Requiem per l’Europa
un continente schiacciato fra due mondi
Il vero pericolo viene da noi. Da una
balcanizzazione in cui ciascun Paese sta già consumando la sua Brexit
Articolo di Paolo Rumiz – La Repubblica.it del 05/05/2022
Per una sera, smetto di ascoltare l'onnipresente Zelensky e mi concentro
sulle tv russe e statunitensi. E lì arriva la sorpresa. Lo spettacolo di una
dittatura e di una democrazia egualmente chiuse in una bolla fuori dalla
realtà. Eccoti Dmitry Kiseliov, mezzobusto di regime, che ringhia di
"colpire l'Inghilterra con ordigni nucleari", cui fa eco un popolo
rancoroso, ignaro della realtà sul campo, che vede nell'Occidente la fonte dei
suoi mali e urla di "bombardare Polonia e Germania". Poi ecco Rachel
Maddow, conduttrice Msnbc, così assatanata da far sembrare Biden un
pusillanime. Una che esige che la Russia sia colpita più duramente, e subito.
Intorno, un paese imbandierato di giallo-azzurro, bombardato dagli opinion
makers, ma che non sa neanche dove sia Kiev, pensa che l'Ucraina sia un paese super-democratico
e si sorprende se gli spieghi che fino a ieri gli Usa lo giudicavano corrotto e
inaffidabile. Pur nelle abissali differenze, sorprendono le somiglianze.
Entrambi gli antagonisti guardano alla guerra come a un videogioco e alla terza
guerra mondiale come a una cosa lontana. Ma soprattutto né l'uno né l'altro
sembrano ricordare che fra le due potenze esiste una cosa chiamata Europa,
intesa al massimo come una protuberanza dell'America. Forse non se ne sono mai
accorti: e li capisco. Come accorgersi di una terra che non ha una sua politica
estera né un suo esercito, e resta inchiodata al palo, in bilico tra le
strategie di Washington e i rifornimenti di gas dal Cremlino? Un'alleanza incapace
di agire in modo autonomo, forte e unitario? E lì, per la prima volta, ho
sentito il rischio che l'Europa unita sparisse davvero, o fosse già scomparsa, schiacciata
fra due mondi che giocano alla guerra ignorando la sua presenza, in preda a un ebete
sonnambulismo come nel 1914, quando si gettò nel baratro. Una percezione
fisica. Come se dovessi prendere improvvisamente atto della fine di un'idea.
Come se, dopo aver scritto un "Canto" per lei, la dea-madre che sta
all'origine della nostra stirpe, oggi dovessi dedicarle un "Requiem".
Un epitaffio, dove non resta che consolarsi con la nostalgia dei padri fondatori, che nel '45
concepirono il Sogno sulle sue rovine. Ripenso a come, prima della Grande
Guerra, i vecchi imperi hanno saputo trasformare in spazi-cuscinetto l'antica
linea di faglia fra Baltico e Mar Nero, per impedire lo scontro tra le due
Europe. E a come noi, al contrario, ce li siamo fatte smantellare, a partire
dalla Jugoslavia, una terra plurale dove il disastro ha avuto il suo innesco - guarda
un po' - dalla rivolta di una Krajina, parola che come "Ucraina" vuol
dire "frontiera". Ma la storia non insegna niente. L'America ha due
oceani per tutelare la sua sicurezza. Noi no. Abbiamo a disposizione solo
un'intercapedine di spazi neutrali, e proprio di quegli spazi ci priviamo, con
la Nato che ora va a "proteggere" anche Svezia e Finlandia. Quanto ti
ho cercata, Europa, nelle nostalgie dei profughi dalmati, nelle ninne-nanne in
tedesco della nonna, nel confine alle porte di casa e nella quotidiana intimità
col mondo slavo! Da adulto, ti ho inseguita dal Libano all'Egeo in cerca del
tuo mito; ti ho percorsa dall'Artico a Odessa, da Trieste a Kiev e Mosca, e da
Berlino a Istanbul su treni d'inverno. Mi sono affacciato dai Carpazi sulla
pianura dove il sole arriva dagli Urali, ti ho seguita sul Danubio, il Niemen e
il Guadalquivir. Dall'Irlanda al Monte Athos, ho bussato ai monasteri che ti
hanno salvata dalla devastazione barbarica. Ho esposto la tua bandiera, ti ho
dedicato libri. Ti ho narrata in un'orchestra sinfonica di giovani stupendi.
Tutti figli tuoi, dalla Spagna alla Russia. Esisti ancora, Europa? Non ti trovo
più, tu che sei la mia essenza, la mia fede ma anche il mio infinito sconforto;
sedimento di millenni, lingue, religioni, incubi, speranze e convulsioni, dai
quali è nata, come per miracolo, l'Idea. Il tuo silenzio è assordante. Ti leggo
come un corpo inerte, spezzato e subalterno. Un'alleanza incapace di pensare in
grande, ossessionata dalla sicurezza, crocefissa da reticolati, dimentica delle
guerre che hanno lacerato la tua carne. Quasi nessuno scatta in piedi al suono
del tuo inno. Generi sbadigli. Sei una rovina nel vento, come un anfiteatro
romano o una sinagoga vuota. Comunque vada a finire, l'Unione stellata uscirà a
pezzi, stretta da una durissima recessione, ridotta a pura essenza strategica,
con gli ultimi entrati nella Ue - gli ex comunisti del Patto di Varsavia -
autorizzati a imporci una linea bellicista, non "per" l'Ucraina, ma
"contro" la Russia. La fine di un mondo, quello in cui abbiamo
creduto. Le frontiere e le periferie sono formidabili sensori dei grandi eventi
mondiali. Gli abitanti del mio villaggio tra Italia e Slovenia hanno già capito
tutto. Piantano patate e carote più del solito, arano rabbiosamente spazi di
campagna dimenticati da anni e tra i meli in fiore erigono legnaie enormi per
il prossimo inverno. Cercano di riguadagnare l'autosufficienza perduta. Uno di
loro, vedendomi passare, ha gridato: "Italiano, preparati! Non vedi come
il cielo è diventato buio?". I contadini si attrezzano, mentre in città la
gente parla. Passa dal menefreghismo all'insonnia, dall'aperitivo della sera alla
visione spaventosa di un fungo nucleare. Ma il vero pericolo non arriva
dall'esterno. Viene da noi, da una balcanizzazione in cui ciascun paese europeo
sta già consumando la sua Brexit, il suo personale divorzio da Te. L'Ue spende
già ora il quadruplo della Russia in armamenti, ma è un nano strategico. Non ha
un suo esercito e una sua politica estera. Avere un'armata con bandiera blu
stellata non sarebbe una spesa, ma un risparmio. Noi, invece, abbiamo scelto di
spendere ancora, e in ordine sparso. Risultato? Mendichiamo senza vergogna
l'aiuto di paesi antidemocratici per trovare spiragli di via d'uscita. Invece
di fare un salto in avanti, ci lasciamo dettare la linea da chi un anno fa ha
scelto di smobilitare dall'Afghanistan senza nemmeno la cortesia di preavvertirci.
Chiediamocelo una buona volta: la nostra alleanza è fondata su valori o
interessi? Su un progetto di vita o un antagonismo armato? Abbiamo favorito la
secessione del Kosovo in nome della libertà o per piazzare una base militare
nel cuore di uno stato russofilo come la Serbia? Eravamo consci del potenziale
epidemico di quella scelta, che oggi autorizza Mosca a pretendere il Donbass? E
ancora: siamo sicuri di mandare armi all'Ucraina per amore della sua
indipendenza, se fino a ieri le abbiamo vendute alla Russia? Su quale principio
universale si gioca l'accoglienza dei profughi ucraini, se milioni di altri
rifugiati sono violentemente respinti o lasciati marcire nei gulag greci e
turchi? Mentre scrivo, la "Ocean Viking" con 295 naufraghi a bordo,
aspetta da undici giorni l'autorizzazione allo sbarco, in piena emergenza sanitaria,
col ponte intasato di corpi e di vomito. Intanto, sul mio confine, i profughi
ucraini passano liberamente, senza obbligo della quarantena da Covid, che
invece è richiesta agli africani anche se negativi al test. Non ci vergogniamo
di una così lampante disparità di trattamento? E non ci viene da immaginare
quali tensioni sociali potrà innescare la presenza dei migranti ucraini che noi
facciamo sentire di Serie A e che domani potrebbero anche passare di moda? Non
ti riconosco più, Europa. La tua femminilità si è rattrappita, il tuo ventre è
sterile. La tua gente è annoiata dalla pace e da vent'anni si lascia governare
da paure. Prima l'Islam, poi il terrorismo, poi l'invasione dei migranti, poi
la pestilenza virale. Ora, l'Ucraina. Una successione di emergenze
monotematiche che ci travolgono sul piano emozionale, ma ci lasciano inerti,
esposti a bruschi risvegli come chi ha dormito troppo. Una nevrosi da
informazione che diventa amnesia totale, e pare fatta apposta per impedirci di
leggere la realtà di una guerra globale per l'accaparramento delle risorse. Che
prosegue imperterrita, mascherata da eufemismi. Ho incontrato profughe ucraine.
Madri disperate, ma fiere. Alcune hanno stentato a dirmi grazie per l'aiuto
ricevuto e mi hanno fatto capire che, semmai, dovrei essere io a ringraziarle
perché i loro uomini rischiavano la vita per me, "in difesa
dell'Europa". All'inizio mi sono offeso. Ma poi qualcosa mi ha avvertito
che in quelle donne c'era una parte di ragione. Quel qualcosa diceva:
ammettilo, sei figlio di una terra menefreghista, che non è più quella di Bella
ciao e non si batte più per la libertà
di nessuno. Il disastro ucraino mi pungeva sul vivo. Mi rammentava la mancanza
di un "noi", di un simbolo che mi facesse sentire forte. Di una bella
bandiera nella tempesta. Il segno di un'appartenenza comune di popoli, figli
della stessa terra madre.
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