Il “Saggio” del mese
GENNAIO
2022
Anche solo seguendo le cronache di questi tempi tormentati è davvero difficile essere ottimisti sulla tanto invocata, a parole, “svolta green”: da una parte degrado e surriscaldamento proseguono con costante e preoccupante incremento (il nostro post pubblicato ad Ottobre “Cambiamento climatico: evidenze dalle scienze fisiche” di Gianni Colombo illustra nel dettaglio i probabili futuri scenari), dall’altra persistono inadeguata conoscenza, timida consapevolezza, insufficiente volontà a procedere in modo concreto ed immediato. Questo colpevole ritardo accentua la complessità degli interventi sempre più necessari che, per la natura della partita in gioco, richiedono il concorso congiunto e coordinato di tutti i saperi umani. Da tempo come CircolarMente cerchiamo, nel nostro piccolo, di muoverci in questa direzione mossi dalla convinzione che comunque una vera svolta potrà avverarsi solo se l’umanità si interrogherà sul senso ultimo del suo rapporto con il pianeta e la natura. Ciò significa che tutte le misure adottabili, tutte le volontà politiche che le individueranno e che daranno loro concreto seguito, potranno avere reale efficacia e valenza solo se adeguatamente sostenute da questa riflessione, che impone di entrare senza timori e remore anche nel campo della “filosofia”. Non a caso quindi, restando nel nostro piccolo, abbiamo dedicato diversi “Saggi del mese” e “Parole del mese” a suggestioni di questo genere [fra le altre, guardando anche solo a quelle più recenti ricordiamo quelle offerte da filosofi come Jonas (post Aprile 2021), Heidegger (due post collegati Maggio 2021), Remo Bodei (post Gennaio 2021), ed il collegato contributo dell’antropologo Descola (Giugno 2021)].. Non è semplice orientarsi nel vastissimo campo del pensiero filosofico, che per definizione non ha limiti e confini, ma proprio per il ruolo centrale che esso può avere nell’attuale temperie è bene cercare di meglio capire cosa si intende quando si parla di filosofia, e soprattutto quale tipo di filosofia di più si collega a questo fondamentale scopo. Il saggio di questo mese offre interessanti spunti in questa direzione (ci scusiamo per la complessità di alcuni passaggi e per la sua lunghezza, ma questa sintesi non poteva essere più di tanto semplificata e compressa)
Donatella
Di Cesare (docente di filosofia teoretica
presso l’Università La Sapienza di Roma, di lei abbiamo pubblicato, come
“Parola del mese” di Novembre 2021 “Il complotto al potere”)
dal risvolto di copertina……
È tempo che la filosofia
torni alla città. Anzitutto per risvegliarla da quel sonnambulismo che la
narcosi di luce del capitale ha provocato. Ma quale margine ha il pensiero nel
mondo globalizzato, chiuso in se stesso, incapace di guardare fuori e oltre?
Mentre viene richiamata alla sua vocazione politica, la filosofia è spinta a
non dimenticare la sua eccentricità, la sua atopia. Nata dalla morte di
Socrate, figlia di quella condanna politica, sopravvissuta a salti coraggiosi e
rovesci epocali, come nel Novecento, la filosofia rischia di essere ancella non
solo della scienza, ma anche di una democrazia svuotata, che la confina a un
ruolo normativo …… Non bastano la critica e il dissenso. Memori della
sconfitta, dell’esilio, dell’emigrazione interna, i filosofi tornano per
stringere un’alleanza con gli sconfitti, per risvegliarne i sogni.
L’immanenza satura del globo
…….
Non c’è più
un fuori. Appare così l’ultimo stadio della globalizzazione …… e quel fuori intende proprio la realtà esterna
all’uomo, da sempre l’oggetto della sua voglia di scoprire e capire a lungo
rimasto sconosciuto ed alieno. Poi la svolta, poco alla volta così tanto si è
scoperto e capito da creare l’illusione della fine del “fuori”. La globalizzazione compiuta
e l’Antropocene ne sono la definitiva conferma. In questa sorta di “immanenza satura”
di una realtà tutta afferrata ed abitata, il cui nome non può che essere TINA (There Is No Alternative, non c’è alternativa), in questo mondo senza
“fuori” c’è ancora spazio e ruolo per la filosofia? E’
sempre più urgente capirlo se tutti i segnali che dalla realtà ci pervengono, ci
dicono, a volerli e saperli cogliere, che la …… virata dell’umanità verso la catastrofe
appare imminente ….. In questo mondo che presuntuosamente tutto
illuminato sembra aver cancellato il rigenerante buio della notte, bisogna ripartire
dallo spazio e dal tempo originariamente casa naturale della filosofia: le ore
della notte che preludono al sorgere del giorno, quelle della …… veglia …… là dove la filosofia e la sua vocazione
politica sono nate, nella Grecia classica
Eraclito, la veglia ed il comunismo originario
E’ Eraclito,
detto l’ “oscuro”, (6°-5°
secolo a.C.),
il primo filosofo che guidato dalla luce del lògos, il pensiero che si fa
discorso, celebra la fecondità della veglia. Della sua opera filosofica, per
alcuni un trattato sulla natura per altri un saggio sulla politica, restano
pochi confusi frammenti. Eraclito è però un severo guardiano della pòlis,
nella quale il discutere deve avere la forma del “pòlemos”, la “discorde armonia
dei contrari ”, del conflitto che, “padre di tutte le cose”, aiuta a
trovare soluzione a tutti i contrasti. Occorre però che l’uomo, troppo spesso
prigioniero della propria privata meschinità, non si sottragga al suo ascolto
restando così un “idiòtes”, un idiota, termine greco che altro non indicava
che l’uomo
privato in contrapposizione all’uomo pubblico.
In un frammento Eraclito precisa che idiòtes è colui che, restando fermo nell’isolamento
della notte, si preclude la partecipazione al giorno. Il richiamo alla veglia è
costante nei suoi frammenti …… non dormite, non lasciatevi andare al sonno dell’idiozia
privata, non agite e non parlate come se si stesse dormendo! …..
Guardiano della città Eraclito, per il quale la politica è figlia della filosofia,
denuncia la “notte
della politica”. La pòlis, la città, può reggere solo grazie al “koinon”, il “comune inteso come pubblico”, che
deve, tramite il logos, alimentare il “nomos”, lo spirito delle leggi, degli statuti.
Il comunismo originario, inteso come attenzione al bene comune, altro non è che
la vigilanza sullo spazio pubblico di cui si fa custode la politica.
Narcosi di luce. Sulla notte del capitale
Più di due millenni dopo
in luogo della veglia di Eraclito troviamo l’abbagliante luce di un giorno,
divenuto ben più di un semplice intervallo fra due notti. Che cosa avrebbe egli
detto di questa sorta di “narcosi di luce” ? Non avrebbe certo applaudito se solo
avesse potuto vedere l’intera umanità vivere buona parte del giorno e della
notte davanti a schermi luminosi, ed ancor meno avrebbe approvato l’ idea di tempo
della vita sintetizzato nella matematica
formula del 24/7: …… ad indicare un vivere fatto di produzione e consumo senza
limiti, in una operatività incessante che si protrae ventiquattro ore su
ventiquattro, sette giorni su sette …….
Nessun ostacolo pare limitarla, il tempo dell’uomo è ormai il giorno permanente,
l’abolizione del confine tra attività e riposo. Una sorta di narcotica
insonnia che
non è più la veglia, colma di attenzione e di pensieri, di Eraclito. Ma in
questa trance illuminata senza limiti può ancora esistere il “risveglio”?
Chiamata alla “polis”
Questa domanda
chiama in gioco l’interrogarsi
a-temporale della filosofia, il riflettere filosofico non riducibile
nelle logiche del tempo, da sempre però insidiato da due rovinose tentazioni: il chiudersi in sé
stesso, astraendosi dal mondo, oppure il rinunciare alla propria natura
diventando tutt’altra cosa. Due tentazioni che si sono accentuate nei
giorni nostri dove i saperi si riducono a simulazioni tecnologiche, dove
dilagano, in contrasto solo apparente, semplificazione e iper-specializzazione.
Mentre la vocazione filosofica è quella di un approfondimento che tutto cerca
di comprendere senza steccati …… se ciascun ambito di conoscenza affronta un problema, la
filosofia pone un problema ai problemi …… manifestando così la sua
più genuina tensione interna: quella di tenere intrecciate esistenza e politica in una
comune traiettoria scandita da tre parole: atopia,
ucronia, anarchia ….. (su di esse si tornerà nel merito più
avanti). Porre un problema ai
problemi è infatti la più genuina dimensione dell’interrogarsi filosofico e
della sua vocazione verso la pòlis, la politica che ..... in un rinvio reciproco è ispirata dalla
pòlis ed al tempo stesso aspira alla pòlis
….. Nella attuale narcosi della luce di un giorno infinito
l’interrogarsi filosofico della veglia diventa il simbolo del suo rientro nella pòlis.
Stupirsi: una passione inquieta
Già al tempo dei
Greci la vocazione politica della filosofia si è misurata con il sofismo,
il parlare, farcito di retoriche parole, che non possiede un vero sapere. E’
proprio contro il sofismo che Socrate dichiara il suo “sapere di non sapere”, convinto
com’è che filosofare altro non è che ……. guardarsi attorno con stupore, interrogarsi con
meraviglia …… chi filosofa è ineluttabilmente preso da stupore, e chi
non prova stupore non può filosofare ….
Non si ha vera filosofia, e vera vocazione politica, se si guarda freddamente alle
cose del mondo. Il pàthos filosofico, che è vera passione, impone
lo stupore di chi non giudica più ovvio quello che appena prima tale sembrava
essere. E’ lo stesso stupore dello scienziato di fronte all’ignoto che
affronta? I greci, senza fare distinzioni, chiamano “theorìa” ….. la
contemplazione delle cose che accompagna lo stupore …… Filosofo e scienziato sembrerebbero accomunati
dallo stupore e dalla theorìa. Ma l’affinità si ferma qui: l’oggetto del suo
stupore diventa per lo scienziato un problema da risolvere con metodo e sempre aguzzando la
vista. La filosofia al contrario, se non di meno esige occhi aperti,
poi impone che questi si chiudano per consentire quel singolare vedere che è il pensare.
Se lo scienziato volge il suo stupore alla comprensione dell’ente, del fenomeno
oggetto del suo stupore, il filosofo guarda, con occhi chiusi, al …. motivo che è al
fondo di quello stupore …. In un
mondo come quello attuale così fondato sul progresso scientifico il compito
della filosofia non deve però essere quello di venire, per dare sostanza e
conforto al suo procedere, dopo la scienza, ma è quello di precederla, di
venire prima,
di porsi prima,
interrogandosi ad occhi chiusi, le domande che diano senso e direzione allo stesso
stupore scientifico
Tra cieli ed abissi
Il difficile
rapporto fra pòlis e filosofia è ben raccontato dallo scherzoso mito di Talete di Mileto (620-540 a.C. filosofo
ed astronomo)
che, camminando di notte con lo sguardo volto alle stelle, finisce dentro un
pozzo suscitando lo scherno di una servetta. Un aneddoto che racconta di come la filosofia
vede cose che altri non vedono, ma non vede quel che tutti vedono,
dimostrando incapacità di abitare il mondo concreto. Ma un altro aneddoto,
sempre con Talete protagonista, sembra ribaltare la situazione. Da esperto di
astronomia, che al tempo coincideva con la filosofia, riuscì a cogliere i
segnali per una stagione favorevole alla produzione di olive ed affittò quindi
in anticipo tutti i frantoi, per poi riaffittarli, al tempo della raccolta, a
prezzi ben più alti facendosi così beffe delle critiche sull’inutilità della
filosofia e dimostrando che il filosofo saprebbe bene come arricchirsi
semplicemente non
è ciò che gli interessa. Il Talete
anedottico racconta però una verità che ben presto assumerà toni tragici: il cattivo
rapporto tra pòlis e filosofia, vista come una minaccia sovversiva per la città.
L’atopia di Socrate
Esemplare è la nota vicenda
di Socrate (469-399 a.C.) e della sua condanna a morte. Socrate, universale
archetipo del filosofo, chiama in causa la prima delle parole che definiscono
la vocazione politica della filosofia: l’atopia, l’essere priva
di luogo, àtopos in greco. Non ha lasciato scritti, ma ha dato vita
ad un nuovo modo di filosofare: il dialogo. Quelli a lui attribuiti sono tutti opera
del suo discepolo Platone (428-348
a.C.),
tant’è che il Socrate che conosciamo è solo quello di Platone ed è quindi
impossibile sapere dove finisce il primo ed inizia il secondo. Senofonte (425-355 a.C. storico) racconta il suo
quotidiano percorrere la pòlis coinvolgendo i passanti con nella sua domande
insistite capaci di mettere ironicamente a nudo idee date per certe fino a
suscitare riprovazione e persino rancore. Questi dialoghi, così estranei al
senso comune, lo fanno così risultare sempre “fuori luogo, àtopos”. Socrate è ben
presente, ma è come se non lo fosse, come se, parallelo al dialogo in corso, dialogasse,
in un luogo a sé, con un demone personale …… si aggira nell’agorà ma ne trascende i
limiti ……. Consapevole che ….. occorre distanza
per riuscire a vedere quello che altrimenti sarebbe troppo vicino
….. La sua atopia è anche eterotopia, ossia il suo essere altrove, in più
luoghi in contemporanea. Resta nella città perché il suo essere con il pensiero
altrove è la leva per decentrare l’ordine della pòlis, troppo chiuso,
asfittico, omologato.
Una morte politica
La morte di Socrate
è un topos che da sempre travalica l’ambito filosofico, il quadro di
Jacques-Louis David del 1787 è la perfetta sintesi visiva di un fatto senza
tempo. Socrate rappresenta la svolta irreversibile verso una nuovo modo di
intendere la filosofia che, abbandonata l’indagine sui fenomeni naturali (la cifra filosofica che ha sin lì caratterizzato i filosofi non
a caso poi definiti “presocratici”)
volge ora il suo sguardo verso la pòlis, in quella che Platone definirà
“seconda
navigazione. Il suo “so di non sapere” è interamente rivolto
verso questi nuovi orizzonti. L’espressione greca cita “sùnoida emautòi” la cui
traduzione letterale sarebbe “vedo con me dentro me stesso” - una
espressione complessa che la traduzione latina in “conscientia”, coscienza, non
rende appieno - emerge proprio dall’interrogarsi su questioni che
riguardano strettamente la vita della pòlis, le sue fondamenta culturali, fino
ad essere vista come una minaccia per
valori fin lì considerati “non indagabili” perché “volontà degli dei”. Socrate, condannato
a morte perché colpevole di …… non riconoscere gli dei che la pòlis riconosce e di aver
così corrotto i giovani ….. appena prima di morire pronuncia parole che
danno senso alla scelta di accettare la condanna. Rivolgendosi a Critone, suo discepolo,
dice ……. dobbiamo
un gallo ad Asclepio, dateglielo! Non dimenticatevene! ….. Si
sacrificava un gallo ad Asclepio, dio della medicina, come segno di gratitudine
per essere guariti da una malattia. Socrate ci dice che, morendo, è guarito
dalla malattia del vivere, e, rivolgendosi ai discepoli, che la filosofia deve
continuare ad interrogarsi e a interrogare la
pòlis tutta con un dialogo che
non può non avere la dimensione del conflitto, del pòlemos.
Platone, quando la filosofia si esiliò nella città
Nulla sarebbe più
stato come prima, per i filosofi la vita nella pòlis era ormai troppo
pericolosa. Lo stesso Platone si allontana da Atene rifugiandosi in Magna
Grecia nei pressi di Crotone, ma dopo dieci anni torna con l’intenzione di
preservare l’atopia del maestro fondando una nuova scuola, l’Accademia, ai
margini della città. Un spazio altro, retto da leggi proprie opposte a quelle
della pòlis. L’altrove filosofico si materializza in un altrove fisico,
sconfitto con la morte di Socrate …… rientra nelle veste di una sorta di esilio dentro la
pòlis ….. Nel giardino dell’Accademia, che non era l’agorà, la
filosofia non rinunciava a guardare verso la città, ma accettando di farlo in
una sorta di auto-esilio. Di lì a breve inizierà il definitivo declino della
pòlis greca, impossibile non collegarlo al rifiuto violento della politica
intesa come partecipazione condivisa al bene comune.
Quei migranti del pensiero
Si apre con questo
auto-esilio, questa assenza/presenza, una attitudine speculativa che resterà
irrisolta per l’intera storia delle filosofia. I filosofi, divenuti non-cittadini,
possono così migrare verso un esercizio teorico pieno, totale: è l’esordio del bìos theretikòs,
della vita dedicata alla meditazione filosofica. La theorìa,
come si è visto “la
contemplazione delle cose”, richiede una certa estraneità, una
atopia volontaria. Aristotele (384-322
a.C.)
parla nella sua “Politica”
di “bios
xenikòs”, vita che si estranea, vita da straniero. Una condizione
indispensabile per il pensare filosofico, ma al tempo stesso una apertura nella
quale rischia di infilarsi quella dannosa tentazione a chiudersi su sé stesso. Lo
dice bene il mito platonico della biga alata, simbolo dell’anima umana trainata
da due cavalli, uno immagine della generosità ed uno dell’egoismo. Sta
all’auriga, al filosofo, reggere bene le redini e far sì che la biga segua il
giusto percorso verso l’alto. Solo i filosofi sanno staccarsi dal suolo
dell’egoismo e salire verso il cielo della generosità ……. i filosofi sono i sublimi migranti del
pensiero …… Ed è così che il pensiero filosofico reinveste la pòlis,
cosa sarebbe infatti la città …… senza questi non-cittadini capaci di osservarla
dall’alto? ….. E d’altronde
l’atopia filosofica è insita nello stesso esercizio del pensare. Hannah Arendt (1906-1937, filosofa, politologa), nel suo libro “La
vita della mente” dedica un capitolo a Socrate intitolandolo “dove siamo quando
pensiamo”, la sua risposta è “da nessuna parte”, il pensare è un “non luogo”.
E Wittgeinstein (1889-1951, filosofo tedesco) analizzando la
grammatica del verbo tedesco “denken”, pensare”, sostiene che è impossibile
dargli un inizio, una fine, un luogo. Eppure anche se chi pensa sembra
allontanarsi dal mondo il suo pensiero resta mondano, rivolto alla pòlis giù in
basso. I filosofi, seguendo Platone,
possono anche auto-esiliarsi ma sempre …… fanno ogni volta ritorno nella città come richiedenti
asilo …..
Che cos’è (allora) la filosofia?
Senza giungere agli
estremi drammatici della vicenda socratica aleggia costante una diffidenza
verso la filosofia, specie quando manifesta la sua vocazione politica. Era così
nell’Atene di Socrate e Platone ed è così ancora oggi. A che serve? A che pro? Qual è il suo
scopo? Sono le domande che illustrano una diffidenza “innata” verso
tutto ciò che non sembra offrire un riscontro pratico, misurabile. Mette
disagio lo stesso nome. Se il filosofare si fosse chiamato “sofo-logia”,
cioè “dottrina
della sapienza, avrebbe incontrato meno perplessità dell’auto-definirsi
“filo-sofia”,
“amore per la
sapienza”. Pochi filosofi si sono preoccupati di rispondere alla
domanda: che cos’è la filosofia? Hanno filosofato ed in questo è consistita la
loro risposta. Ricordiamo quella di Kant (1724-1804,
filosofo tedesco)
“attitudine
naturale dell’essere umano”, quando si pone, fin da piccolo, domande,
assolutamente filosofiche, su: futuro, morte, felicità. Più di recente Heidegger (1889-1976, filosofo
tedesco)
ha intitolato un suo saggio proprio così: “Che cos’è la filosofia’” Ma se si legge con
attenzione il testo si capisce che non si arriva a nessuna definizione.
Heidegger non fa altro che mettere in discussione il senso della domanda,
soprattutto perché, precisa, “non si può parlare sulla filosofia”. Meglio,
questa è l’unica sua risposta, restare al nome, al nome greco, “la filosofia
parla greco”, preoccupandoci (come abbiamo visto nel
“Saggio” di Maggio 2021 “Heidegger ed il nuovo inizio” di Umberto Galimberti) di ripensarla al
termine del ciclo storico aperto da Platone che ha visto, avendo separato
l’uomo dalla natura, realizzarsi il predominio della tecnica. La vera domanda
diventa allora: Che
ne sarà della filosofia nell’era della tecnica?
Domande radicali
Eppure, come ci ha
insegnato Socrate, la filosofia è “domanda”, non avendo oggetto, metodo e fini
specifici ….. è
proprio nell’interrogare, nell’interrogarsi, il suo consistere ….. Nulla sfugge a questo indagare, neppure il
nulla. Sta anche in questo la sua differenza rispetto alla scienza che procede
perché mossa da ipotesi attorno ad un fenomeno osservabile, mentre la filosofia
innalza a dignità di domanda ciò che per la scienza appare fuori questione.
Allo stesso modo non va confusa con la matematica che pure analogamente procede
per concetti, quelli che la filosofia, non avendo limiti, però trascende. Essa
è perciò …. trascendentale
per definizione …. Pone domande
radicali che vanno oltre il limite in alto e le radici in basso, e sottopone alla
domanda più radicale il suo stesso interrogarsi, la domanda filosofica interroga
anche l’interrogante …. Proprio per questo non può, non volendolo,
fornire risposte definitive. A conclusione del suo saggio “La questione delle
tecnica” Heidegger scrive: il domandare è la pietà del pensiero …… e solo
il pensiero filosofico possiede questo sentimento.
Il fuori-luogo della metafisica
La filosofia, a
differenza di tutte le altre discipline che hanno dominio su luoghi/tematiche
che hanno confini, è quindi atopia, fuori-luogo. Questo territorio paradossale
ha un nome meta-fisica.
La storia è nota, quando Adronico (100-20
a.C. filosofo di Rodi) ordina filologicamente le opere di Aristotele
classifica tutti i quattordici libri che vengono dopo quelli dedicati alla
fisica tà
metà tà physikà, letteralmente ciò che fa seguito alla fisica. Ma la
preposizione greca metà ha doppio senso: dopo, ma anche oltre.
Ed è all’oltre che è bene guardare. Quei quattordici libri infatti non vengono semplicemente
dopo, ma vanno oltre
la fisica. La filosofia scaturisce infatti dall’insoddisfazione per
ciò che si presenta ai nostri sensi come nudo dato fisico e la metafisica è
allora l’abbandono dei territori dell’esperienza sensoriale, della certezza del
tangibile, per cercare di definire l’indefinibile. Una dimensione che deve
misurarsi con il rischio di ridursi ad un semplice “dopo empirico”, vale a dire la
nuda ontologia,
la logica degli enti visti come tali, oppure di levarsi verso un
radicale “oltre
empirico”, ossia la dottrina dell’ultraterreno, la teologia.
Nella modernità si è poi aggiunto un ulteriore temibile nemico: il
neo-positivismo logico, che riduce la filosofia ad ancella della scienza,
perfettamente sintetizzato dallo scritto polemico di Rudolf
Carnap (1891-1970,
filosofo tedesco naturalizzato statunitense) “Il superamento della metafisica
mediante l’analisi logica del linguaggio”. Conforta però la replica di Ernst Bloch (1885-1977, filosofo
tedesco teorico del “principio speranza”) che riconduce l’oltre della
metafisica all’altrove della originaria atopia filosofica, un nuovo spazio dove è
possibile collocare l’utopia, il luogo che (ancora)
non esiste. Si compie con l’entrata in scena dell’utopia, il secondo termine
snodo, il passaggio ad un trascendere senza trascendenza.
Dissidio e critica
Attorno a questi primi due
snodi si è percorso a volo
d’aquila il lungo cammino della filosofia inevitabilmente contrassegnato dalla
costante contesa fra filosofi, impossibile ad essere arginata perché tale è la
sua natura. I dissidi interni si legano poi a quelli con l’esterno che mai si
placano: i
rapporti dei filosofi con le comunità in cui vivono non sono mai stati buoni.
La filosofia non può vantare particolari riconoscimenti in nessuna epoca,
neppure in quella attuale così prodiga di premi a chiunque. Per dirne una,
neppure la più rilevante: Henrì Bergson (1859-1941,
filosofo francese),
Bertrand Russel (1872-1970, filosofo
inglese),
Jean-Paul Sartre (1905-1980, filosofo
francese)
hanno sì vinto un Nobel, ma quello della letteratura! Sarà forse per la loro
insistenza a sollevare continue domande che sembrano allontanare da possibili
soluzioni ma i filosofi non sono mai chiamati a risolvere problemi. Consapevoli
di ciò, sono gli stessi filosofi che spesso si auto-emarginano: Spinoza (1632-1677) scrisse la sua
“Etica” nell’esilio nel villaggio di Voorburg, Marx
(1818-1883) diede vita al
“Capitale” nel chiuso di povere stanze londinesi, Heidegger diede compimento a
“Essere e tempo” in un capanno della Foresta Nera, non diversamente da Wittgenstein.
I grandi
capolavori filosofici sono venuti alla luce lontano dall’agorà. In
fondo è questa stessa atopia della filosofia a rendere ogni suo archè
(principio,
origine),
ogni idea-base filosofica, fondamentalmente an-archico. Anarchia, la terza parola
snodo, vale a dire l’assenza di governo, di comando, ha qualcosa
di più di una assonanza terminologica con il confrontarsi filosofico senza
predeterminati archè.
Atopia,
utopia, anarchia su questi snodi
poggia l’esercizio
filosofico della critica, non uno sterile cavillare, ma l’impegno a
non accettare nulla senza riflettere
Il Novecento: cesure e traumi
I grandi nomi della
tradizione filosofica classica non poco oscurano il Novecento filosofico che,
al contrario, rappresenta una sua fase apicale, capace di esprimere …. una critica
acuta, e con una radicalità senza precedenti, della ragione alla base del
pensiero occidentale ….. fino a
segnare un prima ed un poi. Questa radicalità si spiega sulla base di due
aspetti: la crescente consapevolezza dei limiti e delle contraddizioni della
razionalità tecnica e la somma degli eventi catastrofici che hanno costellato
l’intero secolo. La globalizzazione tecnologica, l’avvento della
specializzazione scientifica, e tragedie quali Hiroshima e la Shoah, congiungendosi,
segnano la riflessione filosofica, alla quale finalmente si aggiunge la voce
delle donne, ed impongono una continuità per nulla interrotta dalla retorica
del nuovo secolo/millennio. Non a caso Peter
Sloterdijk (filosofo tedesco contemporaneo) intitola un suo
recente saggio “Che cosa è successo nel XX secolo?’”, giudicando il Novecento
non solo l’esito
compiuto della modernità occidentale, ma una autentica “apocalisse del reale”.
Vede il secolo che abbiamo alle spalle, ma nel quale siamo ancora pienamente
immersi, come il terreno di scontro di una battaglia “in nome del reale”, che ha
lasciato sul campo spettri e sogni. Per rimuovere i primi occorre allora una nuova
interpretazione dei secondi.
Dopo Heidegger
Al di là della sua figura
e, persino, del suo pensiero il “caso Heidegger” è emblematico per capire
l’attuale vocazione politica della filosofia. Gli elementi del “caso”
sono noti: Heidegger, da molti considerato un pensatore imprescindibile, è da
altrettanti accusato di simpatie verso il nazismo. La questione non è tanto
quella dei pericoli della “militanza” per chi filosofa, ma è apertamente
quella del ….. rapporto,
della tensione, fra filosofia e politica …..
Emerge - proprio nel momento in cui la filosofia esce dall’auto-esilio di cui
si è detto e diviene punto di riferimento diffuso - una domanda cruciale: il fascino del
filosofo che seduce non rischia di trasformarsi, grazie ad una sua possibile disponibilità,
in un seduttore sedotto dal potere sino ad immaginare di “guidare la guida”? …… Su questo dilemma si sono confrontati tutti i
maggiori filosofi della seconda metà del Novecento, in un dibattito che ha
coinvolto, in un cammino a ritroso, pensatori come Nietzsche
(1844-1900), Hegel (1770-1831), Fichte
(1762-1814), Rousseau (1712-1778),
arrivando sino agli stessi Platone e Socrate. Progressivamente si è però affermato
un giudizio equilibrato: il singolo filosofo può anche sbagliare nelle singole
scelte, ma nulla può impedire che la filosofia non dia consistente seguito alla
sua vocazione politica in un secolo che chiama il pensiero filosofico ad
intervenire su problematiche e scelte dirimenti per tutta l’umanità.
Il suo controverso rapporto con il nazismo, mai del tutto chiarito, non deve
allora impedire di cogliere che proprio Heidegger ha definitivamente demolito
l’immagine del filosofo adagiato in un conformismo apolitico. Semmai gli va
riconosciuto di aver spostato su un nuovo, più impegnativo, piano la vocazione
politica della filosofia: proprio la sua critica alla tecnica lo porta a far
coincidere l’attuale pòlis con l’intero pianeta ….la pòlis planetarizzata è l’orizzonte,
l’enigma da sciogliere ….. Dopo
Heidegger la filosofia è chiamata a dispiegare la sua vocazione politica
guardando all’intero pianeta.
Contro negoziatori e filosofi normativi
Non tutta la
filosofia del secondo Novecento, tornata comunque a guardare alla pòlis, lo fa
ispirata dai tre snodi alla base della sua vocazione politica: atopia, utopia,
anarchia. E’ ad esempio lontanissima dalla necessaria radicalità la filosofia di
stampo normativo, il cui maggior esponente è stato sicuramente John Rawls (1921-2002, filosofo
statunitense).
In ambito accademico si è caratterizzata per un recupero della filosofia morale
kantiana, che sul piano più politico si è tradotto in una visione di …… democratizzazione
della democrazia …… basata sulla riaffermazione di valori morali, di
norme (da qui il nome “normativa”) etiche. Prive però
della inderogabile radicalità critica che le condizioni reali stanno da tempo
imponendo. Una filosofia quindi, prima ancora che normativa, “normale”,
che rinuncia apertamente ad ogni aperta contrapposizione per guardare ad una
costante mediazione. Una sorta di filosofia “neutrale”, di fatto “ancilla”
dello status quo politico ed economico, che punta ad una sorta di ruolo di “negoziatore”
tra le diverse, e conflittuali, istanze. Con un certo scimmiottamento della
psicologia si articola su esperimenti mentali, rompicapo, storielle, quiz
(il più famoso è il trolley problem: si può deviare un carrello ferroviario che
sta per investire un gruppo di operai facendo cadere sul binario un uomo grasso
ed antipatico, è giusto farlo?) che dovrebbero far maturare un condiviso
senso morale. Heidegger, che al tempo spazzò via il neo kantismo di Ernst Cassirer (1874-1945, filosofo
accademico tedesco),
non avrebbe certo apprezzato il successo di John Rawls.
Ancilla democratiae: un mesto ritorno
Il rientro nella
pòlis della filosofia è temporalmente avvenuto in coincidenza con il pieno
affermarsi, e relativo estendersi, della democrazia. Non poco ha contribuito in
questo senso la considerazione che la filosofia potesse, e dovesse, ….. muoversi solo all’interno
del dominio della democrazia ….. Questa sorta di condizione di
“ancilla democratiae” ha trovato fondamento teorico nell’opera di Hannah Arendt
“Le origini del totalitarismo” ed enunciazione esasperata nel saggio di Richard Rorty (1931-2007, filosofo statunitense) “La priorità della
democrazia sulla filosofia”. Attorno alla democrazia, alla sua tenuta nel
mutare della storia, il dibattito è da sempre acceso e aperto, quello che qui
interessa è però una domanda: può una forma politica avere primato sul pensiero? A maggior ragione se, come evidenziato da Jacques Derridà (1930-2004, filosofo
francese)
la democrazia
è sempre in divenire? Non si rischia allora di ridurre la vocazione
politica delle filosofia ad un neutro dibattito pubblico, ad una componente,
fra le tante, della “comunicazione” in senso lato? In un terreno che, a maggior
ragione nell’era dei media e dei social, legherebbe quindi il filosofo ad una
prospettiva il cui riferimento sarebbe la platea indistinta degli “spettatori”
….. riducendo
la politica a scambio di opinioni, incontro di punti di vista, discussione
pubblica in genere ….. arricchendo la già vasta gamma degli
strumenti al servizio della “pratica di consenso”. Il crollo dei regimi
totalitari, passaggio del tutto positivo, ha trascinato con sé la “fine delle
utopie” innescando così, accanto al trionfo della democrazia, lo
svuotamento del vero confronto politico e la sublimazione del corpo del popolo
nella dimensione impersonale dell’opinione pubblica. Ma se la vocazione
politica della filosofia, ridotta a sua ancilla, non coltiva il pensiero sempre
e comunque come …. pensiero al di là (atopia, utopia, anarchia) ….. rischia seriamente una impasse
Poetica della chiarezza
Si aggiunge, in
questa rassegna dei rischi e dei limiti per il rientro nella pòlis della
politica, un altro pericolo: il linguaggio filosofico. La ricerca della
parola giusta è da sempre un assillo della filosofia coltivato guardando alla
trasposizione coerente ed esatta dei concetti e, al contempo, alla giusta
ricezione e comprensione da parte degli interlocutori. Va riconosciuto che in
questa era in cui l’evoluzione del linguaggio è ispirata dai codici
specialistici della scienza e della tecnica, e dalla neo lingua del social,
alla filosofia si impone uno sforzo ulteriore di recupero di una propria
lingua, il cui orizzonte, in tale ostile mare linguistico, non può che essere “poetico”.
Per la vocazione politica della filosofica per “poesia” non si intende però decoro,
ornamento, versi, ma il recupero della capacità della parola filosofica di
essere “dialogo”,
di “condensare”
concetti ed idee. La filosofia, per essere ascoltata e capita in un mondo che
parla altre lingue, deve elaborare, recuperando l’espressione di Giambattista Vico (1668-1774, filosofo
classico),
una “politica
poetica”.
Potenti profezie del salto: Marx e Kierkegaard
Aiuta a meglio
comprendere i limiti di questo inadeguato ritorno il confronto con due cesure,
autentiche e radicali, che hanno segnato la filosofia occidentale seppur muovendosi
in direzioni opposte. Queste cesure avvengono nel panorama filosofico ottocentesco
segnato da Hegel e dalla sua ambizione di una sintesi tra realtà e spirito
simboleggiata da una celebre sentenza “ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è razionale”.
Qui si manifesta la rottura che, annullando quella presunta sintesi, rimette in
moto il procedere filosofico; epigoni di Hegel, Marx e
Kierkegaard (1813-1855) partono infatti dalla convinzione opposta: “ciò che è
razionale non è ancora reale, e ciò che è reale non è ancora razionale”
muovendo però il primo verso una manifesta esteriorità ed il secondo verso una
forte interiorità. La fiamma di Marx è infatti interamente rivolta verso
l’esterno, verso il mondo, verso la realtà capitalistica, verso un orizzonte
capace di dare senso al filosofare. E’ celebre la sua tesi “i filosofi hanno
soltanto diversamente interpretato il mondo, si tratta di trasformarlo”.
Parole banalmente lette come un appello alla pragmatismo, mentre per Marx
stanno a significare che tra interpretazione e trasformazione non sussiste
antitesi, che l’inaggirabile interpretazione contiene in sé il potenziale della
prassi, che dallo spirito teoretico possa e debba sprigionarsi energia pratica.
Questa processo evolutivo non può che partire dall’esercizio “interpretativo”
della realtà segnata dall’alienazione capitalistica che segna profondamente
l’uomo, ed in primis il lavoratore. In questo senso il ruolo che Marx, ovvero
la filosofia, consegna al “proletariato” è quello di essere una forza
dialettico-storica capace di far compiere all’intera umanità un salto
rivoluzionario. Per Kierkegaard invece il salto rivoluzionario deve compierlo il singolo,
ma non di meno resta una scissione dalla millenaria storia filosofica. Guidato
dal costante malinconico dubbio verso una realtà che appare luminosa, ma tale
non è, il singolo rappresenta l’essere che dubita di sé, schiacciato com’è
dall’angoscia che nasce da una esistenza che è di per sé stessa un enigma.
Venuta meno la fiducia verso il reale la parola resta al singolo che è
costretto a decidere la sua direzione, a prendere posizione: aut aut.
Sarà questo il cammino, come si vedrà di Walter
Benjamin (1892-1940). Ma per
Kierkegaard trasformare la propria esistenza significa anche incidere sulla
realtà, in questo converge con Marx nel giudizio critico verso la società
borghese e nel consegnare speranze al “quarto Stato”. Ma nulla potrà davvero mutare senza un
risveglio delle singole interiorità. Marx e Kierkegaard, così vicini
e così opposti, restano due potenti profeti del “salto”, l’attitudine
che deve, tornando ai giorni nostri, ispirare la vocazione politica della
filosofia.
Filosofia del risveglio
Se, riprendendo Kierkegaard,
si può dire che non
c’è filosofia che non sia filosofia dell’esistenza perché l’atopia
filosofica non può che dimorare nel prendersi cura dell’esistenza e della sua
sorte, come serbare questa atopia nel ritorno alla pòlis? Pensatore anomalo e poliedrico è Walter
Benjamin ad aprire un nuovo varco. Capace, come pochi, di penetrare nella
presunta magia dei negozi, delle gallerie commerciali, coglie perfettamente la
loro natura di “case
di sogno della collettività, di tempo di sogno del capitalismo avanzato”,
e fa riemergere la figura di un filosofo capace di denunciare questo “sogno del tempo”,
in una sorta di veglia sonnambolica. Eraclito torna in scena. In questa età del
sogno capitalistico la filosofia deve “risvegliare”, deve “lottare per il risveglio dello spazio
collettivo”. Ma cos’è il “risveglio”?
E’ il rientro nel tempo sospeso tra sonno e veglia, un sapere non ancora
cosciente che, quando riguarda non il singolo ma l’intera pòlis, acquista un
carattere di storicità, diventa l’avventurarsi in una nuova fase. La lotta del
filosofo non deve essere solo quella di un brusco richiamo ad uscire dalla
notte, ma anche quella di recuperare i sogni, di ricordare quelli delle
generazioni passate che hanno contribuito a creare il presente. Affinché ….. chi ha sognato
non abbia sognato invano ….. Sta
in questo richiamo il nuovo varco aperto da Benjamin, quello da lui stesso
definito come “la
svolta copernicana nella visione della storia”. Il passato non è
fatto solo di avvenimenti chiusi, ma soprattutto di processi, rielaborati nei
sogni, che ancora irrompono nel presente …… ha quindi una vita postuma ….. Questo
è il fronte della lotta, quello di riprendere al capitalismo il controllo dei
sogni, l’eredità del passato. Per Benjamin le merci non sono solo, come per Marx, feticci, ma
rappresentano tanto aspirazioni concrete come impulsi utopici che vanno svelati
e redenti dalla loro versione capitalistica. La vocazione politica
della filosofia deve allora affiancare all’esercizio della critica il risveglio
del sogno, inteso come riscatto della vita postuma
Angeli sconfitti e stracciaioli
Memore delle antiche
sconfitte la filosofia si riaffaccia sulla pòlis divenuta metropoli globale,
torna sconfitta per allearsi con gli sconfitti, politicamente è come un richiedente asilo.
Non ha però alcun senso richiamare l’immagine di Socrate che dialoga lungo le
vie di Atena,
d’altronde pochi si soffermano sulle parole ed il linguaggio è decaduto.
Il filosofo, che resta un guastafeste, un fuori-luogo, è diventato, ancora
immagine di Benjamin, uno “stracciaiolo”. Che gira a raccogliere
rimasugli di ricordi, di discorsi, di sogni, di rabbie, per gettarli in un
carretto che diventa la sua cassetta degli attrezzi, nell’alba di una possibile
rivoluzione.
Poscritto an-archico
La filosofia deve
quindi, per rinverdire la sua vocazione politica, restare libera nel suo
rapporto con la pòlis. Non deve essere condizionata da eccessi di “archè”,
di strumenti aprioristici, deve essere, come già si è detto, an-archica.
Fino ad accettare la sua piena de-costruzione, la sua rinuncia ad una presunta
autonomia. Aiuta molto in questo senso il pensiero filosofico di Levinas (1906-1995, filosofo francese), al cui centro sta
l’invito incessante a considerare che prima del sé viene sempre l’altro, che prima della
libertà viene la responsabilità, e che quest’ultima è di per sé an-archica.
Se da Platone in poi, passando per Hobbes (1588-1679,
filosofo inglese),
per giungere a Schmitt (Karl
Schmitt 1888-1985, giurista e filosofo tedesco) il pensiero
filosofico-politico è ossessionato dall’atto archico, dal fondare un soggetto sovrano,
oggi è tempo di una svolta an-archica. Nel suo duplice significato di “ciò che
viene prima, che precede ogni principio, ogni archè” e di “ciò che si muove per
contrastare ogni principio istituito e istitutivo”. In questo senso an-archia
non è disordine, ma ordine diverso, che può nascere solo da un profondo ed
insistito esercizio critico verso la sovranità in quanto tale, in particolare
nella sua attuale forma economico capitalistica.
……… in un’epoca in
cui lo Stato, minato nella sua sovranità, cerca di controllare ogni spazio
politico è necessario volgere lo sguardo all’esterno dei suoi confini, ma anche
all’interno del suo territorio, nei luoghi e nei tempi che si aprono. Perché la
politica è una domanda di giustizia occorrerà articolare un an-archismo della
responsabilità …….
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