sabato 15 luglio 2023

Il "Saggio" del mese - Luglio 2023

 

Il “Saggio” del mese

 LUGLIO 2023

Ad essere precisi, secondo i rigidi canoni della saggistica europea, questo testo non è un vero Saggio, potrebbe magari essere classificato come inchiesta, reportage. (la pubblicistica americana è più elastica in questo senso avendo di base due sole categorie: la fiction, ossia la narrativa e la poesia, e la non fiction, e cioè tutto il resto). Ma poco importa perché il testo scelto per questo mese ci offre interessanti spunti su una problematica a noi vicina, fisicamente vicina, ed il suo titolo già bene anticipa il punto di vista del suo autore

ed il suo autore è Marco Albino Ferrari

[Giornalista professionista, scrittore, sceneggiatore, divulgatore. Ha diretto per il Corriere della Sera la collana "Storie di Montagna". È Direttore Editoriale e Responsabile Attività Culturali per il Club Alpino Italiano. Ha vinto i premi Gambrinus, Premio Cortina, Premio Majella. Con il suo romanzo “Mia sconosciuta” (Ponte alle Grazie) ha vinto nel 2021 il Premio ITAS del Libro di Montagna]

 

Come già precisato nel sottotitolo il libro di Ferrari non è per nulla l’ennesima elegia della bellezza della montagna, delle Alpi, ma è una appassionata ricostruzione di come, a partire dal secondo dopoguerra, questa bellezza e la cultura umana che l’ha abitata per secoli siano state travolte da radicali processi di trasformazione. L’impatto del cambiamento climatico sta mettendo ancor più in evidenza la fallacia, la follia, delle logiche che li hanno ispirati e guidati imponendo un ripensamento radicale

PARTE PRIMA = In viaggio con il sole

Due processi, fra di loro collegati, hanno, a partire dal secondo dopoguerra, sconvolto le Alpi, per secoli, millenni, un ambiente naturale, una economia, una società, una cultura di fatto immobili ai margini del procedere umano.  Ancora agli inizi del secolo scorso si presentavano come un mondo a sé, tanto incontaminato, selvaggio, quanto ostile, difficile per i pochi che le abitavano, costretti a dure esistenze di fatto rimaste sempre simili. Per un possibile cambiamento ben poco avevano inciso prima l’attenzione elegiaca del Romanticismo ottocentesco, con i suoi fautori che le percorrevano rapiti e meravigliati, e poi i primi timidi, ed elitari, insediamenti sorti fra fine Ottocento e primi decenni del Novecento, per il “buen retiro” delle classi agiate e delle elite culturali (molte della valli alpine ancora conservano le grandi ville e alberghi di quel periodo). E’ in questo fisso quadro storico che a cavallo di metà Novecento irrompono questi due processi entrambi figli dell’industrializzazione spinta, della più generale crisi dell’agricoltura tradizionale, e del diffondersi di un crescente benessere consumistico di massa: da una parte  lo “spopolamento delle montagne

l’industrializzazione delle pianure sottostanti l’arco alpino aveva già iniziato nella prima metà del secolo ad attrarre manodopera “alpina” dalle montagne circostanti, stanti le migliori condizioni di vita e di reddito,  ma non ancora in misura tale da modificarne la struttura economica e sociale

dall’altra la nascita del “turismo da montagna”, soprattutto nella sua versione sciistica,

le prime pioneristiche stazioni sciistiche erano sorte ad inizio Novecento, ma è solo a partire dagli anni Venti/Trenta che, soprattutto in Francia,  diventano un fenomeno di una certa consistenza. In questo stesso periodo, nel 1931/1932, inizia la costruzione del centro del Sestriere, capofila dell’industria sciistica italiana

Ma è per l’appunto solo nel secondo dopoguerra, ed in particolare a partire dagli anni Sessanta, che questi due processi conoscono una impressionante esplosione: quelle Alpi sempre più abbandonate dai tradizionali residenti (con una intensità tale da preoccupare i vari governi interessati) diventano oggetto di conquista del turismo di montagna. E’ soprattutto in Francia che si può cogliere questo loro stretto intreccio: nel 1964 viene infatti varato dal Governo francese il “Plan neige”, finalizzato alla creazione di stazioni sciistiche cosiddette integrate(impianti di risalita, alloggi, hotel, servizi vari), facilmente raggiungibili grazie a nuove e adeguate strade, che si prefiggevano ufficialmente lo scopo di creare una nuova economia di montagnacapace di frenare il preoccupante spopolamentodelle vallate alpine. La grandeur francese dà il meglio di sé: nel giro di pochi anni sorgono diverse decine di stazioni integrate (attorniate da autentici grattacieli e da giganteschi palazzoni dormitorio spesso però disegnati a triangolo in sintonia che le montagne), la più grande colata di cemento e asfalto mai vista sulle Alpi. In Italia in questi stessi anni ci si muove nella stessa direzione e con lo stesso scopo, ma all’italiana, non esiste un piano coordinato, investitori e enti locali si muovono in modo disordinato e improvvisato. Non cambia però il risultato: nel giro di pochi anni anche il versante italiano delle Alpi vede una impetuosa nascita di stazioni appena un poco meno “integrate” (si registra invece un ritmo meno accelerato e intenso nelle le vallate svizzere, tedesche, austriache, mentre è del tutto assente in quelle dell’ex Jugoslavia). Il racconto di Ferrari parte da qui, da questa svolta, dalle ragioni che la spiegano e dalle modalità con le quali si è concretizzata, e lo fa prendendo le mosse dalla odierna desolazione delle rovine di una di queste stazioni, Viola St. Gréé in provincia di Cuneo (alta Val Tanaro). E’ esemplare la delibera con la quale proprio nel 1964 il Comune di Viola approvava, con la speranza di una ricaduta occupazionale, il progetto privato della costruzione di una stazione sciistica, con tutti i suoi annessi, si delibera considerata la perdita di abitanti (meno 50%) soprattutto giovani emigrati visto il misero reddito pro capite …. Cinquant’anni dopo, vissuti a malapena due/tre decenni di relativo successo, Viola capoluogo, comune a 1.000 metri di altitudine e quindi molto esposto agli effetti del cambiamento climatico, conta 25 abitanti che vivono accanto a ciò che resta, ben poco, di quella stazione. Viola St Gréé è solo un caso emblematico di un fenomeno che ha interessato praticamente tutte le stazioni sciistiche alpine con tali caratteristiche, e che pone quindi una riflessione sul senso e sulla reale ricaduta delle illusioni di allora.  Per capirlo non è però sufficiente ricostruire il suo concreto procedere storico (aspetto sul quale Ferrari tornerà in dettaglio successivamente) occorre anche mettere a fuoco “l’idea di montagna” che ha consentito quello che non è possibile definire in altro modo che in un vero e proprio “assalto alle Alpi”. Le Alpi sono una straordinaria concentrazione, con dimensioni geografiche tutto sommato limitate, di tutti i tratti che definiscono una catena montuosa: ghiacciai, torrenti e fiumi impetuosi, cattedrali di roccia, larghe e lunghe vallate, intricate vallette laterali, foreste e boschi, altipiani carsici, che partono da Est e si chiudono ad Ovest con scogliere a picco sul mare. Per esplorare questo straordinario concentrato non basta una geografia fisica, ne occorre per l’appunto una “mentale capace di cogliere “la componente immateriale che si sovrappone a quella materiale” e di preparare un ripensamento del rapporto tra “spazio e vita umana”. Occorre cioè ridefinire una coerente e sostenibile idea di Alpi capace di fare ordinata sintesi dei tanti, e fra di loro contrastanti, modi di vederle che si sono fin qui succeduti: meta ludica per sport della neve? luogo del sublime per escursioni e arrampicate? patria della vita quotidiana di chi ci è nato e ci vive? paradiso di pura natura per sensibilità ecologiche? deposito secolare di saperi autonomi? valore in sé da preservare? elemento da piegare a logiche di profitto? immagine di pura bellezza da cristallizzare? ostacolo naturale da violare forandolo e scavalcandolo? Sono solo alcune delle tante interpretazioni che si sono confrontate, e tuttora si confrontano, ma che hanno comunque già prodotto gli attuali concreti impatti su cui riflettere per meglio capire la giusta direzione. Ferrari immagina, per costruire una fotografia riassuntiva di quanto sin qui successo, di risalire a bordo di un fantastico aereo l’intero arco alpino da Est a Ovest. E in questo volo individua singole aree in cui di più si sono concentrati aspetti che, in misura più o meno accentuata, interessano comunque tutte le Alpi:

*   l’altopiano carsico, le valli del Fella e del Tagliamento, sono “la regione dell’abbandono”, qui la migrazione verso la piana ha letteralmente desertificato l’intera zona

*   già si avvistano le Dolomiti, i neogotici Monti Pallidi, dove si è realizzata una delle massime concentrazioni di impianti sciistici delle Alpi e quindi del pianeta, con l’annesso bagaglio di cavi d’acciaio sospesi, ferite larghe nei boschi, stazioni di partenza ed arrivo (chiuse otto mesi all’anno) un esercito di seimila cannoni e centonovanta bacini di raccolta acqua

*   il paesaggio altoatesino del “maso chiuso” (una proprietà terriera concentrata attorno ad una casa, una famiglia, un capofamiglia) fatti di prati verde smeraldo, boschi in ordinati filari, case e baite isolate, terrazzamenti ben conservati

*   le vallate boschive del Parco Naturale Adamello Brenta (lo Yellowstone alpino) sede della controversa e discutibilissima re-immissione in natura di grandi predatori (l’orso Yoghi) scomparsi da tempo 

*   i ghiacci dello Stelvio-Ortles-Cevedale-Adamello, la più grande e sconvolgente eredità della guerra in montagna (gallerie, trincee, muri di cemento ormato, reticolati, buche e crateri)

*   ai piedi delle spettacolari pareti di granito delle Orobie la più grande (e incontrollata) concentrazione di seconde case (in molti comuni le case occupate stabilmente sono meno del dieci per cento delle abitazioni) a disposizione, sempre più occasionale, degli abitanti delle grandi città lombarde

*   la vasta regione attorno al San Gottardo, da cui nascono lunghi e grandi fiumi (il Reno verso il Nord, il Ticino verso il Po, il Rodano verso il Mediterraneo) e dove sono stati realizzati grandi impianti idroelettrici a testimoniare il ruolo prezioso delle Alpi nel ciclo dell’acqua

*   le cosiddette “Grandi Alpi” la concentrazione dei quattromila metri alpini e di grandi ghiacciai, il paradiso, anche simbolico (la sagoma del Cervino), del turismo alpino e dell’alpinismo di quota, spesso declinato come anti-città

*    superato il Gran Paradiso (il più antico parco nazionale) si riaffaccia prepotente l’industria dello sci su scala mega-industriale; nelle valli che dalla Valle d’Aosta si susseguono fin verso il Monviso è stato realizzato il terzo comprensorio sciistico d’Europa (la Via Lattea da sola conta oltre quattrocento chilometri di piste servite da una settantina di impianti)

*   al termine si vira sulle Alpi Marittime e Liguri, dove si incontra il ghiacciaio alpino più meridionale quello del Clapier (uno dei centosette del solo Piemonte)  simbolo, ormai morente, della sparizione dei ghiacciai

Il volo è stato fatto di giorno per meglio cogliere questi tratti emblematici, se lo si ripetesse  a gran velocità di notte si coglierebbe, appena oltre i fondovalle lungo tutta la Pianura Padana, un susseguirsi ininterrotto di punti luminosi più o meno intensi, a formare un’unica grande luce, con accanto, risalendo le valli alpine, un mare buio, nel quale qua e là a malapena si colgono fievoli luci, testimoni dello spopolamento e dell’oblio di tutte le zone non interessate dal turismo, ormai più abitate da animali selvatici, (che si muovono in una superficie boschiva che è raddoppiata dal dopoguerra ad oggi. Il minimo storico di foreste alpine e di animali selvatici si era registrato a fine Ottocento) che da uomini. Al termine di questo fantasioso volo in orizzontale è però ancora necessario, per delineare questa possibile idea di Alpi, percorrerle temporalmente in verticale per meglio mettere a fuoco quale umanità le abbia a lungo abitate. Un personaggio di un cartoon di impressionante successo mondiale, Heidi  (orfanella di fine Ottocento, immagine stereotipata con le sue caprette di una montagna rassicurante, protettrice, retta dalle chiare leggi della natura contrapposte a quelle complicate della cultura delle grigie città) è perfetto per indagare come si è invece davvero da sempre vissuto sulle Alpi e quali eredità ci consegna questa lunga storia. Una vera Heidi fa la sua comparsa sull’intero arco alpino a partire dall’ “optimum climaticum” medioevale: nei secoli XI e XII una fase climatica fatta di temperature più miti consente l’inizio di insediamenti umani via via più stabili e più consistenti. La vera e propria civiltà degli alpigiani parte quindi dal Basso Medioevo. Come meglio si vedrà analizzandoli in dettaglio già emergono alcuni aspetti di una cultura che si manterrà stabile, fissa, sostanzialmente fino al Novecento. Ancora a fine Ottocento la vera Heidi è innanzitutto una “sopravvissuta”, le condizioni materiali di esistenza hanno lungo tutti questi secoli costantemente implicato una impressionante mortalità infantile (le prime vere indagini statistiche di fine Ottocento ancora riportano percentuali del 25/30% di bimbi morti nei primi anni di vita).  La famiglia alpina è sempre stata una famiglia molto numerosa, servivano braccia e per averne a sufficienza si facevano tanti figli per compensare i molti che, già si sapeva, non sarebbero sopravvissuti. La vera Heidi di fine Ottocento viveva poi una vita quotidiana molto simile a quella di una Heidi del Basso Medioevo, le condizioni di mera sopravvivenza hanno costantemente impedito vere innovazioni e cambiamenti, che per definizione implicano un rischio di insuccesso che in questo caso però voleva autenticamente dire fame e morte. Condizioni di vita immutate, ed immutabili, hanno significato cicli temporali altrettanto ripetitivi, sempre uguali, dettati dal mutare delle stagioni, e hanno impedito spostamenti, si moriva dove si era nati, e ci si sposava fra gente della stessa parte della valle (da qui “l’endogamia”, lo scarso scambio genetico con il suo pesantissimo strascico di malattie ereditarie). La chiusura su sé stesse di tutte le comunità alpine ha pesantemente inciso sul regime delle proprietà, nessun forestiero veniva a comprare terre o pascoli e se mai fosse venuto non avrebbe trovato venditori

un tratto che è persistito fino ai nostri giorni tanto da essere ancora oggi di impedimento ad insediamenti più estensivi, una delle condizioni essenziali per un rilancio dell’agricoltura alpina. In molte valli è ormai persino impossibile risalire ai proprietari eredi degli infiniti frazionamenti catastali dei fondi. L’unica eccezione è rappresentata dalla cultura del “maso chiuso” sudtirolese che ha sempre sancito la trasmissione dell’intera proprietà al primogenito

La vera Heidi dell’Ottocento corre con le sue caprette (anche se ben di rado trovava tempo per giocare) in un paesaggio alpino laboriosamente modificato lungo tutti questi secoli: spietramenti, terrazzamenti, disboscamenti, dissodamenti, opere di rinforzo e contenimento, sono lo straordinario risultato di decine e decine di generazioni che con una fatica immane, e sopportabile solo con l’unione e la collaborazione dell’intera comunità (che ancor meglio spiega l’attaccamento a terre così faticosamente conquistate) hanno conformato il paesaggio alpino con prati, campi, boschi, pascoli (l’insieme dei muri di contenimento e terrazzamento, patrimonio Unesco, è una colossale opera umana paragonabile alla Muraglia Cinese). La vera Heidi sarebbe vissuta in comunità così chiuse e isolate da imporre una totale autarchia, ognuna doveva bastare a sé stessa, da qui i tanti mestieri di “filiera” e lo sviluppo di autonome culture etnologiche. Allo stesso modo si sono conformati anche i tratti delle culture immateriali, i lunghi mesi di inverno con il ripetersi infinito dei soliti discorsi hanno generato idee, credenze, paure, superstizioni, mai messe alla prova con il mondo fuori, e divenute così, assieme alla devozione cristiana, patrimonio intoccabile e indiscutibile, ma non per questo infallibile. Le sole aperture all’esterno sono state provocate dalle emigrazioni forzate imposte dai periodi di carestia e di annate storte. La storiografia classica delle Alpi è per questo aspetto suddivisa in due fasi principali: quella delle cosiddette “Alpi aperte”, con clima sostanzialmente mite che ha consentito una qual certa sostenibilità, durata dall’Optimum Climaticum fino al XV secolo, e quella delle “Alpi chiuse”, segnate invece dal ritorno del freddo della piccola era glaciale durata fino al primo Ottocento. Ed è in questa fase che, inevitabilmente, si sono verificate ondate emigratorie anche consistenti, che hanno poi assunto, nella fase ottocentesca di prima espansione agricola e pre-industriale, il carattere di “emigrazioni stagionali nei mesi invernali (che hanno inoltre contribuito a creare veri e propri “mestieri”, dagli spazzacamini ai seggiolai, alle fabbricatrici di parrucche). Un flusso di braccia da lavoro, stagionale o permanente che sia stato, tale da far definire le Alpi: “fabbrica di uomini”. Questo quadro antropologico, qui percorso velocemente in verticale seguendo una vera Heidi, ha comunque sempre avuto un suo fondamentale punto costitutivo: la ricerca costante di un equilibrio nel rapporto tra uomo e ambiente. Un equilibrio innanzitutto demografico, non si poteva e non si doveva essere nè troppi né troppo pochi, e poi anche con la montagna stessa, alla quale non si poteva chiedere di più di quello che poteva dare, sfruttarla troppo un anno voleva dire mancanza in quello successivo. Tutta la cultura alpina, così come si è venuta a conformare dall’Optimum Climaticum fino allo stravolgimento provocato dai due processi di cui si è detto, trova pertanto definizione in un radicato “senso del limite e della misura”. Un  modo di pensare, di concepire il posto dell’uomo nella natura,  che è fondamentale per  l’idea di Alpi che stiamo inseguendo, è al contrario proprio quello che si è perduto, che è venuto a mancare, che si è disperso, nei decenni dell’ assalto alle Alpi. Questi decenni possono essere distinti in due fasi: una prima che, come si è visto, inizia nel primi anni Sessanta per durare fino alla fine degli anni Ottanta, ed una seconda che da questi parte per arrivare ai giorni nostri. Nella prima l’euforia consumistica del tempo attiva intensi, e quasi mai ordinati (con l’eccezione della Francia) interventi di costruzione di stazioni più o meno integrate che interessano l’intero arco alpino coinvolgendo la media e l’alta montagna. Ma già a partire da fine anni Ottanta gli effetti incalzanti del riscaldamento climatico globale iniziano a farsi sentire anche sulle Alpi: nevica sempre più sporadicamente, sempre di meno e sempre più solo in alto, con neve che non solidifica viste le alte temperature. Nel giro di pochi anni entra così in crisi definitiva l’industria dello sci nelle basse e medie valli, travolgendo l’assetto socio-economico, già del suo molto fragile, che si era costruito attorno ad essa, mentre quelle di alta quota, più fortunate, devono comunque reinventarsi con ipertecnologici impianti di risalita che raggiungono altitudini, meglio innevate, mai toccate prima, ed al tempo stesso dotarsi a buon pro di adeguati impianti di produzione neve artificiale.

Così Paolo Cognetti ha scritto a proposito della creazione di piste da sci attorno al Monte Rosa  Ma lo sanno gli sciatori come si fa una pista da sci? Io credo di no, perché altrimenti molti di loro non sosterrebbero di amare la montagna mentre la violentano. Una pista si fa così: si prende un versante della montagna che viene disboscato se è un bosco, spietrato se è una pietraia, prosciugato se è un acquitrino; i torrenti vengono derivati o incanalati, le rocce fatte saltare, i buchi riempiti di terra; e si va avanti a scavare, estirpare e spianare finché quel versante della montagna assomiglia soltanto a uno scivolo dritto e senza ostacoli. Poi lo scivolo va innevato, perché è ormai impossibile affrontare l’inverno senza neve artificiale: a monte della pista viene scavato un enorme bacino, riempito con l’acqua dei torrenti d’alta quota e con quella dei fiumi pompata dal fondovalle, e lungo l’intero pendio vengono posate condutture elettriche e idrauliche, per alimentare i cannoni piantati a bordo pista ogni cento metri. Intanto decine di blocchi di cemento vengono interrati; nei blocchi conficcati piloni e tra un pilone e l’altro tirati cavi d’acciaio; all’inizio e alla fine del cavo costruite stazioni di partenza e d’arrivo dotate di motori: questa è la funivia. Mancano solo i bar e i ristoranti lungo il percorso, e una strada per servire tutto quanto. I camion e le ruspe e i fuoristrada. Davvero non lo sanno? Non vedono che non c’è più un animale né un fiore, non un torrente né un lago né un bosco, e non resta nulla del paesaggio di montagna dove passano loro?

Il congiunto impatto di questi due fenomeni ha, seppure con diverse modalità, messo definitivamente ai margini una cultura secolare, ha stravolto un paesaggio costruito con fatiche inenarrabili, ha persino cancellato il ciclo naturale del tempo (dalle canoniche quattro stagioni si è passati alla alta e bassa stagione). E l’assalto è lungi dall’essere finito, anzi! Ancora adesso, anche a fronte della crescente insostenibilità climatica, l’assalto persiste, è un continuo fiorire di mega progetti di ampliamento dei comprensori, di costruzione di infrastrutture impiantistiche. Le stesse Olimpiadi 2026 di Milano-Cortina rappresentano l’ennesimo apice di questa sempre più assurda frenesia, sono l’ennesima conferma di una mentalità che rifiuta di fare i conti con le innegabili opposte evidenze

Nonostante il richiamo del CIO (Comitato Olimpico Internazionale) e nonostante i precedenti della Olimpiadi piemontesi del 2006 l’elenco delle opere, pubbliche e private, che si stanno mettendo in cantiere è spaventoso. Il caso più eclatante ed emblematico è quello della nuova pista da bob: scartato, per ragioni di campanile, il recupero di quella, inutilizzata da anni, di Cesana, si stanno definendo soluzioni che implicano spese folli e impatti sconvolgenti per uno sport che in Italia, mettendo insieme bob-slittino-skeleton, conta normalmente 34 praticanti

Ancora merge quindi una cecità interessata che si rifiuta di vedere che, passati ormai sessant’anni, l’assalto alle Alpi non ha realizzato i suoi obiettivi sociali (lo spopolamento delle valli non si è arrestato), economici (la ricchezza generata dall’industria turistica alpina ha interessato molto marginalmente i valligiani e ha premiato i finanziamenti privati), culturali (quella alpina originaria, con tutti i suoi limiti, è stata semplicemente sostituita dall’esaltazione dell’edonismo consumistico e del profitto di chi lo gestisce). Con un di più che sa di beffa: la freddezza estetica del modernismo anni Sessanta ha perso da tempo il suo presunto fascino, cosa meglio allora del recupero folcloristico dei vecchi stili e arnesi alpini per sostituirla? Ed ecco che il moderno, ormai roba antiquata, ben presto è stato sostituito da un insostenibile, e persino offensivo, ritorno alla “autenticità alpina”. I baldanzosi grattacieli di sessant’anni fa sono stati via via sostituiti da villaggi di chalet svizzeri, da baite in pietra, da alberghi e ristoranti pieni zeppi di paioli in rame, di attrezzi agricoli appesi ai muri e soffitti, i messaggi pubblicitari parlano di “sapori tipici”, di “paesaggi mozzafiato”, di “totale contatto con la natura” E’ il trionfo della falsa Heidi. Accanto a questa un’altra beffa si è manifestata. Queste parodie del vivere alpino raccolgono riconoscimenti a bizzeffe: stelle Michelin, bandiere arancioni del TCI, e persino il prestigioso riconoscimento di “patrimonio Unesco”, un riconoscimento che, sicuramente animato dalla buona intenzione di riconoscere e tutelare un valore dell’umanità, è in effetti diventato un brand commerciale aggiuntivo per finanziamenti privati che ben poco hanno a cuore la tutela di tale valore.

Questa sterile logica muove anche i finanziamenti del Ministero dei Beni Culturali assegnati per il rilancio dei borghi alpini che premiano specifici progetti di recupero di borghi abbandonati e isolati. Ad esempio, in Piemonte, nel 2022 è stato finanziato, con ben 20 milioni di euro, il progetto di rilancio del comune di Elva, tristemente famoso per essere stato negli anni Ottanta il “comune più povero” d’Italia. Sono previsti una sede distaccata dell’Università di scienze enogastronomiche di Pollenzo, un centro studi di apicoltura, un osservatorio astronomico, una scuola di pastorizia, un museo dedicato a Hans Clemer, il pittore fiammingo autore degli splendidi affreschi della pastorale di Elva. Tutto ottimo, ed è sperabile che nulla vada sprecato, ma questa Elva così trasformata non rischia di essere, se così sarà, un’isola felice, un unicum nel contesto della Valle Maira, quella che la ospita, condannata a restare nella sua attuale emarginazione?

Alcuni confortanti fenomeni di segno opposto si stanno manifestando e rivelano una idea di Alpi totalmente diversa. Lo è quello di un turismo escursionistico che percorre le valli rispettoso dell’ambiente e delle tracce storiche che lo caratterizzano. Lo è quello di un “ritorno alla terra” che porta giovani al recupero di abitazioni antiche ed al rilancio di attività agricole e di pastorizia. Lo è quello di associazioni, a partire dal CAI, che curano il ripristino di antichi sentieri per promuovere un turismo che dia sostegno ai rifugi minori, alle piccole imprese locali. Lo è quello di piccoli comuni montani che si offrono come oasi di silenzio, tranquillità e offerta culturale per una crescente domanda ormai stanca del gigantismo turistico. Tutti, ed altri ancora, indicano che lentamente nel vuoto scavato dalla fine, senza rimedio, dell’antico modo di abitarle e dal devastante assalto ai suoi pendii, si sta delineando un’idea alternativa del modo di vivere le Alpi. Occorre però agire in fretta e con chiare visioni alternative in tempi ormai pesantemente segnati dall’emergenza ambientale e climatica.

ben testimoniata dalla pratica diffusa delle “fotografie diacroniche”. Lungo tutto l’arco alpino sono stati individuati, e segnalati con appositi paletti, dei punti strategici per scattare, con frequenza regolare, foto che immortalano la morte dei ghiacciai, piuttosto che il lento franare di cime e costoni

La suicida ostinazione di tenere in vita ad ogni costo l’industria dello sci e del turismo di massa, ancora considerate le uniche vocazioni montane praticabili deve essere fermata da subito. Vanno bloccati tutti gli assurdi progetti di ulteriore allargamento dei grandi comprensori, ormai avvitati in una spirale di reciproca concorrenza non più sostenuta da una domanda adeguata (il numero di praticanti è in costante diminuzione, al momento rinsaldato almeno in parte dall’arrivo dei nuovi “ricchi” dei paesi dell’Est), la cui unica finalità, svanita da tempo la ricaduta capillare sulla popolazione locale, è il ritorno in termini di profitto dei sempre più consistenti necessari investimenti

Si stanno diffondendo pratiche disperate di conservazione della materia prima per questa industria: in molti ghiacciai svizzeri e italiani la parte utilizzata per le piste viene d’estate coperta con teli geotessili per contrastare il più possibile il loro scioglimento. In parte funzionano, ma appare evidente che non è certo questo il modo di salvare i ghiacciai alpini, oltretutto ottenuto con l’utilizzo di materie plastiche certo non “rinnovabili”

E’ quindi necessario che quantomeno il “pubblico”  faccia sua, regolandosi di conseguenza, la consapevolezza che l’industria dello sci, nelle sue attuali esasperate forme, è destinata a morire per incompatibilità ambientale e per i collegati costi sempre più insostenibili. E che, conseguentemente, passi a sostenere le sempre più diffuse esperienze virtuose mosse da una diversa idea di ri-occupazione delle valli all’insegna della “diffusione” e non della “concentrazione”, dal valore del “piccolo” e non del “grande richiamo”. E’ sempre più tempo che lo stantio slogan “valorizzare la montagna” sia, da parte di Presidenti di Regione, sindaci e assessori, declinato abbandonando infausti gigantismi per recuperare, con interventi minimi, diffusi, compatibili, il “valore” che le Alpi, la montagna, già possiedono del loro. Evitando inoltre di muoversi con la logica, quella che ha guidato l’assalto, di una forzata omogeneizzazione basata su una sola idea di Alpi, che al contrario sono una straordinaria raccolta di peculiarità, ambientali e culturali, ognuna delle quali richiede attenzioni altrettanto specifiche.



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