Nel
precedente post abbiamo pubblicato un coinvolgente articolo che evidenziava con
chiarezza la necessità, per affrontare l’emergenza climatica ed ambientale, di
attivare una vera svolta “etica e politica”. Un cambiamento radicale del nostro
modo di considerare e utilizzare a nostro piacimento ambiente e natura. Altri
cambiamenti si collegano a questa sfida, con il seguente articolo segnaliamo l’opportunità
di adeguare anche il linguaggio utilizzato per raccontarla e quindi
promuoverla. Un linguaggio più adeguato e preciso, a partire dai media e
dai discorsi politici per arrivare ai nostri dialoghi comuni, …….è un passo fondamentale per operare il
cambio di paradigma di cui abbiamo bisogno, e questo perché il modo in cui
parliamo determina il modo in cui pensiamo, e il modo in cui pensiamo determina
il tipo di sguardo che rivolgiamo al mondo…….
Le catastrofi climatiche sono sempre meno “eccezionali”
Una prospettiva
linguistica sul mondo che cambia
Articolo
di Levantesi Stella (giornalista, scrive su “Il manifesto”, “Wired”, “Internazionale”) e Deotto Fabio (gionalista e scrittore, segue in particolate i
temi del rapporto tra scienza e cultura, il suo ultimo libro è “L’altro mondo:
la vita in un pianeta che cambia” – Bompiani 2021)
Una persona, asciugandosi il sudore dalla
fronte, si lamenta di come questa sia l’estate più calda degli ultimi
cinquant’anni. Un’altra, accanto alla prima, con espressione sardonica
risponde: “Consolati, è la più fredda dei prossimi cinquant’anni”.
È una vignetta che sta circolando molto online, in questi giorni flagellati da
un’infilata di eventi meteorologici estremi. Naturalmente si tratta di una
semplificazione, ma la cosa interessante è il rovesciamento di prospettiva che
propone. Un rovesciamento che si fatica invece a trovare nel panorama mediatico
tradizionale, dove gli eventi climatici delle ultime settimane – le temperature
da record nel Pacifico nord-occidentale che hanno innescato incendi e provocato
il ricovero di moltissime persone; le alluvioni in Germania e in Belgio che
hanno causato migliaia di dispersi e centinaia di morti; gli incendi devastanti
in Australia e California, le temperature estreme in Siberia e molti altri –
vengono puntualmente etichettati come “senza precedenti”, rimarcando indirettamente
come i disastri che abbiamo sotto gli occhi non appartengano al mondo
“normale”, ma siano da considerare eccezioni, elementi sfuggiti a una cornice
che rimane integra. Ma è sufficiente dare retta a quello che i climatologi
dicono da decenni per capire che, se pure ci troviamo di fronte a circostanze
“senza precedenti”, perché in molti casi non si è mai assistito a nulla di
analogo, questi eventi non possono più essere derubricati come “eccezionali”,
sono piuttosto i sintomi di quel fenomeno incredibilmente sfaccettato,
interconnesso e difficile da inquadrare che chiamiamo crisi climatica. “Senza
precedenti” non è solo qualcosa di eccezionale, l’espressione descrive un
evento che si è verificato per la prima volta e che può costituire un modello
di situazioni analoghe. Per definizione, quindi, qualcosa che è “senza
precedenti” è potenzialmente destinato a diventare il primo di altri eventi
molto simili. E la prospettiva sembra essere questa: il fatto che si
verifichino circostanze mai viste prima è sempre meno un fatto eccezionale. Daniel
Swain, uno scienziato del clima dell’Università della California a Los Angeles,
ha dichiarato al Guardian che “quest’estate sono stati stabiliti così tanti record negli Stai Uniti
che ormai non fanno più notizia. Gli estremi che sarebbero stati degni di
nota un paio di anni fa oggi non lo sono, perché impallidiscono in confronto
agli aumenti sorprendenti delle scorse settimane”. Questo accade anche in altri
paesi, ha aggiunto, anche se con meno attenzione da parte dei media. Questi
eventi dunque non possono più essere considerati né isolati né eccezionali. Eventi
meteorologici che si sono verificati ogni centinaio di anni stanno diventando
comuni. La crisi climatica non è iniziata oggi, ma si sta manifestando in
una dimensione concreta anche in zone dove non siamo abituati a inquadrarla,
con modalità e dinamiche che la scienza del clima pronostica da decenni.
Insomma, non è più un problema astratto che riguarda altri, altrove. È qui,
ora, mentre leggete queste parole. Gli eventi senza precedenti, per quanto
possa suonare paradossale, stanno diventando la norma. Ma perché il problema
continui a essere visibile (e comunicabile) anche una volta che il terreno si
sarà asciugato, le macerie saranno state rimosse e le case ricostruite, è
fondamentale concentrarci sul linguaggio che utilizziamo per comunicarlo. Un
linguaggio che, come abbiamo visto, si dimostra spesso inadatto a raccontare la
complessità della questione. E se da un lato è utile smettere di parlare di
eventi “eccezionali”, dall’altro è fondamentale trovare un modo di sintetizzare
un fenomeno stratificato senza inciampare in pericolose semplificazioni. Nei
giorni successivi alle alluvioni di metà luglio in Belgio e in Germania, non
passava ora senza che spuntasse un articolo che, già nel titolo, rivelava come
i climatologi stessi fossero rimasti “scioccati”, “spiazzati”, “sorpresi” da
queste manifestazioni estreme, suggerendo così – in maniera consapevole o meno
– che delle persone che hanno passato la vita a studiare i fenomeni climatici,
siano di fatto degli sprovveduti, alla stregua di marinai in tempesta che
cercano la terra usando un bicchiere come binocolo. Il che è ancora più curioso
se si considera che per decenni i climatologi sono stati accusati di essere
eccessivamente catastrofisti: ora che le catastrofi preconizzate si vedono, li
si accusa di non essere sufficientemente precisi nel proprio catastrofismo. Il
punto è che le previsioni della scienza climatica non possono anticipare cosa
succederà precisamente e dove, quanto semmai prevedere che l’intensità e la
frequenza di determinati eventi meteorologici aumenteranno in modo netto con
l’aumento di CO2 nell’atmosfera. Se da un lato infatti gli esperti
mettono in guardia dal “dare la colpa” di ogni singolo evento meteorologico
estremo al cambiamento climatico, dall’altro affermano senza indugio che i
cambiamenti climatici influenzano fortemente le condizioni atmosferiche,
causando siccità più lunghe, pattern di precipitazione più erratici,
temperature più alte in alcune regioni e inondazioni in altre. E non a caso, in
questo contesto, fanno una distinzione tra “causalità” e “influenza”, due
aspetti diversi che permettono di spiegare in maniera scientifica il rapporto
tra riscaldamento globale e frequenza ed intensità di eventi meteorologici
estremi. Esiste un campo conosciuto come extreme event attribution –
attribuzione di eventi estremi – che collega il concetto apparentemente
astratto di cambiamento climatico con le esperienze tangibili di eventi
climatici e meteorologici. Secondo un’analisi di Carbon Brief, gli
scienziati hanno pubblicato più di 350 studi sottoposti a revisione paritaria
che esaminano gli estremi meteorologici in tutto il mondo, dalle ondate di
calore in Svezia alla siccità in Sud Africa, dalle inondazioni in Bangladesh
agli uragani nei Caraibi. Il risultato è una crescente evidenza di come
l’attività umana stia aumentando il rischio eventi meteorologici estremi. Dei
122 studi di attribuzione sul caldo estremo che sono stati esaminati, il 92% ha
concluso che il cambiamento climatico ha reso l’evento o la tendenza più
probabile o più grave. Dagli 81 studi che hanno esaminato le precipitazioni o
le inondazioni, il 58% ha riscontrato la stessa tendenza. Nei 69 eventi di siccità
studiati, invece, la percentuale sale al 65%. Per questo quando si parla di
“attribuzione di eventi estremi”, è importante chiarire se si tratta di una
categoria di eventi – per esempio le ondate di calore – o un evento specifico –
per esempio le alluvioni in Germania. E, soprattutto, è importante porre la
domanda corretta. Secondo il dottor J. Marshall Sheperd, esperto di clima
e direttore del programma di scienze atmosferiche dell’Università della Georgia
“i media e i decision-makers devono smettere di chiedere se un evento
meteorologico sia stato causato dal
cambiamento climatico”. Le domande che bisognerebbe farsi piuttosto sono
altre: “eventi di questa gravità sono più
o meno probabili a causa del cambiamento climatico?” oppure “in che misura l’evento è stato più o meno
intenso a causa del cambiamento climatico?” Ignorare questi collegamenti nel racconto
della crisi climatica e non avere una visione comprensiva di questi elementi è
un problema. Trattare gli eventi meteorologici estremi come casi isolati e
scollegati dalla crisi climatica è un problema. Dare le notizie su questi
eventi come fatti di cronaca che esaltano esclusivamente le dimensioni di
località e temporaneità (acquazzoni torrenziali, nubifragi, bombe d’acqua)
è un problema. L’abuso del termine “maltempo”, che sembra essere la parola
magica, un jolly che viene utilizzato per evitare analisi,
ricerca, approfondimento, è un problema. Lo è perché rinforza una narrazione
della crisi climatica fuorviante che da un lato ci impedisce di vedere come il
nostro mondo sia già inevitabilmente cambiato, dall’altro fornisce una sponda a
chi ha interesse a procrastinare un intervento politico ed economico che invece
è palesemente irrimandabile. L’impiego di un linguaggio migliore nel racconto
della crisi climatica è un passo fondamentale per operare il cambio di
paradigma di cui abbiamo bisogno, e questo perché il modo in cui parliamo
determina il modo in cui pensiamo, e il modo in cui pensiamo determina il tipo
di sguardo che rivolgiamo al mondo. Se fatichiamo a prendere atto di una
minaccia esistenziale già così manifesta, è anche perché non siamo
evolutivamente equipaggiati a catalogare questa minaccia come qualcosa che possa
mettere a rischio la nostra sopravvivenza. Siamo i discendenti di chi sapeva
scappare di fronte a pericoli immediati, ma anche di chi era in grado di
mantenere il sangue freddo quando il pericolo era solamente percepito. Quegli
stessi meccanismi che hanno permesso ai nostri antenati di sopravvivere in un
mondo pieno di insidie senza andare in paranoia a ogni spron battuto, oggi ci
paralizzano in una situazione dove, anche se a livello razionale ci viene detto
che l’acqua in cui galleggiamo sta bollendo, ci lasciamo rosolare a fuoco lento
perché convinti che si tratti solo di un fenomeno eccezionale. L’utilizzo di un
linguaggio adeguato può aiutare a spezzare questo circolo vizioso cognitivo.
L’atto di dare nomi dopotutto è una componente cruciale dell’apprendimento: i
neonati imparano a stabilire connessioni più durature tra le cose che sentono,
vedono e odorano una volta che possono etichettarle con un nome. Non c’è da
stupirsi allora se nel maggio del 2019 Il Guardian ha chiesto ai propri
collaboratori di utilizzare una nuova terminologia per parlare della
questione climatica: dovevano innanzitutto evitare il termine “cambiamento
climatico”, reo di suonare troppo delicato e passivo, e preferire invece “crisi
climatica”, “collasso climatico” o “emergenza ecologica”, che in effetti
restituiscono meglio la complessità e gravità della questione. La scelta di
“linee guida” ufficiali per la comunicazione dell’argomento era funzionale dal
punto di vista editoriale, ma questo non significa che vadano adottate in
maniera dogmatica nella comunicazione di tutti i giorni. Perché se è vero che
il termine “cambiamento climatico” può risultare meno allarmante di “crisi
climatica” è anche vero che veicola una sfumatura concettuale – l’idea di
essere in una fase di transizione in divenire – che nella seconda locuzione
invece manca. Vietare l’utilizzo di certe parole non è necessariamente la
strada giusta. Forse risulterebbe più proficuo (anche se più dispendioso)
dedicare più attenzione alla complessità del problema, porsi in un’ottica di
dubbio, schivare gli automatismi che rendono così allettante risolvere un pezzo
parlando di “evento epocale” o di “climatologi spiazzati”. Forse, prima di
descrivere un’alluvione come un evento “eccezionale” o “epocale”, sarebbe
sufficiente soffermarsi un momento a riflettere: lo è davvero?
https://journals.openedition.org/qds/1388
RispondiEliminaArticolo senz’altro stimolante oltre l’analisi della comunicazione in ambito giornalistico e a tale proposito vi segnalo questa riflessione sulla causalità come congiunzione probabile.