La parola del mese
A turno si propone una parola evocativa di pensieri fra di loro
collegabili in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione
GENNAIO
2022
Fra
tutte le componenti ambientali investite dallo stress antropico è forse quella
che raccoglie meno attenzioni per quanto non sia meno rilevante sotto diversi
aspetti. Lo è come testimonianza della cecità dell’agire umano, lo è per le
conseguenze che già stanno derivando dal suo stato di salute in costante
peggioramento, e lo è come indicatore del generale processo di degrado e delle
logiche perverse che lo creano. Abituati a considerarlo semplicemente come
l’elemento fisico sul quale poggiamo i nostri passi non prestiamo sufficiente
attenzione alla sua conformazione ed alla sua importanza. Eppure è tempo di
farlo ……..
SUOLO
La
definizione da vocabolario recita:
suolo
= la superficie del terreno, ossia lo strato più superficiale di esso,
formatosi in seguito all’alterazione del substrato roccioso per successive
azioni fisiche, chimiche, biologiche da parte di agenti esogeni e degli
organismi che vi si impiantano
Il suo stato di salute riveste una
fondamentale importanza per la sopravvivenza dell’uomo ospitando da sempre, in
modo diretto o indiretto, la grande
maggioranza delle nostre risorse alimentari, non a caso alla definizione
generica di suolo
(naturale) si è affiancata quella specifica di suolo agrario con la quale si intende lo strato, mediamente di circa
70 cm, suddiviso in due sub-strati pressappoco
di pari altezza: quello superiore attivo, soffice e ben aerato, ricco
di humus e di organismi viventi, che alimenta quelli vegetali che su di esso
poggiano tramite le loro radici, e quello
inferiore inerte, più compatto, più
povero di ossigeno e più ricco di componenti minerali trasportati in profondità
dall’acqua piovana. Ed è la combinazione fra questi due sub-strati che fa
diventare il suolo
agrario fondamentale per l’esistenza dell’umanità grazie alla produzione
di cibo che su di esso avviene. Ma più in generale è impressionante l’insieme di
servizi eco-sistemici e di funzioni vitali per il benessere complessivo della
vita sulla terra e dell’ambiente che sul suolo gravitano:
produzione
di biomassa e supporto all’attività agricola e forestale
regolazione
del ciclo idrologico (immagazzinamento dell’acqua, riduzione del dilavamento,
ricarica delle falde)
habitat per
gli organismi viventi
supporto
alla biodiversità
regolazione
del clima attraverso l’alta inerzia termica
accumulo e
riciclo di nutrienti
deposito di
carbonio
fonte di
materie prime
supporto
meccanico per gli organismi e le strutture
retaggio
geologico, archeologico e culturale
Al tempo stesso questa preziosa risorsa è fondamentalmente non
rinnovabile, in quanto la pedogenesi – ovvero il processo che porta alla
formazione di suolo grazie all’azione di
fattori fisici, chimici e biologici – è estremamente lenta: sono necessari
almeno 500 anni per la formazione di 2,5 centimetri di suolo. Una risorsa così decisiva ma anche così fragile, così
difficilmente rinnovabile, già del suo facilmente aggredibile da eventi
naturali, richiederebbe da parte dell’uomo grande attenzione e cura. Quello che
è successo ad iniziare dalla rivoluzione agricola con l’acquisita sedentarietà,
per poi esplodere con modalità impressionanti con quella industriale e con la
collegata crescita demografica, è esattamente il contrario. Sono
sostanzialmente due le forme di impatto diretto delle attività umane sul suolo: le attività agricole e di allevamento e la sua occupazione per
l’insediamento di attività non agricole di svariata natura. In questo post
presteremo particolare attenzione a questa seconda forma di impatto, ma sono
non meno opportuni alcuni sintetici cenni sulle conseguenze negative delle
attività agricole e di allevamento, soprattutto nelle loro attuali forme
intensive strettamente connesse all’esplosione demografica mondiale avvenuta
tra gli anni Sessanta e Novanta del secolo scorso. La necessità di rispondere
ad una domanda globale di cibo in impressionante crescita ha incentivato
l’adozione di tecniche di sfruttamento dei terreni che, seppure con pesanti contraddizioni
e disuguaglianze, hanno adeguatamente potenziato la relativa offerta di cibo (nell’ambito
del nostro programma 2019/2020, purtroppo incompiuto causa pandemia, avevamo
dedicato al cibo due “Saggi del mese”: Febbraio 2020 “Storia del cibo” di
Felipe Fernandez Armesto –Marzo 2020 “I padroni del cibo” di Ray Patel). L’altro lato della
medaglia sono però le gravissime conseguenze ecologiche che queste tecnologie,
al servizio di logiche di profitto, hanno provocato in tutto il pianeta: deforestazione,
desertificazione, inquinamento delle falde acquifere, impoverimento del sub-strato
attivo, emissione di gas metano, il più potente gas serra, da parte degli
allevamenti intensivi. Incidono in particolare due aspetti: il primo consiste
nell’impattante ricorso alle monocolture, ossia la coltivazione di una sola
specie vegetale su un’intera porzione di territorio, che inesorabilmente
conduce sul lungo periodo ad un impoverimento della fertilità del suolo, agendo
negativamente sui sali minerali in esso contenuti. Da qui deriva il rischio
desertificazione sempre più crescente sul pianeta compensato, in una spirale
perversa, dalla corsa sfrenata a nuovi terreni coltivabili mediante la
deforestazione. Il secondo aspetto è quello dell’uso massiccio di diserbanti, fertilizzanti,
concimi chimici e fitofarmaci che possono inquinare suolo e ciclo dell’acqua, già
del suo iper-sfruttata. Per approfondire gli aspetti della seconda forma di
impatto antropico, il consumo di suolo, ci affidiamo alla loro
analisi contenuta nel saggio
Paola Bonora (Docente di Geografia all’Università
di Bologna, ha dedicato al consumo di suolo diversi saggi)
dal quale abbiamo estrapolato, procedendo
per punti, alcuni elementi preziosi di conoscenza, approfondimento e possibile
soluzione:
la denuncia degli effetti del “consumo di suolo”
investe un insieme di problemi che rientrano in una più ampia visione
sistemica, in questo senso potrebbe essere più corretta la definizione di “consumo di territorio”
per meglio comprendere le
considerazioni di merito su questo problematico “consumo” alcuni semplici dati generali bene spiegano
la sua consistenza quantitativa:
Ø
nel
2014 l’ISPRA (Istituto Superiore
Protezione Ricerca Ambientale)
stimava in 8 mq al secondo il consumo di suolo in Italia, forse la dicitura estesa
in lettere lo rende più evidente: OTTO metri quadri (un
rettangolo di due metri per quattro) al SECONDO
Ø
alle
sue spalle sta un accumulo di consumo che, a partire dagli anni Sessanta del
boom economico e demografico, è stimabile in un consumo
medio di 7 mq/secondo,
con un picco di 10 mq/sec negli anni
Novanta
quando la curva
demografica ha iniziato a stabilizzarsi e a scendere mettendo in luce il peso
di una speculazione finanziaria/immobiliare. I dati sono inoltre ben superiori
alla media europea
Ø
la
situazione europea evidenzia infatti, sempre dagli anni Sessanta, una crescita della superficie coperta del 78%, a fronte di una crescita demografica del 33%, pari ad una superficie impermeabilizzata di circa
centomila kmq, il 2,3% del territorio totale, in media
200 mq per abitante.
E’ il dato italiano degli anni Cinquanta, un valore ai nostri giorni arrivato a
369 mq per abitante,
quasi il doppio del dato europeo
Ø
questo
processo di occupazione di suolo è storicamente collegabile a due opposti fenomeni:
un processo di “urbanizzazione” durato fino agli anni Settanta e
connesso all’era della fabbrica fordista, ed uno successivo di “esodo”
progressivo verso la prima, seconda, terza cintura. Il combinato disposto di
questi due processi, non governati da adeguate politiche urbanistiche e territoriali,
sono per l’appunto i 369 mq per abitante, buona parte dei quali, dopo l’impatto
di crisi economiche, di deindustrializzazione, di decrescita demografica, si
presentano sotto/mal utilizzati, quando non del tutto abbandonati
Questo quadro quantitativo acquista
maggior rilievo se inserito nel contesto globale della disponibilità di suolo agrario, quello su cui poggia la produzione di cibo per
l’intera umanità: le terre emerse
rappresentano il 30% circa della superficie terrestre, ma quelle
sfruttabili per la coltivazione, senza il ricorso a strutture idriche
artificiali, sono solo l’11%. Su questa
ristrettissima risorsa terrestre poggia la sopravvivenza degli attuali (quasi) otto
miliardi di persone
Ed è su di essa che hanno agito le
logiche, più o meno consapevoli, del suo consumo. La cui misurazione non è
operazione semplice, condivisa, univoca, perché basata su una terminologia
tecnica non uniforme, e su metodi e parametri non meno differenziati. Occorre
poi tenere nella giusta considerazione il fatto che non è determinante solo quanto suolo è stato
e viene consumato, ma quale tipo di suolo, con quale tipo di consumo e di
copertura, e con quale impatto ecologico e sistemico. E’ la differenza, fondamentale,
che viene tecnicamente espressa con i termini land
cover (copertura del suolo) e land use (uso del suolo)
Con il primo si intende di norma il perimetro di suolo che viene artificializzato e quindi
impermeabilizzato,
con il secondo si individua l’insieme delle
attività umane che su di esso si svolgono (ad esempio agricole, urbane, di circolazione, etc.)
L’incrocio tra i due
parametri consente di abbinare quantità e qualità, fornendo così la possibilità
di meglio cogliere, per fare alcuni esempi, l’impatto del consumo sul
paesaggio, piuttosto che sui terreni più fertili, storicamente quelli più
vicini alle città (lì insediatesi nell’ottica della storia agricola)
Un positivo
miglioramento, restando nell’ambito europeo, è avvenuto con la creazione della
banca dati CORINE (acronimo di Coordination of Information on the
Enviroment, Coordinamento delle informazioni sull’ambiente) che fotografa
periodicamente la situazione del consumo usando omogenei parametri, strumenti,
cartografie, affiancando i rilievi su campione fatti dal parallelo programma LUCAS. Particolarmente
caotica sembra essere la situazione italiana dove sono operativi programmi di
rilevamento dati, fra di loro diversi, del Ministero dell’Agricoltura, del
Ministero dell’Ambiente, del Corpo Forestale dello Stato (ormai ex) e di
diverse Agenzie sub-ministeriali quali la già citata ISPRA e le ARPA regionali.
Fatta salva questa
doverosa premessa ed utilizzando i dati di Corine e Lucas emerge la seguente
fotografia di dettaglio aggiornata al 2012
Ø
la land cover
dell’Italia è pari al 7,8% del territorio nazionale a fronte di una media
europea del 4,6%.
Peggio di noi sono solo Malta, Belgio, Olanda e Lussemburgo
Ø
questo
dato è così ripartito: 2,7% aree residenziali
e di servizio contro l’1,5% medio europeo – 5,1% altre aree contro il 3% medio
europeo
Ø
passando
alla fotografia land use queste superfici sono composte solo
per il 30% da edifici, residenziali e produttivi, il restante 70% è formato da strade, ferrovie, piazzali, parcheggi,
aree estrattive, discariche.
Un dato molto superiore alla media europea che si spiega anche con la
consistenza del parco automobili in circolazione, il più alto in Europa con le
sue 61 auto ogni 100 abitanti
Una fotografia che già molto dice e nella
quale l’attività umana che di più “consuma
suolo”, l’agricoltura, svolge un ruolo al tempo stesso di vittima e di
carnefice
Vittima lo è stata innanzitutto dal
punto di vista concettuale: per molti decenni nel secondo dopoguerra la
centralità crescente delle città, e delle attività che in essa si identificano
e collocano, ha concepito e ridotto l’agricoltura ad attività marginale, e gli
spazi da essa storicamente occupati a libero terreno di conquista. Un
distendersi della conformazione urbana, tecnicamente definito come urban sprawl,
che, soprattutto in Italia, è proceduto in linea orizzontale, in modo
disordinato e con percorsi inizialmente frammentati poco alla volta ricuciti
fra di loro grazie ad un irrazionale, se non finalizzato a fini speculativi, ampliamento
delle vie di comunicazione e di collegamento
Solo a partire dagli Settanta l’urban
sprawl ha iniziato a rallentare, ma è rimasta in piedi la gran parte degli
strumenti urbanistici che lo avevano consentito permettendo in questo modo
ulteriori trasformazioni d’uso di ambiti territoriali (ex)agricoli ormai
motivati esclusivamente da finalità speculative
Eppure la fotografia del suolo
europeo ai giorni nostri non ancora urbanizzato/impermeabilizzato, è composta
da una percentuale di territorio ancora significativa in linea di massima così
ripartita: 48% di foreste/boschi – 32% terre
agricole/colture permanenti – 20% pascoli. In una situazione che vede però il peso economico
delle attività agricole sempre più marginale, dal 2000
al 2012 il PIL europeo agricolo è passato da un già basso 2,1% ad un ancor più
modesto 1,7%
In questo quadro europeo l’Italia
evidenzia una percentuale di addetti del settore
agricolo relativamente basso pari al 3,7% sul totale degli occupati (in Germania sono l’1,5%, in Francia il
2,9% mentre, all’estremo opposto, in Romania salgono al 29%) che si sta progressivamente
concentrando in aziende di dimensioni sempre più ampie: quelle che hanno una
estensione superiore ai 30 ettari controllano ormai più della metà del suolo
agricolo occupato
Questo settore agricolo italiano, pur continuando ancora ad occupare il 42,8% del territorio
nazionale, non
riesce a coprire il fabbisogno alimentare interno,
fornendo il 73% di quello dei cereali, il 72% di quello di carne, e del 64% di
quello di latte.
Sulla base degli attuali parametri di resa agricola l’Italia è così il terzo
paese in Europa ed il quinto nel mondo per deficit di suolo agrario
Partendo da questi dati e allargando
lo sguardo su scala globale (là dove per avere la stessa resa di un ettaro
agricolo in Europa ancora servono ben 10 ettari) ciò significa che l’uso irrazionale
del suolo
in Italia sta comportando una forte dipendenza dal commercio internazionale
(con costi quasi sempre non negoziabili), e quindi la complicità dei comportamenti
delle multinazionali del cibo e dell’inquinamento eco-sistemico dei trasporti
merci su larga scala
Ciò detto l’agricoltura italiana non è meno carnefice del suolo/territorio su cui gravita: l’agroindustria
italiana (quella composta dalle aziende con molti ettari a disposizione) poggia
stabilmente sui comportamenti di forte impatto ecologico di cui si è detto,
soprattutto sulle aree più pianeggianti. Il dato
italiano non si discosta da quello medio globale che vede l’agricoltura responsabile
del 14% delle emissioni di gas serra e del consumo del 70% di acqua, per non dire dell’uso massiccio di
prodotti chimici. Il risultato è una impressionante crescita esponenziale delle
rese: tra il 1960 ed il 2010, a fronte di un
aumento delle superficie coltivata pari al 12%, la produzione agricola è
cresciuta del 150%, un’intensità di sfruttamento che sta però causando il
degrado, troppo spesso irreversibile, del 25% della superficie coltivata
Un certo conforto viene dalla
recentissima tendenza ad un ritorno, per ora ancora di nicchia, a produzioni
più rispettose ed ecologiche. Quelle denominate “biologiche” finalizzate al
contesto locale, spesso sostenute da reti di commercio specifiche, non
raccontano solo di un diverso rapporto con il suolo agrario, ma svolgono un
significativo ruolo di risparmio energetico, di valorizzazione dei legami
sociali, di mantenimento e ripristino dei paesaggi rurali
Ed in effetti l’intimo suo rapporto
con il paesaggio è una delle caratteristiche fondamentali del consumo di
suolo/territorio (“Piccola
storia del paesaggio” di Hansjork Kuster è stato il nostro “Saggio del mese” di
Ottobre 2019). Non a
caso infatti è soprattutto sulla percezione del degrado paesaggistico che
poggia la coscienza collettiva dell’impatto antropico sul suolo e,
conseguentemente, sull’insieme naturale e culturale, ossia il risultato
poliedrico del lavoro umano, che sommariamente definiamo paesaggio
Al di là dello strettissimo specifico
rapporto con il suolo il paesaggio, e la sua percezione collettiva, è divenuto
un filtro decisivo per comprendere l’impatto ecologico e sistemico dell’uomo
sulla natura
Per quanto sintetiche le
considerazioni sin qui svolte sul consumo di suolo dovrebbero rappresentare un
segnale d’allarme così evidente e preoccupante da aver già innescato adeguate
decisioni politiche e amministrative. Così come si potrebbe ritenere pensando
alla frequenza di locuzioni come “consumo del suolo” e “tutela del paesaggio”
nel dibattito collettivo. Ed in effetti su questi temi la produzione di
strumenti normativi, a livello europeo soprattutto ma anche nazionale, non
sembrerebbe, a considerarne la mole, insufficiente. Eppure, quanto finora
evidenziato, non testimonia una vera svolta
Neppure troppo paradossalmente una
delle spiegazioni di questa insufficiente politica consiste proprio nell’intrico di disposizioni e nel groviglio delle collegate
competenze, che impediscono, anche alle migliori intenzioni di
intervento, di divenire concreti strumenti operativi
Per restare alla situazione italiana
ne è testimonianza esemplare la ben conosciuta legge
Galasso del 1985 “Tutela delle zone di particolare interesse ambientale e
paesaggistico” rimasta lettera morta
perché facilmente aggirata proprio grazie alla disordine normativo in materia
La cortina fumogena del
contraddittorio eccesso normativo non ha però coperto un triste dato di fatto: non è mai mancata la consapevolezza, scientifica, sociale e per
l’appunto persino normativa, è mancata la volontà politica, quasi sempre più
attenta a mettere in moto interventi di forte impatto sul suolo perché ritenuti
essenziali ai fini della “crescita”. L’enorme mole di
infrastrutture di vario genere che su di esso si sono riversate (e che ancora si riverseranno anche con
l’attuale PNRR) ne è prova purtroppo
in gran misura imperitura
Un modo di pensare
mainstream che non è mutato nell’attuale fase da alcuni decenni definita
post-industriale ed anzi si è accentuato sulla spinta della deregulation
neo-liberista che ha troppo spesso svuotato definitivamente norme e regolamenti
avviando così un processo di
trasformazione del territorio in bene mercantile
Un processo che ha attraversato gli
ultimi decenni del secolo scorso ed i primi di quello nuovo lasciando dietro di
sé un suolo impermeabilizzato, cementificato in una esplosione
di centri commerciali, di capannoni ormai ex-industriali, di villaggi di
villette a schiera. Nel solo periodo che
va dal 1995 al 2011 nel nostro paese sono stati rilasciati permessi di
costruzione per 4,1 miliardi di metri cubi vale a dire 243 milioni di metri
cubi all’anno, l’80% dei quali per la realizzazione di edifici nuovi ed il
restante per ampliamenti. Ai quali va aggiunta la scandalosa quota di
abusivismo che incide al Nord per un 5% delle nuove costruzioni legali, al
Centro per un 10%, ed al Sud per ben il 30% con punte del 50% in alcune zone.
La crisi globale del 2008, in buona
parte innescata dalla bolla finanziaria collegata ai mutui troppo facilmente
concessi per sostenere la domanda di questa gigantesca urbanizzazione su suolo
vergine, ha poi evidenziato che si è trattato, anche dal punto di vista
puramente economico, un cattivo affare. Per le famiglie indebitate, per lo
stesso mondo dell’imprenditoria edilizia, e per il sistema viario e dei
trasporti sempre più ingolfato. A significare che i
danni collegabili al perverso consumo di suolo sono molto ampi e trasversali,
ma al loro interno quelli di impatto ambientale, di spreco energetico, di
qualità del suolo e dell’aria, di compromissione ulteriore di sistemi
idro-geologici già fragili restano indubbiamente quelli più pesanti.
E’ bene chiudere questa sintetica
panoramica con alcune note, almeno sul piano delle buone intenzioni, più
ottimistiche. A fronte della cresciuta consapevolezza ecologica ed ambientale la UE si è data, con uno specifico documento strategico adottato
già nel 2012, l’ambizioso obiettivo di arrivare nel 2050 al traguardo di
consumo zero di nuovo suolo.
Spetta ora ai singoli Stati tradurre questo obiettivo in reali provvedimenti
politici, ed in questo senso, considerato che l’Italia è il paese europeo più
in ritardo, buona parte dell’ottimismo già vacilla!
E’ quindi indispensabile che la
crescente consapevolezza dell’urgenza di contrastare l’emergenza ambientale, a
partire dal riscaldamento climatico, veda anche nella difesa del suolo una
priorità irrinunciabile. Che si affermino conseguentemente, anche nel nostro
paese, idee come le green belts, cordoni
verdi invalicabili a delimitare i bordi delle città, programmi di difesa ad oltranza delle aree agricole, restringendo al massimo i loro
cambi d’uso, e di recupero delle aree
dismesse o già compromesse,
rimodellando non solo la morfologia urbana ma l’intera identità della città e
del centro abitato grazie all’uso di tecniche urbanistiche di “infilling”
(riempimento). Un insieme variegato di processi ancora da definire e
perfezionare i cui inevitabili alti costi dovranno essere coperti il più
possibile da quote significative delle plusvalenze che potranno creare e da una utilizzazione mirata di quanto ottenibile dagli oneri di urbanizzazione troppo
spesso destinati a ben altre finalità, soprattutto nel nostro paese
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