Prosegue con questo interessante articolo il nostro
sforzo di capire meglio le ragioni di un conflitto, ormai giunto a livelli
inumani di ferocia, scavando nelle realtà che stanno alle sue spalle
La Russia di Putin:
un paese distrutto
La redazione
del Tascabile intervista Maria
Chiara Franceschelli, dottoranda in Scienza
politica e sociologia alla Scuola Normale Superiore di Pisa, studia i movimenti
sociali e società civile nello spazio post-sovietico, e collabora con diverse testate, riviste e
istituti di ricerca.
Maria
Chiara Franceschelli (MCF): Io mi occupo di sociologia
politica e quindi, nell’ambito della guerra in Ucraina, non mi concentro sulle
dinamiche di conflitto fra stati-nazione, anche perché nel caso specifico di
questi due Paesi la questione della sovranità non è così semplice. Mi interessa
di più come si intersecano politica interna e politica estera nel contesto di
queste dinamiche, guardare come le società si affacciano a queste dinamiche, e
come sono influenzate a loro volta.
Redazione Tascabile (RT):
Ti chiedo di aiutarci a fare una fotografia della società russa in questo
momento e in particolare a farci un’idea delle percentuali di popolazione,
anche per fasce di reddito, per classe sociale. Quando parliamo di società, di
classe media russa o di oligarchi, di che percentuali di popolazione stiamo
parlando? E questa composizione sociale come si riflette nel consenso o nel
dissenso per Putin in Russia?
MCF: Partiamo da un
presupposto: la società russa è una società enormemente frammentata in tutti i
sensi. Partiamo anzi dalle cose ancora più triviali: la Russia è il paese più
grande del mondo, quindi oltre alle classiche differenze che abbiamo più o meno
dappertutto fra centri urbani e zone rurali, ci sono anche molte differenze
legate al tipo di territorio: non solo per la sua conformazione ma anche dal
punto di vista dei principali settori produttivi, che comunque vanno a
influenzare la qualità della vita, il reddito e in un certo senso anche i retroscena
culturali delle popolazioni. Ci sono poi le storie locali delle varie regioni,
il dominio mongolo e imperiale, il rapporto fra popolazioni indigene e
popolazioni trapiantate in epoca imperiale o zarista… Detto questo, di solito
quando noi parliamo di società russa, ne parliamo in due modi. O ci riferiamo a
Mosca, San Pietroburgo, quindi le grandi città – di solito tagliando fuori le
terze, quarte, quinte grandi città, che sono tutte grandi città che si trovano
in Siberia o nel Caucaso: Novosibirsk , Ekaterinburg, Samara… che
comunque sono centri culturali ed economici molto importanti –, oppure parliamo
della Russia che guardiamo in chiave orientalista, la “Siberia” non in senso
prettamente geografico, che raccontiamo come terre sconfinate dove spesso non
arriva neanche la corrente elettrica – cosa che, ovviamente, non è vera…
Abbiamo una percezione della Russia slegata dalla realtà ed estremamente
stereotipata. La frammentazione della società russa riguarda anche, ovviamente,
il grande divario socio-economico. A seconda dei diversi indici di riferimento,
in Russia si stima che ci siano dai 14 ai 20 milioni di persone sotto la soglia
della povertà, su un paese di 140 milioni di abitanti. C’è poi la questione
degli oligarchi, di cui definire e circoscrivere il patrimonio è estremamente
difficile (si parla di guesstimates). Nel 2017, alcuni economisti
specializzati nelle disuguaglianze socioeconomiche, fra cui Thomas Piketty,
hanno pubblicato (per il National Economic Research Bureau statunitense) uno
studio secondo cui il patrimonio offshore degli oligarchi
russi ammonta a circa 800 miliardi di dollari. Significa che una quindicina di
persone tiene al sicuro nei paradisi fiscali un patrimonio superiore a quanto
l’intera popolazione russa non detenga in patria. In ogni caso, è
estremamente difficile rintracciare l’effettiva disponibilità dei grandi
oligarchi russi. Dipende non solo dalla fumosità attorno alla gestione dei
patrimoni, ma anche dai criteri prescelti. Comunque, oltre alla
cosiddetta Moscow on Thames, che è il gruppo di oligarchi
trasferitisi a Londra negli ultimi vent’anni, insieme ai loro patrimoni, è
fondamentale comprendere che c’è un filo che intreccia saldamente l’élite
economica russa alle istituzioni politiche del Paese, nonostante formalmente
gli oligarchi non occupino, adesso, cariche istituzionali. Per sviscerare le
fibre di questo filo però servono ricerche e indagini lunghe, difficili,
dettagliate e a volte pericolose. Possiamo dire però con certezza che in Russia
ci sono persone che detengono un patrimonio smisurato, che controllano il
settore bancario ed energetico. Quest’ultimo, ricordiamo, è il principale
motore dell’economia russa, basata sull’estrazione e sull’esportazione di
risorse naturali.
RT: Ma
era una battuta “ricerche lunghe e pericolose”?
MCF: No. Le ricerche
in contesti autoritari sono da fare con consapevolezza, metodo e prudenza.
Ovviamente dipende dalla ricerca in questione, l’economista dell’Atlantic
Council che pubblica uno studio sul patrimonio offshore degli
oligarchi russi e il giornalista russo che coordina un’inchiesta in loco
sull’inquinamento delle acque territoriali da parte di Noril’sk Nickel dovranno
affrontare rischi molto diversi. È vero che i giornalisti caduti vittime del
regime andavano sulle tracce del potere politico, non degli asset economici,
ma abbiamo già detto quanto queste cose si intersechino. Oltre alle riforme di
un sistema già superpresidenziale in senso ancora più verticale, una delle cose
che hanno assicurato a Putin la stabilità del suo potere è stato
l’accentramento degli oligarchi attorno a sé dopo il caos della privatizzazione
degli anni Novanta, eliminando le voci di dissenso.
RT: Cioè lui ha
controllato un’operazione di privatizzazione in modo che finisse a una nuova
classe dirigente gestita da lui.
MCF: Non esattamente.
La grande privatizzazione è stata portata avanti negli anni Novanta con il
programma loan for shares, che ha concentrato gli asset statali
in mano a pochi privati e ha esacerbato la crisi socioeconomica della Russia
dopo il crollo dell’URSS. Quando Putin è salito al potere, nel 2000, non ha
fatto un’operazione di esproprio o sostituzione in senso apertamente
istituzionale, ma l’ha fatta tramite la creazione progressiva di un sistema
piramidale e clientelare attraverso organi paragovernativi e sottotrame
personali, e allontanando gli oligarchi portavoci di dissenso, come Mikhail
Khodorkovskij.
RT:
Ti volevo chiedere una cosa a proposito di questo rapporto diciamo tra potere
ed economia, o in generale tra politica ed economia. Nella conversazione che
abbiamo fatto con Alfonso Desiderio lui diceva che in Occidente ci siamo
dimenticati che esiste anche la politica e ci siamo concentrati principalmente
sull’economia: un modo per dire, se ho capito bene, che abbiamo dato per
scontato che in ogni sistema, di fatto, è sufficiente ricercare gli interessi
economici per spiegare le decisioni politiche. Ho sempre pensato che questo
metodo che potremmo definire materialista era assolutamente efficace, e però
oggi di fronte alle decisioni anche antieconomiche, quasi masochistiche di
Putin sul piano strettamente economico, viene da chiedersi ad esempio quanto
lui stesso creda nella sua ideologia e quanto peso abbia questo rispetto al
semplice interesse economico. Secondo te l’approccio materialista resta valido
o è una semplificazione, applicabile solo in contesti totalmente
liberal-capitalistici e che non ci permette di comprenderne altri?
MCF: La fallacia è
scindere la politica dall’economia in senso assoluto. Chiaramente si tratta di
discipline e prospettive diverse, ma se si vuole fare un’analisi olistica è
necessario guardare l’economia come parte della politica e la politica come
parte dell’economia. Un esempio banale di cui però secondo me si è
parlato molto poco in queste settimane riguarda le famose responsabilità
dell’Occidente. Tendiamo a parlarne in termini ideologici (con un discorso
fuorviante sui percorsi di “democratizzazione”) o geopolitici (con
l’espansionismo verso est della NATO), e dimentichiamo lo snodo cruciale, ossia
il ruolo dell’attore egemone statunitense, così come delle organizzazioni
internazionali (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale in primis)
nella disastrosa transizione economico-politica della Russia. L’Occidente ha
supportato attivamente la privatizzazione sfrenata degli anni Novanta senza
incoraggiare un processo di state building istituzionale,
principalmente per due motivi: il primo è la fiducia cieca dell’ideologia
neoliberale di quegli anni nel fatto che alla privatizzazione seguisse
automaticamente la democratizzazione. Il secondo è che le persone che erano
consapevoli del caos politico che ne sarebbe in realtà conseguito erano le
stesse che volevano una Russia debole e inerme. Ma la failed
transition russa è tra le cause principali dell’attuale natura del
regime di Putin. Detto ciò, è totalmente sbagliato dire che Putin è al potere
per colpa dell’Occidente. È invece giusto ricordarsi che quando si parla di
concause si parla anche di questo: relazioni fra economia e politica, e
relazioni fra attori diversi nello scenario globale.
RT: Torniamo alla composizione
della popolazione russa. Come raccontavi anche tu, Putin ha tirato fuori dallo
stallo economico il Paese dopo il disastro post-sovietico di Él’cin, ha gestito
in qualche maniera gli oligarchi che Él’cin non seppe gestire, ha gestito le
privatizzazioni, sempre a modo suo, da spia e da gangster – per citare Marco
D’Eramo – e al tempo stesso ha permesso che un’ampia fetta di popolazione
avesse delle pensioni migliori, dei salari migliori. E la sensazione che si ha
è che a livello di consenso questo gli abbia assicurato l’enorme popolarità di
cui ha goduto in questi anni (anche se è vero che un regime autoritario come la
Russia non si regge sul consenso popolare, almeno non direttamente). Ma adesso,
dopo venti anni, sembra quasi che il ricordo della povertà o degli anni bui del
dopo URSS non abbiano più un peso, almeno non nelle nuove generazioni che sono
già nate nell’era putiniana, e che per questo il consenso per Putin possa
iniziare a traballare, perché la gente inizia a volere altro: diritti, libertà.
Mi chiedo se le cose stiano davvero così, però, o se magari è un’illusione che
dipingiamo noi dall’Occidente.
MCF: Il problema è che sono sentimenti difficili da quantificare e misurare.
Concretamente si può partire dal fatto che gran parte del consenso di Putin si
è tradizionalmente basato sul confronto con l’esperienza precedente,
traumatica. La gente non fa più la fila per il pane da quando c’è lui (però
qualche giorno fa c’erano le file per lo zucchero in alcuni supermercati,
quindi vedremo…). Questo diventa interessante quando cominciano ad avere 20-25
anni persone che non hanno memoria di come si stava prima, e che non associano
a Putin un ritorno ad una stabilità mai provata o un nuovo benessere. Qua
però ci sono molte altre variabili che a me personalmente impediscono di dire
“sì, c’è un cambio generazionale”: la propaganda, che non significa solo il
telegiornale che nasconde le notizie, ma parte da molto prima, tra programmi
scolastici, leva obbligatoria, ruolo della Chiesa e delle ONG statali, insomma
una cosa assolutamente pervasiva che propone un modello di società molto
difficile da scardinare. Se guardi la cosa da una prospettiva strutturalista,
per cui le persone sono condizionate dall’ambiente circostante, in effetti ora
le persone che hanno maggiori possibilità di entrare in contatto con altri
modelli, però. Il problema è che tutte queste variabili sono in contraddizione
tra di loro, da un lato ci sono i social network, gli scambi universitari, le
scienze sociali, dall’altro sono a volte proprio le stesse università, ad
esempio, a promulgare la narrazione statale. Quindi, per tornare alla
prospettiva materialista a cui si rifaceva Elisa, forse una nuova spinta verrà
proprio dalla crisi socioeconomica che travolgerà la Russia, e che colpirà
persone che non hanno memoria di tempi peggiori.
RT: Mi aggancio al discorso generazionale. In realtà
l’ultima cosa che hai detto forse risponde già a metà alla mia domanda: questi
ventenni che sono cresciuti nei tempi di Putin sono gli stessi che non hanno
potuto vedere in prima persona quella spinta – anche amplificata dai media
occidentali – di desiderio verso il consumo di beni occidentali, parlo del
panino, del jeans, eccetera. Penso a uno degli ultimi discorsi di Putin, quello
sulle ville in Costa Azzurra, gli stili di vita: “è questo il mondo che
vogliamo? Noi abbiamo altri valori”. Ma quale può essere il futuro di una
Russia sbilanciata verso est? Esiste, questa Russia? È la Russia più anziana?
MCF: Se si intende “spostamento a Est” non come verso la Cina ma come
ripiegamento entro la Russia non europea, si tratta di un processo avviato da
Putin stesso, che ha dovuto costruire una nuova identità russa dalle macerie
del crollo dell’URSS. Ciò è stato fatto tramite cherrypicking di
elementi culturali e storici di varie epoche e ideologie, a volte in
contraddizione fra loro. Il risultato è un pot-pourri di conservatorismo che va
dal panslavismo di Danilevskij alla complementarietà fra Stato e Chiesa di cui
parlava Uvarov. Una costante di cui la Russia non riesce a liberarsi, però, è
la costruzione di un’”identità negativa”, ossia un’identità basata sulla
negazione di ciò che è altro da sé. Vyacheslav Morozov, professore
dell’Università di Tartu, ha scritto un libro molto bello sull’identità
“postcoloniale” della Russia come conseguenza dell’opera di autocolonizzazione
che la Russia ha fatto su di sé, al posto dell’Occidente. Il paradosso che ne
risulta è che l’identità della Russia è essenzialmente eurocentrica, non offre
un modello alternativo e parallelo all’Occidente, ma parte da esso per negarlo.
Putin sta marciando molto, comunque, sul senso di rivalsa dopo l’umiliazione
degli scorsi decenni, e sull’orgoglio nazionale. Quindi sì, c’è questa spinta
verso Est. Il problema è che questo Est artificioso putiniano è un Est che
parte dalla negazione dell’Ovest.
RT: Infatti
si parla pochissimo di questa contraddizione genetica dell’anima russa. Lo
stesso Putin è di Pietroburgo, che è una città inventata per andare a Ovest,
quindi è una narrazione che non riesce a reggere alla realtà che lui stesso sta
sviluppando: ha vissuto in Europa. I russi sanno chi era
Pietro il grande, come noi possiamo sapere chi era Garibaldi. Quindi la natura
della mia domanda, il dubbio della mia domanda sta lì: non vedo come questa
narrazione possa reggere, alla lunga.
MCF. Il problema è sempre cosa vogliamo ottenere. Questa costruzione anche
identitaria è finalizzata ad un consenso politico che si basa su nazionalismo e
revanscismo. Se guardiamo invece al porre una fine al caos identitario, anch’io
sono dubbiosa. Ma questo è un discorso più ampio. La storia russa è una storia
imperiale dai confini estremamente mobili, che ha coinvolto popoli diversi con
storie diverse, e che nasce da un caleidoscopio di contaminazioni. In un certo
senso, è un miracolo che in tutta la Russia si parli la stessa lingua, e qui si
vede anche la potenza che ebbe il processo di sovietizzazione.
RT:
Per avvicinarci un po’ al contesto della guerra, ti chiedo: come si è
modificata l’opinione pubblica dopo l’annessione della Crimea, quindi negli
ultimi otto anni?
MCF: L’annessione della Crimea ha avuto la funzione cruciale di riportare un
consenso interno perso all’irrigidimento del regime nel periodo 2012-2013, al
ritorno al potere di Putin dopo la parentesi Medvedev, e all’inizio del periodo
di stagnazione economica. La Crimea ha un significato storico e culturale e un
potere evocativo enormi, basti pensare alla guerra di Crimea. Dal 2014 in poi
si parla proprio di “Crimean consensus”.
RT:
Possiamo aspettarci un effetto simile, in termini di consenso interno, anche
come riflesso di un’eventuale indipendenza del Donbass?
MCF: Nì. Il Donbass non è la Crimea, per mille motivi, e questo giochino non
lo puoi ripetere all’infinito. Inoltre, la Crimea è stata relativamente rapida
e indolore (per quanto rapida e indolore possano essere un’invasione e
un’annessione). In Donbass c’è la guerra da 8 anni, che per quanto “a bassa
intensità” aveva già fatto decine di migliaia di morti prima del bagno di
sangue di queste settimane.
RT: Resto ancora un po’ sul
consenso e il dissenso interni. Anche se farlo da questa distanza è sempre
pericoloso, perché da qui si rischia di avere lo sguardo eurocentrico dei
salvatori. Però, se guardiamo alle opposizioni al regime di Putin, è sconfortante
pensare che l’unica vera alternativa che non sia l’opposizione di Stato,
l’opposizione fantocccio di molti partiti minori, beh sia stata in questi anni
l’opposizione un po’ eretica di Navalny. Perché più che un vero oppositore
Navalny sembra spesso solo un altro Putin, tutt’al più un Putin un po’ più
occidentale, con un migliore rapporto con l’Europa e gli USA. È anche difficile
dire davvero quale sia la sua visione del mondo, perché è capace di grandi
trasformismi e illusioni ottiche, ma sappiamo che di sicuro viene da un
ambiente nazionalista, filo imperialista, antisemita, omofobo, anche se lui poi
si è detto a favore dei matrimoni omosessuali e ha smussato con il tempo molte
delle sue posizioni più controverse. La domanda è questa: c’è un tipo di dissenso,
nella società civile russa, che non si riduca alla lotta per il potere che è
riuscito a creare Navalny? Oppure il dissenso radicale, diciamo così, è
destinato a essere parcellizzato, isolato in micro-organizzazioni, università e
circoli intellettuali? Ci sono tentativi o speranze di creare qualcosa di più
coeso?
MFC: Riassumendo, la
risposta è fondamentalmente no. È il grande problema per cui ci troviamo a
questo punto. In questo momento le capacità di mobilitazione e di creare un
fronte di opposizione coeso da parte della società civile russa sono pari a
zero. Questo non perché, come concordavano i primi studi post-sovietici, la
società civile russa è “debole” e “non abituata alla democrazia”, ma perché
Putin ha portato avanti un processo coerente e graduale lungo vent’anni, volto
proprio ad arrivare qui. A livello legislativo, due leggi fondamentali hanno
ridotto all’osso lo spazio di manovra della società civile e silenziato le voci
del dissenso: la legge sulle ONG del 2006 e la legge sugli agenti stranieri del
2012. Il sistema formalmente pluripartitico è in realtà una cosiddetta
“opposizione di facciata”, per cui i partiti di opposizione, pur esprimendo
talvolta posizioni discordanti dalla maggioranza, contribuiscono de
facto alla preservazione dello status quo. Non ci sono sindacati di
dimensioni significative che possano influenzare i processi decisionali. Allo
stesso tempo, la società civile, per sfuggire alla morsa dell’oppressione
istituzionale, ha sviluppato tecniche di mobilitazione cosiddette non-contentious,
che evitano cioè l’aperta opposizione politica e la contestazione degli
equilibri di potere, per concentrarsi su azioni locali e mirate volte a
migliorare una determinata situazione in ottica prettamente pragmatica. Questi
movimenti in realtà sono estremamente efficaci in tempi di pace, ma non
potranno per definizione essere alla base di un regime change. Le
persone più politicizzate, che tradizionalmente hanno animato il dissenso,
quindi attiviste e attivisti, accademiche e quant’altro, stanno cercando
rifugio all’estero. Si stima che nell’ultimo mese più di 200.000 persone
abbiano lasciato il Paese. E la società civile che rimane è svuotata del suo
nocciolo politicizzato. Una bella novità è la Resistenza Femminista Contro la
Guerra, un fronte che ha unito i gruppi femministi russi e che agita
manifestazioni locali e istituisce reti di solidarietà transnazionali
attraverso un canale Telegram .
RT: Prima di andare verso la
conclusione aggiungo un commento, ho la sensazione che manchi soltanto un
pezzetto rispetto al discorso sull’opinione pubblica e la generazione più
giovane russa, cioè: internet. Mentre prima raccontavi di cosa potrà tenere
insieme l’unità nazionale pensavo chiaramente al passato, a certi simboli.
C’erano dei simboli della Russia del Novecento, della Russia pre-sovietica, ma
che poi sono anche sopravvissuti (integrandosi) al periodo sovietico, mi viene
in mente chessò il samovar, mi vengono in mente le slitte cechoviane e un’idea
di mondo che, già allora, non esisteva più. C’è stata l’industrializzazione, e
se da noi è stata accompagnata da una retorica progressista – il boom
economico, la Cinquecento eccetera – quando pensiamo all’industrializzazione
sovietica pensiamo ai piani quinquennali e a un altro colore… Torno sul punto
di prima: in quali simboli nazionali possono credere dei ragazzi di 20-25 anni,
quale può essere il fascino di un passato molto generico, quello imperiale,
quali sono i simboli che possono tenere insieme il paese?
MCF: Anche fra la
popolazione più giovane in realtà c’è tutta una riscoperta del passato
sovietico in chiave romantica ed estetica. Se con le vecchie generazioni questa
cosa si fa grazie ai veterani sovietici, con i giovani questo avviene
attraverso la romanticizzazione della tarda estetica sovietica. Si ricrea un
passato che appartiene solo a loro, che non è legato all’Occidente, ma che al
tempo stesso non possono ricordarsi, e che quindi possono estetizzare a
piacimento e che possono arricchire con nuovi beni di consumo. Questo è
evidente nella scena underground di Mosca e San Pietroburgo, dove comunque la
contaminazione con artisti occidentali è altissima. Quanto questo sentimento
identitario sia forte lo scopriremo più avanti, ma le prospettive sono
drammatiche: ora la Russia è un Paese distrutto.
RT: Non c’entra molto con ciò che è
stato detto fino adesso, ma mi interessa la tua opinione su questa cosa perché
io ti seguo e mi piace seguirti anche per le tue analisi, diciamo, “politicamente
situate”. Mi sembra che tu abbia sempre una prospettiva da cui parli e che non
pensi che si possano fare analisi che prescindano da una visione del mondo. E
quindi mi veniva in mente la questione del sostegno europeo alla resistenza
ucraina. La domanda è cosa significa dalla tua prospettiva essere realisti: c’è
chi sostiene che essere realisti vuol dire “ormai è troppo tardi, non c’è più
niente da fare dobbiamo fermare Putin costi quel che costi”, anche a costo di
scatenare un conflitto mondiale. Dall’altro lato c’è chi dice che essere
realisti vuol dire invece essere contro l’interventismo, ma rassegnarsi così al
fatto che ci sono delle sfere d’influenza e che alcuni paesi non potranno mai
aspirare a decidere in autonomia in fatto di politica estera. Personalmente
sono molto anti-interventista e terrorizzata dal riarmo europeo, però allo
stesso tempo mi rendo conto che questa è una domanda che a livello filosofico e
politico ha un peso non indifferente.
MCF: Sì, questo è il
grande dilemma insolvibile. Parlando di realismo nell’accezione generica del
termine (e non come corrente delle Relazioni Internazionali), abbiamo smesso di
essere realisti al momento del ritiro del corpo diplomatico dalla Russia. La
questione delle armi all’Ucraina secondo me è secondaria. Certamente tutti i
popoli hanno il diritto di lottare e autodeterminarsi, ed è nobile e “giusto”
aiutarli, anche se io penso che il paragone con la Resistenza partigiana sia
fuorviante. Ma limitando la discussione alla fornitura di armi all’Ucraina si
evita di parlare di tante altre cose: delle implicazioni tragiche che ha armare
i civili, ma soprattutto del fatto che avremmo potuto avere un peso maggiore se
non avessimo lasciato all’inizio il tavolo delle trattative. Ma chiaramente
parlare con l’invasore al momento dell’invasione cozza con i valori
liberaldemocratici su cui si basano i nostri sistemi. E dunque si crea un
cortocircuito. Lo stesso cortocircuito che diventa evidente se si pensa
che abbiamo fornito armi alla Russia per anni, anche dopo le sanzioni del 2014
(tradendo il blocco delle esportazioni che noi stessi abbiamo imposto), che
Berlusconi è stato il principale alleato di Putin in Europa nello scorso
decennio, che lo stesso Berlusconi ha mimato di sparare a una giornalista russa
che aveva fatto una domanda scomoda a Vladimir Putin durante una conferenza
stampa congiunta, a un anno e mezzo di distanza dall’omicidio di Anna
Politkovskaja e nessuno ha battuto ciglio, che in questo decennio la Russia ha
finanziato diversi nostri partiti, che alla Russia paghiamo 80 milioni di euro
di gas al giorno. Putin non è diventato antidemocratico a febbraio 2022, lo è
sempre stato, eppure noi ci siamo svegliati ora, e andiamo a dare la caccia ai
pacifisti. Chiaramente queste sono considerazioni di natura sociologica e
politologica, non immediatamente politica. Ma questo è il mio lavoro, e le
persone che fanno questo lavoro hanno il dovere di fare questo tipo di analisi,
sennò ciò che facciamo perde di senso. Dobbiamo parlare anche delle cose
complesse e delle cose che non ci piacciono, non solo raccontarci le favole.
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