venerdì 4 marzo 2022

Guerra in Ucraina: che fare? due articoli contrapposti

 

Con la pubblicazione dei due seguenti articoli, che presentano prospettive nettamente contrapposte sul modo di affrontare il dramma della guerra in Ucraina, prende avvio un nostro contributo di approfondimento sulle tante dirimenti tematiche connesse a tale conflitto comunque destinato a segnare un punto di svolta strategico nel quadro geo-politico globale. In questo senso si muove anche una apposita conferenza, in corso di organizzazione per la serata di Lunedì 14 Marzo p.v., per la quale, non appena possibile, forniremo tutti gli opportuni dettagli

Vi informo: siamo in guerra

Articolo di Sergio Benvenuto – Blog “Le parole e le cose”

(Sergio Benvenuto, psicoanalista, filosofo e scrittore italiano. Primo Ricercatore presso l'Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR a Roma. Professor Emeritus di Psicoanalisi presso l'Istituto Internazionale di Psicologia del Profondo di Kiev)

 

E’ la prima volta nella mia ormai lunga vita (sono del 1948) che mi sento in guerra. Finora, per me, le guerre erano sempre quelle di altri. A meno che Putin non accetti la sconfitta subito, ovvero di ritirarsi dall’Ucraina, l’Unione Europea sarà in guerra. Non temo che aerei russi vengano a bombardare Roma, città dove abito. A meno che non si scateni una terza guerra mondiale a colpi di bombe atomiche, e allora… non sarebbe nemmeno più la guerra, ma l’Apocalisse. Ho vissuto la guerra fredda, che appunto non era calda: una costante minaccia di guerra, ma le guerre si facevano altrove (in Medio Oriente, in Vietnam…). L’Italia poi ha partecipato a varie “missioni di pace” che erano di fatto, spesso, missioni di guerra, ma era come un tempo le guerre coloniali: erano cose di militari, di professionisti, la popolazione italiana non ne era coinvolta. Ora invece mi sento davvero in un paese in guerra, anche se nessuno dei nostri politici e governanti osa dirlo. E questo anche se l’Europa non mandasse nemmeno un soldato a combattere i russi per difendere l’Ucraina. Ormai sappiamo che una guerra non è più come la si concepiva un tempo, scontro militare in un campo di battaglia. La guerra basata su battaglie campali è finita. La guerra oggi non si fa solo con le armi da fuoco: si fa con le sanzioni economiche, agendo sul mercato del petrolio, con azioni di guerriglia, terrorismo, colpi di stato, attacchi informatici, persino con le elezioni… Guerra e politica ormai si intrecciano strettamente, così, affamare un popolo con dure sanzioni può fare più vittime che una battaglia di tank. Essere in guerra significa, oggi, che la popolazione del paese in guerra ne paga in qualche modo i costi. Gli eserciti oggi sono professionali, di specialisti, ma paradossalmente c’è vera guerra quando un intero popolo è in guerra. Lo stiamo vedendo bene in Ucraina, ma lo abbiamo visto in Afghanistan, in Iraq, in Siria, in Libia… Nel 2003 il presidente Bush Jr. dopo la conquista di Baghdad dichiarò “missione compiuta” perché aveva ancora un’immagine arcaica della guerra. In realtà, come sappiamo, la vera guerra in Iraq è cominciata quando Bush pensava che fosse finita: fu dopo che fece centinaia di migliaia di morti. Attraverso il terrorismo, in quel caso. Terrorismo e guerriglia non sono sostituti della guerra, ma parte integrante della guerra stessa. In questo senso non è più vero, come diceva von Clausewitz, che la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, e nemmeno quello che diceva Foucault, che la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi. La guerra accompagna sempre la politica come un suo arto, la violenza è parte della politica, e la guerra guerreggiata è solo una modalità della violenza politica. Per esempio, è probabile che ci saranno azioni terroristiche ucraine in territorio russo: in modo che la popolazione russa si renda conto essa stessa di essere in guerra. In effetti, c’è un solo modo non militare per mettere in ginocchio la Russia di Putin: non comprare più il suo gas, perché l’economia russa si basa sul gas. Questo lo sanno anche le pietre. Ma gran parte dei paesi europei (non la Gran Bretagna, per sua fortuna) dipendono dal gas russo. Alcuni paesi addirittura al 100% dei loro acquisti di gas; 94% la Finlandia, 93% la Lettonia (in Italia il 43%). Ma se rinunciare al gas russo è l’atto di guerra più efficace, bisogna che la popolazione europea si rassegni a molti sacrifici per un certo tempo: dovrà imparare a vivere con poco gas. Ma siccome del gas non si può fare a meno, lo si dovrà prendere dalla Norvegia, dall’Algeria e dal Qatar, ovvero, il prezzo del gas schizzerà in alto. Da qui inflazione, con tutto quello che essa comporta. Con l’inflazione, le banche centrali dovranno alzare i tassi di sconto, quindi meno prestiti, meno investimenti… la crisi. Eppure, se si vuol vincere una guerra il vincitore deve soffrire. L’idea, con cui oggi i politici cullano i loro elettori, secondo cui le guerre si vincerebbero senza sofferenze della popolazione, è un’illusione. Tempo fa, l’ex segretario di stato americano Colin Powell teorizzò una guerra senza vittime, cosa che provocò all’epoca una certa ilarità. L’ideale di una guerra fatta in poltrona, pigiando solo bottoni come in una play station, è un film che non regge. Combattere qualcuno significa infliggergli delle pene concrete, e ci sono tanti tipi di pene. Si può sparare al nemico, ma lo si può anche ridurre alla povertà, oppure costringerlo a una insostenibile interminabile guerra. Oppure obbligarlo a una paura continua, che è il fine principe della strategia terroristica: chiunque e ovunque è in pericolo di essere colpito da un atto terroristico. Se l’Europa che dice di essere democratica vuole battersi contro la dittatura, deve quindi decidersi a soffrire, purché le sofferenze inflitte al nemico – in questo caso, Russia e Bielorussia – siano molto più cocenti delle nostre, fino a obbligarlo alla resa. Non ci sono vittorie senza perdite. E nel nostro caso, è perdere buona parte del nostro gas. Dare armi agli ucraini è un’ottima cosa – anzi, perché non si è pensato di farlo prima? – ma non è possibile fare la guerra sempre col sangue degli altri. A un certo punto l’Europa occidentale dovrà versare il proprio sangue, se vuole vincere. E per sangue versato intendo anche sangue economico. Significa accogliere centinaia di migliaia di rifugiati ucraini, significa riarmarsi (ovvero, spendere in bombe e razzi invece che in scuole o in infrastrutture), significa rischiare rappresaglie da parte del nemico… Per vincere bisogna accettare di soffrire e di infliggere sofferenze al nemico. Purtroppo, bisogna augurarsi che il popolo russo soffra tanto… da far fuori Putin e la sua banda. E lo dico con il cuore rotto, perché ho tanti cari amici in Russia, e molti di loro odiano Putin, che chiamano Putler (Putin + Hitler). Mi dispiace, dovranno soffrire anche loro. Anche i tedeschi anti-nazisti soffrirono sotto le bombe anglo-americane. Perché questo è l’altro lato che la retorica paciona di oggi non riconosce: che fare la guerra a Putin non è fare la guerra a lui e a qualche altro oligarca ma, ahimè, a tutti i russi. Perché solo se i russi si renderanno conto che Putin li porta alla povertà, allora potranno insorgere. Come i russi fecero nel 1917, reagendo a una guerra disastrosa contro la Germania a cui li aveva portati il dispotismo zarista. Ma ci volevano le terribili sofferenze nelle trincee della prima guerra mondiale perché finalmente lo zarismo venisse spazzato via. La storia ha sempre vie tortuose e crudeli anche per raggiungere i buoni fini. Il punto è: siamo disposti a soffrire perché il pluralismo democratico trionfi sulla dittatura? Altrimenti, abbiamo già perso.

 

La guerra ed i denti stretti

Articolo di Ernesto Sferrazza Papa – Blog “Le parole e le cose”

Ernesto Sferrazza Papa (ricercatore presso l'Instituto de Filosofía della Pontificia Universidad Católica de Chile. Dottore di ricerca in Filosofia presso l'Università di Torino, ha svolto attività di ricerca presso il CAS SEE (Università di Rijeka) e la FMSH di Parigi)

N.b. = sarà nostro relatore ad un seminario pomeridiano previsto per il prossimo 24 Marzo di cui riceverete a breve la consueta segnalazione dettagliata

Ho sempre ritenuto che le polemiche culturali, che l’espressione “scambio di idee” tende a nobilitare eccessivamente, fossero uno dei tanti modi mediante cui la novecentesca industria culturale rimpolpa ancora oggi le proprie carni. Partecipare a una polemica, addirittura lanciarla, significa collocarsi nel mercato delle idee, vendere la propria opinione, e magari coltivare la misera speranza di poterla prima o poi capitalizzare. La mia posizione, a dire il vero assai defilata, di giovane accademico “specialista” mi ha concesso finora il privilegio di questo sguardo sospettoso. Non ho mai dovuto scendere nell’agone culturale, né peraltro sono mai stato invitato a farlo. Probabilmente me ne sono beato, agendo in maniera più o meno inconsapevole come la volpe della nota favola. Nonostante ciò, sento la necessità tutta personale di scrivere qualche riga di commento all’articolo di Sergio Benvenuto “Vi informo: siamo in guerra” pubblicato su Le parole e le cose. Poco male qualora le mie riflessioni non venissero pubblicate. La favola evita di dire che la volpe, dopo un po’, si convince che l’uva è davvero amara. Come sono solito fare, entro in medias res. Benvenuto apre il suo contributo equiparando la propria percezione di essere in guerra con l’essere, in quanto cittadino italiano, davvero in guerra. La percezione di partecipare al conflitto, senz’altro ben pasciuta nell’immaginario collettivo da mezzi di comunicazione che in questi giorni stanno agitando senza vergogna le peggiori passioni, è sufficiente per siglare la sentenza per cui siamo realmente in guerra. Dobbiamo immaginarci come tali, cominciare a vivere, pensare, forse addirittura scrivere, come tali. Nonostante qualsiasi cosa possano affermare le parti politiche in gioco che non siano Russia e Ucraina, e anche qualora, come riconosce lo stesso Benvenuto, l’Europa non mandasse un solo soldato a combattere, la guerra è una realtà qui e ora. La percezione della guerra è così vivida e potente da realizzarsi magicamente, senza scarti, senza obiezioni, senza possibilità di contro-argomenti. La guerra viene annunciata sin dal titolo del contributo di Benvenuto con la stessa freddezza con cui si comunicherebbe il ritardo di un treno: se non lo sapevate prima, ora lo sapete. Ma questo è lo snodo decisivo: poiché siamo in guerra, bisogna comportarsi di conseguenza. E la prima cosa che si fa, in guerra, è qualcosa che in realtà si subisce: in guerra si soffre. Prepararsi alla guerra significa prepararsi a soffrire. A partire dall’evidenza materiale di una guerra in corso che colpisce anche noi italiani, e ci schiaffeggia sin da subito, il contributo di Benvenuto si risolve presto in un elogio della sofferenza necessaria. In questo, egli si adegua senza scarti alla linea governativa, che nella persona di Draghi ha chiarito senza equivoci, mentre annunciava il numero di militari italiani allertati, quali sacrifici si dovranno sopportare. En passant, dal momento che non è il fulcro di queste poche righe: Benvenuto si dichiara assai d’accordo con l’invio massiccio di armi in Ucraina, ma la questione è quantomeno problematica dal momento che questa pratica tende a trasformare i civili in combattenti (poiché le armi, è cosa nota, vengono ormai distribuite alla popolazione tutta), erodendo quella linea tra combattenti e non-combattenti, prezioso patrimonio del diritto di guerra modernamente inteso, che se non inibisce l’uso de facto della forza illimitata, quantomeno lo rende illegittimo. Ma questa, come si dice in questi casi, è un’altra storia. Ciò che rileva è che già tempo fa Mario Monti prometteva “lacrime e sangue”, ma almeno all’epoca le voci si levavano critiche e sgomente. Ciò che prima appariva scandaloso, ora può senza vergogna essere semplicemente annunciato e recepito. È un’informazione come un’altra. Da un certo punto di vista, Benvenuto ha ragione quando dice che la percezione della guerra è alimentata dal suo sconfinamento ben al di là dei canoni classici e moderni. La guerra oggi è combattuta in mille modi e mille forme: guerre informatiche, economiche, sanzioni, targeting. Ma quanto dura questo “oggi”? Quanto è lungo questo presente? Non certo da oggi la forma della guerra è mutata rispetto all’immaginario ancora ottocentesco di guerre campali. E soprattutto, non certo da oggi la popolazione tout court (vorrei per una volta abbandonarmi al lessico foucaultiano e dire: la popolazione come costrutto biopolitico) è parte significativa del conflitto. Insomma, è quantomeno bizzarra l’idea per cui “essere in guerra significa, oggi, che la popolazione del paese in guerra ne paga in qualche modo i costi”. È proprio il Novecento, sin dai prodromi della Grande guerra, a consegnare tutta la popolazione direttamente agli effetti del conflitto scatenato. Almeno da quando gli italiani decisero, guadagnandosi un triste primato, che un aereo in sorvolo poteva tranquillamente trasportare bombe da buttare alla bisogna su un’oasi in Libia, il confine sempre più labile tra belligeranti e non-belligeranti si è fatto evanescente. Perché allora Benvenuto sembra volere insistere su una rottura paradigmatica che analiticamente non trova spazio? Detta ancora diversamente, e forse in maniera più fastidiosa: perché Benvenuto si sente in guerra oggi ma non si sentiva in guerra ieri? Il motivo è presto detto: la guerra di oggi ha potenziali conseguenze immediate che la guerra di ieri non aveva, o che comunque non rientravano nel campo d’intellegibilità di un ceto medio colto che, tuttavia, non ha gli strumenti per comprendere che anche le guerre di ieri hanno avuto un impatto devastante, per quanto diluito nel tempo. Ma la buona notizia è che questa guerra può essere vinta, e può essere vinta nel dolore. Quella che si apre è una hegeliana gara della sofferenza tra vincitore e vinto, dove a vincere sarà colui in grado di sopportare la propria sofferenza mentre ne distribuisce di più all’avversario. Ben vengano, per vincere questa guerra, tutte le sofferenze inflitte a un intero popolo, come se quelle già a disposizione non fossero abbastanza. Gli Ucraini hanno sofferto finora? I Russi da domani soffriranno un po’ di più. Lavoriamo dunque a questo scopo, cosicché finalmente capiranno e agiranno di conseguenza. Ben vengano le sanzioni, le armi, gli ostracismi, l’economia distrutta. La “colpa metafisica”, come forse l’avrebbe chiamata Jaspers, dell’Altro, del Russo, va in qualche modo punita, per quanto non possa esserlo fino in fondo. E noi? Anche noi rientriamo in questo gioco al massacro, e vi rientriamo per le conseguenze delle sanzioni lanciate da parte europea. Ma ciò che conta, in ogni caso, è il rapporto tra sofferenza inferta e sofferenza subita. L’esito di questo scontro di civiltà dipende dall’equilibrismo: rimanere in piedi dopo il colpo per colpire un po’ di più. Nel ragionamento che Benvenuto ci propone, la sofferenza si tramuta così in un vero e proprio apprendistato politico per Noi, in una pedagogia del dolore per Loro, un insegnamento che li convinca una volta per tutte di essere in guerra. Da qui procede la strabiliante lettura che ci viene proposta: vincerà chi sarà disposto a soffrire di più adesso. La minaccia dei rubinetti del gas chiusi andrebbe affrontata a cuorcontento. La vittoria passa, in maniera direi muscolare, dalle resistenze eroiche del popolo che soffre ora al solo scopo di far soffrire di più l’altra parte domani. Come uscire da questa sacca? Cosa opporre a una prospettiva politica che sgrana il rosario delle passioni tristi? Come sottrarsi all’elogio della sofferenza, al suo inconsapevole spirito bellico, alla terribile ode al sangue versato? Benvenuto nel suo contributo richiama di sfuggita la celebre dottrina di Karl von Clausewitz, e ne critica la massima per cui la guerra sarebbe politica continuata con altri mezzi. Ma c’è un’altra lezione in Clausewitz troppo poco ascoltata e alla quale dovremmo riandare. Non bisogna dimenticarsi che uno dei nodi concettuali principali di Vom Kriege è l’attrito. Nelle sue opere Clausewitz insiste su tutti quegli attriti e frizioni che necessariamente trasformano il conflitto da guerra a tavolino, astratta, metafisica, in guerra reale, concreta, dove gli esseri umani che la combattono e dirigono sostituiscono pedine e statistiche. I mille inciampi tattici cui una guerra va incontro sono anche attimi di sospensione del conflitto. Quando qualcosa va storto e deraglia dal piano strategico fatto sulla carta, si apre lo spazio dell’attesa. La guerra reale diventa così necessariamente una guerra limitata, per certi versi contenuta. Catastrofica, drammatica, ma non totale, non integrale. L’attrito è la via di fuga dalla catastrofe di una guerra totale senza via di scampo per nessuno. Ciò che da Clausewitz si può trarre è forse l’imperativo a individuare quei momenti di crisi immanenti la guerra stessa, e riconfigurarli nell’unico modo oggi possibile per evitare la deriva infernale: come spazi di diplomazia. Non bisogna avere il coraggio della sofferenza né rivendicare il dolore come virtù politica. Per quanto possa apparire brutale e dispotico, è il dialogo con il nostro nemico di oggi che ci salverà domani. Non bisogna lasciarsi accecare dai successi tattici del momento, poiché essi tendono a rovesciarsi in sciagure strategiche. In un mondo globale e interconnesso non ci possono essere vinti e sconfitti, come se questi universi fossero separati e non comunicanti. Nonostante sia stata proprio la globalizzazione della violenza a riattivare la figura del Grande Altro, del nemico assoluto, in realtà essa reclama l’abbandono una volta per tutte della dicotomia Noi/Loro, Democrazia/Dittatura, Liberali/Autoritari. L’interconnessione globale non concede spazio di legittimità al vocabolario binario. E non perché non vi siano opzioni politicamente e moralmente preferibili (il sottoscritto si dichiara democratico e liberale), ma perché esse convivono in uno spazio in cui sono mediate da altre opzioni che non possiamo non riconoscere. E il riconoscimento potrà e dovrà essere critico, ma in sua assenza a spadroneggiare sarà la violenza perpetua tra parti in costante conflitto. Per quanto ciò possa apparire faticoso, per quanto gli schiaffi del presente portino il nostro immaginario a ben altre soluzioni, il Nemico ha la enne minuscola. Non un’alterità assoluta da annientare a tutti i costi, in una logica spavalda Noi vs. Loro che ha dato fin troppi esiti insanguinati.  L’invito è di opporre alla brutalità dello scontro tra forze la libera coazione delle ragioni in dialogo. Benvenuto, di contro, soccombe con sconsolato cinismo al richiamo di una sofferenza necessaria e gloriosa. Egli scrive: “per vincere bisogna accettare di soffrire e di infliggere sofferenze al nemico”. Ormai rassegnato ad aderire in tutto e per tutto alla sua percezione di belligerante, la vittoria, per lui, non può che passare dallo stringere i denti. Ma con quanta facilità, in questo modo, si mette in soffitta l’uso della ragione nella sua incarnazione internazionale, vale a dire la potenza della diplomazia! Con quale facilità si accetta che la forza debba chiamare altra forza, senza rendersi conto che così si lavora non alla pace – al cui orizzonte abbiamo forse già rinunciato –, bensì a un’instancabile violenza perpetua. A salvarci non sarà la capacità di soffrire. Ben più prosaicamente, l’unica e ultima chance di salvezza sarà il dispiegamento di un corpo diplomatico europeo di prim’ordine, autonomo per quanto possibile rispetto alla volontà egemonica statunitense, a fare da mediazione tra le parti in gioco. Si tratta di una scommessa, questo è evidente. Come un rumore bianco, la minaccia nucleare incombe su tutti noi. Ma una volta di più, soprattutto in queste ore buie, è necessario scommettere, piuttosto che sulla sopportazione del sangue versato e sulla rivalsa di una civiltà sull’altra, sull’uso di una ragione non rassegnata al peggio. Dalla diplomazia passa il futuro mondiale, la possibilità stessa del futuro. Essa ha finora fallito, muovendosi a casaccio. Ma la partita per la pace non è ancora finita, e come sapeva bene Walter Benjamin, il colpo decisivo si sferra con la mano mancina.

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