domenica 1 maggio 2022

La Parola del mese - Maggio 2022

 

La parola del mese

A turno si propone una parola evocativa di pensieri fra di loro collegabili in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

Maggio 2022

Quella fra Russia, la nazione che invade, ed Ucraina, quella invasa, è solo l’ultima. E come tutte quelle che l’hanno preceduta trova specifica spiegazione in ragioni contingenti, come sempre del tutto opinabili e divisive, che però in essa vedono comunque una sorta di esito “naturale”, uno sbocco tanto tragico quanto “inevitabile”. Ma perché mai sembra che così debba sempre essere?

Guèrra

 sostantivo femminile, derivato dal germanico werra (vale a dire mischia, in effetti una visione che richiama di più un violento e disordinato assalto barbarico che un vero “conflitto armato”, che in latino era definito “bellum”) = Conflitto aperto e dichiarato fra due o più stati, o in genere fra gruppi organizzati, etnici, sociali, religiosi, ecc., nella sua forma estrema e cruenta, quando cioè si sia fatto ricorso alle armi; nel diritto internazionale è definita come una situazione giuridica in cui ciascuno degli stati belligeranti può, nei limiti fissati dal diritto internazionale, esercitare la violenza contro il territorio, le persone e i beni dell’altro stato, e pretendere inoltre che gli stati rimasti fuori del conflitto, cioè neutrali, assumano un comportamento imparziale. Ovvero un conflitto armato combattuto tra i cittadini di uno stesso stato diviso in fazioni, in tal caso definito come guerra civile (Vocabolario on-line Treccani)

Riflessioni incrociate sulla “guerra”

1 - Dal punto di vista dell’antropologia

Per cogliere il punto di vista dell’antropologia sulla “guerra”, tema che è in qualche modo presente in tutte le indagini antropologiche, facciamo riferimento alla sintesi degli studi al riguardo fatta da Brian Ferguson

 (antropologo statunitense, autore di numerosi saggi dedicati proprio al tema dell’origine della “guerra”, argomento che Ferguson ha posto al centro della sua quarantennale ricerca antropologica).

Ferguson ritiene innanzitutto indispensabile operare una netta distinzione fra “istinto alla violenza” e “pratica della guerra vera e propria”. Se il primo atteggiamento, che l’uomo condivide con molte altre specie animali, è evoluzionisticamente definibile come una esasperazione incontrollata della lotta per la sopravvivenza, la seconda chiama in causa comportamenti organizzati deliberatamente messi in atto per procurare in modo mirato danno a membri di un altro gruppo umano. Su questa base, secondo Ferguson, è una forzatura sostenere che la guerra sia una tendenza evolutiva innata dell’uomo, ma che invece essa sia il frutto di uno specifico sviluppo sociale e culturale. Le ricerche sul campo evidenziano infatti prove certe di conflitti armati, così intesi, solamente a partire dal 10.000 a.C., ossia circa 12.000 anni fa, e solo in determinate aree del pianeta, mentre in molte altre non sono finora state trovate tracce di guerra precedenti a circa 2.000 anni fa. I reperti antropologici e archeologici attestano inoltre che in vari periodi successivi a tali date di massima si sono comunque verificate lunghe assenze di guerre. Sembra quindi possibile sostenere che la tesi di una guerra da sempre presente nelle vicende di homo sapiens (comparso sulla scena evolutiva umana circa 150.000 anni fa)  sia in effetti una forzatura tale da giustificare una risposta negativa alla domanda di fondo: la guerra è innata nella natura umana? Per gli studi antropologici sul campo quel che appare certo sono gli indizi finora raccolti, i quali se consentono di datare, come si è visto, la comparsa di conflitti armati, non costituiscono però da soli, per ragioni temporali e di diffusione geografica, una base sufficiente per sostenere l’esistenza di una specifica predisposizione evolutiva. Tali datazioni, e la loro collocazione spaziale, sembrano al contrario consentire una più evidente relazione con la fase della sedentarizzazione umana avvenuta con la “rivoluzione agricola”, rendendo così la guerra un fatto “culturale” strettamente connesso con la fase convenzionalmente definita di inizio della “civiltà umana”. La controversia attorno al ritenere che l’uomo sia “innatamente bellicoso” piuttosto che “innatamente buono(ad es. il punto di vista di Thomas Hobbes contro quello di Jean Jacques Rousseau) si basa quindi esclusivamente su opinioni ed ipotesi non suffragate da reperti ed indizi oggettivi. Va peraltro riconosciuto che questa convinzione si è fatta faticosamente strada anche nel campo degli studi antropologici. Alla fine del XIX secolo, quando le ricerche di Darwin erano all’inizio, si poneva particolare enfasi sulla lotta per la sopravvivenza, tutto il filone del successivo darwinismo sociale e le stesse teorie freudiane hanno posto al centro dello sviluppo della natura umana gli “istinti”, ed uno dei più importanti era sicuramente quello della “aggressività”. (Nel 1931 Albert Einstein ha uno scambio epistolare con Sigmund Freud, poi pubblicato con titolo “Perché la guerra?”, nel quale alla domanda di Einstein "c'è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?" Freud risponde riprendendo le sue considerazioni sull'aggressività istintuale e sulla pulsione di morte, per concludere che "la guerra sembra conforme alla natura, pienamente giustificata biologicamente, in pratica assai poco evitabile", se non accentuando il processo di "incivilimento"). La guerra inevitabilmente veniva collegata a questo istinto, e la cultura, semmai, era la dote umana che poteva porre un limite a questa predisposizione “naturale”. I primi studi antropologici non potevano non risentire di questo clima culturale ed in effetti a lungo si sono mossi in questo senso. La repulsione verso la guerra innescata dalla Prima Guerra Mondiale ha inciso in senso contrario: comincia a nascere dopo questa tragedia l’idea che la guerra non faccia propriamente parte della natura umana, ma che sia invece  collegabile allo sviluppo storico di società sempre più grandi e più gerarchiche, e quindi più  spiegata dall’evoluzione della politica e di una certa cultura. Una retromarcia però di breve durata: negli anni ’60 si sviluppa infatti un dibattito intellettuale fortemente orientato a riaffermare l’idea della guerra come fattore innato. Fra i tanti sostenitori di questa idea va annoverato il famoso etologo Konrad Lorenz e, in campo più antropologico, il rinvenimento di resti primitivi, retrodatabili a diverse decine di migliaia di anni fa, con tracce di morte violenta provocata da colpi inferti con pesanti oggetti sembrò diventare, ad un primo non adeguato loro esame, una prova a sostegno (l’inizio del film di Stanley Kubrick “2001: Odissea nello spazio”, con le proto-scimmie che scoprono una sorta di arma, l’osso di una mascella animale, e presto la usano contro clan rivali è collegato a questi studi). Ancora una guerra, quella del Vietnam, implica una nuova svolta: negli USA nasce, anche grazie al diffuso rifiuto di tale conflitto, un filone antropologico espressamente dedicato allo studio della guerra. Ed è qui, nelle università americane, che matura e si consolida (anche grazie al lavoro di Ferguson) la convinzione che non esistevano testimonianze adeguatamente fondate per ritenere la guerra una sorta di “necessità biologica umana", che quegli stessi reperti non erano sufficienti per retrodatare l’inizio di conflitti armati scientificamente organizzati, e che anzi tutte le evidenze raccolte negli ultimi decenni confortavano la tesi della guerra come “prodotto culturale”, una sorta di “invenzione culturale”. Una convinzione via via sempre più diffusa in antropologia che non è stata intaccata nemmeno da altri studi, in campo etologico, che, attribuendo anche agli scimpanzé istinti “bellici”, individuavano, in un fase tra i 13 e i 6 milioni di anni fa, un progenitore comune che avrebbe creato i presupposti genetici per una “propensione alla guerra” dei primati, uomo quindi compreso. Successivi studi hanno poi ridimensionato, e di fatto annullato, l’esistenza di queste vere e proprie “guerre” tra gli scimpanzé, i cui scontri sono sempre riconducibili a dinamiche occasionali legate a circostanze specifiche, tali quindi da non sedimentare una propensione alla guerra. Altri studi hanno poi evidenziato che queste stesse dinamiche occasionali innescano reazioni violente negli scimpanzé ed altre, totalmente diverse ed improntate a soluzioni “pacifiche”, nelle popolazioni di bonobo, un altro primate parente stretto degli scimpanzé. Ulteriori studi (nei quali entra in gioco l’epigenetica, una branca della genetica che studia le interrelazioni tra ambiente e geni e la “ereditarietà” delle mutazioni genetiche indotte da queste interrelazioni) hanno infine chiarito la discriminante che spiega questa marcata differenza fra scimpanzé e bonobo: la diversa struttura delle relazioni di gruppo. Vale a dire che, anche in questo caso, è la “cultura”, intesa in senso lato, e comprensiva dell’insieme delle “relazioni sociali”, ad incidere in un senso piuttosto che in un altro. Questa sorta di “flessibilità” sembra allora valere anche per l’uomo semmai con una ulteriore specificazione: se per bonobo e scimpanzé incidono tradizioni comportamentali che, per quanto limitate, sono capaci di determinare specifici comportamenti, a maggior ragione “l’ambiente culturale umano”, infinitamente più complesso ed articolato, è il protagonista principale della generale formazione comportamentale umana, predisposizione alla guerra quindi compresa. Al riguardo Ferguson afferma: ….. per quanto riguarda la guerra, penso che gli esseri umani non abbiano predisposizioni innate. Così come non sono convinto che al lato opposto non esista una predisposizione innata a non uccidere altri esseri umani, ritengo che tutto dipenda dal modo in cui veniamo educati nelle nostre società. Ciò che sostengo è che non abbiamo una predisposizione né per la guerra, né per il suo contrario e che ogni cultura insegna qualcosa a tutti i nuovi nati …..” In linea con le opinioni di Ferguson si muovono quelle di Marvin Harris (1927-2001, antropologo statunitense)

che, accentuando semmai la relazione tra guerra, problema demografico e reperimento risorse, problematiche di fatto inesistenti prima della sedentarizzazione umana, comunque concorda sull’escludere la dipendenza della guerra dalla natura umana. Anche i suoi studi, su diverse etnie, evidenziano infatti che, per quanto la guerra, come omicidio organizzato inter-gruppo, sia diffusa, essa non è praticata da alcune popolazioni e le forme della guerra sono, per molti fattori, profondamente diverse nelle popolazioni che la praticano. Anche la derivazione della guerra dall'aggressività non ha a suo avviso fondamento perché, anche se l’aggressività individuale, sotto varie forme e manifestazioni, è presente in individui di tutte le popolazioni, non in tutte si pratica la guerra, non si passa cioè dall'aggressività individuale all'aggressività organizzata di gruppo. Anche per Harris la guerra appare quindi una delle componenti delle culture, che si istituisce evolutivamente e varia nel corso della storia, al pari degli altri fattori culturali. La sintesi della sua teoria della guerra è quindi la seguente: “ …… La guerra è un fenomeno culturale, che, al pari degli altri fenomeni delle culture, emerge per selezione darwiniana nell'evoluzione delle popolazioni. La guerra ha come fattori primariamente causali l'incremento delle pressioni demografiche in rapporto alla tendenza dell'esaurimento delle risorse. La guerra ha duplice valenza: l'aumento delle risorse attraverso l'appropriazione predatoria e la regolazione della pressione demografica attraverso il complesso della supremazia maschile, che parallelamente si instaura nella società bellicosa …..”  In antropologia, sempre sulla base di osservazioni specifiche di alcune etnie, sono state poi avanzate altre ipotesi, in particolare: quella della guerra come una sorta di gioco, cioè come espressione di un piacere sadico di aggredire e di uccidere, quella della guerra come esito della necessità di solidarietà sociale attraverso la proiezione dell'aggressività interna al gruppo sul nemico esterno, quella della guerra come volontà politica di potenza. Tutte però sono viste come possibili componenti aggiuntive, non in grado di spiegare da sole le radici culturali della guerra e la evoluzione bellica specifica di specifiche culture. Quel che è unanimemente condiviso in antropologia è la constatazione che la guerra è, per sua stessa essenza, un fenomeno di gruppo, all’interno del quale l'individuo può avere comportamenti sia in sintonia che in distonia, che necessita indiscutibilmente dell’individuazione di un altro gruppo di individui come nemico. Le dinamiche umane che concorrono alla creazione, individuazione, e “gestione” del “nemico” sono pertanto un presupposto ineliminabile per l’eventuale manifestarsi di conflitti armati, ma, ancora una volta, non sembrano essere da sole una condizione sufficiente per l’attivarsi della guerra, intesa come conflitto armato organizzato, come soluzione inevitabile del contrasto. Su un altro aspetto sembra infine esserci in antropologia un unanime consenso: ……. per quanto sia vero che  la guerra è il prodotto di una evoluzione culturale, che l'ha selezionata fra le forme di una determinata cultura come risposta efficace a determinate pressioni in un determinato momento, il suo permanere come componente stabile di tale cultura richiede un’aggiunta di spiegazione specifica anche in relazione alla constatazione che, sul lungo periodo, nessuna guerra, il cui esito per natura è provvisorio, si è mai rivelata del tutto risolutiva. Ovvero richiede lo studio delle ragioni che giustifichino tale suo permanere al di là delle utilità, vere o presunte, che inizialmente l’hanno creata …..

2 - Dal punto di vista della psicologia

E’ dalla psicologia che viene una possibile risposta al perché la guerra, al di là della tempistica e delle modalità del suo inserirsi nei comportamenti collettivi umani, sia ormai divenuta, nonostante le tragedie che inevitabilmente essa comporta, una costante storica all’apparenza insuperabile, inevitabile. Un contributo fondamentale è offerto da James Hilman (1926-2011, psicologo analista junghiano, americano di nascita ma europeo di cultura)  

che, in piena coerenza con la sua più generale attività intellettuale, alla guerra ha dedicato un saggio ormai considerato un classico sul tema:

Hilmann, non diversamente da quanto evidenziato dagli studi antropologici, considera la guerra, la sua idea insita nella psiche umana, un fatto eminentemente culturale. E come tutte le cose umane che fondano la nostra cultura ed il nostro essere – ad es. la religione, il sesso, la morte, i legami personali e sociali – Hilmann, coerentemente con la sua impostazione junghiana, ritiene che anche la guerra abbia acquistato significato dai “miti” che l’hanno elevata a fatto culturale. Con una aggiunta decisamente spiazzante: a suo avviso per parlare della guerra non bisogna partire dalla pace, dal suo opposto, ma entrando nella mente di chi ama la guerra, scavando esattamente nel “terribile amore” per la follia della guerra …… La guerra, appartiene alla nostra anima come verità archetipica del cosmo. E’ un’opera umana e un orrore inumano, e un amore che nessun altro amore è riuscito a vincere.” Il supporre che la guerra sia disumana, è quindi errato, in quanto parte da un’idea monca di uomo …... Non a caso quindi questo saggio si apre con una citazione cinematografica di forte impatto, ma straordinariamente efficace per entrare nella dimensione del “terribile amore”: in una scena del film “Patton, generale d’acciaio”, il generale Patton ispeziona il campo dopo una battaglia: terra sventrata, carri armati bruciati, cadaveri. Il generale solleva un ufficiale morente, lo bacia e volgendo lo sguardo a quello scempio, esclama: "Come amo tutto questo! Che Dio mi aiuti, lo amo più della mia vita!”. A differenza dell’antropologia, che ha per definizione uno sguardo globale, il saggio di Hilmann guarda alla sola cultura occidentale, ed in particolare a quella greca, all’Olimpo degli dei mitici che hanno dato nome alle cose umane …… i personaggi dei miti ritraggono le caratteristiche della natura umana, e la psicologia è mitologia in abiti contemporanei ……  ed è suddiviso in quattro capitoli, che qui percorreremo in estrema sintesi, i cui titoli valgono a rendere eloquentemente l’idea di fondo sostenuta nel libro: La guerra è normale” - “La guerra è inumana” - “La guerra è sublime” - “La religione è guerra”. Per quanto disarmante la “normalità della guerra”, del concetto di guerra, è riscontrabile in molti aspetti della vita umana “normale”. La sua “costanza ed ubiquità” in tutti i millenni della civiltà umana ne hanno, da tempo ed in modo inconsapevole, trasferito vocabolario, schemi, scenari, in economia, nelle vicende sentimentali e sessuali, nella politica e nei rapporti sociali, nella banale vita di tutti i giorni. Ad esempio si parla tranquillamente, senza avere piena coscienza del peso di questo parallelismo, di guerra commerciale, dei sessi, telematica, contro il crimine, contro la droga, contro la povertà, contro le ingiustizie, per la presa del potere politico, e poi anche contro la noia, la pigrizia, piuttosto che contro le malattie. Ma secondo Hillman è inutile cercare le ragioni di questo affacciarsi pervasivo della guerra nella nostra “normale normalità”, perché quella della guerra nasce da lontano, nell’aura di macabro fascino ed esaltazione che dal suo sorgere essa trascina con sé. Affermare che la guerra è “normale” non significa allora normalizzare le sofferenze, i lutti, le tragedie che essa implica, ma provocatoriamente invita a indagare “nell’irrazionalità di un tale normalità”. Bisogna allora scavare in profondità nella mente umana per far riemergere i temi mitici, gli archetipi, che per Hillman “sono la formazione dell’irragionevole”. Quei miti che solo i greci furono in grado di articolare soprattutto nella tragedia, nella quale non a caso grande rilievo è dato anche alla guerra.  Hillman ritiene che, in questo quadro mitico, quello che spiega il “terribile amore”, ossia l’impossibilità archetipa per l’uomo di rescindere il suo legame con la guerra, è la sconvolgente unione tra “amore e guerra”, il coinvolgente e tormentato amore tra Ares, dio della guerra, che rievoca la forza, la violenza, la brutalità, e Afrodite, dea della bellezza, della seduzione, del fascino. Le rispettive nature, così indubbiamente opposte, sono però inevitabilmente destinate ad attrarsi, secondo la logica aristotelica degli opposti. Con lo sconcerto di tutti gli altri dei e dee dell’Olimpo Ares ed Afrodite si congiungono nella guerra, fonte di erotismo e di bellezza e capace di una forza scatenata ed incontrollabile. Quella che ritroviamo nelle parole del Generale Patton e, quel che è peggio, nella nostra stessa “normale normalità”. Certo è un concetto iniziale di nemico che sa mobilitare - e non a caso i “padroni della guerra” non di rado ricorrono alla sua strumentale invenzione - ma una volta innescata, non appena Ares ed Afrodite entrano in scena, per quanto incombano su tutti inferno ed orrore, emerge in tutta la sua potenza l’irrazionalità di questa pulsione. Hilmann non è certo dimentico del “terribile” che la guerra porta con sé, in quelli che la guerra fanno, e soprattutto in quelli che la subiscono. Anche i primi, anzi proprio loro, proprio perché in preda al furore erotico di Ares, subiscono un processo di in-umanizzazione. L’insieme di rabbia, esaltazione, terrore, delirio di potenza, esplode in una violenza incontrollabile, spesso sfogata sulle donne attraverso lo stupro o su chiunque con gesti di una crudeltà che travalica l’umano. Eppure nulla sembra mutare nel tempo, le prove delle varie atrocità restano in archivi a marcire e l’inumanità della guerra nel corso del tempo non diminuisce. Freud afferma che nulla cambia nel nostro inconscio, Hilmann aggiunge, richiamando ancora una volta i miti, che tutte le scene del nostro vivere si ripetono come per le anime dell’Ade, l’Inferno dei Greci ….. ed i morti nella casa di Ade hanno sempre sete di sangue ….. Ma se è negli “effetti collaterali della guerra” che emerge la contraddizione fra il suo essere un fenomeno umano “scientificamente” organizzato e la sua inumanità, è proprio nel “terribile amore per la guerra” che questa contraddizione nasce e si scioglie. In molte delle raffigurazioni classiche di battaglie in primo piano compaiono immagini di cavalli scatenati, non è solo un topos scenico, nella mitologia greca il cavallo era un dono a Poseidone, il dio degli oceani, e dominare il cavallo stava proprio a significare il cavalcare una forza irrefrenabile, come quella della guerra, compenetrandosi con essa. In questa compenetrazione si rivela il “sublime” della guerra, di Ares, ed il suo essere avvinto con Afrodite, in una congiunzione archetipa inseparabile. Lo stesso Kant ha definito il sentimento romantico della bellezza come forza universale innestando il sublime nel bello, ed affermando anche che ……… la crudeltà provoca piacere estetico, dentro l’orrore si cela una bellezza spettacolare ….. Ci sono oggetti “per la guerra” che sintetizzano nell’amore, nella venerazione, che tanti provano per essi, si pensi all’amore per le armi da fuoco, questa congiunzione …… l’arma sublime del giorno d’oggi è la pistola, tenuta nel cassetto del comodino …… E a nulla servono tutte le considerazioni statistiche sulle conseguenze del loro possesso diffuso. Gli dei e le dee dell’Olimpo, che non capivano e non approvavano l’attrazione fra Ares e Afrodite, già avevano visto tutto questo, già avevano previsto dove può condurre l’unione di guerra e bellezza, in un orizzonte in cui il sublime guerresco si trasforma inevitabilmente in una euforia che ai nostri giorni, inondati di arsenali atomici, può assumere toni apocalittici. Ma la guerra può essere fatta anche solo di parole, lo insegnano le religioni. Hilmann dedica l’ultimo Capitolo al rapporto tra guerra e religione ed il suo è un atto di accusa inequivocabile: tra queste due dimensioni umane esiste una relazione biunivoca ….. la religione è guerra e la guerra è religione …. Sono soprattutto le grandi religioni monoteistiche a richiedere a chi le segue di credere in un solo dio con accenti che, historia docet, portano ad intolleranza e conflitto con chi ha pretese analoghe, ma nome diverso. I valori religiosi, se vissuti con l’eccesso rigoroso di fede che esclude altre fedi, possono alimentare la volontà di combattere. Ares ed Afrodite, per quanto genitori del sublime della guerra, non sono però dei di una religione, non pretendono una fede. I miti sono narrazione e i loro dei stili di esistenza, ci raccontano modi archetipici di cogliere la condizione umana, rappresentano verità psicologiche. La religione invece codifica una specifica narrazione, le sue rivelazioni sono scritte in libri che diventano sacri ……. la religione legge le parole in maniera letterale, il mito ascolta le parole in maniera letteraria ……. La fede non aggiunge nulla al sublime della guerra, ma lo motiva con una forza che, nella presunzione che venga dall’unico dio, si aggiunge a quella archetipica di Ares. Non a caso allora gli stessi primi cristiani, per quanto Gesù sia figura complessa certo non riconducibile ad una lettura “guerresca”, si definivano “soldati di Cristo”, e questo spirito marziale, nei secoli successivi, si è lentamente appropriato, inglobandoli, degli archetipi mitici degli antichi dei, compreso Ares che, in questa sua nuova veste, continua ad infondere fervore nella fede. Hillman termina il suo libro senza lasciare spazio a nessuna “illusione di pace”, vista come un vuoto temporaneo e limitato, una fragile tregua nella guerra infinita …………….. non esiste una soluzione pratica alla guerra perché la guerra non è un problema risolvibile con la mente pratica, quest’ultima infatti, per sua natura è più adatta alla conduzione piuttosto che alla sua conclusione ……. L’unica possibilità è che l’uomo guardi dentro sé stesso per comprendere ed affrontare l’irrazionale che lo governa …….. la guerra in quanto tale rimarrà finché gli dèi stessi non se ne andranno …....

3 - Dal punto di vista della filosofia

E’ forse la filosofia la forma di pensiero che può conciliare le considerazioni incoraggianti dell’antropologia con il pessimismo della psicologia? Uno sguardo lungo sul rapporto tra filosofia e guerra non sembra però offrire particolari speranze in questo senso, non sembra infatti possibile dire che il tema della guerra, e della pace, sia stato fra quelli centrali del pensiero filosofico, che ne ha fatto letture contrastanti. Percorrendole a volo d’aquila vediamo che nei presocratici la guerra era vista semplicemente come un tratto ineliminabile della vita umana, Eraclito (V secolo a.C.) la definisce “padre di tutte le cose(declinandola, più giustamente, al maschile), Empedocle (V secolo a.C.) la considera, insieme ma in contrapposizione all’amore, uno dei due fattori che danno vita al ciclo cosmico di unione e separazione dei quattro elementi (fuoco, aria, terra, acqua, terra) che formano la realtà. L’idea della guerra come insopprimibile fenomeno naturale, perfettamente sintetizzata dal famoso detto (anonimo) romano “si vis pacem para bellum(se vuoi la pace prepara la guerra) attraversa intatta tutta la filosofia antica, fino al diffondersi del cristianesimo che modifica solo parzialmente questa visione introducendo la distinzione tra “guerra giusta e guerra ingiusta”. Sia Sant’Agostino (354-430 d.C.) che Tommaso d’Aquino (1225-1274) non la condannano ed anzi assolvono quelle promosse per giuste cause. L’idea di Hilmann sul rapporto tra guerra e religione trova non poco fondamento anche in questa distinzione. Non mancano condanne morali come quella, appassionata, di Erasmo da Rotterdam (1466-1536), ma non è dato cogliere riflessioni che vadano oltre l’aspetto etico. La propensione alla guerra continua ad essere considerata un tratto naturale dell’uomo, semmai da utilizzare, come suggerisce Machiavelli (1469-1527), come “normale strumento di governo del Principe”. Thomas Hobbes (1588-1679) è certamente il filosofo che ha più compiutamente considerato la guerra un tratto fondamentale della natura e della cultura umana tanto da fondare sullo “stato di guerra come stato di natura, ossia la guerra di tutti contro tutti” la sua concezione del moderno Stato assoluto, visto come il grande Leviatano capace di porre fine ai conflitti. Ma solo quelli fra gli abitanti di ogni singolo Stato, restando invece la guerra il normale modo di regolare i contrasti fra gli Stati. Montesquieu (1689-1755) condivide l’idea di Hobbes, ma quantomeno cerca di intravedere un rapporto tra natura selvaggia dell’uomo e costruzione culturale, voluta e cercata, della guerra: non appena si costituiscono in società, gli uomini perdono il senso della loro debolezza, cessa l'uguaglianza che esisteva fra loro e ha inizio lo stato di guerra. Rousseau (1712-1778) accentua questo tratto “civile” dello stato di guerra, che a suo avviso nasce ed esplode provocato proprio dalle disuguaglianze sociali. Anche nei due filosofi che di più hanno segnato il passaggio alla modernità (occidentale) non sono rintracciabili posizioni particolarmente attente e critiche al riguardo: Immanuel Kant (1724-1804) la ritieneuna componente essenziale della vita umana, o anzi della vita in generale, perché è ciò che la mantiene attiva, reattiva e in movimento”, e non diversamente Friedrich Hegel (1770-1831) giunge ad affermare che: “che la guerra preserva i popoli dalla putredine cui sarebbero ridotti da una pace duratura o addirittura perpetua”.  Karl Marx (1818-1883), non esattamente un pacifista, vede la matrice delle guerre nei rapporti sociali di produzione e consegna l’unico barlume di speranza alla affermazione che: la guerra sparirà man mano che il socialismo unirà i popoli della Terra. Non stupisce l’idea di Friedrich Nietsche (1844-1900) che per capire la guerra l’uomo debba guardare dentro sé stesso, ma ancora giudicandola inevitabile se non utile proprio come percorso catartico di purificazione. Poco sembra incidere l’influenza dei due tragici conflitti del Novecento se ancora Carl Schmitt (1888-1985) limita la sua critica alla guerra alla negazione dell’esistenza di “guerre giuste”, perché la scelta del nemico verso cui indirizzarla rientra nella sfera dell’arbitrarietà del diritto internazionale. Per certi versi, in questa sorta di “rassegnazione filosofica”, l’appassionato ed attivo impegno pacifista di Bertrand Russel (1872-1970) sembra proporre una lettura diversa. Nella sua raccolta di brevi saggi “Perché l’uomo fa la guerra” sviluppa infatti una critica radicale al ricorso della guerra come soluzione dei contrasti tra popoli e nazioni e propone uno sforzo collettivo contro ogni politica degli armamenti.  Ma, al tempo stesso, definendo la sua posizione come “pacifismo relativo”, è non meno convinto, pensando al regime nazista, che in circostanze particolari, quando la storia ci mette di fronte ad un nemico sordo ad ogni appello, la guerra sia comunque “il male minore”. Per trovare una riflessione filosofica originale e coraggiosa attorno al tema della guerra non occorre andare  lontano: il torinese Norberto Bobbio (1909-2004)

ha pubblicato, nel 1979 nel pieno della guerra fredda, un saggio “Il problema della guerra e le vie della pace

che, rivisto in diversi aggiustamenti successivi (l’ultimo nell’edizione è del 1997), ancora mantiene una sua lucida attualità tanto da essere, non a caso, da molti richiamato in questi stessi giorni. Questa frase estrapolata dal suo saggio chiarisce perfettamente il suo giudizio sul fallimento della filosofia attorno al tema della guerra. …….. Sinora il compito della filosofia della storia è stato quello di giustificare la guerra. Non siamo forse giunti al punto in cui spetta alla guerra, alla guerra atomica, dico, il compito di in-giustificare la filosofia della storia, o per lo meno di capovolgerne il senso, cioè di fare della filosofia della storia non il processo, per eccellenza, di razionalizzazione del corso storico dell’umanità, ma, al contrario, la dimostrazione della sua assurdità?» (p. 32) …… L’amara constatazione che Bobbio fa del fallimento della filosofia sul tema della guerra fatalisticamente vista come un fatto inevitabile, quando non come una necessità, non si limita alla contestazione critica. Lo impone la considerazione, maturata in modo diffuso negli anni del riarmo nucleare della “guerra fredda”, che una guerra termonucleare altro non potrebbe essere che la fine dell’umanità. Uno spettro sottovalutato dall’etica politica (ne abbiamo purtroppo avuto disarmante testimonianza proprio in questi giorni) che continua a nutrirsi dei miti ancestrali della potenza e della violenza bellica. La sua condanna senza appello della guerra si completa con una proposta di una “filosofia della pace” capace di andare oltre il solo appello etico, riprendendo Kant afferma quindi che …… anche se non sappiamo se la pace perpetua sia una cosa reale o un non senso dobbiamo agire sul fondamento di essa, come se la cosa fosse possibile …… Vale a dire agire concretamente ispirati da un “pacifismo attivo”, finalizzato in particolare ad un “pacifismo istituzionale” basato su un potere terzo (Onu?) dotato di reali strumenti per dirimere le controversie tra Stati ed impedire lo scoppio di conflitti armati. Va detto, per completezza di informazione, che lo stesso Bobbio ebbe comunque modo di “giustificare” la Guerra del Golfo del 1990 e di lasciare spiragli di approvazione per la cosiddetta “guerra umanitaria”.

 

Esiste quindi una qualche concreta prospettiva di avviare, magari coniugando le considerazioni che ci offrono antropologia, psicologia, filosofia, un vero percorso di superamento della guerra come strumento di regolazione dei conflitti tra uomini e Stati? In questa modesta sintesi non è stato possibile individuarla. L’augurio è che questo insuccesso sia dipeso solo da limiti di osservazione e non dalla sua inesistenza 







 


1 commento:

  1. La parola del Mese come poteva non mettere in scena la GUERRA, che purtroppo risulta una costante per un problema ricorrente dalla notte dei tempi, cioè perché la soluzione di inevitabili conflitti tra “vicini” non intravede altre soluzioni che le azioni belliche? ( diceva, mi sembra Abbagnano, che siamo come i porcospini : separati ci cerchiamo e poi inevitabilmente ci pungiamo) Evidentemente abbiamo un problema : l’incapacità della gestione “pacifica” dei conflitti o meglio l’incapacità dell’arte del compromesso e di una civile convivenza .
    Si potrebbe indagare su questo tema? Jared Diamond ha tentato un’analisi in CRISI. Esistono altri studi in merito?
    grazie
    maria letizia

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