La
parola del mese
A turno si propone una parola evocativa di pensieri fra di loro
collegabili in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione
Maggio
2022
Quella fra Russia, la nazione che
invade, ed Ucraina, quella invasa, è solo l’ultima. E come tutte quelle che
l’hanno preceduta trova specifica spiegazione in ragioni contingenti, come
sempre del tutto opinabili e divisive, che però in essa vedono comunque una
sorta di esito “naturale”, uno sbocco tanto tragico quanto “inevitabile”. Ma
perché mai sembra che così debba sempre essere?
Guèrra
sostantivo femminile, derivato dal germanico werra (vale a dire mischia,
in effetti una visione che richiama di più un violento e disordinato assalto
barbarico che un vero “conflitto armato”, che in latino era definito “bellum”) = Conflitto aperto e
dichiarato fra due o più stati, o in genere fra gruppi organizzati, etnici,
sociali, religiosi, ecc., nella sua forma estrema e cruenta, quando cioè si sia
fatto ricorso alle armi; nel diritto internazionale è definita come una
situazione giuridica in cui ciascuno degli stati belligeranti può, nei limiti
fissati dal diritto internazionale, esercitare la violenza contro il
territorio, le persone e i beni dell’altro stato, e pretendere inoltre che gli
stati rimasti fuori del conflitto, cioè neutrali, assumano un comportamento
imparziale. Ovvero un conflitto armato combattuto tra i cittadini di uno stesso
stato diviso in fazioni, in tal caso definito come guerra civile (Vocabolario on-line Treccani)
Riflessioni incrociate
sulla “guerra”
1 - Dal punto di vista dell’antropologia
Per cogliere il punto di vista dell’antropologia
sulla “guerra”, tema che è in qualche modo presente in tutte le indagini
antropologiche, facciamo riferimento alla sintesi degli studi al riguardo fatta
da Brian Ferguson
(antropologo statunitense, autore di numerosi saggi dedicati proprio al tema dell’origine della “guerra”, argomento che Ferguson ha posto al centro della sua quarantennale ricerca antropologica).
Ferguson ritiene innanzitutto indispensabile operare
una netta distinzione fra “istinto
alla violenza” e “pratica
della guerra vera e propria”. Se il
primo atteggiamento, che l’uomo condivide con molte altre specie animali, è evoluzionisticamente
definibile come una esasperazione incontrollata della lotta per la
sopravvivenza, la seconda chiama in causa comportamenti organizzati
deliberatamente messi in atto per procurare in modo mirato danno a membri di un
altro gruppo umano. Su questa base, secondo Ferguson, è una forzatura sostenere che
la guerra sia una tendenza evolutiva innata dell’uomo, ma che invece essa sia
il frutto di uno specifico sviluppo sociale e culturale. Le ricerche sul campo evidenziano infatti prove certe di
conflitti armati, così intesi, solamente a partire dal 10.000 a.C., ossia circa
12.000 anni fa, e solo in determinate aree del pianeta, mentre in molte altre
non sono finora state trovate tracce di guerra precedenti a circa 2.000 anni
fa. I reperti antropologici e archeologici attestano inoltre che in vari
periodi successivi a tali date di massima si sono comunque verificate lunghe
assenze di guerre. Sembra quindi possibile sostenere che la tesi di una guerra da sempre presente nelle vicende
di homo sapiens (comparso sulla scena evolutiva
umana circa 150.000 anni fa) sia in effetti una forzatura tale
da giustificare una risposta negativa alla domanda di fondo: la guerra è innata nella natura umana? Per gli studi antropologici sul campo quel che
appare certo sono gli indizi finora raccolti, i quali se consentono di datare,
come si è visto, la comparsa di conflitti armati, non costituiscono però da
soli, per ragioni temporali e di diffusione geografica, una base sufficiente
per sostenere l’esistenza di una specifica predisposizione evolutiva. Tali
datazioni, e la loro collocazione spaziale, sembrano al contrario consentire
una più evidente relazione con la fase della sedentarizzazione umana avvenuta
con la “rivoluzione agricola”, rendendo così la guerra un fatto “culturale” strettamente connesso con la
fase convenzionalmente definita di inizio della “civiltà umana”. La controversia attorno al ritenere che l’uomo sia “innatamente bellicoso” piuttosto che “innatamente
buono” (ad es. il punto di vista di Thomas Hobbes contro quello di Jean Jacques
Rousseau) si basa quindi
esclusivamente su opinioni ed ipotesi non suffragate da reperti ed indizi
oggettivi. Va peraltro riconosciuto che questa convinzione si è fatta
faticosamente strada anche nel campo degli studi antropologici. Alla fine del
XIX secolo, quando le ricerche di Darwin erano all’inizio, si poneva
particolare enfasi sulla lotta per la sopravvivenza, tutto il filone del
successivo darwinismo sociale e le stesse teorie freudiane hanno posto al
centro dello sviluppo della natura umana gli “istinti”, ed uno dei
più importanti era sicuramente quello della “aggressività”. (Nel 1931 Albert
Einstein ha uno scambio epistolare con Sigmund Freud, poi pubblicato con titolo
“Perché la guerra?”,
nel quale alla domanda di Einstein "c'è
un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?" Freud
risponde riprendendo le sue considerazioni sull'aggressività istintuale e sulla
pulsione di morte, per concludere che "la guerra sembra conforme alla
natura, pienamente giustificata biologicamente, in pratica assai poco
evitabile", se non accentuando il processo di "incivilimento"). La guerra inevitabilmente veniva
collegata a questo istinto, e la cultura, semmai, era la dote umana che poteva
porre un limite a questa predisposizione “naturale”. I primi studi
antropologici non potevano non risentire di questo clima culturale ed in
effetti a lungo si sono mossi in questo senso. La repulsione verso la guerra
innescata dalla Prima Guerra Mondiale ha inciso in senso contrario: comincia a
nascere dopo questa tragedia l’idea che la guerra non faccia propriamente parte
della natura umana, ma che sia invece collegabile allo sviluppo storico di società sempre
più grandi e più gerarchiche, e quindi più spiegata dall’evoluzione della politica e di
una certa cultura. Una retromarcia però di breve durata: negli anni ’60 si
sviluppa infatti un dibattito intellettuale fortemente orientato a riaffermare
l’idea della guerra come fattore innato. Fra i tanti sostenitori di questa idea
va annoverato il famoso etologo Konrad Lorenz e, in campo più antropologico, il
rinvenimento di resti primitivi, retrodatabili a diverse decine di migliaia di
anni fa, con tracce di morte violenta provocata da colpi inferti con pesanti
oggetti sembrò diventare, ad un primo non adeguato loro esame, una prova a
sostegno (l’inizio del film di Stanley Kubrick “2001: Odissea nello spazio”, con
le proto-scimmie che scoprono una sorta di arma, l’osso di una mascella
animale, e presto la usano contro clan rivali è collegato a questi studi). Ancora una guerra, quella del
Vietnam, implica una nuova svolta: negli USA nasce, anche grazie al diffuso
rifiuto di tale conflitto, un filone antropologico espressamente dedicato allo
studio della guerra. Ed è qui, nelle università americane, che matura e si
consolida (anche grazie al lavoro di Ferguson) la convinzione che non esistevano testimonianze adeguatamente fondate per ritenere la guerra una sorta di “necessità biologica umana", che quegli stessi reperti
non erano sufficienti per retrodatare l’inizio di conflitti armati
scientificamente organizzati, e che anzi tutte le evidenze raccolte negli
ultimi decenni confortavano la tesi della guerra come “prodotto culturale”, una sorta di “invenzione culturale”. Una convinzione via via sempre più diffusa in
antropologia che non è stata intaccata nemmeno da altri studi, in campo
etologico, che, attribuendo anche agli scimpanzé istinti “bellici”,
individuavano, in un fase tra i 13 e i 6 milioni di anni fa, un progenitore
comune che avrebbe creato i presupposti genetici per una “propensione alla guerra” dei primati, uomo quindi
compreso. Successivi studi hanno poi ridimensionato, e di fatto annullato,
l’esistenza di queste vere e proprie “guerre” tra gli scimpanzé, i cui scontri
sono sempre riconducibili a dinamiche occasionali legate a circostanze
specifiche, tali quindi da non sedimentare una propensione alla guerra. Altri
studi hanno poi evidenziato che queste stesse dinamiche occasionali innescano
reazioni violente negli scimpanzé ed altre, totalmente diverse ed improntate a
soluzioni “pacifiche”, nelle popolazioni di bonobo, un altro primate parente
stretto degli scimpanzé. Ulteriori studi (nei quali entra in
gioco l’epigenetica, una branca della genetica che studia le interrelazioni tra
ambiente e geni e la “ereditarietà” delle mutazioni genetiche indotte da queste
interrelazioni) hanno infine chiarito
la discriminante che spiega questa marcata differenza fra scimpanzé e bonobo:
la diversa struttura delle relazioni di gruppo. Vale a dire che, anche in
questo caso, è la “cultura”, intesa in senso lato, e comprensiva dell’insieme
delle “relazioni sociali”, ad incidere in un senso
piuttosto che in un altro. Questa sorta di “flessibilità” sembra allora valere
anche per l’uomo semmai con una ulteriore specificazione: se per bonobo e
scimpanzé incidono tradizioni comportamentali che, per quanto limitate, sono capaci
di determinare specifici comportamenti, a maggior ragione “l’ambiente culturale umano”, infinitamente più complesso ed
articolato, è il protagonista principale della generale formazione
comportamentale umana, predisposizione alla guerra quindi compresa. Al riguardo
Ferguson afferma: ….. per quanto riguarda la guerra,
penso che gli esseri umani non abbiano predisposizioni innate. Così come non
sono convinto che al lato opposto non esista una predisposizione innata a non
uccidere altri esseri umani, ritengo che tutto dipenda dal modo in cui veniamo
educati nelle nostre società. Ciò che sostengo è che non abbiamo una
predisposizione né per la guerra, né per il suo contrario e che ogni cultura
insegna qualcosa a tutti i nuovi nati …..” In linea con le opinioni di Ferguson si muovono quelle di Marvin
Harris (1927-2001, antropologo statunitense)
che, accentuando semmai la relazione tra guerra, problema
demografico e reperimento risorse, problematiche di fatto inesistenti prima
della sedentarizzazione umana, comunque concorda sull’escludere la dipendenza
della guerra dalla natura umana. Anche i suoi studi, su diverse etnie,
evidenziano infatti che, per quanto la guerra,
come omicidio organizzato inter-gruppo, sia diffusa, essa non è praticata da
alcune popolazioni e le forme della guerra sono, per molti fattori,
profondamente diverse nelle popolazioni che la praticano. Anche la derivazione
della guerra dall'aggressività non ha a suo avviso fondamento perché, anche se l’aggressività
individuale, sotto varie forme e manifestazioni, è presente in individui di
tutte le popolazioni, non in tutte si pratica la guerra, non si passa cioè dall'aggressività individuale
all'aggressività organizzata di gruppo. Anche
per Harris la guerra appare quindi una delle componenti delle culture, che si
istituisce evolutivamente e varia nel corso della storia, al pari degli altri
fattori culturali. La sintesi della sua teoria della guerra è quindi la
seguente: “ …… La guerra è un fenomeno culturale, che, al pari degli altri
fenomeni delle culture, emerge per selezione darwiniana nell'evoluzione delle
popolazioni. La guerra ha come fattori primariamente causali l'incremento delle
pressioni demografiche in rapporto alla tendenza dell'esaurimento delle
risorse. La guerra ha duplice valenza: l'aumento delle risorse attraverso
l'appropriazione predatoria e la regolazione della pressione demografica
attraverso il complesso della supremazia maschile, che parallelamente si
instaura nella società bellicosa …..” In antropologia, sempre sulla
base di osservazioni specifiche di alcune etnie, sono state poi avanzate altre
ipotesi, in particolare: quella della guerra come una sorta di gioco, cioè come espressione di un piacere sadico di aggredire e di
uccidere, quella della guerra come esito della necessità di solidarietà sociale
attraverso la proiezione dell'aggressività interna al gruppo sul nemico
esterno, quella della guerra come volontà politica di potenza. Tutte però sono viste
come possibili componenti aggiuntive, non in grado di spiegare da sole le
radici culturali della guerra e la evoluzione bellica specifica di specifiche
culture. Quel che è unanimemente condiviso in antropologia è la constatazione
che la guerra è, per sua stessa essenza, un fenomeno di gruppo, all’interno del
quale l'individuo può avere comportamenti sia in sintonia che in distonia, che
necessita indiscutibilmente dell’individuazione di un altro gruppo di individui
come nemico. Le dinamiche umane che concorrono alla creazione, individuazione,
e “gestione” del “nemico” sono pertanto un presupposto ineliminabile per l’eventuale
manifestarsi di conflitti armati, ma, ancora una volta, non sembrano essere da
sole una condizione sufficiente per l’attivarsi della guerra, intesa come
conflitto armato organizzato, come soluzione inevitabile del contrasto. Su un
altro aspetto sembra infine esserci in antropologia un unanime consenso: ……. per quanto sia vero che la guerra è il prodotto di una evoluzione culturale, che l'ha selezionata fra le
forme di una determinata cultura come risposta efficace a determinate pressioni
in un determinato momento, il suo permanere come componente stabile di tale
cultura richiede un’aggiunta di spiegazione specifica anche in relazione alla constatazione
che, sul lungo periodo, nessuna guerra, il cui esito per natura è provvisorio,
si è mai rivelata del tutto risolutiva.
Ovvero richiede lo studio delle ragioni che giustifichino tale
suo permanere al di là delle utilità, vere o presunte, che inizialmente l’hanno
creata …..
2 - Dal punto di vista della psicologia
E’ dalla psicologia che viene una possibile risposta
al perché la guerra, al di là della tempistica e delle modalità del suo
inserirsi nei comportamenti collettivi umani, sia ormai divenuta, nonostante le
tragedie che inevitabilmente essa comporta, una costante storica all’apparenza
insuperabile, inevitabile. Un contributo fondamentale è offerto da James Hilman
(1926-2011,
psicologo analista junghiano,
americano di nascita ma europeo di cultura)
che, in piena coerenza con la sua più
generale attività intellettuale, alla guerra ha dedicato un saggio ormai
considerato un classico sul tema:
Hilmann,
non diversamente da quanto evidenziato dagli studi antropologici, considera la
guerra, la sua idea insita nella psiche umana, un fatto eminentemente
culturale. E come tutte le cose umane che fondano la nostra cultura ed il
nostro essere – ad es. la religione, il sesso, la morte, i legami personali e
sociali – Hilmann, coerentemente con la sua impostazione junghiana, ritiene che
anche la guerra abbia acquistato significato dai “miti” che l’hanno
elevata a fatto culturale. Con una aggiunta decisamente spiazzante: a suo
avviso per parlare della guerra non bisogna partire dalla
pace, dal suo opposto, ma entrando nella mente di chi ama la guerra, scavando esattamente nel “terribile amore” per la follia
della guerra …… La guerra, appartiene alla nostra anima come verità archetipica del cosmo.
E’ un’opera umana e un orrore inumano, e un amore che nessun altro amore è
riuscito a vincere.” Il supporre che la guerra sia disumana, è quindi errato,
in quanto parte da un’idea monca di uomo …...
Non a caso quindi questo saggio si apre con una citazione cinematografica di
forte impatto, ma straordinariamente efficace per entrare nella dimensione del
“terribile amore”: in una scena del film “Patton, generale
d’acciaio”, il generale Patton ispeziona il campo dopo una battaglia: terra
sventrata, carri armati bruciati, cadaveri. Il generale solleva un ufficiale
morente, lo bacia e volgendo lo sguardo a quello scempio, esclama: "Come amo tutto questo! Che Dio
mi aiuti, lo amo più della mia vita!”. A differenza
dell’antropologia, che ha per definizione uno sguardo globale, il saggio di
Hilmann guarda alla sola cultura occidentale, ed in particolare a quella greca,
all’Olimpo degli dei mitici che hanno dato nome alle cose umane …… i personaggi dei miti
ritraggono le caratteristiche della natura umana, e la psicologia è mitologia
in abiti contemporanei …… ed è suddiviso in quattro capitoli, che qui
percorreremo in estrema sintesi, i cui titoli valgono a rendere eloquentemente l’idea
di fondo sostenuta nel libro: “La guerra è normale” - “La guerra è inumana” - “La
guerra è sublime” - “La religione è guerra”. Per quanto disarmante la “normalità della guerra”, del concetto di
guerra, è riscontrabile in molti aspetti della vita umana “normale”. La sua “costanza ed ubiquità” in tutti i millenni
della civiltà umana ne hanno, da tempo ed in modo inconsapevole, trasferito vocabolario,
schemi, scenari, in economia, nelle vicende sentimentali e sessuali, nella
politica e nei rapporti sociali, nella banale vita di tutti i giorni. Ad
esempio si parla tranquillamente, senza avere piena coscienza del peso di
questo parallelismo, di guerra commerciale, dei
sessi, telematica, contro il crimine, contro la droga, contro la povertà,
contro le ingiustizie, per la presa del potere politico, e poi anche contro la
noia, la pigrizia, piuttosto che contro le malattie. Ma secondo Hillman è
inutile cercare le ragioni di questo affacciarsi pervasivo della guerra nella
nostra “normale normalità”, perché quella della guerra nasce da lontano,
nell’aura di macabro fascino ed esaltazione che dal suo sorgere essa trascina
con sé. Affermare che la guerra è “normale” non significa allora
normalizzare le sofferenze, i lutti, le tragedie che essa implica, ma
provocatoriamente invita a indagare “nell’irrazionalità di un tale normalità”. Bisogna allora scavare
in profondità nella mente umana per far riemergere i temi mitici, gli archetipi,
che per Hillman “sono la formazione dell’irragionevole”. Quei miti che solo
i greci furono in grado di articolare soprattutto nella tragedia, nella quale
non a caso grande rilievo è dato anche alla guerra. Hillman ritiene
che, in questo quadro mitico, quello che spiega il “terribile amore”, ossia
l’impossibilità archetipa per l’uomo di rescindere il suo legame con la guerra,
è la sconvolgente unione tra “amore e guerra”, il
coinvolgente e tormentato amore tra Ares, dio della guerra, che
rievoca la forza, la violenza, la brutalità, e Afrodite, dea della
bellezza, della seduzione, del fascino. Le rispettive nature,
così indubbiamente opposte, sono però inevitabilmente destinate ad attrarsi,
secondo la logica aristotelica degli opposti. Con lo sconcerto di tutti gli
altri dei e dee dell’Olimpo Ares ed Afrodite si congiungono nella guerra, fonte
di erotismo e di bellezza e capace di una forza scatenata ed incontrollabile.
Quella che ritroviamo nelle parole del Generale Patton e, quel che è peggio,
nella nostra stessa “normale normalità”. Certo è un concetto iniziale di nemico
che sa mobilitare - e non a caso i “padroni della guerra” non di rado ricorrono
alla sua strumentale invenzione - ma una volta innescata, non appena Ares ed
Afrodite entrano in scena, per quanto incombano su tutti inferno ed orrore, emerge
in tutta la sua potenza l’irrazionalità di questa pulsione. Hilmann non è certo
dimentico del “terribile” che la guerra porta con sé, in quelli che la guerra
fanno, e soprattutto in quelli che la subiscono. Anche i primi, anzi proprio
loro, proprio perché in preda al furore erotico di Ares, subiscono un processo
di in-umanizzazione. L’insieme di rabbia, esaltazione, terrore, delirio di potenza, esplode in
una violenza incontrollabile, spesso sfogata sulle donne attraverso lo stupro o
su chiunque con gesti di una crudeltà che travalica l’umano. Eppure nulla
sembra mutare nel tempo, le prove delle varie atrocità restano in archivi a
marcire e l’inumanità della guerra nel corso del tempo non diminuisce. Freud
afferma che nulla cambia nel nostro inconscio, Hilmann aggiunge, richiamando ancora
una volta i miti, che tutte le scene del nostro vivere si ripetono come per le
anime dell’Ade, l’Inferno dei Greci ….. ed i morti nella casa di Ade hanno sempre sete di sangue ….. Ma se è negli
“effetti collaterali della guerra” che emerge la contraddizione fra il suo essere
un fenomeno umano “scientificamente” organizzato e la sua inumanità, è proprio
nel “terribile amore per la guerra” che questa contraddizione nasce e si
scioglie. In molte delle raffigurazioni classiche di battaglie in primo piano
compaiono immagini di cavalli scatenati, non è solo un topos scenico, nella
mitologia greca il cavallo era un dono a Poseidone, il dio degli oceani, e dominare
il cavallo stava proprio a significare il cavalcare una forza irrefrenabile,
come quella della guerra, compenetrandosi con essa. In questa compenetrazione
si rivela il “sublime” della guerra, di Ares, ed il suo essere avvinto con
Afrodite, in una congiunzione archetipa inseparabile. Lo stesso Kant ha
definito il sentimento romantico della bellezza come forza universale
innestando il sublime nel bello, ed affermando anche che ……… la crudeltà provoca piacere estetico, dentro l’orrore
si cela una bellezza spettacolare ….. Ci sono oggetti “per la guerra” che
sintetizzano nell’amore, nella venerazione, che tanti provano per essi, si
pensi all’amore per le armi da fuoco, questa congiunzione …… l’arma sublime del giorno d’oggi è la pistola, tenuta
nel cassetto del comodino …… E a nulla servono tutte le considerazioni
statistiche sulle conseguenze del loro possesso diffuso. Gli dei e le dee
dell’Olimpo, che non capivano e non approvavano l’attrazione fra Ares e
Afrodite, già avevano visto tutto questo, già avevano previsto dove può
condurre l’unione di guerra e bellezza, in un orizzonte in cui il sublime
guerresco si trasforma inevitabilmente in una euforia che ai nostri giorni,
inondati di arsenali atomici, può assumere toni apocalittici. Ma la guerra può
essere fatta anche solo di parole, lo insegnano le religioni. Hilmann dedica
l’ultimo Capitolo al rapporto tra guerra e religione ed il suo è un atto di
accusa inequivocabile: tra queste due dimensioni umane esiste una relazione
biunivoca ….. la religione è guerra
e la guerra è religione …. Sono soprattutto le grandi religioni monoteistiche
a richiedere a chi le segue di credere in un solo dio con accenti che, historia
docet, portano ad intolleranza e conflitto con chi ha pretese analoghe, ma nome
diverso. I valori religiosi, se vissuti con l’eccesso rigoroso di fede che
esclude altre fedi, possono alimentare la volontà di combattere. Ares ed
Afrodite, per quanto genitori del sublime della guerra, non sono però dei di
una religione, non pretendono una fede. I miti sono narrazione e i loro dei
stili di esistenza, ci raccontano modi archetipici di cogliere la condizione
umana, rappresentano verità psicologiche. La religione invece codifica una specifica
narrazione, le sue rivelazioni sono scritte in libri che diventano sacri ……. la religione legge le parole in maniera letterale, il
mito ascolta le parole in maniera letteraria ……. La fede non aggiunge nulla al
sublime della guerra, ma lo motiva con una forza che, nella presunzione che
venga dall’unico dio, si aggiunge a quella archetipica di Ares. Non a caso
allora gli stessi primi cristiani, per quanto Gesù sia figura complessa certo non
riconducibile ad una lettura “guerresca”, si definivano “soldati di Cristo”, e
questo spirito marziale, nei secoli successivi, si è lentamente appropriato,
inglobandoli, degli archetipi mitici degli antichi dei, compreso Ares che, in
questa sua nuova veste, continua ad infondere fervore nella fede. Hillman termina il suo libro senza lasciare spazio a
nessuna “illusione di pace”, vista come un vuoto temporaneo e limitato, una fragile
tregua nella guerra infinita …………….. non esiste una soluzione pratica alla
guerra perché la guerra non è un problema risolvibile con la mente pratica,
quest’ultima infatti, per sua natura è più adatta alla conduzione piuttosto che
alla sua conclusione ……. L’unica possibilità è che l’uomo guardi dentro sé
stesso per comprendere ed affrontare l’irrazionale che lo governa …….. la guerra in quanto tale rimarrà
finché gli dèi stessi non se ne andranno …....
3 - Dal punto di vista della filosofia
E’ forse la filosofia la forma di pensiero
che può conciliare le considerazioni incoraggianti dell’antropologia con il
pessimismo della psicologia? Uno sguardo lungo sul rapporto tra filosofia e
guerra non sembra però offrire particolari speranze in questo senso, non sembra
infatti possibile dire che il tema della guerra, e della pace, sia stato fra
quelli centrali del pensiero filosofico, che ne ha fatto letture contrastanti.
Percorrendole a volo d’aquila vediamo che nei presocratici la guerra era vista
semplicemente come un tratto ineliminabile della vita umana, Eraclito (V secolo a.C.) la definisce “padre
di tutte le cose” (declinandola, più
giustamente, al maschile), Empedocle (V secolo a.C.) la considera, insieme
ma in contrapposizione all’amore, uno dei due fattori che danno vita al ciclo
cosmico di unione e separazione dei quattro elementi (fuoco, aria, terra,
acqua, terra) che formano la realtà. L’idea della guerra come insopprimibile
fenomeno naturale, perfettamente sintetizzata dal famoso detto (anonimo) romano “si
vis pacem para bellum” (se
vuoi la pace prepara la guerra) attraversa intatta tutta la filosofia
antica, fino al diffondersi del cristianesimo che modifica solo parzialmente
questa visione introducendo la distinzione tra “guerra
giusta e guerra ingiusta”. Sia Sant’Agostino (354-430 d.C.) che Tommaso d’Aquino (1225-1274) non la condannano ed anzi assolvono quelle
promosse per giuste cause. L’idea di Hilmann sul rapporto tra guerra e
religione trova non poco fondamento anche in questa distinzione. Non mancano
condanne morali come quella, appassionata, di Erasmo da Rotterdam (1466-1536), ma non è dato cogliere riflessioni che
vadano oltre l’aspetto etico. La propensione alla guerra continua ad essere
considerata un tratto naturale dell’uomo, semmai da utilizzare, come suggerisce
Machiavelli (1469-1527), come “normale strumento di governo del Principe”.
Thomas Hobbes (1588-1679) è certamente il
filosofo che ha più compiutamente considerato la guerra un tratto fondamentale
della natura e della cultura umana tanto da fondare sullo “stato
di guerra come stato di natura, ossia la guerra di tutti contro tutti”
la sua concezione del moderno Stato assoluto, visto come il grande Leviatano capace
di porre fine ai conflitti. Ma solo quelli fra gli abitanti di ogni singolo
Stato, restando invece la guerra il normale modo di regolare i contrasti fra
gli Stati. Montesquieu (1689-1755) condivide l’idea
di Hobbes, ma quantomeno cerca di intravedere un rapporto tra natura selvaggia
dell’uomo e costruzione culturale, voluta e cercata, della guerra: non appena si
costituiscono in società, gli uomini perdono il senso della loro debolezza,
cessa l'uguaglianza che esisteva fra loro e ha inizio lo stato di guerra. Rousseau
(1712-1778) accentua questo
tratto “civile” dello stato di guerra, che a suo avviso nasce ed esplode
provocato proprio dalle disuguaglianze sociali. Anche nei due filosofi che di
più hanno segnato il passaggio alla modernità (occidentale) non sono
rintracciabili posizioni particolarmente attente e critiche al riguardo:
Immanuel Kant (1724-1804) la ritiene “una componente essenziale della vita umana, o anzi
della vita in generale, perché è ciò che la mantiene attiva, reattiva e in
movimento”, e
non diversamente Friedrich Hegel (1770-1831)
giunge ad affermare che: “che la guerra preserva
i popoli dalla putredine cui sarebbero ridotti da una pace duratura o
addirittura perpetua”. Karl Marx (1818-1883), non
esattamente un pacifista, vede la matrice delle guerre nei rapporti sociali di
produzione e consegna l’unico barlume di speranza alla affermazione che: la guerra sparirà man mano che il
socialismo unirà i popoli della Terra. Non stupisce l’idea di Friedrich
Nietsche (1844-1900) che per capire la guerra l’uomo debba guardare
dentro sé stesso, ma ancora giudicandola inevitabile se non utile proprio come
percorso catartico di purificazione. Poco sembra incidere
l’influenza dei due tragici conflitti del Novecento se ancora Carl Schmitt (1888-1985)
limita la sua critica alla guerra alla negazione dell’esistenza di “guerre
giuste”, perché la scelta del nemico verso cui indirizzarla rientra nella sfera
dell’arbitrarietà del diritto internazionale. Per certi versi, in questa sorta
di “rassegnazione filosofica”, l’appassionato ed
attivo impegno pacifista di Bertrand Russel (1872-1970) sembra proporre una lettura diversa.
Nella sua raccolta di brevi saggi “Perché l’uomo fa la guerra” sviluppa infatti
una critica radicale al ricorso della guerra come soluzione dei contrasti tra
popoli e nazioni e propone uno sforzo collettivo contro ogni politica degli armamenti.
Ma, al tempo stesso, definendo la sua
posizione come “pacifismo relativo”, è
non meno convinto, pensando al regime nazista, che in circostanze particolari,
quando la storia ci mette di fronte ad un nemico sordo ad ogni appello, la
guerra sia comunque “il male minore”. Per
trovare una riflessione filosofica originale e coraggiosa attorno al tema della
guerra non occorre andare lontano: il
torinese Norberto Bobbio (1909-2004)
ha pubblicato, nel 1979 nel
pieno della guerra fredda, un saggio “Il problema della guerra e le vie della pace”
che, rivisto in diversi aggiustamenti successivi (l’ultimo nell’edizione è del 1997),
ancora mantiene una sua lucida attualità tanto da essere, non a caso, da molti
richiamato in questi stessi giorni. Questa frase estrapolata dal suo saggio
chiarisce perfettamente il suo giudizio sul fallimento della filosofia attorno
al tema della guerra. …….. Sinora il compito della filosofia della storia è stato
quello di giustificare la guerra. Non siamo forse giunti al punto in cui spetta
alla guerra, alla guerra atomica, dico, il compito di in-giustificare la filosofia
della storia, o per lo meno di capovolgerne il senso, cioè di fare della
filosofia della storia non il processo, per eccellenza, di razionalizzazione
del corso storico dell’umanità, ma, al contrario, la dimostrazione della sua
assurdità?» (p. 32) …… L’amara constatazione che Bobbio fa del fallimento
della filosofia sul tema della guerra fatalisticamente vista come un fatto
inevitabile, quando non come una necessità, non si limita alla contestazione
critica. Lo impone la considerazione, maturata in modo diffuso negli anni del
riarmo nucleare della “guerra fredda”, che una guerra termonucleare altro non
potrebbe essere che la fine dell’umanità. Uno spettro sottovalutato dall’etica
politica (ne abbiamo purtroppo avuto disarmante testimonianza
proprio in questi giorni) che continua a nutrirsi dei miti ancestrali della
potenza e della violenza bellica. La sua condanna senza appello della guerra si
completa con una proposta di una “filosofia della pace” capace di andare oltre
il solo appello etico, riprendendo Kant afferma quindi che …… anche se non sappiamo se la pace perpetua sia una cosa
reale o un non senso dobbiamo agire sul fondamento di essa, come se la cosa
fosse possibile …… Vale a dire agire concretamente ispirati da un “pacifismo attivo”, finalizzato in
particolare ad un “pacifismo istituzionale” basato su un potere
terzo (Onu?) dotato di reali strumenti per dirimere le
controversie tra Stati ed impedire lo scoppio di conflitti armati. Va detto,
per completezza di informazione, che lo stesso Bobbio ebbe comunque modo di
“giustificare” la Guerra del Golfo del 1990 e di lasciare spiragli di
approvazione per la cosiddetta “guerra umanitaria”.
Esiste quindi una qualche concreta prospettiva
di avviare, magari coniugando le considerazioni che ci offrono antropologia,
psicologia, filosofia, un vero percorso di superamento della guerra come
strumento di regolazione dei conflitti tra uomini e Stati? In questa modesta
sintesi non è stato possibile individuarla. L’augurio è che questo insuccesso
sia dipeso solo da limiti di osservazione e non dalla sua inesistenza
La parola del Mese come poteva non mettere in scena la GUERRA, che purtroppo risulta una costante per un problema ricorrente dalla notte dei tempi, cioè perché la soluzione di inevitabili conflitti tra “vicini” non intravede altre soluzioni che le azioni belliche? ( diceva, mi sembra Abbagnano, che siamo come i porcospini : separati ci cerchiamo e poi inevitabilmente ci pungiamo) Evidentemente abbiamo un problema : l’incapacità della gestione “pacifica” dei conflitti o meglio l’incapacità dell’arte del compromesso e di una civile convivenza .
RispondiEliminaSi potrebbe indagare su questo tema? Jared Diamond ha tentato un’analisi in CRISI. Esistono altri studi in merito?
grazie
maria letizia