò che la trasforma in un potente fondamento del neoliberismo è il fattore semantico che consiste nel definire le potenzialità delle singole persone come “capitale” e quindi ciascuna persona come un’impresa ‘capitalistica’, cioè come un soggetto subordinato alle leggi economiche del capitalismo e fondato su di esse.
La prima conseguenza che deriva dal considerare ciascuna persona come ‘un’impresa’ è ridurre le persone a ‘individui’ e sancire che le relazioni tra individui sono relazioni tra imprese e quindi relazioni di concorrenza.
La seconda conseguenza è che siamo tutti capitalisti dal lavapiatti immigrato all’oligarca russo.
Non c’è più sfruttamento del lavoratore da parte del capitalista, ma c’è una libera decisione
imprenditoriale di investimento del proprio capitale. Non fa alcuna differenza se si tratta di capitale umano, monetario, ecc.
da “Dominio – la guerra invisibile dei potenti contro i sudditi'
Marco d’Eramo (2020)
Queste premesse spianano la strada per la comprensione del successo del concetto del Migrante Imprenditore , perché nel suo alone semantico IMPRENDITORE ingloba il concetto meritocratico americano.
Da CRISI come rinascono le Nazioni di Jared Diamond pag. 325
“ … noi americani siamo fermamente convinti di vivere in una meritocrazia, cioè in un sistema in cui ogni individuo viene ricompensato in base alle proprie capacità professionali. E’ l’ideale simboleggiato dalla frase idiomatica from rags to riches: persino un povero immigrante che giunga da noi vestito di stracci ( rags) può accumulare fior di ricchezze ( riches ) grazie al talento e al duro lavoro. …”
Ma perché questa “pubblicità” funziona?
Di fronte alla pubblicità noi consumatori tendiamo ad essere dei semplici creduloni che applicano al marketing la “sospensione della credulità” di cui due secoli fa ci parlava il poeta inglese Samuel Taylor Coleridge. Soprattutto se il messaggio pubblicitario viene travestito da informazioni, introiettate se sussiste la predisposizione ad accettare il messaggio senza alcuna valutazione critica, dando priorità al connotativo sul denotativo in funzione persuasivo- emotiva.