linguista tedesco, vive e
lavora in Finlandia, membro del Research Centre on Multilingualism di Bruxelles,
già docente presso le Università di Bonn e di Coimbra, autore di più di 40
libri in tedesco, inglese, spagnolo, italiano, ungherese, bulgaro, giapponese,
cinese, coreano, e quasi 200 articoli e saggi in dieci lingue.
Trattandosi di un testo decisamente lungo (più di 450 pagine) e corposo, che affronta il tema con articolati approfondimenti tecnici,
ci limitiamo in questa sintesi a recuperarne gli aspetti essenziali per avere
un’idea di massima di un lungo e complesso percorso storico
Introduzione
alcune note esplicative, in particolare su cosa si deve intendere per “lingua”
….. il numero delle lingue mondiali, che presumibilmente oscilla fra
le 6.000 e le 6.500, dipende comunque da ciò che si intende per lingua ………. La definizione classica da vocabolario che cita: il complesso delle parole e locuzioni usate da tutto un popolo come mezzo comune per l’espressione e
lo scambio di pensieri e sentimenti, con caratteri tali da costituire un
organismo storicamente determinato, sottoposto a proprie leggi fonetiche,
morfologiche e sintattiche che sono anch’esse parte integrante della lingua, è integrata da Haarman
con quattro precisi requisiti (linguistici):
Ø deve essere un sistema
fonetico (di suoni) grammaticale e lessicale a sé stante, ossia distinto da
altri sistemi fonetici
Ø deve essere usato sia
come mezzo di comunicazione adatto a molte funzioni sia come simbolo di una
identità culturale
Ø deve essere distinto da
altre lingue perché da esse separato da barriere comunicative che impediscono
ogni forma di loro relazione
Ø nel caso in cui abbia
anche una forma scritta (non tutte le lingue la possiedono) questa deve essere
del tutto convergente con la forma parlata
Il mondo delle lingue
non ha mai avuto, e tuttora non ha, forma stabile: nuove lingue nascono, lingue
antiche si perdono, tutte si modificano continuamente, in questo senso il più
celebre mito linguistico, quello della Torre di Babele, in effetti racconta un
falso: non è mai esistita una identità
linguistica originaria per l’intera umanità. Allo stesso modo non è mai esistita una
convergenza di opinioni sufficientemente solida fra linguisti, storici della
lingua, paleolinguisti, glottologi, in effetti la “scienza
linguistica” vede contrapposte scuole di pensiero e di relative teorie. Negli
ultimi vent’anni dalla genetica è però venuto un contributo prezioso che ha
permesso, grazie al rilevamento dei legami genetici fra le varie etnie, di
stabile preziosi collegamenti storici fra gli intensi fenomeni migratori, che
da sempre caratterizzano la storia dell’umanità, e la nascita e la diffusione
delle lingue. La moderna linguistica si avvale perciò di approcci diversi:
comparazione dei sistemi lessicali e fonetici, ma anche genetica umana ed
archeologia. Alla base di questo sistema di approcci stanno due convinzioni
unanimemente condivise: l’altissima incidenza
della “casualità” nell’intero processo di sviluppo linguistico e l’inesistenza
di una tendenza storica universale verso la complessità, a seconda delle
esigenze contingenti una lingua può evolvere verso forme più complesse oppure
verso forme più semplici
Capitolo
1 = Agli albori dell’evoluzione linguistica
In cui dopo una prima parte dedicata alla “possibile” nascita del
linguaggio, si illustrano alcuni dei complessi parametri usati dalla
linguistica per studiare e classificare le varie lingue. Una parte molto
tecnica che ripercorriamo, il più sinteticamente possibile, per punti
Il linguaggio non ha
avuto origine con una sorta di big bang ma è divenuto una proprietà umana con
un percorso molto lungo, molto frazionato, assecondando, ed al tempo stesso
incentivando, la complessiva crescita evoluzionistica umana, che ha visto la
lingua parlata, nelle sue forme molto rudimentali, precedere di centinaia di
migliaia di anni quella scritta
Le scienze che studiano
l’evoluzione umana non sono in grado di fissare un data certa di comparsa del
linguaggio, ma si limitano a circoscrivere la possibilità del suo comparire in
un arco temporale che ricopre diverse migliaia di anni. Dando per certo il fatto
che questa forma di comunicazione sia nata, e via via specializzata,
all’interno di una più vasta gamma di interazioni non verbali (gesti, pose,
mimica), per formulare quelle che comunque restano “ipotesi” si prende in
considerazione la combinazione di diversi elementi: anatomici,
fisiologici e culturali
Anatomicamente la
possibilità di dettagliare foneticamente dei suoni è data dalla presenza
dell’osso ioide (un
piccolo osso a forma di U che si trova fra la radice della lingua e la laringe) e dalla stessa conformazione del cranio che deve attestare la
presenza del lobo frontale, vale a dire la regione cerebrale preposta alle
attività organizzative e progettuali specializzate
Gli elementi culturali
sono dedotti da testimonianze fossili di una propensione all’attività
simbolica, quali segni astratti, disposizione studiata di reperti ossei umani e
di animali, incisioni.
L’insieme incrociato di
questi elementi consente di affermare che i
primordi dell’attività linguistica risalgono all’Homo Erectus, un ominide che popolò
Africa, Asia ed Europa da 1,9 milioni circa a 0,4
milioni di anni fa. Per quanto possibile ipotizzare si tratta ovviamente di
rudimentali sistemi di suoni gutturali, ma già più complessi dei suoni usati
dagli altri primati
Non sono individuabili successive
specifiche fasi di una evoluzione che è comunque proceduta (la fabbricazione di utensili in pietra
sempre più complessi e raffinati ha sicuramente imposto una trasmissione
generazionale linguistica altrettanto avanzata) lungo percorsi differenziati, privi di particolari
“salti”, quantomeno scientificamente attestabili, fino alla comparsa dell’ultimo
uomo arcaico “l’Homo Neanderthalensis”, l’uomo di
Neanderthal (vissuto
tra i 400.000 ed i 30.000 anni fa) il quale sicuramente possedeva abilità di linguaggio, per quanto
ancora primordiali.
E’ solo con la comparsa sulla scena evolutiva dell’uomo moderno,
“Homo sapiens”, avvenuta all’incirca 150.000 anni fa, che si assiste al
passaggio, in questo caso documentato, a forme di linguaggio più complesse, dapprima solo verbali
ed infine anche scritte (i
primi tentativi di scrittura sono stati rintracciati nella civiltà danubiana di
6.000/7.000 anni fa, ben prima quindi della scrittura, però già più completa,
di quella mesopotamica datati attorno al 3.200 a.C., su questo si tornerà più
avanti)
L’ipotesi più sensata
per spiegare questo lunghissimo, e per tanti aspetti misterioso percorso
evolutivo, consiste nel ritenere che i suoi diversi stadi siano strettamente
connessi con una più generale evoluzione fisiologica e culturale, capace di
mettere in connessione morfologia fonetica, abilità sintattica e lessicale, con
specifiche esigenze comunicative sollecitate dal più generale processo
evolutivo. Questa ipotesi, sulla base dei riscontri fin qui acquisiti, si
articola su quattro stadi che si combinano con le diverse specie di ominidi
fino all’Homo Sapiens
Ø stadio 1 = agli esordi non possono che stare espressioni onomatopeiche (fonemi
vocali che riproducono suoni ambientali, tipo bum, ciaf, splash, track) collegabili a stati d’animo come stupore, gioia, spavento e
così via, piuttosto che rudimenti di racconto intrecciati con mimiche ed
espressioni corporee. In questo stadio vanno collocati l’Homo Erectus e il
Neanderthalensis.
Ø stadio 2 = a quest’ultimo va già sicuramente attribuito un patrimonio di
foni (suono linguistico) più ricco attestato,
rispetto all’Erectus, da una sua evoluzione anatomica del cavo orale (conformazione anatomica di fatto molto simile a quella attuale
del neonato) che dovrebbe aver
consentito timbri (qualità
vocaliche)
di
opposizione foni quali: a-e, p-b, t-d. (tracce di questi primordiali timbri sono ancora oggi
riscontrabili in lingue moderne come il caucasico e l’hawaiano) Le parole in questa
fase restano monosillabiche con una grande prevalenza di olofrasi (singole parole che esprimono una intera
frase o un concetto articolato, molto usate nella fase infantile, ad es.
“pappa” per dire “voglio la pappa – ho fame”) stante l’assenza di
strategie sintattiche di costruzione della frase
Ø stadio 3 = è quello che interessa
la prima fase di affermazione dell’uomo moderno, che va da 100.000 a 70.000
anni fa.
Acquisita la giusta anatomia del cavo orale, sviluppate forme complesse di
linguaggio simbolico, l’uomo è ormai capace di articolare parole polisillabiche
e di costruire frasi grammaticalmente complesse con soggetto-verbo-complementi
vari, e di usare elementi dimostrativi (questo, quello) che attestano una maggiore astrazione linguistica
Ø stadio 4 = è quello della definitiva affermazione delle lingue attuali con
tutte le loro complessità e diversificazioni ed il loro stretto collegamento con
altri sistemi simbolici come il calcolo e la misurazione, l’iconografia, piuttosto
che l’uso di segni convenzionali. Se ne può indicare
l'inizio “ufficiale” in circa 60.000 anni, allorquando l’Homo Sapiens (sapiens)
raggiunse l’Australia e la Nuova Guinea lasciando tracce di un linguaggio
ancora in buona misura attribuibile allo stadio
3, ma già contenente in nuce forme tipiche dello stadio 4
Per analizzare e
comprendere la raffinata evoluzione linguistica intervenuta da lì in poi aiuta
la disciplina dell’economia
linguistica, usata dagli studiosi per ricostruire un percorso che, per
quanto diversificato, poggia su comuni fisiologiche limitazioni umane quali:
Ø un numero di suoni distinguibili a livello acustico non superabile, che ammonta a qualche migliaio,
Ø un numero altrettanto limitato di fonemi (suoni distintivi di differenziazione) non superiore a qualche decina, si va infatti da un minimo di 13 fonemi (hawaiano) ad un massimo di 40 (lingua sami, Russia del Nord), in media
le lingue usano tra 25 e 35 fonemi
E’ infine centrale il rapporto tra
“lingua” e “forma mentis culturale” (Sono le strutture della nostra lingua a
plasmare il nostro modo di pensare? è vero il contrario? Valgono ambedue allo
stesso modo?). Al di là della universalità dei principi organizzativi comuni a
tutte le lingue (sistema
fonetico, grammatica, modelli sintattici, repertorio lessicale) il contesto ambientale,
sociale e culturale, nel quale esse sono nate e si sono sviluppate ha certamente
inciso in modo decisivo. Ad esempio basta pensare a come lo stesso fenomeno
atmosferico, ad esempio la “neve”, viene definito nelle varie lingue: in alcune,
per ovvie ragioni, non esiste, in altre, italiano compreso, ha un solo nome (che
per essere precisato richiede l’aggiunta di aggettivi), in
quella “sami” della penisola scandinava ha ben ventuno diversi sostantivi.
Oppure ai termini usati per indicare i colori: se in tutte le lingue esiste un
termine per “bianco” e “nero” ognuna si distingue per una propria scala
cromatica suggerita dal proprio contesto ambientale. Recenti “scoperte” delle
neuroscienze hanno attestato che specifici meccanismi di percezione degli
impulsi cromatici, evidente frutto di diverse linee evolutive, impongono una
diversa strumentazione linguistica. Vale a dire che non sono le parole a definire i colori,
ma i colori (percepiti) le parole!!!!!!!!!
Terminata questa indispensabile parte “introduttiva” inizia il
percorso storico linguistico che, ribadendo quanto già anticipato, percorreremo
a volo d’aquila
Capitolo
2 = Africa ed Eurasia (a partire da 100.000 anni fa)
I primi passi verso le moderne lingue, le ragioni che spiegano
una biforcazione di partenza
I reperti fossili che attestano oggettive
evidenze linguistiche (scritte) risalgono al massimo a 6.000 anni fa, lo studio
dello sviluppo delle lingue parlate è pertanto basato su reperti anatomici e
culturali in senso lato. Quelli relativi allo Stadio 4 sono quindi connessi con la diffusione dell’Homo Sapiens,
la cui culla originaria, circa 150.000 anni fa, è ormai opinione consolidata
sia stata l’Africa. Da lì in successive ondate migratorie l’Homo sapiens è
passato attraverso il ponte continentale del Sinai verso Asia ed Europa,
entrando in contatto con le preesistenti più antiche specie di ominidi. La
moderna genetica (in
particolare hanno grande valore gli studi del genetista italiano Luca
Cavalli-Sforza) ha
consentito di ricostruire tali percorsi, il primo dei quali, avvenuto
all’incirca 95.000 anni fa, ha visto l’Homo Sapiens migrare in prevalenza verso
l’Asia, fino a raggiungere circa 65.000 anni fa l’Asia sud-orientale e da lì,
qualche migliaio di anni dopo, l’Australia dove sono stati trovati i reperti
che, come già citato nel precedente Capitolo, consentono di fissare a circa 60.000 anni
fa la linea di demarcazione fra Stadio 3 e Stadio 4. Nella
successiva ondata migratoria avvenuta 70.000 anni fa l’Homo Sapiens si espande
anche verso l’Europa dove entra in contatto, non sempre pacifico, con l’Homo
Neanderthalensis, (si
ipotizza che già nella prima migrazione il passaggio verso l’Europa sia stato
impedito proprio dalla consistente ostile presenza in Palestina di colonie di
Neanderthal), ma non
di rado molto stretto fino ad incroci ben testimoniati da tracce genetiche. Questa
convivenza, durata diverse migliaia di anni (le ultime tracce di Neanderthal risalgono a circa 30.000 anni
fa), rappresenta un periodo di notevole evoluzione
culturale (rivoluzione del
Neolitico), comprensivo
della comparsa di simboli visivi, pitture rupestri, sistemi di segni, tacche,
scalfitture su manufatti. Avviene in questa fase, (dai 60.000 ai 30.000 anni fa), anche in Europa un salto di qualità
del linguaggio (quello
configurabile con lo Stadio 4, appartenuto al solo Sapiens, stanti le
limitazioni anatomiche del Neanderthal) che,
analogamente a quello avvenuto lungo le
rotte migratorie asiatiche, crea le condizioni, omogenee nelle basi comuni ma
già differenziate in specifiche articolazioni, delle future famiglie
linguistiche moderne. Sarà però necessario arrivare a circa 12.000 anni fa,
all’indomani dell’ultima glaciazione, per poter parlare di proto-lingue, ossia le prime forme del più completo linguaggio dello
Stadio 4
Capitolo
3 = Australia, Siberia e Nuovo Mondo
(a
partire da 65.000 anni fa)
Lungo le tracce della prima ondata migratoria del Sapiens
I primi gruppi di Sapiens, partiti
dall’Africa circa 90.000 anni fa, si diramano lungo due direttrici: una prima che,
attraversando l’intera Asia fino alle sue estremità meridionali, riesce a
spingersi, assecondando i ritmi dei periodi glaciali che hanno permesso in
alcune fasi di superare ostacoli altrimenti invalicabili, circa 60.000 anni fa,
fino in Australia; ed una seconda che, puntando verso nord e sempre sfruttando
l’alternanza delle fasi glaciali, riesce e passare, attraverso lo stretto di Bering,
nel continente americano per poi discenderlo fino all’estremità dell’America
del Sud. Le modalità “stop and go” (mi
sposto e mi fermo, e poi di nuovo) di
questi lenti ma costanti movimenti migratori, durati diverse decine di migliaia
di anni, coniugate con il naturale ripristinarsi alle loro spalle di
invalicabili barriere naturali, hanno fortemente inciso sullo sviluppo del
linguaggio in queste aree del mondo. Ambedue le rotte migratorie sono infatti
rimaste a lungo isolate dal resto del mondo, creando di fatto due distinti ceppi
linguistici rimasti a sé stanti fino al XVI secolo (l’inizio
della fase occidentale delle grandi scoperte geografiche), al cui interno la modalità “stop
and go” ha permesso il formarsi di idiomi locali con una più o meno consistente
traccia dell’unità originari nei vari insediamenti stabili. Questo processo ha
così consentito la formazione di proto-lingue, a cavallo fra lo Stadio 3 e lo
Stadio 4, allo stesso tempo simili e differenziate. Lungo la prima rotta
migratoria se ne contano: 22 in Australia, 12 in Nuova Guinea, 11 nell’area
oceanica; lungo la seconda direttrice: 14 nel Nord America, 8 in quella Centrale, 13
in quella del Sud. La loro esistenza è testimoniata da aspetti
linguistici anomali rispetto al successivo sviluppo linguistico avvenuto in
queste aree (vedi successivo Capitolo 7) che le ha di fatto completamente
fagocitate, chiudendo questa interessante particolarità storica nello sviluppo
globale delle lingue
Capitolo
4 = sulle tracce delle lingue più
antiche
Prima di entrare nel merito del processo evolutivo linguistico
di Asia ed Europa,
e prima
di esplorare l’alba primordiale delle attuali lingue ….
Allo stesso modo vale la pena di ricordare
alcune lingue che presentano caratteristiche così specifiche da non poter essere
inserite nelle attuali famiglie. Sono in effetti l’ultima eredità dello Stadio
3 confluita, restandone autonoma, nella compiuta fase evolutiva dello Stadio 4.
Presentano queste caratteristiche in Europa: il “Basco” (le analisi genetiche hanno stabilito una
relazione diretta tra l’attuale popolazione basca ed il più antico esemplare
Sapiens europeo, “l’uomo di Cro-Magnon”) ed alcuni locali idiomi del Caucaso. In Asia: idiomi
della Siberia, e di alcuni vicini isolotti giapponesi, l’intero ramo delle
lingue dravidiche del ceppo sapiens paleo-indidi (penisola indiana e altopiano iranico). Più consistente è la loro presenza
nel continente Africano, anche in questo caso per il maggior grado di
isolamento di tutta la parte equatoriale e sub-equatoriale. Il quadro
complessivo poteva essere più consistente, ma molte di queste lingue, non
diversamente da quelle del Capitolo 3, sono state fagocitate dai successivi
stadi delle sviluppo linguistico e di esse restano esili tracce nelle lingue
che le hanno sostituite. Concentrando la nostra attenzione alla sola area
mediterranea rientrano in questa casistica lingue ormai defunte come: il “ligure”, il
“retico”, “l’etrusco”, il “minoico”, il “fenicio” ed il collegato “punico”,
“l’aramaico antico”, l’antico “egizio”.
Capitolo
5 = l’origine delle famiglie
linguistiche
a partire dal 12.000/10.000 a.C. circa
…… la ramificazione delle lingue così come le
conosciamo oggi risale al periodo successivo all’ultima grande glaciazione,
12.000 anni fa circa ………. E solo
da qui in poi che si può ricostruire il percorso che ha portato alle lingue
attuali, sempre usando una grande cautela ricostruttiva stante la penuria di
prove testimoniali, i soli strumenti “linguistici” non consentono infatti una
ricostruzione storica sufficientemente attendibile che si spinga oltre gli
8.000 anni a.C. Non va oltre questo
limite una ricostruzione “all’indietro” che di norma punta, utilizzando i
criteri indicati nel Capitolo 1, ad individuare la possibile
originaria “proto-forma”
capace di spiegare l’esistenza di successive varianti fra di loro più o meno
strettamente imparentate. Alla ricostruzione strettamente linguistica occorre
quindi affiancare quella storica/evolutivo più generale per individuare una
possibile civiltà originariamente comune e quindi, come tale, in possesso di
una lingua “proto-forma”.
Stante queste premesse la storia universale delle lingue, esaurita la fase
definibile come “preistoria” (capitoli 2-3-4) mira pertanto a ricostruire i
percorsi che hanno portato all’attuale situazione, complessa e articolata, così
sintetizzabile in una fotografia d’insieme:
la varietà linguistica
si articola su 64 macro-famiglie,
completamente autonome una dall’altra, che abbracciano al loro interno da un minimo di
4 lingue (famiglia Yanoma del popolo Yanomani della foresta
amazzonica) ad un massimo di
1.436 lingue (famiglia niger-kordofaniana dell’Africa equatoriale)
esistono
poi oltre 100
lingue isolate, non rientrando in nessuna delle 64 macrofamiglie (non solo lingue di minoranze ristrette, a questo gruppo
appartengono lingue come il giapponese ed il coreano)
oltre
a quella “niger-kordofaniana”
esistono altre tre macro-famiglie contenenti numeri molto alti di lingue:
quella “austronesiana”,
quella “afroasiatica”,
quella “sinotibetana”
quella “indoeuropea”
(esaminate in dettaglio nei successivo
Capitolo 6 -7). Rientrano
in queste macro-famiglie 3.821 lingue, più della metà delle 6000/6500 lingue
esistenti, ma il totale dei loro parlanti rappresenta il 98% della popolazione
mondiale.
Capitolo
6 = la macrofamiglia linguistica
indoeuropea
a partire dal 7.000 a.C. circa
La denominazione “indoeuropeo”, per
quanto interpretata con diverse declinazioni, comprende una parte molto ampia
del mondo che va dalla regione indiana (indo) ad Oriente agli estremi occidentali e
meridionali dell’Europa (europea) culla di numerose civiltà i cui
esponenti hanno più o meno strette comuni relazioni genetiche. Per quanto le
lingue attribuibili a questa vasta area siano tra le più studiate non è
possibile neanche in questo caso risalire oltre i limiti già ricordati nel
Capitolo precedente. Anzi, la complessità dei fenomeni che l’hanno
caratterizzata non consente di formulare ipotesi attendibili che vadano oltre i
6.000/7.000 anni fa, vale a dire 4.000/5.000 anni a.C. L’idea di una comune
protolingua per tutte le oltre
400 lingue indoeuropee non risale oltre questo limite temporale, e si articola
su due ipotesi riguardo alla sua area d’origine (Urheimat): la prima, collegata alla diffusione dell’agricoltura, con i
primi insediamenti stanziali, è quella della regione balcanica, la
seconda, legata invece alla domesticazione del cavallo, è quella di
un’area più ad Oriente, situabile fra Mar Caspio, Volga e Don. Al momento, fatta
salva la possibilità di nuove scoperte archeologiche, sembra prevalere la
seconda ipotesi. Quale sia stata la regione di partenza quel che è
acquisito sono le costanti e prolungate ondate migratorie che progressivamente,
per diversi millenni successivi, coprono l’intera area indoeuropea sostituendo/fagocitando
le precedenti sparute presenze umane (compresa
quella della cosiddetta “civiltà
danubiana” già ricordata in precedenza nel Capitolo 1 per essere quella che
ha prodotto le più antiche tracce di proto-scrittura, i cui esponenti non appartenevano
geneticamente al genotipo indoeuropeo), le cui lingue spariscono lasciando
tutt’al più lievi influenze locali. Le modalità linguistiche con le quali
questo processo di diffusione e specializzazione locale si è realizzato non
sono qui sintetizzabili essendo molto complesse e articolate, quel che importa
rilevare come dato storico generale è che, nel periodo che va dal 4.000/5.000
a.C. al 2.500
a.C., si realizza compiutamente la ramificazione di questa unica protolingua.
Da qui in poi, con processi non meno complessi, tuttora oggetto di contrapposte
teorie, trova definitivo compimento la nascita delle attuali circa 400 lingue
indoeuropee. La loro suddivisione in sottogruppi, inevitabilmente molto
schematica, poggia su una linea di separazione in due filoni legati a due fonemi
“chiave” che, indicando la parola “cento”
definiscono due distinte linee evolutive: centum (latino, correlato ad es al greco hekaton,
al gotico hund, al celtico cet) e satem (indiano
antico, correlato ad es. al bulgaro s’to, al lituano simtas) sintetizzabile
in questa tabella che riassume le specifiche singole famiglie linguistiche:

Percorriamo in estrema
sintesi la loro evoluzione storica.
Il primo ramo linguistico indoeuropeo a distaccarsi è stato
quello “indo” collegato alla
migrazione degli “Ari”, originari della
regione steppica della Russia meridionale e del Caucaso, che, a partire da
2.800/3.000 anni a.C., hanno iniziato ad occupare vaste aree del subcontinente
indiano spingendo più a Sud e ad Est le popolazioni preindoeuropee dei “Dravidi” e degli “Adivasi”. Nel corso di due
millenni tale espansione si completa dando vita, grazie alla già evidenziata
prassi dello “stop and go”, alle numerose, ben 219, lingue indiane di matrice indoeuropea. Fra le altre
spiccano: il sanscrito, utilizzato in modo
diffuso fin dal V secolo a.C., il vedico, con al centro la
monumentale opera “Rig-Veda” (raccolta scritta di tradizioni orali
messa a punto tra il 1.200 ed il 1.000 a.C.) il pali, lingua sacra del
buddhismo, e l’Hindi, la lingua più parlata
in India.
In questo stesso arco temporale un altro ramo indoeuropeo, già
distinto da quello ariano, si è invece mosso verso la vasta area dell’attuale
Iran, a formare il congiunto ramo “iranico”. Con un processo analogo si realizzano al suo interno specifiche
differenziazioni linguistiche: il persiano antico (la sua forma scritta appare solo nel V
secolo a.C. come commistione con l’aramaico), poi evoluto nel persiano moderno, ed il farsi.
Sempre attorno al 2.000 a.C. più a Nord-Ovest si completa
un’altra autonoma migrazione indoeuropea che, partita dalla zona del Mar Nero,
occupa l’intera regione dell’Anatolia. Tutte le lingue del ramo “anatolico”, la più nota è quella ittita, si sono estinte in tempo relativamente brevi, lasciando pieno
campo ad una sua successiva evoluzione così profonda da farlo uscire dal ramo
“satem” per entrare in quello “centum”.
Sembra infatti ormai assodato che questa evoluzione sia quella
che dato origine alla famiglia del “greco” grazie all’ulteriore
spostamento (stop and go) verso Ovest delle ondate migratorie anatoliche le
quali, entrando in contatto con antiche popolazioni locali pre-indoeuropee (chiamate nella mitologia greca “pelasgi”), progressivamente
elaborano la variante linguistica a sé stante alla base del greco antico (il quale in effetti conserva non poche
tracce “pelasgiche”, ad es. tutti i suffissi –ss- e –nth-), giunto a pieno
compimento verso il VI-V secolo a.C., per essere poi sostituito, nel V secolo d.C., dal greco moderno. Non è
stato fin qui possibile ricostruire con sufficiente precisione il rapporto di
parentela fra il greco ed il macedone antico, che dopo la massima
espansione avvenuta nel IV secolo a.C. (Filippo II e Alessandro Magno) si
estingue confluendo nel greco.
Si ritiene possibile che già dalle prime ondate migratorie
arrivate nel sud della penisola balcanica si siano distaccati gruppi, poi
frazionatosi ulteriormente, che hanno colonizzato la
penisola italica formando un autonomo ceppo linguistico, “l’Italico”, suddivisibile in due
sottogruppi: il primo contiene il latino ed il falisco, il secondo l’osco-umbro. Con la sola eccezione del latino, che si differenza dal
falisco già a cavallo del primo Millennio a.C. per divenire con il ruolo di
Roma un fattore linguistico decisivo per l’intera Europa, tutte queste lingue (il marso, il sabino, il sicano ed altre) si estinguono sotto il
dominio romano.
Ben più complessa
l’evoluzione linguistica avvenuta nell’area “celtica” Iniziati con le prime migrazioni avvenute, sempre
dall’ipotizzata comune Urheimat, all’incirca dal 2.000 a.C. gli insediamenti
celtici arrivano a coprire una vasta area suddivisibile in due sottogruppi: il celtico
insulare delle isole britanniche, ed il celtico
continentale che, nel suo periodo di massima espansione del III secolo
a.C. arriva ad occupare un’area che comprendeva ad Est la zona transilvanica e
galatica, al centro quella germanica, quella francese e quella del Nord Italia,
e a Sud-Ovest l’intera penisola iberica. Si sono così create numerose
sotto-lingue celtiche, alcune delle quali, il cimrico, il bretone, l’irlandese, il
gaelico, del ceppo insulare si sono
conservate, grazie ad un prolungato maggiore isolamento, tutte le altre si sono
invece da tempo estinte essendo state assorbite dall’espansione del latino,
lasciando però in eredità numerosi affissi soprattutto toponomastici.
Le ricerche archeologiche lasciano presumere che un ramo a sé
stante delle ondate migratorie che hanno alimentato gli insediamenti celtici si
siano fermate, sempre a cavallo del 2.000 a.C., nell’area continentale che
guarda di più verso la parte Est dell’attuale Germania, e verso Nord, con la penisola
danese, scandinava, area baltica. E’ in questa vasta zona, a lungo molto poco
abitata, che si forma la variante linguistica del “Germanico”, quella indoeuropea che di più contiene al suo interno, fino ad
un 28%, tracce di espressioni non indoeuropee, sicuramente incorporate dagli
idiomi dei precedenti insediamenti umani, suddiviso in tre grandi
sottofamiglie: orientale (completamente estinta), settentrionale (all’origine
dell’attuale danese, norvegese, svedese, islandese) e occidentale (confluita,
mista con altri influssi, nel tedesco, inglese, frisone, nederlandese, e
persino nello Yiddish). Tra le lingue dell’originario ceppo germanico quella che però ha
conosciuto la più ampia diffusione è stato il gotico. Le vicende storiche
gli hanno riservato un ruolo centrale per diversi secoli, soprattutto alla fine
dell’Impero Romano, grazie all’occupazione di consistenti aree europee lungo le
ondate migratorie e occupatorie di Goti, Visigoti ed Ostrogoti. Nessuna delle
loro lingue è sopravvissuta, la stanzialità seguita alle migrazioni in regioni
con popolazioni stabili ben più numerose ha di fatto implicato la loro
fagocitazione nelle preesistenti lingue locali e, soprattutto, nel latino,
dando però origine ad una varietà molto ampia di lingue, sotto-lingue, idiomi
locali, all’interno della quale quella che è rimasta più affine al gotico
originario è il burgundo tuttora parlato nella Scandinavia meridionale. Questa grande
influenza del gotico sullo sviluppo delle lingue europee continentali ha una
significativa testimonianze nel repertorio lessicale della cultura paleocristiana: sono tutte di derivazione dal gotico termini, declinati
omogeneamente in molte lingue attuali, come angelo, vescovo, vangelo, apostolo,
diavolo, chiesa, profezia, Satana.
A completare questa veloce sintesi dell’evoluzione linguistica delle più importanti famiglie indoeuropee, tralasciando quindi quelle fortemente identificabili con una area ed un popolazione molto ristrette e concentrate quali il Tocario, l’Armeno, l’Albanese ed il Tracico, restano il ceppo “Slavo” e quello “Baltico”. Il primo fin dalla
prima metà del II millennio a.C. ha occupato in modo compatto, con la forma del
protoslavo, una vasta area che, racchiusa fra le lingue “centum” Germanico,
Celtico, Greco e Anatolico, ha mantenuto intatta la sua caratteristica di
lingua “satem” condividendola con il ramo Baltico. Infatti l’area del protoslavo
occupava buona parte dell’area balcanica e della parte dell’Europa Centrale che
si spingeva fino alla Polonia ed all’Ucraina ai confini della famiglia del
Baltico. La sua differenziazione in lingue locali è avvenuta relativamente
tardi a partire dal VI secolo d.C. e si è consolidata nelle attuali: polacco, ceco, slovacco, serbo, croato, bosniaco, sloveno,
bulgaro, macedone moderno, russo, bielorusso, ucraino. E’ interessante
notare che la forma scritta dello slavo si sia sviluppata in due scritture
diverse: il glagolitico, un alfabeto misto di
greco corsivo, di ebreo e copto, ed il cirillico, in buona misura
derivante dal primo, ma con l’aggiunta di numerose influenze specifiche dello
slavo meridionale, la cui diffusione è strettamente legata alla evangelizzazione
(il nome cirillico deriva da quello del frate Cirillo suo precursore). La
famiglia del Baltico si è creata lungo la direttiva delle migrazioni verso il
Nord Europa ed ha conosciuto uno sviluppo differenziato proprio per il costante
isolamento delle regioni fredde della penisola scandinava e dell’estremo Nord
Europeo. In parte collegato al germanico del Nord della Prussia ha però
mantenuto una forte influenza delle forme arcaiche del protoindoeuropeo
rendendo le attuali lingue lituano, estone, finlandese, norvegese, svedese (con
alcune incursioni di dialetti locali fin verso la regione di Mosca) un ceppo a sé stante.
L’ultima fase temporale
dell’evoluzione delle famiglie linguistiche indoeuropee, ferma restando la
netta separazione intervenuta fra il ramo asiatico e quello europeo, è per
quest’ultimo caratterizzata dalla profonda ed estesa influenza del latino. Compreso, parlato, scritto dalla costa Atlantica all’Africa del
Nord, dalla isole britanniche fino al Golfo Persico, è stata la lingua che, in
modi molto differenziati, ha comunque inciso sull’ultima fase di evoluzione
verso le lingue attuali di buona parte delle lingue europee. Quella che in
origine era la lingua di una sparuta popolazione italica è divenuta, grazie
all’espansione dell’impero romano prima e della cristianità dopo, la lingua
“ufficiale” di questa parte del mondo per molti secoli. Con una distinzione importante fra latino scritto e latino
parlato.
Il primo, dopo aver affiancato e sostituito il greco, è rimasto, nella sua
versione classica, una lingua ”colta” riservata ai pochi
alfabetizzati. Quello parlato invece (definito “latino
volgare” o “latino parlato”) ha in qualche modo permeato tutte le lingue indoeuropee con le
quali è entrato in contatto (raramente
il latino parlato veniva riversato in una forma scritta, ne sono importante
testimonianza i graffiti di Pompei e di Roma, una parziale forma scritta del
latino parlato era il “latino veicolare”
usato in ambito amministrativo) subendo anch’esso una progressiva evoluzione, diversamente da
quello scritto rimasto immutato, verso le cosiddette “lingue romanze”, ossia quelle che, a partire dal VI secolo d.C., lo hanno di
fatto sostituito nella fascia dell’Europa meridionale, ma in questo caso
coniugando insieme sia la forma scritta che quella parlata.
Capitolo
7 = Le altre macrofamiglie linguistiche
a partire dal 6.000 a.C. circa
Parallelamente a quella indoeuropea
anche nel resto del mondo le altre macro-famiglie linguistiche – uralica,
afroasiatica, sinotibetana, altaica e austronesiana, hanno
conosciuto una loro evoluzione caratterizzata però, rispetto all’indoeuropeo, da
una maggiore velocità di espansione e sviluppo.
La protolingua uralica, la cui nascita è databile attorno all’8.500
a.C., era quella utilizzata da popolazioni di cacciatori/raccoglitori
gravitanti nella zona dei monti Urali (dal Kazakistan fino alla costa del Mar Glaciale Artico). La
relativa vicinanza con popolazioni indoeuropee ha consentito una certa
frequenza di contatti, perlomeno a partire dal 6.000 a.C. soprattutto con
l’area linguistica baltica, ma mantenendo intatta una certa diversità.
All’incirca dal 4.000 a.C. si realizza una suddivisione dell’uralico in due
sottogruppi: quello ugro-finnico e
quello samoiedico.
Il primo, più strettamente a contatto con popolazioni indoeuropee del Nord
Europa, si è progressivamente ridotto a sparute enclave finniche, estoni ed
ungheresi, con lingue ormai fortemente “inquinate”, con la sola eccezione del “sami ” (lingua
dell’etnia erroneamente chiamata “lappone”) che
è rimasto più collegato all’originario protouralico per il progressivo isolamento
delle popolazioni locutrici a seguito dello spostamento a Nord. Allo stesso
modo il sottogruppo samoiedico è riuscito a mantenere una significativa
diversità soltanto grazie al ritirarsi dei gruppi che ancora lo parlano, nelle
sue diverse articolazioni, nelle inospitali regioni della Siberia.
Al
contrario della famiglia uralica, che interessa popolazioni ristrette, la famiglia afroasiatica interessa una altissima percentuale
dell’intera umanità riferendosi in particolare alle espansioni del Sapiens dall’Africa successive
alla prima ondata migratoria di cui al precedente Capitolo 3.. Dall’areale
originario individuabile nella regione africana della Nubia e del Sudan, a
partire dal 9.000/8.000 a.C., si è articolato un formidabile sviluppo
linguistico, lungo direttrici che portano a contatti con le popolazioni
indoeuropee che, nella regione iranica, avevano già avviato la rivoluzione
agricola. E’ questo il contesto in cui nascono le civiltà, e relative lingue, semitiche
ed egiziane. Più in generale questa famiglia, per la quale non è individuabile
l’esatto luogo e periodo di nascita di una sua protolingua, si suddivide in: lingue semitiche (aramaico, arabo, etiope, egizio, copto, ad altre lingue ormai
estinte quali l’accadico assiro, babilonese, il fenicio e l’antico egizio) – lingue berbere - lingue cuscite (eritrea, etiopica, somalica) - lingue omotiche (Sudan) – lingue ciadiche (Ciad). In particolare al ramo semitico possono essere
attribuite le più antiche testimonianze di scrittura che, dalle originali forme
cuneiformi e geroglifiche, sono poi evolute contribuendo, assieme al greco,
alla nascita delle forme di “scrittura alfabetica” di universale sviluppo.
Un altro importantissimo ramo della famiglia afroasiatica, la cui origine risale
in linea diretta a quella del Sapiens, è rappresentato dal ramo niger-kordofaniano (o niger-congo) che,
come già anticipato in precedenza, rappresenta il più grande macro-gruppo
linguistico che, con ben 1.436 lingue singole, ovviamente qui non citabili anche
perché collegate a popolazioni ed etnie ai più del tutto sconosciute, comprende
tutte le popolazioni africane nell’area centro-meridionale
Una famiglia linguistica a sé stante, ancorchè
in qualche collegabile all’afroasiatico viste alcune affinità, è quella della
regione del Sahel definita nilo-sahariana.
E’ la lingua, con diverse diramazioni locali, delle popolazioni che, dal
6.000/5.000 a.C., acquisite le tecniche agricole, si sono insediate nella vasta
area del Sahel che, a sud del Sahara attraversa il continente africano da Est
ad Ovest. Inizialmente, e almeno fino al 2.000 a.C., alcuni rami di queste
migrazioni avevano interessato una parte del Sahara, al tempo non così
inospitale come ai giorni nostri (la
desertificazione si è accentuata a causa del progressivo spostamento a Sud delle
direttrici dei monsoni). La
famiglia nilo-sahariana del Sahel comprende circa 200 lingue, fra le quali il luo del
Kenia, il dinka del Sudan, il testo dell’Uganda ed il masai della Tanziana.
Nella direzione opposta, scavalcato il Medio
Oriente, si entra nella parte dell’Asia orientale caratterizzata dal macro-gruppo
linguistico più ricco di parlanti: le lingue
sinotibetane. La loro area di diffusione comprende infatti un
territorio molto vasto e molto abitato, all’interno del quale è evidente la
prevalenza della componente linguistica cinese (sino).
Ed è collocata nel Nord della Cina l’area del più antico insediamento
neolitico, del V millennio a.C., considerato come quello di origine di questa
famiglia linguistica. Da lì si sono poi diramate successive ondate migratorie
che hanno progressivamente coperto l’intera Cina, l’altopiano tibetano e la
regione birmana. Come sempre lungo il tragitto percorso (stop and go) la
protolingua comune si è differenziata in più idiomi: il solo cinese,
accanto a quello prevalente il mandarino, ne conta almeno altri otto senza
contare quelli a valenza locale, la componente tibetana, o meglio tibeto-birmana,
almeno altri sette. L’influenza cinese è persino più percepibile nella lingua
scritta che, lì nata almeno verso il 1.200 a.C. sotto la dinastia Han, ha
improntato con il suo peculiare alfabeto a segni grafici quella vietnamita,
coreana (poi
passato dal 1500 d.C. ad un proprio alfabeto) e lo stesso giapponese (che la integra con altri segni). Nel
precedente Capitolo 5 si è già evidenziato che il giapponese parlato rappresenta
una lingua a sé stante, della quale non sono ancora state individuate con sufficiente
certezza le origini.
La pressione migratoria cinese ha contribuito
in modo significativo alla nascita di un’altra famiglia linguistica: quella austronesiana. Di formazione più recente,
datata attorno al 3.000 a.C., interessa popolazioni geneticamente distinte da
quella cinese che, spinte a sud dalla pressione degli agricoltori cinesi, hanno
progressivamente occupato in successione verso Sud: Thailandia (è ancora dibattuto se la lingua Thai
possa rientrare nella famiglia sinotibetana),
Malesia, Formosa, Filippine, Indonesia. In successive espansioni questo ceppo linguistico è
inoltre divenuto quello delle lingue del Madagascar e dell’Isola di Pasqua, per
giungere sino ad interessare Australia e Nuova Guinea (dove, come si è
visto nel precedente Capitolo 3 si è affiancato alle distinte lingue della
prima ondata migratoria Sapiens)
. Non stupisce quindi che anche questa famiglia conti un numero molto alto di
lingue, quasi 1.300, fra le quali, citando solo quelle più risapute: malese,
indonesiano, giavanese, balinese, molucchese, lingue del Borneo, delle
Filippine, formosano, gruppo linguistico oceanico.
L’ultima macro-famiglia linguistica da
esaminare è quella altaica. E’ un macro-gruppo
che contiene alcune decine di lingue ed idiomi, suddivise in tre filoni: mongolico –
tunguso – turco, tutte riconducibili ad una comune protolingua
posseduta da popolazioni, poi migrate, inizialmente insediate nella regione dei
Monti Altai
in Mongolia. Se non sembra avere sufficiente consistenza l’ipotesi,
sostenuta da alcuni studiosi, di far rientrare in questo macro-gruppo anche il
coreano e lo stesso giapponese, fra le lingue attuali ascrivibili alla famigli
altaica quelle più rilevanti sono: l’uzbeco, l’azero, il turkmeno, il kazako, il turco
propriamente detto.
Per chiudere questa sinteticissima panoramica
globale dell’evoluzione linguistica avvenuta nello Stadio 4 fino alle soglie
della contemporaneità occorre riprendere la situazione, già delineata nel
Capitolo 3, ancora relativa agli ultimi sviluppi dello Stadio 3. Le protolingue
del Nuovo Mondo appartenenti a questa fase della storia delle lingue hanno
conosciuto uno sviluppo caratterizzato da una accentuata localizzazione di
popolazioni non numerosissime e relativamente separate fra di loro che ha
portato alla nascita di più di mille famiglie linguistiche, le più antiche
delle quali risalgono a circa 6.000 anni fa. In successione cronologica fra gli
altri troviamo i gruppi: Algonchino (NordEst America del Nord) –
Otomangue (Messico) – Uto-atzeco (America
Centrale) – Tupi (Il più grande dell’America del Sud) – Quechua (altopiani
andini) – Maya (Messico meridionale) –
Irochesi (Nord
America, Canada) – Sioux (grandi pianure USA)
Capitolo
9 = Frutti linguistici tardivi
Anticipiamo, saltando il Cap. 8 che riprenderemo subito dopo per
averlo in stretta relazione con il Capitolo 10 finale, questo Cap. 9 che ci
permette di completare il quadro linguistico complessivo
Non solo e non tanto perché copre una
rilevante parte del pianeta, ma soprattutto per la sua particolarità di
formazione, il mondo delle lingue creole e/o
pidgin ha un valore notevole.
Con questi termini si definiscono infatti lingue di recente formazione che,
nate sul ceppo di un’altra lingua, l’hanno radicalmente modificata soprattutto
semplificandola. Gran parte delle lingue creole e/o pidgin, a volte usate
come prima lingua (creola) a volte come seconda (pidgin), si è
definita in diverse parti del mondo, tutte caratterizzate da processi di
colonizzazione (Giamaica, Haiti,
le Antille in genere, ma anche alcune aree di Papua, Nuova Guinea, Australia,
del Sud America, Camerun, Kenya, Congo, Sud Africa) fino a formare un totale di 170 lingue parlate da diverse centinaia di
migliaia di persone, come “trasformazione”
delle lingue dei “colonizzatori”: Inglese, Francese, Portoghese, Spagnolo,
Nederlandese, Tedesco, Russo. La particolarità della loro formazione ha incentivato
studi attorno all’ipotesi della sua validità come modello linguistico evolutivo
in generale. Non mancano però
perplessità al riguardo stante il fatto che non sempre i processi di evoluzione
linguistica come derivazione da un'altra lingua si sono manifestati nella forma
di una “semplificazione”, spesso infatti è avvenuta al contrario una loro evoluzione
più complessa.
Capitolo
8 = Lingue, tecnologie, religioni
Per meglio comprendere le dinamiche linguistiche contemporanee
recuperiamo pertanto il Capitolo 8 che evidenzia il decisivo ruolo di
tecnologia e religione nell’evoluzione linguistica
La storia delle lingue è infatti
anche la storia delle tecniche e delle tecnologie umane. Che hanno consentito
la loro diffusione, che hanno sollecitato il loro perfezionamento, che hanno
arricchito il vocabolario, stimolando al tempo stesso forme nuove di pensiero e
quindi nuove relazioni linguistiche. Se è difficile sulla base dei reperti
disponibili individuare i possibili drift
(accumuli, aggiunte) linguistici dell’età della pietra,
non ci sono invece dubbi, grazie a precise evidenze in tal senso, dei salti
linguistici avvenuti con la rivoluzione agricola
(da 12.000/10.000 anni fa) e quella metallurgica (da 4.000/3.000 anni fa) lungo le direttrici della loro
diffusione quasi sempre collegata a flussi migratori spesso già in loro
possesso. La
stessa scrittura, la cui influenza sullo sviluppo delle lingue non
richiede certo spiegazioni, deve essere considerata a tutti gli effetti una tecnica.
A partire dalle proto-scritture
(6.000/5.000 anni fa), molte delle quali si sono estinte
con la scomparsa delle civiltà che le avevano create, per passare alle scritture, e
relativi alfabeti, (in
particolare il latino e l’arabo) che
hanno avuto successo anche grazie alla loro diffusione, è indubbio il legame
con un complessivo arricchimento linguistico. Lo stretto legame tra scritture e
religioni, compreso il loro linguaggio liturgico, ha accentuato di molto il
ruolo di questa “tecnica” nello sviluppo linguistico e su quello culturale in
senso ampio.
Capitolo
10 = Presente e futuro delle lingue
I profondi cambiamenti
avvenuti con la crescente globalizzazioni delle relazioni umane ha ovviamente
avuto una rilevante incidenza sui processi linguistici. Da una parte il
predominio economico e politico dell’Occidente ha imposto l’inglese come lingua
universalmente adottata in molti ambiti, una tendenza che si vieppiù accentuata
con l’avvento delle tecnologie informatiche ed il mondo dei social. Non a caso
quindi molti vocaboli inglesi, non di rado “storpiati”, sono ormai accettati
nello stesso vocabolario di molte madri lingue. Su un versante opposto gli
squilibri economici, le tensioni geo-politiche, e la stessa naturale tendenza
umana allo spostamento, hanno a partire dall’inizio del secolo scorso prodotto,
in un mondo ormai compattato, movimenti migratori di impressionanti dimensioni,
che hanno creato, nei “paesi ricchi” meta delle migrazioni, comunità spesso
molto consistenti portatrici di lingue differenti da quella locale. La
fotografia della distribuzione delle lingue nella varie aree del mondo è così divenuta
del tutto squilibrata, con ampi territori con poche comunità linguistiche ed
altre parti del pianeta molto più ristrette con un consistente numero di lingue
autonome spesso a strettissimo contatto. In
generale l’ordine gerarchico, a scendere, per lingue presenti è così composto:
Asia, Africa, America, Australia, Europa, la quale è quindi la macroregione del
mondo con il numero più esiguo di lingue regionali. Non diversamente dai
processi di formazione/contaminazione esaminati in precedenza il contatto,
sempre più accentuato, fra culture e relative lingue non può non avere profonde
ricadute di ordine linguistico. Si tratta di un fenomeno molto complesso sul
quale intervengono numerosi fattori - economici, sociali (fra i quali i sistemi di istruzione
scolastica giocano un decisivo ruolo), politici, culturali in senso lato, di costume – che incidono
creando inevitabili influenze di segno opposto. La situazione europea è un
esempio indicativo in questo senso. L’Europa è al tempo stesso un continente
piccolo, in relazione agli altri, poco abitato (la popolazione europea vale il 12% di quella mondiale, si stima
che nel 2030 sarà scesa all’8%), con un numero esiguo di
lingue autoctone (143,
vale a dire il 2,2% di tutte le lingue del mondo), ma le cui lingue, dopo secoli di colonizzazione mondiale,
hanno conosciuto una vastissima diffusione globale. Attualmente
la maggioranza di chi parla lingue come inglese, spagnolo, portoghese, francese
vive in regioni extraeuropee. In compenso nonostante i consistenti flussi migratori giunti
in Europa (che hanno ormai creato
una compresenza di lingua mai così alta come ai nostri giorni) gli europei restano
monolingui, solo una piccolissima parte della popolazione europea utilizza
stabilmente altre lingue oltre quella madre (quasi sempre sono aree dove da tempo esistono minoranze etniche
e linguistiche, come ad es. la Catalogna, la Galizia, la Bretagna, la Valle
d’Aosta, l’Alto Adige, il Friuli). In questo quadro si sono attivati interessanti meccanismi di reciproca
contaminazione (vedi
nel Capitolo 9 i processi di nascita delle lingue creole e pidgin) i cui esiti potranno
essere stimati solo fra qualche decennio. Più in generale la commistione
linguistica globale sta delineando un insieme di processi linguistici,
valutabili per l’appunto solo su tempi lunghi, che si muovono tra due poli: nascita ed estinzione. Mezzo secolo fa esistevano pochissime lingue parlate da almeno
cento milioni di persone, oggi sono dodici, ed ormai il 76,5% della popolazione mondiale parla, come prima
lingua o come seconda, almeno una di queste “grandi” lingue. In ordine di grandezza sono: Cinese, Inglese, Hindi, Spagnolo, Russo, Arabo, Bengalese,
Portoghese, Indonesiano, Francese, Giapponese, Tedesco. E’ lecito attendersi
che in questo elenco confluiranno a breve una o più lingue africane, stante
l’incremento demografico dell’Africa. La stragrande maggioranza delle lingue
mondiali è quindi composta da tutte le restanti, all’interno di queste prevale
di molto il numero di quelle “piccole” parlate cioè da meno di un
milione di persone, ma almeno da più di mille. Resta infine una categoria, quella delle
lingue “nane”, sono
quasi duemila, i cui locutori, messi insieme, non superano il mezzo milione di
persone.
E’ legittimo ipotizzare che il trend di estinzione di lingue locali, già
manifestatosi negli ultimi due secoli, proseguirà con il rischio di cancellare
un patrimonio culturale di inestimabile importanza. Sarà poi il tempo a dire da
quali saranno sostituite, se solo da quelle “consolidate
grandi”
o da nuove
lingue che nasceranno da fenomeni accentuati di contaminazione. Tutte comunque,
grandi comprese, saranno soggette a mutamenti profondi della varietà funzionale
degli strumenti generali di comunicazione.
L’umanità si trova da tempo investita da processi innovativi di
comunicazione che non poggiano più solo sulla lingua, scritta e parlata (spesso la mono-lingua inglese). Incidono sempre più dati, algoritmi, immagini, segni e disegni
convenzionali, in una sorta di “delirio digitale” che sta modificando alla
radice lo stesso concetto di “sapere”. Quale sarà il ruolo delle lingue, così
come l’umanità le ha create ed utilizzate fin qui, è storia ancora tutta da
scrivere.