Proseguiamo nel presentare articoli che aiutino a
meglio comprendere la drammatica situazione della guerra in Ucraina. Iniziamo
con uno spiazzante articolo di una giornalista, che da anni segue in prima linea
conflitti in varie aree del mondo, che sviluppa considerazioni sicuramente “forti”
sia sulla gestione russa dell’intervento militare sia sulla scelta italiana di
sostenere l’Ucraina anche con l’invio di armi. Farà poi seguito un secondo
articolo contenente utili valutazioni da una parte sulle politiche di Putin e sull'idea di Russia che le sostiene e dall'altra sull'incerto percorso ucraino verso una nuova identità nazionale
Le tigri non sono mai di carta
se hanno denti atomici
05.03.22 – Articolo di Benedetta Piola Caselli (giornalista specializzata in relazioni internazionali, scrive abitualmente sul giornale Il Riformista e collabora a diversi blog) – sito on line pressenza international press agency
Cerchiamo di essere seri e di capire come stanno andando le cose. Abbiamo avuto l’invasione annunciata (si, annunciata) di uno Stato sovrano da parte di una potenza regionale che detiene l’atomica. Le ragioni di questa invasione sono complesse e non andrebbero semplificate, ma la più ripetuta riguarda la richiesta di adesione dell’Ucraina alla NATO, cosa che porterebbe i missili dell’Alleanza a 3 minuti da Mosca. La disparità di forze fra Russia e Ucraina è evidente, e la guerra avrebbe potuto essere lampo. Non lo è stato, e dunque occorre chiedersi perché, così come occorre chiedersi perché i media hanno raccontato fin qui qualcosa che non c’era. Infatti, l’escalation di violenza è stata – ed è – progressiva ma graduale. Ce lo dicono gli stessi militari, fra cui il Generale Mini che è uno che di guerra se ne intende: i russi non hanno usato l’aviazione per bombardare, non hanno interrotto né elettricità, né comunicazioni, né riscaldamento; hanno colpito – o tentato di colpire – installazioni militari cercando di risparmiare i civili. La strategia della violenza progressiva non è niente affatto usuale e, per rendersene conto, basta pensare ad un qualsiasi intervento americano. L’obiettivo in guerra è vincere in fretta con il minor numero di vittime proprie, ed il modo per farlo è combattere dal cielo con i droni o l’aviazione. Se lo scopo era occupare l’Ucraina, bastava un solo bombardamento aereo su Kiev per chiudere la questione. Inoltre, specialmente ora che si chiede a gran voce che Putin sia processato da un Tribunale Internazionale per crimini di guerra o addirittura contro l’umanità, dovrebbe essere sottolineato che la Russia non ha voluto colpire i civili e che sta permettendo i corridoi umanitari per farli allontanare dalle città. Che sia per calcolo o per buon cuore, giuridicamente è irrilevante. Su questo punto occorre fare un attimo di attenzione. Cosa sappiamo delle vittime civili? Secondo i dati dell’Onu, che in 9 giorni di guerra sono state 113 – la cifra non può essere confermata né per eccesso né per difetto – ma parrebbe da valutare per difetto data la mancanza di immagini di cui pure, in genere, i media amano fare ampio uso. E, per quanto sia orribile da dire, sono comunque pochissime: un solo bombardamento aereo normalmente ne fa il triplo. Quindi – stante che c’è una guerra e la guerra causa distruzione e morte – fin qui la Russia sembra aver agito nel modo meno violento possibile. Eppure l’informazione mainstream ci dice altro: il cittadino medio capisce che in ballo c’è un’operazione totalmente ingiustificata, imprevista, condotta da un pazzo sanguinario al pari di Hitler. Fare un’analisi critica delle informazioni e verificare i dati non significa essere filo-Putin o giustificare un’aggressione e, al contrario, serve per valutare correttamente gli effetti di una determinata scelta. Per esempio: solo ammettendo onestamente che la Russia ha operato a basso impatto, scegliendo un conflitto a violenza progressiva, si può capire il perché di questa scelta. L’argomento secondo cui, in caso di blitz aereo, temeva una reazione internazionale armata non tiene: l’Ucraina non è nella Nato e nessuno sarebbe intervenuto. E’ più facile pensare che Putin non voglia isolarsi internazionalmente, e voglia lasciare aperta la porta alle trattative. Ma questo vuol dire anche che, se la porta del dialogo internazionale venisse chiusa comunque, e lui fosse messo all’angolo, verrà meno l’unico vero deterrente all’uso della violenza estrema. Ma c’è un’altra questione rilevante come fenomeno di psicologia sociale. Perché i media hanno drammatizzato con notizie false o esagerate un attacco che nel suo inizio era comparativamente contenuto? Non può essere negato che “pioggia di fuoco su Kiev” del Tg2 (con le immagini di un videogioco), le immagini dell’aviazione russa in formazione del Tg1,2,3 (immagini di una esercitazione del 2014) , la corrispondente in assetto da guerra che parla concitata da un parcheggio in cui la gente fa la spesa su La7, eccetera (quante ne volete mettere?), hanno lasciato nell’osservatore l’idea che Putin sia un pazzo scatenato che, fin dal primo giorno, sta radendo al suolo un paese di 40.000.000 di abitanti. Ma non è vero. Senza voler togliere nulla al dramma dei profughi (e chi non scapperebbe sapendo di essere in pericolo?) e al fatto che l’escalation potrebbe portare ad uno scenario critico, al momento questa cosa non è successa. Perché allora ce la raccontano in modo erroneo?E perché viene esaltato con toni quasi agiografici Zelensky, uno dei leader più controversi dell’ ultimo decennio, improvvisamente dipinto come l’eroe della libertà?C’è un disegno o è solo per vendere di più? Il modo in cui l’ informazione è veicolata ha molti effetti. Il primo, il più banale, è educare o instupidire la popolazione.Nel nostro caso la instupisce. Noi viviamo in un paese in cui, per tradizione, è continua la polarizzazione buono/cattivo, vero/falso, amico/nemico con buona pace di ogni coscienza critica: è il fenomeno del conformativismo italiano, vera base del successo del fascismo, ampiamente trattata da Noberto Bobbio. Iper-eccitare l’opinione pubblica significa stimolare questi schemi con passioni irriflesse, annientando il poco di senso critico che viene faticosamente costruito nelle more degli show mediatici. Oggi, ad esempio, sulla base di una corale solidarietà all’Ucraina (buoni), siamo alla caccia a tutto ciò che è russo (cattivi), e così abbiamo gli atleti bloccati, gli analisti scomparsi dai programmi d’approfondimento, Dostoevskji cacciato dalle università eccetera: questi episodi non sono marginali, perché sono espressione proprio di questo fenomeno, gravissimo, di infantilismo intellettuale e morale. C’è di peggio. La dicotomia buono/cattivo amico/nemico è talmente potente da giustificare azioni totalmente incostituzionali. Ne è esempio la decisione di armare l’Ucraina, pur se armare un paese è un atto di guerra indiretto, e l’Italia ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali ex art. 11 Costituzione. Qualcuno, credendosi furbo, ha provato ad argomentare che la guerra di difesa è legittima e che l’Ucraina è paese attaccato. No: la guerra di difesa è legittima quando è l’Italia ad essere attaccata, e su questo presupposto trovano copertura le alleanze militari difensive a cui l’Italia appartiene, come la Nato. Ma armare un paese attaccato che non faccia parte dell’alleanza è esattamente intervenire in una controversia internazionale, contro il dettato costituzionale: in ogni disputa c’è una vittima ed un aggressore, anche se ciascuno ritiene di agire nel giusto. E c’è ancora di peggio. Il fondo lo si tocca con il mancato calcolo di opportunità. Perché, è evidente, delle due l’una: o i politici, spinti dall’opinione pubblica sovraeccitata, fanno scelte di una stupidità infinita, o i politici – per ragioni altre – hanno già fatto scelte che vengono poi coperte dall’opinione pubblica sovraeccitata. Nell’uno e nell’altro caso la responsabilità dei media è gravissima. Volendo credere al primo, il discorso di Draghi che, in soldoni, dice : “siamo in emergenza, quindi prima si agisce e poi si riflette”, lascia basiti. Uno: perché questo conflitto era stato annunciato, rectius: la stessa invasione era stata annunciata, con data e ora precisa, e quindi il tempo per riflettere c’era, e due: perché, se le misure adottate per reagire sono controproducenti, l’escalation del conflitto è certa e ne faremo le spese tutti. Armare l’Ucraina (a parte l’essere incostituzionale) è intelligente? Attenua il conflitto o lo alimenta? Le sanzioni economiche sono una furbata? Attenuano il conflitto o lo alimentano? Demonizzare l’avversario lo isola o compatta il fronte interno? Quale è veramente il punto debole di Putin? What else? Già Hans Morgenthau ricordava che il nemico non si mette all’angolo, perché lì è costretto a gesti estremi. Ora: un conflitto non solo previsto, ma anche a intensità crescente, permette e dà il tempo di trovare soluzioni negoziate – anche con il naso storto, anche dovendo sacrificare qualche principio morale. Non volerlo fare ed alimentarlo è da folli. In primo luogo, perché il popolo ucraino, per quanto eroico e pronto al sacrificio, non ha realisticamente alcuna possibilità di vincere, quindi non si capisce a che serve spingerlo ad ingaggiarsi in una guerra lunga e dolorosa. In secondo, per la salvaguardia di noi stessi che gesti estremi non ne vogliamo: come ci insegnavano i padri, le tigri non sono mai di carta se hanno denti atomici. E questa riflessione, che ha improntato la politica internazionale degli ultimi settantasei anni, non dovrebbe essere dimenticata nel settantasettesimo.
Russia e Ucraina
post-sovietiche:
il perché di un
conflitto
04-03-22
- Articolo di Marco Puleri (docente presso i dipartimenti di Scienze Politiche e Sociali
e di Beni Culturali dell'Università di Bologna) – sito on-line Doppio Zero
“Voglio
rivolgermi a tutti i cittadini della Federazione Russa: non come presidente
dell’Ucraina, ma come cittadino dell’Ucraina… Sappiamo che non vogliamo una
guerra: né fredda, né calda, né ibrida”. Alle prime ore della notte del 24
febbraio, in un discorso tenuto in lingua russa, così Volodymyr Zelens’kyj si
rivolgeva ai cittadini russi nel tentativo di indurli a una mobilitazione
popolare per fermare l’invasione russa nel Paese, che sarebbe comunque iniziata
dopo qualche ora per volere della leadership politica russa. All’alba dello
stesso giorno, il presidente Vladimir Putin annunciava il lancio di un’operazione
speciale per “demilitarizzare” il Paese confinante. Nel corso di questi lunghi
otto anni, iniziati con la Rivoluzione di piazza dell’Indipendenza a Kyiv nel
novembre del 2013, siamo rimasti nell’incredula attesa che una guerra potesse
realmente esplodere nuovamente nel cuore dell’Europa. In questa dimensione di
sospensione epistemologica ed esistenziale, abbiamo iniziato a cercare nuovi
termini per descrivere quello che stava succedendo, senza trovare una
soluzione: abbiamo così imparato a replicare l’utilizzo di categorie storiche
per descrivere e talvolta giustificare le diverse posizioni politiche assunte
dagli attori coinvolti; abbiamo concordato sul fatto che l’unico modo di
guardare al presente fosse tramite il prisma ideologico della ‘guerra fredda’;
siamo rimasti scioccati di fronte al riemergere di arcaici nazionalismi che
sembravano essere stati ormai sepolti dal volgere dei secoli. Nel suo libro dal
titolo emblematico Cosa significa essere post-sovietici? (2018),
la critica letteraria russa Madina Tlostanova descriveva in questo modo la
nuova condizione esistenziale e politica seguita al crollo dell’URSS: “Non c’è più nessuna teleologia, nessun punto
di arrivo… il ricorso all’attesa di un meraviglioso futuro nelle condizioni di
privazione e umiliazione odierne è del tutto esausto”. Nel corso degli
ultimi trent’anni di storia, si è assistito alla fine della ‘modernità
sovietica’ e all’inizio di una ricerca disperata di un nuovo punto d’arrivo. I
diversi attori politici e culturali della regione hanno faticosamente
ricostruito il loro passato, per pianificare il presente ed immaginare un nuovo
futuro. In questo percorso hanno dapprima guardato alle proprie tradizioni
locali, sopite e represse in età sovietica, per porre le basi della nuova
‘modernità’ nazionale. Successivamente, si sono rivolti all’Europa e
all’Occidente e al modello di modernità globale in chiave liberal-democratica,
vivendone in primo luogo i traumi di un distorto processo di modernizzazione,
che ha dato in molti casi vita a corruzione, povertà e umiliazione. Lungo
questo percorso ha preso vita la ‘transizione’ post-sovietica, un percorso
‘senza futuro’ in cui era paradossalmente solo il linguaggio del passato a
poter significare il presente: Ben presto divenne chiaro che le persone
post-sovietiche apparentemente mandate in fondo alla fila, in realtà, erano
semplicemente escluse dalla storia, perché il recupero non si sarebbe mai
concluso con un sorpasso. Ci siamo trovati nel vuoto, in un luogo problematico
abitato da persone problematiche. Ed è stata questa situazione di non avere
nulla da perdere che ha plasmato il pericoloso risentimento postimperiale di
oggi. Le strategie adottate dalle élite politiche e culturali della regione
per colmare il vuoto creato dall’assenza di un futuro sono state profondamente
diverse tra loro. Il ‘presente’ post-sovietico che ha preso forma nel corso
degli ultimi 30 anni di storia ha determinato vettori divergenti di evoluzione
storica, la cui direzione ha portato alla formazione di nuove realtà politiche,
che hanno riconosciuto vicendevolmente la legittimità della loro presenza sulla
scena internazionale. Se lo scenario internazionale ci invita a pensare che ad
oggi non esiste nessuna organizzazione internazionale che contenga al suo
interno tutti i quindici Paesi sorti dal crollo dell’Unione Sovietica, possiamo
già comprendere come un ‘ordine politico’ post-sovietico non abbia mai
realmente preso forma. Se guardiamo alla Russia post-sovietica, vediamo
un’élite politica che ha costruito la sua stabilità intorno alla negazione
dell’umiliazione dei cosiddetti ‘selvaggi anni Novanta’ (‘lichie devjanostye’,
in russo) nella coscienza collettiva: è indubbio che la crisi economica,
politica e sociale vissuta dalla Russia El’ciniana abbia rappresentato un punto
di non ritorno per la retorica putiniana. Vladimir Putin, salito al potere al
tempo della seconda guerra cecena (1999-2009), ha costruito la propria carriera
politica intorno all’idea di uno ‘stato forte’ (‘velikaja derzava’) che potesse
garantire ai propri cittadini una stabilità economica e politica del tutto
diversa da quella ereditata dagli anni del suo predecessore. Se è vero che il
nuovo contratto sociale che si è affermato negli anni putiniani ha sì portato a
una maggiore stabilità politica ed economica per il Paese, di contro ciò è
avvenuto tramite la rinuncia a tutta una serie di diritti civili e politici
goduti dai cittadini russi negli anni successivi alla perestrojka: per usare
una metafora utilizzata dai media russi, nel corso degli anni Duemila ha preso
forma quello che viene definito come uno scontro interno ‘tra frigorifero e
televisore’, ovvero tra le aspettative di vita reale e concreta dei cittadini
russi e l’immagine veicolata dallo Stato della Russia stessa. Volgendo lo
sguardo all’Ucraina post-sovietica, guardiamo ad un Paese che per la prima
volta nella sua storia legittimava le ambizioni di un movimento nazionale sorto
alla metà dell’Ottocento in seno all’Impero Russo, e si trovava di fronte alla possibilità
di raggiungere una statalità riconosciuta a livello internazionale. È indubbio
il fatto che l’élite politica che si è resa protagonista della ‘transizione’
post-sovietica ucraina non sia stata sempre all’altezza del compito di creare
una nuova idea di futuro per il Paese. Non a caso la storia contemporanea
dell’Ucraina indipendente, a differenza di quella russa, si muove per ‘cicli
rivoluzionari’: dalla rivoluzione sul granito del 1990, alla rivoluzione
arancione del 2004 e, infine, alla rivoluzione cosiddetta di Euromaidan nel
2013-14. Ovvero, in luogo della leadership politica del Paese, è stata la
società civile a proporre nuove idee di comunità politica che andassero al di
là della retorica nazionale del passato sovietico, debitamente rivista nel
presente. Queste istanze di cambiamento sono state puntualmente sommerse, per
fini elettorali, dalle retoriche divisive adottate dai diversi attori politici
intorno all’idea dell’esistenza di ‘Due Ucraine’ distinte e separate. In
particolare, sin dagli anni della ‘Rivoluzione Arancione’, che hanno visto il
presidente Viktor Jusenko salire al potere, per arrivare all’ultimo presidente
ucraino pre-Euromaidan, Viktor Janukovic, il dibattito politico ha iniziato a
ruotare intorno alle diverse idee d’Ucraina costruite intorno a miti storici e
criteri di appartenenza linguistica ed etnica: secondo questa logica, a
un’Ucraina ucrainofona ed ‘europea’, si contrapponeva un’Ucraina russofona e
‘nostalgico-sovietica’. L’eterogeneità e vivacità del presente della società
civile ucraina veniva così puntualmente sommersa all’interno del linguaggio del
passato. Una condizione post-sovietica, quindi, ma che ci riguarda tutti: non
solo i russi e gli ucraini, ma anche la vecchia Europa e l’Occidente. Mentre la
fine dei regimi comunisti in Europa centro-orientale segnava la fine di
un’epoca, nel corso degli ultimi decenni non si è mai stati in grado (o non si
è mai pensato alla necessità) di definire un nuovo futuro per lo spazio
geopolitico europeo e globale: mentre l’Unione Europea si allargava ad Est, i
nuovi conflitti che avevano già preso vita nella regione post-sovietica (e non
solo) restavano insoluti e ‘congelati’, senza che si riuscisse a trovare un
dialogo e un metro di valutazione condiviso. Le repubbliche popolari di Donec’k
e Luhans’k sono soltanto gli ultimi tasselli sorti nel 2014 in un quadro che
sin dagli ultimi anni di vita dell’URSS ha prodotto le cosiddette ‘zone grigie’
d’Europa: la Transnistria, al confine tra Moldova e Ucraina; l’Ossezia del Sud
e l’Abcasia in Georgia; il Nagorno-Karabach in Azerbaijan. Conflitti costruiti
a livello retorico attraverso il ricorso al linguaggio del passato sovietico,
modellati intorno all’implosione del complesso mosaico dell’etno-federalismo
sovietico, ma che indiscutibilmente hanno definito un futuro politico complesso
per la regione. Un futuro in cui la Federazione Russa si è ritrovata a giocare
il ruolo di unico arbitro indiscusso, utilizzando le armi a sua disposizione:
le armi di un passato che ai nostri occhi sembrava essere stato seppellito
ormai trent’anni fa. Dopo una lunga attesa durata otto anni, la domanda che
ricorre è ‘perché oggi siamo di fronte ad una guerra tra russi e ucraini’?
Potrebbero esserci tante risposte a questa domanda: perché l’élite politica russa
non è riuscita a trovare un nuovo futuro che potesse prendere forme diverse dal
ricorso al revanscismo di marca imperiale; dall’altra, perché la società
ucraina ha cercato di porre le basi di un futuro tramite il ricorso al
confronto democratico e alla creazione di un nuovo modello di comunità
post-nazionale, ma nel suo percorso ha incontrato un’élite politica inadeguata
che ha strumentalizzato divisioni etniche e culturali interne; perché queste
dinamiche sono diventate oggetto di contesa nel contesto internazionale tra
progetti di integrazione regionale in opposizione, seguendo le linee di un
linguaggio del passato che ruota intorno alle dinamiche di una nuova ‘guerra
fredda’. In queste ore di forte preoccupazione per il destino di un Paese che
nel corso degli ultimi 30 anni di storia ha vissuto un difficile percorso verso
l’affannosa ricerca di un futuro tramite l’affermazione di una vibrante società
civile, di una società multiculturale, e in generale di un confronto politico
interno vivace e aperto, sembra necessario ribadire con forza e lucidità che la
guerra in corso non è una guerra tra russi e ucraini, i cui legami familiari,
esperienze di vita, radici culturali comuni restano indiscutibili, ma ruota
intorno a due idee diverse di comunità politiche promosse dalle odierne élite
dei due Paesi. Da una parte, il futuro promosso dalla leadership russa è
costruito intorno alla continuità con il passato, alla negazione della
possibilità di creare un nuovo percorso politico e sociale democratico per la
regione post-sovietica. Dall’altra, abbiamo un’idea di futuro (ancora
imperfetto e in divenire), basata su una discontinuità con il passato
sovietico. Un futuro che chiaramente può prendere forma solo in tempi di pace:
e qui il ruolo dell’Unione Europea e dell’Occidente è essenziale. Siamo tutti
coinvolti nel tentativo di creare una nuova idea di futuro tramite un
linguaggio nuovo per un dialogo rinnovato, che rifiuti con decisione il ritorno
alle armi, i termini di una nuova ‘guerra fredda’, il lessico dei nazionalismi.
La speranza è che questo linguaggio possa nascere dal confronto tra la società
civile russa e quella ucraina. Un nuovo linguaggio post-sovietico di rottura da
fare nostro, e rendere parte di una nuova idea di relazioni culturali e
politiche in Europa.
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