Con la pubblicazione dei
due seguenti articoli, che presentano prospettive nettamente contrapposte sul
modo di affrontare il dramma della guerra in Ucraina, prende avvio un nostro
contributo di approfondimento sulle tante dirimenti tematiche connesse a tale
conflitto comunque destinato a segnare un punto di svolta strategico nel quadro
geo-politico globale. In questo senso si muove anche una apposita conferenza,
in corso di organizzazione per la
serata di Lunedì 14 Marzo p.v., per la quale, non appena possibile,
forniremo tutti gli opportuni dettagli
Vi informo: siamo in guerra
Articolo di Sergio Benvenuto –
Blog
“Le parole e le cose”
(Sergio Benvenuto, psicoanalista, filosofo e scrittore italiano. Primo
Ricercatore presso l'Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR
a Roma. Professor Emeritus di Psicoanalisi presso l'Istituto Internazionale di
Psicologia del Profondo di Kiev)
E’ la prima volta nella
mia ormai lunga vita (sono del 1948) che mi sento in guerra. Finora, per me, le
guerre erano sempre quelle di altri. A meno che Putin non accetti la sconfitta
subito, ovvero di ritirarsi dall’Ucraina, l’Unione Europea sarà in guerra. Non
temo che aerei russi vengano a bombardare Roma, città dove abito. A meno che
non si scateni una terza guerra mondiale a colpi di bombe atomiche, e allora…
non sarebbe nemmeno più la guerra, ma l’Apocalisse. Ho vissuto la guerra
fredda, che appunto non era calda: una costante minaccia di guerra, ma le
guerre si facevano altrove (in Medio Oriente, in Vietnam…). L’Italia poi ha
partecipato a varie “missioni di pace” che erano di fatto, spesso, missioni di
guerra, ma era come un tempo le guerre coloniali: erano cose di militari, di
professionisti, la popolazione italiana non ne era coinvolta. Ora invece mi
sento davvero in un paese in guerra, anche se nessuno dei nostri politici e
governanti osa dirlo. E questo anche se l’Europa non mandasse nemmeno un
soldato a combattere i russi per difendere l’Ucraina. Ormai sappiamo che una
guerra non è più come la si concepiva un tempo, scontro militare in un campo di
battaglia. La guerra basata su battaglie campali è finita. La guerra oggi non
si fa solo con le armi da fuoco: si fa con le sanzioni economiche, agendo sul
mercato del petrolio, con azioni di guerriglia, terrorismo, colpi di stato,
attacchi informatici, persino con le elezioni… Guerra e politica ormai si
intrecciano strettamente, così, affamare un popolo con dure sanzioni può fare
più vittime che una battaglia di tank. Essere in guerra significa, oggi, che la
popolazione del paese in guerra ne paga in qualche modo i costi. Gli eserciti
oggi sono professionali, di specialisti, ma paradossalmente c’è vera guerra
quando un intero
popolo è in guerra. Lo stiamo vedendo bene in Ucraina, ma lo
abbiamo visto in Afghanistan, in Iraq, in Siria, in Libia… Nel 2003 il presidente
Bush Jr. dopo la conquista di Baghdad dichiarò “missione compiuta” perché aveva
ancora un’immagine arcaica della guerra. In realtà, come sappiamo, la vera
guerra in Iraq è cominciata quando Bush pensava che fosse finita: fu dopo che
fece centinaia di migliaia di morti. Attraverso il terrorismo, in quel caso.
Terrorismo e guerriglia non sono sostituti della guerra, ma parte integrante
della guerra stessa. In questo senso non è più vero, come diceva von
Clausewitz, che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, e
nemmeno quello che diceva Foucault, che la politica è la continuazione della
guerra con altri mezzi. La guerra accompagna sempre la politica come un suo
arto, la violenza è parte della politica, e la guerra guerreggiata è solo una
modalità della violenza politica. Per esempio, è probabile che ci saranno
azioni terroristiche ucraine in territorio russo: in modo che la popolazione
russa si renda conto essa stessa di essere in guerra. In effetti, c’è un solo
modo non militare per mettere in ginocchio la Russia di Putin: non comprare più
il suo gas, perché l’economia russa si basa sul gas. Questo lo sanno anche le
pietre. Ma gran parte dei paesi europei (non la Gran Bretagna, per sua fortuna)
dipendono dal gas russo. Alcuni paesi addirittura al 100% dei loro acquisti di
gas; 94% la Finlandia, 93% la Lettonia (in Italia il 43%). Ma se rinunciare al
gas russo è l’atto di guerra più efficace, bisogna che la popolazione europea
si rassegni a molti sacrifici per un certo tempo: dovrà imparare a vivere con
poco gas. Ma siccome del gas non si può fare a meno, lo si dovrà prendere dalla
Norvegia, dall’Algeria e dal Qatar, ovvero, il prezzo del gas schizzerà in
alto. Da qui inflazione, con tutto quello che essa comporta. Con l’inflazione,
le banche centrali dovranno alzare i tassi di sconto, quindi meno prestiti,
meno investimenti… la crisi. Eppure, se si vuol vincere una guerra il vincitore deve soffrire.
L’idea, con cui oggi i politici cullano i loro elettori, secondo cui le guerre
si vincerebbero senza sofferenze della popolazione, è un’illusione. Tempo fa,
l’ex segretario di stato americano Colin Powell teorizzò una guerra senza
vittime, cosa che provocò all’epoca una certa ilarità. L’ideale di una guerra
fatta in poltrona, pigiando solo bottoni come in una play station, è un film
che non regge. Combattere qualcuno significa
infliggergli delle pene concrete, e ci sono tanti tipi di pene. Si
può sparare al nemico, ma lo si può anche ridurre alla povertà, oppure
costringerlo a una insostenibile interminabile guerra. Oppure obbligarlo a una
paura continua, che è il fine principe della strategia terroristica: chiunque e
ovunque è in pericolo di essere colpito da un atto terroristico. Se l’Europa
che dice di essere democratica vuole battersi contro la dittatura, deve quindi
decidersi a soffrire, purché le sofferenze inflitte al nemico – in questo caso,
Russia e Bielorussia – siano molto più cocenti delle nostre, fino a obbligarlo
alla resa. Non ci sono vittorie senza perdite. E nel nostro caso, è perdere
buona parte del nostro gas. Dare armi agli ucraini è un’ottima cosa – anzi,
perché non si è pensato di farlo prima? – ma non è possibile fare la guerra
sempre col sangue degli altri. A un certo punto l’Europa occidentale dovrà
versare il proprio sangue, se vuole vincere. E per sangue versato intendo anche
sangue economico. Significa accogliere centinaia di migliaia di rifugiati
ucraini, significa riarmarsi (ovvero, spendere in bombe e razzi invece che in
scuole o in infrastrutture), significa rischiare rappresaglie da parte del
nemico… Per vincere bisogna accettare di soffrire e di infliggere sofferenze al
nemico. Purtroppo, bisogna augurarsi che il popolo russo soffra tanto… da far
fuori Putin e la sua banda. E lo dico con il cuore rotto, perché ho tanti cari
amici in Russia, e molti di loro odiano Putin, che chiamano Putler (Putin +
Hitler). Mi dispiace, dovranno soffrire anche loro. Anche i tedeschi
anti-nazisti soffrirono sotto le bombe anglo-americane. Perché questo è l’altro
lato che la retorica paciona di oggi non riconosce: che fare la guerra a Putin
non è fare la guerra a lui e a qualche altro oligarca ma, ahimè, a tutti i russi. Perché
solo se i russi si renderanno conto che Putin li porta alla povertà, allora
potranno insorgere. Come i russi fecero nel 1917, reagendo a una guerra
disastrosa contro la Germania a cui li aveva portati il dispotismo zarista. Ma
ci volevano le terribili sofferenze nelle trincee della prima guerra mondiale
perché finalmente lo zarismo venisse spazzato via. La storia ha sempre vie
tortuose e crudeli anche per raggiungere i buoni fini. Il punto è: siamo
disposti a soffrire perché il pluralismo democratico trionfi sulla dittatura?
Altrimenti, abbiamo già perso.
La guerra ed i denti stretti
Articolo di Ernesto
Sferrazza Papa – Blog “Le parole e le cose”
Ernesto Sferrazza Papa (ricercatore presso
l'Instituto de Filosofía della Pontificia Universidad Católica de Chile.
Dottore di ricerca in Filosofia presso l'Università di Torino, ha svolto
attività di ricerca presso il CAS SEE (Università di Rijeka) e la FMSH di
Parigi)
N.b. = sarà nostro
relatore ad un seminario pomeridiano previsto per il prossimo 24 Marzo di cui
riceverete a breve la consueta segnalazione dettagliata
Ho sempre ritenuto che le polemiche culturali, che l’espressione “scambio
di idee” tende a nobilitare eccessivamente, fossero uno dei tanti modi mediante
cui la novecentesca industria culturale rimpolpa ancora oggi le proprie carni.
Partecipare a una polemica, addirittura lanciarla, significa collocarsi nel
mercato delle idee, vendere la propria opinione, e magari coltivare la misera
speranza di poterla prima o poi capitalizzare. La mia posizione, a dire il vero
assai defilata, di giovane accademico “specialista” mi ha concesso finora il
privilegio di questo sguardo sospettoso. Non ho mai dovuto scendere nell’agone
culturale, né peraltro sono mai stato invitato a farlo. Probabilmente me ne
sono beato, agendo in maniera più o meno inconsapevole come la volpe della nota
favola. Nonostante ciò, sento la necessità tutta personale di scrivere qualche
riga di commento all’articolo di Sergio Benvenuto “Vi informo: siamo in guerra” pubblicato su Le parole e le
cose. Poco male qualora le mie riflessioni non venissero pubblicate. La
favola evita di dire che la volpe, dopo un po’, si convince che l’uva è davvero
amara. Come sono solito fare, entro in medias res. Benvenuto apre
il suo contributo equiparando la propria percezione di essere in guerra con
l’essere, in quanto cittadino italiano, davvero in guerra. La
percezione di partecipare al conflitto, senz’altro ben pasciuta
nell’immaginario collettivo da mezzi di comunicazione che in questi giorni
stanno agitando senza vergogna le peggiori passioni, è sufficiente per siglare
la sentenza per cui siamo realmente in guerra. Dobbiamo immaginarci come tali,
cominciare a vivere, pensare, forse addirittura scrivere, come tali. Nonostante
qualsiasi cosa possano affermare le parti politiche in gioco che non siano
Russia e Ucraina, e anche qualora, come riconosce lo stesso Benvenuto, l’Europa
non mandasse un solo soldato a combattere, la guerra è una realtà qui e ora. La
percezione della guerra è così vivida e potente da realizzarsi magicamente,
senza scarti, senza obiezioni, senza possibilità di contro-argomenti. La guerra
viene annunciata sin dal titolo del contributo di Benvenuto con la stessa
freddezza con cui si comunicherebbe il ritardo di un treno: se non lo sapevate
prima, ora lo sapete. Ma questo è lo snodo decisivo: poiché siamo in guerra,
bisogna comportarsi di conseguenza. E la prima cosa che si fa, in guerra, è
qualcosa che in realtà si subisce: in guerra si soffre. Prepararsi alla guerra
significa prepararsi a soffrire. A partire dall’evidenza materiale di una
guerra in corso che colpisce anche noi italiani, e ci schiaffeggia sin da
subito, il contributo di Benvenuto si risolve presto in un elogio della
sofferenza necessaria. In questo, egli si adegua senza scarti alla linea
governativa, che nella persona di Draghi ha chiarito senza equivoci, mentre
annunciava il numero di militari italiani allertati, quali sacrifici si
dovranno sopportare. En passant, dal momento che non è il fulcro di
queste poche righe: Benvenuto si dichiara assai d’accordo con l’invio massiccio
di armi in Ucraina, ma la questione è quantomeno problematica dal momento che
questa pratica tende a trasformare i civili in combattenti (poiché le armi, è
cosa nota, vengono ormai distribuite alla popolazione tutta), erodendo quella
linea tra combattenti e non-combattenti, prezioso patrimonio del diritto di
guerra modernamente inteso, che se non inibisce l’uso de facto della
forza illimitata, quantomeno lo rende illegittimo. Ma questa, come si dice in
questi casi, è un’altra storia. Ciò che rileva è che già tempo fa Mario Monti
prometteva “lacrime e sangue”, ma almeno all’epoca le voci si levavano critiche
e sgomente. Ciò che prima appariva scandaloso, ora può senza vergogna essere
semplicemente annunciato e recepito. È un’informazione come un’altra. Da un
certo punto di vista, Benvenuto ha ragione quando dice che la percezione della
guerra è alimentata dal suo sconfinamento ben al di là dei canoni classici e
moderni. La guerra oggi è combattuta in mille modi e mille forme: guerre
informatiche, economiche, sanzioni, targeting. Ma quanto dura
questo “oggi”? Quanto è lungo questo presente? Non certo da oggi la forma della
guerra è mutata rispetto all’immaginario ancora ottocentesco di guerre campali.
E soprattutto, non certo da oggi la popolazione tout court (vorrei
per una volta abbandonarmi al lessico foucaultiano e dire: la popolazione come
costrutto biopolitico) è parte significativa del conflitto. Insomma, è
quantomeno bizzarra l’idea per cui “essere in guerra significa, oggi, che la
popolazione del paese in guerra ne paga in qualche modo i costi”. È proprio il
Novecento, sin dai prodromi della Grande guerra, a consegnare tutta la
popolazione direttamente agli effetti del conflitto scatenato. Almeno da quando
gli italiani decisero, guadagnandosi un triste primato, che un aereo in sorvolo
poteva tranquillamente trasportare bombe da buttare alla bisogna su un’oasi in
Libia, il confine sempre più labile tra belligeranti e non-belligeranti si è
fatto evanescente. Perché allora Benvenuto sembra volere insistere su una
rottura paradigmatica che analiticamente non trova spazio? Detta ancora
diversamente, e forse in maniera più fastidiosa: perché Benvenuto si sente in
guerra oggi ma non si sentiva in guerra ieri? Il motivo è presto detto: la
guerra di oggi ha potenziali conseguenze immediate che la guerra di ieri non
aveva, o che comunque non rientravano nel campo d’intellegibilità di un ceto
medio colto che, tuttavia, non ha gli strumenti per comprendere che anche le
guerre di ieri hanno avuto un impatto devastante, per quanto diluito nel tempo.
Ma la buona notizia è che questa guerra può essere vinta, e può essere vinta
nel dolore. Quella che si apre è una hegeliana gara della sofferenza tra
vincitore e vinto, dove a vincere sarà colui in grado di sopportare la propria
sofferenza mentre ne distribuisce di più all’avversario. Ben vengano, per
vincere questa guerra, tutte le sofferenze inflitte a un intero popolo, come se
quelle già a disposizione non fossero abbastanza. Gli Ucraini hanno sofferto
finora? I Russi da domani soffriranno un po’ di più. Lavoriamo dunque a questo
scopo, cosicché finalmente capiranno e agiranno di conseguenza. Ben vengano le
sanzioni, le armi, gli ostracismi, l’economia distrutta. La “colpa metafisica”,
come forse l’avrebbe chiamata Jaspers, dell’Altro, del Russo, va in qualche
modo punita, per quanto non possa esserlo fino in fondo. E noi? Anche noi
rientriamo in questo gioco al massacro, e vi rientriamo per le conseguenze
delle sanzioni lanciate da parte europea. Ma ciò che conta, in ogni caso, è il
rapporto tra sofferenza inferta e sofferenza subita. L’esito di questo scontro
di civiltà dipende dall’equilibrismo: rimanere in piedi dopo il colpo per
colpire un po’ di più. Nel ragionamento che Benvenuto ci propone, la sofferenza
si tramuta così in un vero e proprio apprendistato politico per Noi, in una
pedagogia del dolore per Loro, un insegnamento che li convinca una volta per
tutte di essere in guerra. Da qui procede la strabiliante lettura che ci viene
proposta: vincerà chi sarà disposto a soffrire di più adesso. La
minaccia dei rubinetti del gas chiusi andrebbe affrontata a cuorcontento. La
vittoria passa, in maniera direi muscolare, dalle resistenze eroiche del popolo
che soffre ora al solo scopo di far soffrire di più l’altra parte domani. Come
uscire da questa sacca? Cosa opporre a una prospettiva politica che sgrana il
rosario delle passioni tristi? Come sottrarsi all’elogio della sofferenza, al
suo inconsapevole spirito bellico, alla terribile ode al sangue versato?
Benvenuto nel suo contributo richiama di sfuggita la celebre dottrina di Karl
von Clausewitz, e ne critica la massima per cui la guerra sarebbe politica
continuata con altri mezzi. Ma c’è un’altra lezione in Clausewitz troppo poco
ascoltata e alla quale dovremmo riandare. Non bisogna dimenticarsi che uno dei
nodi concettuali principali di Vom Kriege è l’attrito. Nelle
sue opere Clausewitz insiste su tutti quegli attriti e frizioni che
necessariamente trasformano il conflitto da guerra a tavolino, astratta,
metafisica, in guerra reale, concreta, dove gli esseri umani che la combattono
e dirigono sostituiscono pedine e statistiche. I mille inciampi tattici cui una
guerra va incontro sono anche attimi di sospensione del conflitto. Quando
qualcosa va storto e deraglia dal piano strategico fatto sulla carta, si apre
lo spazio dell’attesa. La guerra reale diventa così necessariamente una guerra
limitata, per certi versi contenuta. Catastrofica, drammatica, ma non totale,
non integrale. L’attrito è la via di fuga dalla catastrofe di una guerra totale
senza via di scampo per nessuno. Ciò che da Clausewitz si può trarre è forse
l’imperativo a individuare quei momenti di crisi immanenti la guerra stessa, e
riconfigurarli nell’unico modo oggi possibile per evitare la deriva infernale:
come spazi di diplomazia. Non bisogna avere il coraggio della sofferenza né
rivendicare il dolore come virtù politica. Per quanto possa apparire brutale e
dispotico, è il dialogo con il nostro nemico di oggi che ci salverà domani. Non
bisogna lasciarsi accecare dai successi tattici del momento, poiché essi
tendono a rovesciarsi in sciagure strategiche. In un mondo globale e
interconnesso non ci possono essere vinti e sconfitti, come se questi universi
fossero separati e non comunicanti. Nonostante sia stata proprio la
globalizzazione della violenza a riattivare la figura del Grande Altro, del
nemico assoluto, in realtà essa reclama l’abbandono una volta per tutte della
dicotomia Noi/Loro, Democrazia/Dittatura, Liberali/Autoritari.
L’interconnessione globale non concede spazio di legittimità al vocabolario
binario. E non perché non vi siano opzioni politicamente e moralmente
preferibili (il sottoscritto si dichiara democratico e liberale), ma perché
esse convivono in uno spazio in cui sono mediate da altre opzioni che non
possiamo non riconoscere. E il riconoscimento potrà e dovrà essere critico, ma
in sua assenza a spadroneggiare sarà la violenza perpetua tra parti in costante
conflitto. Per quanto ciò possa apparire faticoso, per quanto gli schiaffi del
presente portino il nostro immaginario a ben altre soluzioni, il Nemico ha la
enne minuscola. Non un’alterità assoluta da annientare a tutti i costi, in una
logica spavalda Noi vs. Loro che ha dato fin troppi esiti insanguinati. L’invito è di opporre alla brutalità dello
scontro tra forze la libera coazione delle ragioni in dialogo. Benvenuto, di
contro, soccombe con sconsolato cinismo al richiamo di una sofferenza
necessaria e gloriosa. Egli scrive: “per vincere bisogna accettare di soffrire
e di infliggere sofferenze al nemico”. Ormai rassegnato ad aderire in tutto e
per tutto alla sua percezione di belligerante, la vittoria, per lui, non può
che passare dallo stringere i denti. Ma con quanta facilità, in questo modo, si
mette in soffitta l’uso della ragione nella sua incarnazione internazionale,
vale a dire la potenza della diplomazia! Con quale facilità si accetta che la
forza debba chiamare altra forza, senza rendersi conto che così si lavora non
alla pace – al cui orizzonte abbiamo forse già rinunciato –, bensì a
un’instancabile violenza perpetua. A salvarci non sarà la capacità di soffrire.
Ben più prosaicamente, l’unica e ultima chance di salvezza sarà il
dispiegamento di un corpo diplomatico europeo di prim’ordine, autonomo per
quanto possibile rispetto alla volontà egemonica statunitense, a fare da
mediazione tra le parti in gioco. Si tratta di una scommessa, questo è
evidente. Come un rumore bianco, la minaccia nucleare incombe su tutti noi. Ma
una volta di più, soprattutto in queste ore buie, è necessario scommettere,
piuttosto che sulla sopportazione del sangue versato e sulla rivalsa di una
civiltà sull’altra, sull’uso di una ragione non rassegnata al peggio. Dalla
diplomazia passa il futuro mondiale, la possibilità stessa del futuro. Essa ha
finora fallito, muovendosi a casaccio. Ma la partita per la pace non è ancora
finita, e come sapeva bene Walter Benjamin, il colpo decisivo si sferra con la
mano mancina.
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