venerdì 1 aprile 2022

La Parola del mese - Aprile 2022

 

La parola del mese

A turno si propone una parola evocativa di pensieri fra di loro collegabili in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

APRILE 2022

La parola scelta per questo mese di Aprile 2022 si presta ad essere usata come passepartout per meglio comprendere, nell’ambito delle riflessioni attorno al conflitto russo-ucraino, il peso ed il ruolo di una casta economica, e politica, dell’attuale Russia i cui membri sicuramente rientrano a pieno titolo in quanto viene definito da……

Oligarchia

oligarchìa = sostantivo composto di derivazione dal greco - oligoi (pochi) e archia (comando/governo) -  Forma di regime politico in cui il potere è nelle mani di pochi, eminenti per forza economica e sociale. Per estensione gruppo ristretto di persone che esercita, generalmente a proprio vantaggio, un’influenza preponderante o una supremazia in istituzioni, organizzazioni ed enti economici, amministrativi e culturali, e anche l’istituzione, l’organizzazione o l’ente retti in questo modo.

Da almeno due decenni il termine che definisce la struttura sociale ed economica della Russia è in effetti quello di una oligarchia, così accentuata da porla fra i paesi con il più alto livello di disuguaglianza economica. Questo cambiamento così radicale rispetto alla situazione socio-economica che l’ha preceduta, quella dell’economia statalizzata dell’URSS, si è realizzato in brevissimo tempo nell’ultimo decennio del secolo scorso non appena definitivamente crollato il regime politico sovietico. E’ indispensabile per meglio valutare le attuali caratteristiche dell’oligarchia russa ripercorrere quanto avvenuto al tempo, ed il decisivo ruolo giocato sulla trasformazione della società post sovietica da parte dell’Occidente. Ci aiuta a ripercorrere quella cruciale fase il saggio di Thomas Piketty “Capitale e Ideologia” (Parte Terza –Capitolo 12 – pagine 681-693. La sintesi di questa Parte Terza di “Capitale e Ideologia è stata il nostro Saggio del mese di Dicembre 2020). L’analisi dettagliata svolta da Piketty evidenzia bene come il vuoto di potere seguito alla caduta del regime comunista nel periodo 1990-1991 (19 Gennaio 1990 prime elezioni libere – 26 Dicembre 1991 formale dichiarazione di dissoluzione dell’URSS) sia stato riempito, con una velocità a dir poco impressionante, dalla nascita di una struttura oligarchica. Il governo russo di Boris Eltsin, favorito dal vuoto di opposizione interna e con l’appoggio ed i consigli “tecnici” delle istituzioni economiche occidentali (FMI, OCSE, Banca Mondiale), attuò una politica di radicale smantellamento dell’economia centralizzata (definita come “terapia d’urto) privatizzando la quasi totalità dei beni pubblici con un sistema (voucher privatization) di buoni di possesso consegnati ad ogni cittadino russo per divenire azionista di un’impresa liberamente scelta. In pratica avvenne che in un contesto di super-inflazione (il 2.500% annuale nel 1992!!!!!) in cui salari e pensioni avevano di fatto valore nullo la stragrande maggioranza dei cittadini russi fu costretta a “mettere sul mercato” i propri voucher trovando, certamente non a caso, un gruppo ristrettissimo di sfrontati finanzieri (l’origine vera delle loro già ingenti iniziali risorse finanziarie non è mai stata appurata, rendendo lecita ogni ipotesi sulla loro provenienza) pronti ad acquistarli a prezzi stracciati ……. In pochi anni successe quello che c’era da aspettarsi in una situazione del genere: gran parte delle imprese russe, soprattutto nel settore dell’energia, è caduta nelle mani di pochi ed abili “uomini d’affari”, i nuovi oligarchi russi ….. Questa impressionante ascesa è stata inoltre agevolata dalle politiche fiscali di Eltsin, l’esatto contrario di quelle con tassazione progressiva, basate su una radicale flat tax del 13% su ogni livello di ricchezza e sulla cancellazione delle imposte di successione, e dalla totale libertà loro concessa di trasferire all’estero le ricchezze così accumulate. Nell’ultimo decennio del 1900 si è quindi realizzato compiutamente un processo che vede il dieci per cento più ricco del paese (decile) passare da una quota di possesso della ricchezza russa del 25% nel 1990 ad una del 50% nel 2000, e l’uno per cento più ricco (centile) passare da una del 5% nel 1990 ad una del 25% nel 2000. Non a caso quindi già ad inizio nuovo secolo la rivista Forbes annoverava in testa alle sue graduatorie degli uomini più ricchi del mondo molti oligarchi russi.  Come anticipato non poco ha contribuito a creare questa situazione l’interesse dell’Occidente, in gran misura ormai orientato da scelte neoliberiste, di cancellare il prima possibile ogni retaggio del collettivismo sovietico e di far rientrare la Russia, e le sue ingenti risorse naturali, nell’ambito del mercato globale. In questo quadro va inoltre ricordato un aspetto non meno dirimente, soprattutto se raffrontato con l’attuale situazione: in questi stessi tormentati anni Novanta russi furono attive intense trattative per l’ingresso della neonata Repubblica Russa nella Nato, un’operazione, giunta a poco dall’essere completata, fallita unicamente per l’irrigidimento fra le parti causato dai contrasti sorti per il ruolo della Nato contro la Serbia nel lungo conflitto nella ex Jugoslavia. La Russia ex sovietica è così divenuta nel giro di dieci anni l’attuale oligarchia per eccellenza a livello globale. Ed è sempre ad inizio secolo che Vladimir Putin realizza il suo capolavoro politico: vince le elezioni politiche del Marzo 2000, non poco aiutato dagli stessi oligarchi del tempo, sapendo intercettare, con promesse di rinascita della grandezza russa, l’ovvio malcontento popolare ed al tempo stesso attivando uno stretto rapporto con la casta degli oligarchi sulla base di un patto di reciproca convenienza: da una parte la conferma, e l’accentuazione, della totale libertà di profitto, dall’altra un sostegno alle politiche putiniane di progressiva creazione di un sistema di potere tecnocratico e dittatoriale, nell’ambito di una sostanziale divisione dei compiti (io comando e voi guadagnate). Esemplare è una dichiarazione fatta da Putin nel corso della lunga intervista concessa nel 2017 al regista Oliver Stone (non poco filo-putiniano) nel commentare le politiche perseguite nel primo decennio del suo governo così riassumibile: …… solo la definitiva rinuncia senza riserve a qualsiasi forma di egualitarismo e socialismo può consentire di ristabilire la grandezza della Russia che esige in primo luogo una struttura di tipo verticale fondata sulle gerarchie politiche e finanziarie …… Difficile concentrare meglio di così in poche parole la giustificazione ideologica della realizzazione di una compiuta oligarchia! Certo non sono mancati, in questa reciproca convenienza, momenti di contrasto, che in alcuni, limitatissimi, casi hanno anche portato alla caduta in disgrazia di qualche oligarca, ma non è mai stata messa in discussione la solidità del patto alla base dell’impostazione oligarchica russa.  Un patto che ha retto anche grazie alla benevolenza accordata, per reciproche convenienze, a questa moderna forma di oligarchia da una buona parte delle economie occidentali, europee in primis, ad essa legate, in particolare in campo energetico. Va inoltre sottolineato che la definizione di oligarca va riferita, in Russia, ad un numero ristretto di persone, alcune delle quali personalmente legate a Putin dalla comune precedente appartenenza al KGB (il servizio segreto sovietico), che non hanno mai dato vita, non avendone ragione e convenienza, ad autonomi movimenti politici e partiti, mantenendo così una loro comunità di intenti mai venuta meno anche se è intervenuta una loro fisiologica evoluzione. Alcune lievi contraddizioni interne in questo quadro oligarchico si sono manifestate solamente nei primi anni del secondo decennio del secolo come riflesso dell’onda lunga delle crisi finanziaria globale del 2007/2008, così come si può rilevare dal seguente articolo di Stefano Grazioli (giornalista free lance, si occupa di politica estera, specie della Russia, per diverse testate,(Limes, Il Riformista, fra le altre) apparso nel sito online “L’Inkiesta” nel 2013 che sostanzialmente conferma il quadro sin qui tracciato:

La madre Russia di Putin dagli oligarchi ai siloviki

Oligarchia, ossia il governo di pochi. Sono passati oltre due millenni dai tempi di Platone – che vedeva in questa forma costituzionale una degenerazione dell’aristocrazia, il governo dei ricchi – alla Russia di Vladimir Putin. La sostanza è cambiata di poco. Il Paese più vasto del mondo, ex superpotenza planetaria convertitasi dopo il crollo dell’Urss a player regionale e promotrice per forza di cose di un nuovo ordine multipolare, è retta in fondo da un’oligarchia. Formalmente la Russia è da oltre vent’anni una democrazia, in realtà è in una fase di transizione verso un modello pseudo democratico o pseudo dittatoriale (è questione di punti di vista), dove sia i processi decisionali politici che le leve dell’economia sono nelle mani di un esiguo gruppo di persone. C’è chi la chiama democratura (democrazia+dittatura) facendo pesare più la valenza politica, chi invece aborre i neologismi può definirla appunto oligarchia, accentuando il fatto che i pochi che comandano sono pure ricchi sfondati. E così come è oligarchica la Russia putiniana di oggi, con i protagonisti più conosciuti presenti nelle cronache anche dei media occidentali (Boris Berezovsky, Roman Abramovich gli ultimi due nomi saliti alla ribalta in questi giorni), la Russia di ieri, quella di Boris Eltsin, lo è stata ancor di più. L’elezione al Cremlino di Vladimir Vladimirovich (nome completo di Putin) nel 2000 ha fatto da spartiacque tra due ere in cui il ruolo degli oligarchi è essenzialmente cambiato. Il primo decennio della Russia indipendente (1991-2000) – quello in cui l’élite al vertice ha dovuto affrontare il tracollo economico postsovietico e ha forgiato tramite le privatizzazioni selvagge la classe rapace turbocapitalista – è stato caratterizzato dalla sostanziale alleanza tra attori politici e attori economici: l’oligarchia eltsiniana, costituita dalla Famiglia allargata e dai “magnifici sette”, ha retto le sorti del Paese badando più agli interessi personali che al bene comune, come avrebbe detto Platone. Il presidente e il manipolo affiatato di robber barons (Beresovsky, Vladimir Gusinsky, Mikhail Khodorkovsky, Vladimir Potanin, Mikhail Friedman, Pyotr Aven, Alexander Smolensky) hanno gestito la Russia allo stesso tavolo, con gli oligarchi che dietro le fette di torta generosamente distribuite dal Cremlino hanno assicurato a Corvo Bianco (il soprannome di Eltisin) la permanenza nelle stanze del potere per due mandati. Clamorosa la situazione delle elezioni del 1996, quando Eltsin è riuscito a tener testa al comunista Gennady Zyuganov solo perché Berezosvky e Gusinsky hanno pilotato le loro televisioni al servizio del malandato capo di Stato che tra una vodka di troppo e qualche bypass rischiava di dover cedere inaspettatamente lo scettro. I capitani d’industria postsovietici, allora pochi, agguerriti e smaniosi di affondare le mani nella politica (l’oggi defunto Berezovsky è finito addirittura alla presidenza del Consiglio di sicurezza della Federazione) si sono poi trovati di fronte al momento in cui scegliere il successore di Eltsin. I passaggi di potere in Russia avvengono sempre dall’alto: l’ascesa di Putin – già nel 1999 capo dei servizi segreti e primo ministro, la notte di capodanno del 2000 nominato in diretta televisiva da Boris Nikolaevich come suo erede favorito – è avvenuta con il consenso dei “magnifici sette” e la spinta decisiva proprio di Berezovsky. Il problema per gli oligarchi è arrivato non appena hanno capito che il nuovo inquilino del Cremlino avrebbe cambiato le regole del gioco. Con Putin nella stanza dei bottoni i meccanismi di fondo sono mutati perché il presidente, giunto a Mosca con una squadra proveniente in larga parte dall’intelligence, ha dato sostanzialmente un ultimatum: basta intromissioni oligarchiche nelle vicende politiche. Gli anni successivi sono stati quindi destinati a isolare chi non si è attenuto al patto: Khodorkovsky è finito in Siberia, Berezosvky e Gusinsky se la sono data a gambe – il primo alla corte di Sua Maestà, il secondo in Israele – altri pesci piccoli, pochi in verità, sono stati presi nella rete della giustizia selettiva che ha ostacolato i nemici di Putin e li ha costretti a scendere a patti o all’esilio, di solito dorato. La gran parte dell’oligarchia, i superstiti del gruppo iniziale e i nuovi che hanno beneficiato del cambiamento, continua però a sostenere oggi il potere politico ricevendone sempre i dividendi. Sotto Vladimir Vladimirovich (Putin) le competenze di questa èlite a due facce sono comunque ben definite e più efficienti. La Russia cresce di peso sulla scacchiera internazionale e si scrolla di dosso il complesso di debolezza interno causato dal disastroso decennio eltsiniano (tra due colpi di stato, 1991 e 1993, due guerre in Cecenia, 1994-1996 e 1999-2000, e il default del 1998). I deficit democratici sono considerati a Mosca errori di cosmesi per un Paese che non vuole accettare lezioni dall’Occidente, sempre pronto a bacchettare il Cremlino, ma anche sempre pronto ad accogliere nelle proprie banche il capitale degli oligarchi. La nuova razza padrona russa, i nuovi magnati che sono veri global player dell’economia mondiale avendo investito ovunque, non sono certo in declino. Si sono trasformati: il defunto Berezovsky e lo stesso Abramovich, hanno rappresentato e rappresentano un modello un po’ invecchiato, tra teorie del complotto e gossip. Il centinaio di miliardari russi presente nella lista di Forbes (il più ricco d Russia è Alisher Usmanov con un patrimonio personale di 17,6 miliardi di dollari) incarna una classe diversa da quella dei “magnifici sette”, più moderna e globalizzata da un lato, più attenta a non pestare i piedi a nessuno, pronta al compromesso per non perdere i privilegi e disposta a ridistribuire parte, seppur minima, della ricchezza attraverso meccanismi spesso imposti dall’alto. Non solo. Gli oligarchi puri, cioè quelli provenienti direttamente dai settori dell’economia e della finanza, sono stati affiancati dagli oligarchi di stato, i silogarchi (siloviki+oligarchi), ossia i siloviki – gli uomini che Putin nel corso di un decennio ha cooptato dall’apparato di sicurezza e inserito nei gangli dell’amministrazione, della burocrazia e delle aziende statali (Gazprom e non solo) – diventati parte integrante del gruppo centrale di potere. Silogarchia, insomma, il governo dei siloviki e degli oligarchi: è questa la vera Russia di oggi. Chissà cosa avrebbe detto Platone.

Nei dieci anni successivi a questo illuminante articolo nulla sembra essere cambiato, neppure nel tormentato anticipo dell’attuale guerra, quello per l’annessione alla Russia della Crimea seguita da una prima consistente ondata di sanzioni economiche da parte dell’Occidente che hanno imposto qualche significativo contraccolpo alle ricchezze oligarchiche. Le preoccupazioni interne per Putin, e la sua paranoica politica di ripristino della perduta grandezza imperiale russa, sono infatti legate ad altri fattori. Ci aiuta a comprenderlo il seguente articolo di Jurii Colombo (giornalista freelance residente a Mosca collabora con “il manifesto” e altre testate italiane e internazionali. Autore di diversi saggi sulla situazione russa fra i quali: L’Ucraina tra l’espansionismo della Nato e l’egemonismo russo (Castelvecchi, 2018), La sfida di Putin. Come cambierà la Russia (Manifesto libri, 2018), di commento sull’esito delle ultime elezioni politiche russe del Settembre 2021 (sito on-line OGzero.org)

La lenta decadenza dello zar tecnologico

Cedimento strutturale: scricchiolii nel sistema di potere

Alla fine anche i media che si erano ostinatamente rifiutati di riconoscere che le elezioni per il rinnovo dei deputati della Duma di stato avrebbero potuto condurre a dei mutamenti profondi del quadro politico interno e quindi, inevitabilmente, visto il peso specifico della Russia nel Vecchio Continente, si sono dovuti arrendere: l’arretramento di Russia Unita è irrevocabile. Il partito padre-padrone dello stato russo da due decenni mostra chiari segni di cedimento strutturale mentre il profondo disagio della società russa profonda trova il modo di canalizzarsi, almeno per ora, nel voto per il Partito Comunista. Si apre quindi una nuova inedita fase politica segnata dal lento ma inesorabile declino della stella di Putin, già iniziato in realtà da almeno tre anni. I numeri che parlano del partito-regime ancora vicino al 50% dei suffragi e la maggioranza assoluta dei seggi non devono trarre in inganno. Se formalmente non cambia un granché nel nuovo emiciclo russo con Russia Unita che passa dai 343 deputati del parlamento precedente agli attuali 324 e i comunisti crescono da 42 a 57, il messaggio che arriva dalle urne è chiaro: soprattutto nelle grandi città i russi esigono un cambiamento del personale politico dirigente.

Propaganda drogata e brogli digitali non bastano più

Malgrado lfrodi (una normalità per la Federazione), malgrado si sia allungata la possibilità di votare a ben tre giornimalgrado si sia aggiunto il voto elettronico a quello tradizionale nelle scuole in cui i partiti di opposizione non hanno possibilità di realizzare alcun controllo, il meno 6% per Russia Unita è ben più che un campanello d’allarme: evidentemente l’oliata macchina della raccolta del consenso pilotato si è inceppata.Non è bastata l’estrazione di premi (appartamenti, automobili, buoni-acquisto nei supermercati) finanziata dalle grandi imprese russe per chi avesse deciso di votare elettronicamente; non è bastato un assegno una-tantum a militari, poliziotti e pensionati di quasi 200 euronon è bastata la giornata libera del venerdì per i lavoratori dei municipi, per dare l’impressione che tutto stesse andando come al solito, con una squillante vittoria putiniana. non è bastato neppure mettere alla testa delle liste di Russia Unita candidati civetta – che mai si presenteranno in parlamento come i popolari ministri della Difesa (Sergey Shougu) e quello degli Esteri (Sergey Lavrov). I russi seppur compassati sufficientemente dal non credere che il voto sia sufficiente a far cambiare qualcosa, hanno voluto comunque evidenziare che il corso dell’attuale amministrazione a loro non piace. Nella quota proporzionale il trend della capitale è lo stesso: il partito di Putin al 36,7% e i comunisti al 22,7% mentre il complesso delle liste di opposizione si colloca intorno al 40% dei suffragi. In Siberia come nella Jacuzia, dove la crisi economica e il disfacimento sociale sono elementi caratterizzanti e persistenti e dove l’egemonia comunista era troppo evidente, i comunisti superano spesso agevolmente Russia Unita anche nei collegi uninominali. Si è trattato delle elezioni più manipolate della storia russa come ha voluto sottolineare qualcuno? Difficile dirlo, ma la percezione è che nelle scorse tornate il fenomeno dei brogli più classici (la manomissione dell’urna da parte della commissione elettorale) era stato più accentuato. Il dato essenziale e più interessante è un altro: malgrado i brogli milioni di russi continuano comunque ad andare alle urne.

Il voto è intelligente, non nostalgico

Il partito comunista quindi è diventato come catalizzatore del disagio quando non della protesta. Come è possibile che un partito che ancora rivendica la continuità del “programma di Lenin e di Stalin” sia riuscito a invertire un declino che da 20 anni era sembrato a tutti inesorabile? Come è possibile che un partito che alle amministrative di Mosca superava a stento il 5%, sia diventato il vincitore (perlomeno morale) delle elezioni per la Duma? I motivi sono molteplici. In primo luogo il partito di Zyuganov, è stato quello che – con maggiore enfasi – si è opposto alla controriforma delle pensioni del 2018 che ha innalzato per la prima volta l’età pensionabile in Russia (gradualmente innalzata da 60 a 65 anni per gli uomini e da 55 a 63 per le donne). E in linea generale è stata la formazione politica che ha votato alla Duma contro tutte le misure antisociali promosse dal governo negli ultimi anni. Malgrado le timidezze (i comunisti avevano promesso che sulla previdenza avrebbero raccolto le firme per un referendum, ma alle parole poi non sono seguiti i fatti), malgrado troppe volte – soprattutto in politica estera – non si sia mai distinto strategicamente dal corso putiniano, si tratta comunque del partito che parla di quello che sta più a cuore a milioni di russi: ovvero della disastrosa distruzione del welfare iniziata da Eltsin e proseguita nei decenni turboliberisti di zar Putin.A ciò si deve aggiungere la tattica del “voto intelligente” scelta da quel che rimane del gruppo dirigente del partito Navalny che non si trova già in prigione o in esilio. Schiacciata dalla repressione (in questi mesi sono proseguiti selettivamente arresti, fermi, condanne e chiusure di siti internet) quella vasta galassia di opposizione “liberal” (cioè giovanile e residente nelle grandi città che la stampa occidentale fa coincidere superficialmente tout-court con Navalny) nei social network ha iniziato il tam tam per il voto ai comunisti come unica arma per incalzare il Cremlino (una tattica a cui si è unita la rarefatta area della “sinistra alternativa”).

La lunga marcia verso il 2024

Era inevitabile che con il “paziente berlinese” in prigione (Navalny persona, che lo resterà ancora per almeno due anni) il pallino del gioco di chi deve dirigere l’opposizione sarebbe spettato ad altri e così è stato. Ora toccherà ai comunisti decidere se mettersi in gioco e diventare un ampio polo di riferimento per chi vuole mettere fine a un regime in affanno, o ripetere alla Duma la tattica accorta dell’opposizione “costruttiva” delle scorse legislature. Nel primo caso non potrebbe essere un’operazione di maquillage, ma dovrebbe essere la trasformazione di un partito, percepito come poco più che una reliquia nostalgica dell’Unione Sovietica, in un organismo “moderno”, di impianto socialdemocratico come invocano soprattutto i suoi nuovi quadri emergenti che punti direttamente – nelle prossime elezioni presidenziali del 2024 – a contendere seriamente la presidenza a Putin. Sotto questo profilo gli impazienti dovranno rassegnarsi: la lotta dell’opposizione russa non è una gara di velocità ma piuttosto una maratona.

Nuove Persone, un embrione per nuovi oligarchi?

In questa tornata Putin ha riconfermato di avere un approccio “tecnologico” alla politica. I risultati delle elezioni erano stati “disegnati” in modo da garantire il controllo assoluto di Russia Unita sul parlamento ma con un’allusione al pluralismo. “C’è più scontento, ecco vedete, faccio avanzare un po’ i comunisti”. “Si vogliono più libertà? Ecco per voi il nuovo partito “Nuove Persone”. Questa formazione, di ispirazione vagamente liberale, che riesce alla sua prima apparizione nell’agone politico a superare lo sbarramento del 5% e a entrare alla Duma, è la quintessenza di ciò che al Cremlino si immagina debba essere il “quadro politico nazionale”. Movimento fondato poco più di un anno fa, Nuove Persone dice di far riferimento alle teorie interdisciplinari del filosofo sovietico (dissidente) Georgy Shchedrovitsky, scomparso nel 1994. Dietro però ci sono corposi interessi che hanno permesso alla lista di spendere almeno 20 milioni di rubli nella campagna elettorale. In primo luogo il patrimonio del proprietario dell’azienda di cosmetica Faberlic Alexey Necaev ma anche secondo il portale sempre ben informato “The Bell”, di Yuri Kovalchuk, comproprietario di Rossiya Bank e ben piazzato ai vertici nella classifica dei più ricchi uomini del paese di “Forbes Russia”. Un partito non putiniano ma non avverso al potere che ha raccolto il voto soprattutto nella fascia demografica che va dai 18 ai 30 anni.

Congiuntura economica: una differenziazione in ritardo

Del resto nella lettura della società del capo del Cremlino non c’è spazio per l’alternanza al potere e men che meno, per i movimenti e le aspirazioni delle classi sociali: queste possono essere sempre manipolate e incanalate grazie proprio a quelle tecnologie politiche create ad hoc. Oggi chi lavora su questo aspetto è principalmente Sergey Kirienko, nello staff della segretaria presidenziale già dal 2016.Tuttavia le cose, piaccia o meno alla presidenza russa, dal punto di vista “oggettivo” – materialistico – gli equilibri stanno cambiando in fretta nel mondo e metteranno ancora più in crisi l’approccio tecnocratica che piace tanto allo “Zar”. Da qualche mese il prezzo del petrolio è tornato a galleggiare verso l’alto, stabilmente sopra i 75 dollari al barile dopo i lunghi mesi di magra della pandemia. Ciò ha dato, e darà ancora, una boccata d’aria all’economia russa, ma gli effetti non si sono visti né nelle entrate delle famiglie né sul rublo che resta ben oltre gli 85 rubli contro euro, schiacciando così importazioni e consumi. I veri problemi dell’economia russa però non sono neppure congiunturali ma strutturali. Si tratta di capire, in primo luogo, come un paese che ha prosperato sull’esportazione degli idrocarburi potrà affrontare la sfida della green economy che in prospettiva dovrebbe rendere l’Europa indipendente dalle forniture di gas e petrolio russo. Una sfida decisiva per la Federazione che solo ora sta iniziando a ragionare in termini di differenziazione dell’economia (dopo averci già provato durante la presidenza Medvedev). A cui si collega il problema di un saldo demografico disastroso destinato a peggiorare in conseguenza di un covid-19 che in Russia non cessa di mordere (da oltre due mesi i casi di contagio sono rimasti intorno ai 20.000 al giorno con una media di 800 morti).

Le elezioni hanno avviato il cambiamento, malgrado i risultati

Ecco, dentro questa dinamica profonda, probabilmente il dibattito delle oligarchie e i gruppi di potere del capitalismo di stato russo è già iniziato e l’emergere di un partito come Nuove Persone potrebbe non essere un fuoco di paglia. In alcuni circoli russi si dubita già che l’ex direttore del Fsb ormai quasi settantenne, sempre meno popolare e senza una grande formazione economica potrà gestire la sfida del prossimo decennio. La soluzione non è a portata di mano visto che per ora non si vede all’orizzonte un leader o una nuova classe dirigente che possa garantire una transizione morbida o permetta a Putin se non di andare in pensione almeno di tirare le fila politiche russe da una posizione defilata. Per storia e tradizione tutti i cambi di regime in Russia sono stati complessi e spesso segnati da fortissime fibrillazioni e c’è ragione di pensare che anche questa volta possa essere così: Putin è stato – ed è ancora – il punto di equilibrio tra un complesso di poteri e interessi che verosimilmente faranno molto fatica a trovare una mediazione stabilizzante. Del resto, a ben vedere, si tratta di una questione che va ben oltre le camarille moscovite e investe tutte le grandi capitali europee se è vero, come è vero, che l’Europa potrà affrancarsi dall’abbraccio americano solo se troverà una sponda in Russia. Sullo sfondo potrebbe tornare in auge persino il vecchio dilemma russo: slavofili o occidentalisti? Se proiettato su scala internazionale il voto russo ha prodotto un paradosso politico che le cancellerie dei paesi occidentali stenteranno a comprendere: il loro sostegno a Navalny ha determinato per ora il rafforzamento dei comunisti. Né Merkel, né Macron, né Biden, avrebbero immaginato che i loro sforzi per sostenere l’opposizione “liberale” avrebbero potuto avere un simile sviluppo. Nei prossimi mesi potremmo avere persino un’Europa che si riappacifica con Putin. Una svolta “comunista” nel paese, sarebbe ancora più nazionalista e statalista (e sicuramente filo-cinese) di quanto a Bruxelles e a Washington si possano permettere.

L’ultima previsione di questo articolo, scritto a caldo subito dopo le elezioni del Settembre 2021, è stata clamorosamente smentita nelle dinamiche reali, ma forse non nelle loro motivazioni di fondo. Sembra infatti lecito supporre che Putin, sotto pressione per questa evoluzione del quadro politico interno, sia stato costretto, ANCHE per questa ragione, ad accentuare una strategia di rafforzamento nazionalistico del proprio potere anche a costo di una contrapposizione dura, e di carattere militare, con l’Occidente puntando in primis all’avamposto ucraino. Al contrario sembra più difficile supporre che questa accelerazione, strategicamente quanto meno azzardata oltre che umanitariamente tragica e quanto mai pericolosa, possa essere messa in crisi da una aperta opposizione da parte degli oligarchi russi, anche se questo è quanto spera una gran parte dell’Occidente. Certo sarebbe uno scherzo della Storia, dando credito all’analisi di Colombo, se a togliere le castagne dal fuoco di questa drammatica situazione fosse il ritorno sulla scena da protagonisti degli eredi di quel comunismo sovietico così frettolosamente e malamente sostituito dalla oligarchia attuale! A complicare il quadro contribuisce lo scoprire che, volgendo lo sguardo verso l’Ucraina aggredita, anche lì non mancano elementi di degenerazione oligarchica. Lo spiega ancora una volta Stefano Grazioli con questo breve articolo pubblicato in questi giorni nel sito “Tag43”.

Chi sono gli oligarchi padroni dell’Ucraina

Il presidente ucraino Voldymyr Zelensky sta combattendo due guerre: una contro la Russia, l’altra – in casa – contro gli oligarchi. Entrambe da quando è stato eletto, nella primavera del 2019. Allora mandò a casa Petro Poroshenko, capo di Stato uscente, entrato alla Bankova (la sede presidenziale a Kiev) nel 2014, dopo il cambio di regime a Kiev. Poroshenko non era un politico puro, ma anche lui un rappresentante dei poteri forti che da sempre hanno deciso le sorti dell’Ucraina, fin dal crollo dell’Urss nel 1991 e l’indipendenza da Mosca. Zelensky, attore comico trasformatosi in politico di successo in un’operazione durata pochi mesi con l’appoggio mediatico e finanziario diretto di vari oligarchi e quello tacito di altri, si è trovato così in mezzo a una serie di conflitti che non è ancora riuscito a districare, proprio perché geneticamente insiti in un sistema politico-economico che in oltre 30 anni è sempre stato caratterizzato dalla commistione tra big business e gestione dello Stato. Nonostante il trionfo alle Presidenziali tre anni fa e quello alle Legislative dello stesso anno che gli hanno consegnato la maggioranza in parlamento, Zelensky è rimasto imbrigliato nei meccanismi dell’oligarchia che, nonostante le due rivoluzioni, o supposte tali, del 2004 e del 2014, non sono cambiati. I protagonisti delle vicende ucraine sono sempre gli stessi, eccezion fatta per Viktor Yanukovich, il presidente amico di tutti gli oligarchi ucraini e un po’ troppo di Vladimir Putin, che è stato defenestrato con il benestare di Unione europea e Stati Uniti in quello che è stato considerato al Cremlino un colpo di Stato. Sorte analoga, lo scorso maggio, era toccata a Viktor Medvedchuk. Oligarca e leader dell’organizzazione Ukrainian Choice, sponsor dell’opposizione filo-russa e contrario all’avvicinamento del Paese all’Ue, è finito ai domiciliari con accusa di alto tradimento. Un chiaro messaggio per Putin, visto l’ottimo rapporto, anche personale, con Medvedchuk: il presidente russo è infatti il padrino della figlia dell’oligarca Daryna, nata nel 2004. A parte queste eccezioni, le facce sono sempre le stesse. Prima di tutti quella di Rinat Akmetov, da decenni il numero uno degli oligarchi ucraini, che si è sempre districato tra politica e affari con enorme successo, diventando l’uomo più ricco del Paese e uno dei più potenti burattinai alle spalle di presidenti e governi. Con una certa predilezione politica per lo spettro definibile come filorusso, data la sua provenienza dal Donbass, Ahkmetov ha dovuto soffrire un po’, economicamente e politicamente, con l’arrivo del suo rivale Poroshenko alla presidenza, ma è ormai in ripresa sotto Zelensky che ha avviato sì una campagna politico-giudiziaria contro lo strapotere degli oligarchi – e l’arresto di Medvedchuk lo dimostra – ma concentrandosi su pochi, o meglio su uno solo: Petro Poroshenko appunto. Il penultimo presidente, con un posto fisso ai piani alti del ranking dei businessman del Paese e leader del maggior partito dell’opposizione filoccidentale, è ora accusato di altro tradimento per aver fatto affari con i separatisti filorussi del Sud Est e rischia 15 anni di carcere. È la giustizia selettiva che pende come una spada di Damocle ogni volta che alla Bankova entra un nuovo inquilino. Yanukovich si era invece concentrato su Yulia Tymoshenko, che prima di diventare premier ai tempi della rivoluzione arancione del 2004 era nota come unica oligarca donna e principessa del gas, visto che la sua fortuna l’aveva accumulata con gli opachi traffici energetici tra Russia e Ucraina. Poroshenko aveva preso di mira anche Dmitry Firtash, altro boss del gas, che ha dovuto rifugiarsi a Vienna e dal 2014 colpito poi da sanzioni per aver venduto titanio in Russia. Sempre nel 2014 era entrato in scena in grande stile Igor Kolomoisky, forte nel settore bancario e del petrolio e tra gli ucraini più ricchi, diventato addirittura governatore nella regione di Dnipropetrosvk. È stato lui il principale sponsor di Zelensky, insieme agli altri che hanno sempre mantenuto un profilo basso e neutrale, senza decise preferenze politiche, ma strizzando l’occhio e aprendo i portafogli a tutti. Maestro in questo senso è Victor Pinchuk, il prototipo dell’oligarca ucraino, che ha istituzionalizzato già negli Anni 90 il matrimonio tra affari e politica, sposando la figlia dell’allora presidente Leonid Kuchma. L’impero di Pinchuk, tra industria dell’acciaio e media, si è allargato sotto ogni presidenza e anche sulla scacchiera internazionale ha resistito agli scossoni rivoluzionari grazie all’equilibrio tradizionale familiare. Suo suocero Kuchma, dopo il fallimento del 2004 di condurre alla presidenza il suo delfino Yanukovich, sconfitto da Viktor Yushenko, tre lustri dopo è finito a fare il mediatore per la parte ucraina nel gruppo di contatto trilaterale con Russia e Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) nel processo di pacificazione nel Donbass, sostituito solo ultimamente dal consigliere di Zelensky Andrei Yermak. Lo stesso Pinchuk ha fondato oltre 15 anni fa la Yalta European Strategy, piattaforma che guarda con favore ai rapporti con l’Occidente.

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