Il “Saggio” del mese
LUGLIO 2023
Ad
essere precisi, secondo i rigidi canoni della saggistica europea, questo testo non
è un vero Saggio, potrebbe magari essere classificato come inchiesta, reportage.
(la
pubblicistica americana è più elastica in questo senso avendo di base due sole
categorie: la fiction, ossia la narrativa e la poesia, e la non fiction, e cioè
tutto il resto).
Ma poco importa perché il testo scelto per questo mese ci offre interessanti spunti
su una problematica a noi vicina, fisicamente vicina, ed il suo titolo già bene
anticipa il punto di vista del suo autore
ed
il suo autore è Marco Albino Ferrari
[Giornalista
professionista, scrittore, sceneggiatore, divulgatore. Ha diretto per il
Corriere della Sera la collana "Storie di Montagna". È Direttore
Editoriale e Responsabile Attività Culturali per il Club Alpino Italiano. Ha
vinto i premi Gambrinus, Premio Cortina, Premio Majella. Con il suo romanzo “Mia sconosciuta” (Ponte alle
Grazie) ha vinto nel 2021 il Premio ITAS del Libro di Montagna]
Come già precisato nel sottotitolo il libro di Ferrari non è per
nulla l’ennesima elegia della bellezza della montagna, delle Alpi, ma è una
appassionata ricostruzione di come, a partire dal secondo dopoguerra, questa
bellezza e la cultura umana che l’ha abitata per secoli siano state travolte da
radicali processi di trasformazione. L’impatto del cambiamento climatico sta
mettendo ancor più in evidenza la fallacia, la follia, delle logiche che li
hanno ispirati e guidati imponendo un ripensamento radicale
PARTE PRIMA = In viaggio con il sole
Due processi, fra di
loro collegati, hanno, a partire dal secondo dopoguerra, sconvolto le Alpi, per
secoli, millenni, un ambiente naturale, una economia, una società, una cultura di
fatto immobili ai margini del procedere umano. Ancora agli inizi del secolo scorso si
presentavano come un mondo a sé, tanto incontaminato, selvaggio, quanto ostile,
difficile per i pochi che le abitavano, costretti a dure esistenze di fatto
rimaste sempre simili. Per un possibile cambiamento ben poco avevano inciso prima
l’attenzione elegiaca del Romanticismo ottocentesco, con i suoi fautori che le
percorrevano rapiti e meravigliati, e poi i primi timidi, ed elitari, insediamenti
sorti fra fine Ottocento e primi decenni del Novecento, per il “buen retiro”
delle classi agiate e delle elite culturali (molte della valli alpine ancora conservano le grandi ville e
alberghi di quel periodo). E’ in questo fisso quadro storico che a cavallo di metà Novecento
irrompono questi due processi entrambi figli dell’industrializzazione spinta,
della più generale crisi dell’agricoltura tradizionale, e del diffondersi di un
crescente benessere consumistico di massa: da una parte lo “spopolamento delle montagne”
l’industrializzazione delle pianure sottostanti l’arco alpino
aveva già iniziato nella prima metà del secolo ad attrarre manodopera “alpina”
dalle montagne circostanti, stanti le migliori condizioni di vita e di
reddito, ma non ancora in misura tale da
modificarne la struttura economica e sociale
dall’altra la nascita
del “turismo
da montagna”, soprattutto nella sua versione sciistica,
le prime pioneristiche stazioni sciistiche erano sorte ad inizio
Novecento, ma è solo a partire dagli anni Venti/Trenta che, soprattutto in
Francia, diventano un fenomeno di una
certa consistenza. In questo stesso periodo, nel 1931/1932, inizia la
costruzione del centro del Sestriere, capofila dell’industria sciistica
italiana
Ma è per l’appunto solo
nel secondo dopoguerra, ed in particolare a partire dagli anni Sessanta, che questi
due processi conoscono una impressionante esplosione: quelle Alpi sempre più
abbandonate dai tradizionali residenti (con una intensità tale da preoccupare i vari governi
interessati) diventano oggetto di conquista del turismo di montagna. E’ soprattutto
in Francia che si può cogliere questo loro stretto intreccio: nel 1964 viene infatti varato dal Governo francese il “Plan neige”, finalizzato alla creazione di stazioni sciistiche cosiddette “integrate” (impianti di risalita,
alloggi, hotel, servizi vari), facilmente raggiungibili grazie a nuove e adeguate strade, che
si prefiggevano ufficialmente lo scopo di creare una nuova “economia di montagna”
capace di frenare
il preoccupante “spopolamento” delle vallate alpine. La grandeur francese dà il meglio di sé:
nel giro di pochi anni sorgono diverse decine di stazioni integrate (attorniate da autentici
grattacieli e da giganteschi palazzoni dormitorio spesso però disegnati a
triangolo in sintonia che le montagne), la più grande colata di cemento e asfalto mai vista sulle
Alpi. In Italia in questi stessi anni ci si muove nella stessa direzione e con
lo stesso scopo, ma all’italiana, non esiste un piano coordinato, investitori e
enti locali si muovono in modo disordinato e improvvisato. Non cambia però il
risultato: nel giro di pochi anni anche il versante italiano delle Alpi vede
una impetuosa nascita di stazioni appena un poco meno “integrate” (si registra invece un
ritmo meno accelerato e intenso nelle le vallate svizzere, tedesche,
austriache, mentre è del tutto assente in quelle dell’ex Jugoslavia). Il racconto di Ferrari
parte da qui, da questa svolta, dalle ragioni che la spiegano e dalle modalità
con le quali si è concretizzata, e lo fa prendendo le mosse dalla odierna desolazione
delle rovine di una di queste stazioni, Viola St. Gréé in provincia di Cuneo (alta Val Tanaro). E’ esemplare la
delibera con la quale proprio nel 1964 il Comune di Viola approvava, con la
speranza di una ricaduta occupazionale, il progetto privato della costruzione
di una stazione sciistica, con tutti i suoi annessi, … si delibera
considerata la perdita di abitanti (meno 50%) soprattutto giovani emigrati
visto il misero reddito pro capite …. Cinquant’anni dopo,
vissuti a malapena due/tre decenni di relativo successo, Viola capoluogo,
comune a 1.000 metri di altitudine e quindi molto esposto agli effetti del
cambiamento climatico, conta 25 abitanti che vivono accanto a ciò che resta,
ben poco, di quella stazione. Viola St Gréé è solo un caso emblematico di un
fenomeno che ha interessato praticamente tutte le stazioni sciistiche alpine
con tali caratteristiche, e che pone quindi una riflessione sul senso e sulla
reale ricaduta delle illusioni di allora.
Per capirlo non è però sufficiente ricostruire il suo concreto procedere
storico (aspetto
sul quale Ferrari tornerà in dettaglio successivamente) occorre anche mettere
a fuoco “l’idea
di montagna” che ha consentito
quello che non è possibile definire in altro modo che in un vero e proprio “assalto alle Alpi”. Le Alpi sono una straordinaria
concentrazione, con dimensioni geografiche tutto sommato limitate, di tutti i
tratti che definiscono una catena montuosa: ghiacciai, torrenti e fiumi
impetuosi, cattedrali di roccia, larghe e lunghe vallate, intricate vallette
laterali, foreste e boschi, altipiani carsici, che partono da Est e si chiudono
ad Ovest con scogliere a picco sul mare. Per esplorare questo straordinario
concentrato non basta una geografia fisica, ne occorre per l’appunto una “mentale” capace di cogliere “la componente immateriale che si sovrappone a quella
materiale”
e di preparare un ripensamento del rapporto tra “spazio e vita umana”. Occorre cioè ridefinire
una coerente e sostenibile idea di Alpi capace di fare ordinata sintesi dei
tanti, e fra di loro contrastanti, modi di vederle che si sono fin qui
succeduti: meta ludica per sport della neve? luogo del sublime per escursioni e
arrampicate? patria della vita quotidiana di chi ci è nato e ci vive? paradiso
di pura natura per sensibilità ecologiche? deposito secolare di saperi
autonomi? valore in sé da preservare? elemento da piegare a logiche di
profitto? immagine di pura bellezza da cristallizzare? ostacolo naturale da
violare forandolo e scavalcandolo? Sono solo alcune delle tante interpretazioni
che si sono confrontate, e tuttora si confrontano, ma che hanno comunque già prodotto
gli attuali concreti impatti su cui riflettere per meglio capire la giusta
direzione. Ferrari immagina, per costruire una fotografia riassuntiva di quanto
sin qui successo, di risalire a bordo di un fantastico aereo l’intero arco
alpino da Est a Ovest. E in questo volo individua singole aree in cui di più si
sono concentrati aspetti che, in misura più o meno accentuata, interessano comunque
tutte le Alpi:
l’altopiano
carsico, le valli del Fella e del Tagliamento, sono “la regione dell’abbandono”,
qui la migrazione verso la piana ha letteralmente desertificato l’intera zona
già
si avvistano le Dolomiti, i neogotici Monti Pallidi, dove si è realizzata una delle
massime concentrazioni di impianti sciistici delle Alpi e quindi del
pianeta, con l’annesso bagaglio di cavi d’acciaio sospesi, ferite larghe nei
boschi, stazioni di partenza ed arrivo (chiuse
otto mesi all’anno) un esercito di seimila cannoni e
centonovanta bacini di raccolta acqua
il
paesaggio altoatesino del “maso chiuso” (una
proprietà terriera concentrata attorno ad una casa, una famiglia, un
capofamiglia) fatti di prati verde smeraldo, boschi
in ordinati filari, case e baite isolate, terrazzamenti ben conservati
le
vallate boschive del Parco Naturale Adamello Brenta (lo Yellowstone alpino)
sede della controversa e discutibilissima re-immissione in natura di grandi
predatori (l’orso
Yoghi) scomparsi da tempo
i
ghiacci dello Stelvio-Ortles-Cevedale-Adamello, la più grande e sconvolgente
eredità della guerra in montagna (gallerie,
trincee, muri di cemento ormato, reticolati, buche e crateri)
ai
piedi delle spettacolari pareti di granito delle Orobie la più grande (e incontrollata)
concentrazione
di seconde case (in
molti comuni le case occupate stabilmente sono meno del dieci per cento delle
abitazioni) a disposizione, sempre più
occasionale, degli abitanti delle grandi città lombarde
la
vasta regione attorno al San Gottardo, da cui nascono lunghi e grandi fiumi (il Reno verso il Nord, il Ticino verso
il Po, il Rodano verso il Mediterraneo) e dove sono stati
realizzati grandi impianti idroelettrici a testimoniare il ruolo prezioso
delle Alpi nel ciclo dell’acqua
le
cosiddette “Grandi Alpi” la concentrazione dei quattromila metri alpini e di
grandi ghiacciai, il paradiso, anche simbolico (la
sagoma del Cervino), del turismo alpino e dell’alpinismo di
quota, spesso declinato come anti-città
superato
il Gran Paradiso (il più antico parco
nazionale) si riaffaccia prepotente l’industria
dello sci su scala mega-industriale; nelle valli che dalla Valle d’Aosta
si susseguono fin verso il Monviso è stato realizzato il terzo comprensorio
sciistico d’Europa (la
Via Lattea da sola conta oltre quattrocento chilometri di piste servite da una
settantina di impianti)
al
termine si vira sulle Alpi Marittime e Liguri, dove si incontra il ghiacciaio alpino
più meridionale quello del Clapier (uno
dei centosette del solo Piemonte)
simbolo, ormai morente, della sparizione dei ghiacciai
Il
volo è stato fatto di giorno per meglio cogliere questi tratti emblematici, se
lo si ripetesse a gran velocità di notte
si coglierebbe, appena oltre i fondovalle lungo tutta la Pianura Padana, un
susseguirsi ininterrotto di punti luminosi più o meno intensi, a formare
un’unica grande luce, con accanto, risalendo le valli alpine, un mare buio, nel
quale qua e là a malapena si colgono fievoli luci, testimoni dello spopolamento
e dell’oblio di tutte le zone non interessate dal turismo, ormai più abitate da
animali selvatici, (che si muovono in una superficie
boschiva che è raddoppiata dal dopoguerra ad oggi. Il minimo storico di foreste
alpine e di animali selvatici si era registrato a fine Ottocento) che
da uomini. Al termine di questo fantasioso volo in orizzontale è però ancora
necessario, per delineare questa possibile idea di Alpi, percorrerle
temporalmente in verticale per meglio mettere a fuoco quale umanità le abbia a
lungo abitate. Un personaggio di un cartoon di impressionante successo
mondiale, Heidi (orfanella di fine
Ottocento, immagine stereotipata con le sue caprette di una montagna
rassicurante, protettrice, retta dalle chiare leggi della natura contrapposte a
quelle complicate della cultura delle grigie città) è perfetto
per indagare come si è invece davvero da sempre vissuto sulle Alpi e quali eredità
ci consegna questa lunga storia. Una vera Heidi fa la sua comparsa sull’intero
arco alpino a partire dall’ “optimum
climaticum” medioevale: nei secoli XI e XII una fase climatica fatta
di temperature più miti consente l’inizio di insediamenti umani via via più
stabili e più consistenti. La vera e propria civiltà degli alpigiani parte quindi
dal Basso Medioevo. Come
meglio si vedrà analizzandoli in dettaglio già emergono alcuni aspetti di una
cultura che si manterrà stabile, fissa, sostanzialmente fino al Novecento. Ancora
a fine Ottocento la vera Heidi è innanzitutto una “sopravvissuta”,
le condizioni materiali di esistenza hanno lungo tutti questi secoli
costantemente implicato una impressionante
mortalità infantile (le prime vere indagini statistiche
di fine Ottocento ancora riportano percentuali del 25/30% di bimbi morti nei
primi anni di vita). La
famiglia alpina è sempre stata una famiglia molto numerosa, servivano braccia e
per averne a sufficienza si facevano tanti figli per compensare i molti che,
già si sapeva, non sarebbero sopravvissuti. La vera Heidi di fine Ottocento
viveva poi una vita quotidiana molto simile a quella di una Heidi del Basso
Medioevo, le condizioni di mera sopravvivenza hanno costantemente impedito vere
innovazioni e cambiamenti, che per definizione implicano un rischio di
insuccesso che in questo caso però voleva autenticamente dire fame e morte.
Condizioni di vita immutate, ed immutabili, hanno significato cicli temporali
altrettanto ripetitivi, sempre uguali, dettati dal mutare delle stagioni, e hanno
impedito spostamenti, si moriva dove si era nati, e ci si sposava fra gente
della stessa parte della valle (da qui “l’endogamia”, lo scarso
scambio genetico con il suo pesantissimo strascico di malattie ereditarie).
La chiusura su sé stesse di tutte le comunità alpine ha pesantemente inciso sul
regime delle proprietà, nessun forestiero veniva a comprare terre o pascoli e
se mai fosse venuto non avrebbe trovato venditori
un tratto che è persistito fino ai
nostri giorni tanto da essere ancora oggi di impedimento ad insediamenti più estensivi,
una delle condizioni essenziali per un rilancio dell’agricoltura alpina. In
molte valli è ormai persino impossibile risalire ai proprietari eredi degli
infiniti frazionamenti catastali dei fondi. L’unica eccezione è rappresentata
dalla cultura del “maso chiuso” sudtirolese che ha sempre sancito la
trasmissione dell’intera proprietà al primogenito
La
vera Heidi dell’Ottocento corre con le sue caprette (anche se ben di rado
trovava tempo per giocare) in un paesaggio alpino laboriosamente
modificato lungo tutti questi secoli: spietramenti, terrazzamenti,
disboscamenti, dissodamenti, opere di rinforzo e contenimento, sono lo
straordinario risultato di decine e decine di generazioni che con una fatica
immane, e sopportabile solo con l’unione e
la collaborazione dell’intera comunità (che ancor meglio
spiega l’attaccamento a terre così faticosamente conquistate)
hanno conformato il paesaggio alpino con prati, campi, boschi, pascoli (l’insieme
dei muri di contenimento e terrazzamento, patrimonio Unesco, è una colossale
opera umana paragonabile alla Muraglia Cinese). La
vera Heidi sarebbe vissuta in comunità così chiuse e isolate da imporre una
totale autarchia, ognuna doveva bastare a sé stessa, da qui i tanti mestieri di
“filiera” e lo sviluppo di autonome culture etnologiche. Allo stesso modo si
sono conformati anche i tratti delle culture immateriali, i lunghi mesi di
inverno con il ripetersi infinito dei soliti discorsi hanno generato idee,
credenze, paure, superstizioni, mai messe alla prova con il mondo fuori, e
divenute così, assieme alla devozione cristiana, patrimonio intoccabile e
indiscutibile, ma non per questo infallibile. Le sole aperture all’esterno sono
state provocate dalle emigrazioni forzate imposte dai periodi di carestia e di
annate storte. La storiografia classica delle Alpi è per questo aspetto suddivisa
in due fasi principali: quella delle cosiddette “Alpi
aperte”, con clima sostanzialmente mite che ha consentito una qual
certa sostenibilità, durata dall’Optimum Climaticum fino al XV secolo, e quella
delle “Alpi chiuse”, segnate
invece dal ritorno del freddo della piccola era glaciale durata fino al primo
Ottocento. Ed è in questa fase che, inevitabilmente, si sono verificate ondate
emigratorie anche consistenti, che hanno poi assunto, nella fase ottocentesca
di prima espansione agricola e pre-industriale, il carattere di “emigrazioni stagionali nei mesi invernali”
(che
hanno inoltre contribuito a creare veri e propri “mestieri”, dagli spazzacamini
ai seggiolai, alle fabbricatrici di parrucche).
Un flusso di braccia da lavoro, stagionale o permanente che sia stato, tale da
far definire le Alpi: “fabbrica di
uomini”. Questo quadro antropologico, qui percorso velocemente in
verticale seguendo una vera Heidi, ha comunque sempre avuto un suo fondamentale
punto costitutivo: la ricerca
costante di un equilibrio nel rapporto tra uomo e ambiente. Un
equilibrio innanzitutto demografico, non si poteva e non si doveva essere nè
troppi né troppo pochi, e poi anche con la montagna stessa, alla quale non si
poteva chiedere di più di quello che poteva dare, sfruttarla troppo un anno voleva
dire mancanza in quello successivo. Tutta la cultura alpina, così come si è
venuta a conformare dall’Optimum Climaticum fino allo stravolgimento provocato
dai due processi di cui si è detto, trova pertanto definizione in un radicato “senso del limite e della misura”. Un modo di pensare, di concepire il posto
dell’uomo nella natura, che è
fondamentale per l’idea di Alpi che
stiamo inseguendo, è al contrario proprio quello che si è perduto, che è venuto
a mancare, che si è disperso, nei decenni dell’ assalto alle Alpi. Questi
decenni possono essere distinti in due fasi: una prima che, come si è visto,
inizia nel primi anni Sessanta per durare fino alla fine degli anni Ottanta, ed
una seconda che da questi parte per arrivare ai giorni nostri. Nella prima
l’euforia consumistica del tempo attiva intensi, e quasi mai ordinati (con
l’eccezione della Francia) interventi di costruzione di stazioni
più o meno integrate che interessano l’intero arco alpino coinvolgendo la media
e l’alta montagna. Ma già a partire da fine anni Ottanta gli effetti incalzanti
del riscaldamento climatico globale iniziano a farsi sentire anche sulle Alpi:
nevica sempre più sporadicamente, sempre di meno e sempre più solo in alto, con
neve che non solidifica viste le alte temperature. Nel giro di pochi anni entra
così in crisi definitiva l’industria dello sci nelle basse e medie valli, travolgendo
l’assetto socio-economico, già del suo molto fragile, che si era costruito
attorno ad essa, mentre quelle di alta quota, più fortunate, devono comunque reinventarsi
con ipertecnologici impianti di risalita che raggiungono altitudini, meglio
innevate, mai toccate prima, ed al tempo stesso dotarsi a buon pro di adeguati
impianti di produzione neve artificiale.
Così Paolo Cognetti ha
scritto a proposito della creazione di piste da sci attorno al Monte Rosa “Ma lo
sanno gli sciatori come si fa una pista da sci? Io credo di no, perché
altrimenti molti di loro non sosterrebbero di amare la montagna mentre la
violentano. Una pista si fa così: si prende un versante della montagna che
viene disboscato se è un bosco, spietrato se è una pietraia, prosciugato se è
un acquitrino; i torrenti vengono derivati o incanalati, le rocce fatte
saltare, i buchi riempiti di terra; e si va avanti a scavare, estirpare e
spianare finché quel versante della montagna assomiglia soltanto a uno scivolo
dritto e senza ostacoli. Poi lo scivolo va innevato, perché è ormai impossibile
affrontare l’inverno senza neve artificiale: a monte della pista viene scavato
un enorme bacino, riempito con l’acqua dei torrenti d’alta quota e con quella
dei fiumi pompata dal fondovalle, e lungo l’intero pendio vengono posate
condutture elettriche e idrauliche, per alimentare i cannoni piantati a bordo
pista ogni cento metri. Intanto decine di blocchi di cemento vengono interrati;
nei blocchi conficcati piloni e tra un pilone e l’altro tirati cavi d’acciaio;
all’inizio e alla fine del cavo costruite stazioni di partenza e d’arrivo
dotate di motori: questa è la funivia. Mancano solo i bar e i ristoranti lungo
il percorso, e una strada per servire tutto quanto. I camion e le ruspe e i
fuoristrada. Davvero non lo sanno? Non vedono che non c’è più un animale né un
fiore, non un torrente né un lago né un bosco, e non resta nulla del paesaggio
di montagna dove passano loro?
Il
congiunto impatto di questi due fenomeni ha, seppure con diverse modalità,
messo definitivamente ai margini una cultura secolare, ha stravolto un
paesaggio costruito con fatiche inenarrabili, ha persino cancellato il ciclo
naturale del tempo (dalle canoniche quattro stagioni si
è passati alla alta e bassa stagione). E l’assalto è lungi
dall’essere finito, anzi! Ancora adesso, anche a fronte della crescente
insostenibilità climatica, l’assalto persiste, è un continuo fiorire di mega
progetti di ampliamento dei comprensori, di costruzione di infrastrutture
impiantistiche. Le stesse Olimpiadi 2026 di Milano-Cortina rappresentano
l’ennesimo apice di questa sempre più assurda frenesia, sono l’ennesima
conferma di una mentalità che rifiuta di fare i conti con le innegabili opposte
evidenze
Nonostante il richiamo del CIO (Comitato
Olimpico Internazionale) e nonostante i precedenti della Olimpiadi piemontesi
del 2006 l’elenco delle opere, pubbliche e private, che si stanno mettendo in
cantiere è spaventoso. Il caso più eclatante ed emblematico è quello della
nuova pista da bob: scartato, per ragioni di campanile, il recupero di quella,
inutilizzata da anni, di Cesana, si stanno definendo soluzioni che implicano
spese folli e impatti sconvolgenti per uno sport che in Italia, mettendo
insieme bob-slittino-skeleton, conta normalmente 34 praticanti
Ancora
merge quindi una cecità interessata che si rifiuta di vedere che, passati ormai
sessant’anni, l’assalto alle Alpi non ha realizzato i suoi obiettivi sociali (lo
spopolamento delle valli non si è arrestato), economici (la
ricchezza generata dall’industria turistica alpina ha interessato molto
marginalmente i valligiani e ha premiato i finanziamenti privati), culturali
(quella
alpina originaria, con tutti i suoi limiti, è stata semplicemente sostituita
dall’esaltazione dell’edonismo consumistico e del profitto di chi lo gestisce).
Con un di più che sa di beffa: la freddezza estetica del modernismo anni Sessanta
ha perso da tempo il suo presunto fascino, cosa meglio allora del recupero
folcloristico dei vecchi stili e arnesi alpini per sostituirla? Ed ecco che il
moderno, ormai roba antiquata, ben presto è stato sostituito da un
insostenibile, e persino offensivo, ritorno alla “autenticità
alpina”. I baldanzosi grattacieli di sessant’anni fa sono stati via
via sostituiti da villaggi di chalet svizzeri, da baite in pietra, da alberghi
e ristoranti pieni zeppi di paioli in rame, di attrezzi agricoli appesi ai muri
e soffitti, i messaggi pubblicitari parlano di “sapori
tipici”, di “paesaggi
mozzafiato”, di “totale contatto
con la natura” E’ il trionfo della falsa Heidi. Accanto a questa
un’altra beffa si è manifestata. Queste parodie del vivere alpino raccolgono
riconoscimenti a bizzeffe: stelle Michelin, bandiere arancioni del TCI, e
persino il prestigioso riconoscimento di “patrimonio
Unesco”, un riconoscimento che, sicuramente animato dalla buona
intenzione di riconoscere e tutelare un valore dell’umanità, è in effetti diventato
un brand commerciale aggiuntivo per finanziamenti privati che ben poco hanno a
cuore la tutela di tale valore.
Questa sterile logica muove anche i
finanziamenti del Ministero dei Beni Culturali assegnati per il rilancio dei
borghi alpini che premiano specifici progetti di recupero di borghi abbandonati
e isolati. Ad esempio, in Piemonte, nel 2022 è stato finanziato, con ben 20
milioni di euro, il progetto di rilancio del comune
di Elva, tristemente famoso per essere stato negli anni Ottanta il “comune più
povero” d’Italia. Sono previsti una sede distaccata dell’Università di
scienze enogastronomiche di Pollenzo, un centro studi di apicoltura, un
osservatorio astronomico, una scuola di pastorizia, un museo dedicato a Hans
Clemer, il pittore fiammingo autore degli splendidi affreschi della pastorale
di Elva. Tutto ottimo, ed è sperabile che nulla vada sprecato, ma questa Elva
così trasformata non rischia di essere, se così sarà, un’isola felice, un
unicum nel contesto della Valle Maira, quella che la ospita, condannata a
restare nella sua attuale emarginazione?
Alcuni
confortanti fenomeni di segno opposto si stanno manifestando e rivelano una
idea di Alpi totalmente diversa. Lo è quello di un turismo escursionistico che
percorre le valli rispettoso dell’ambiente e delle tracce storiche che lo
caratterizzano. Lo è quello di un “ritorno alla
terra” che porta giovani al recupero di abitazioni antiche ed al
rilancio di attività agricole e di pastorizia. Lo è quello di associazioni, a
partire dal CAI, che curano il ripristino di antichi sentieri per promuovere un
turismo che dia sostegno ai rifugi minori, alle piccole imprese locali. Lo è
quello di piccoli comuni montani che si offrono come oasi di silenzio,
tranquillità e offerta culturale per una crescente domanda ormai stanca del
gigantismo turistico. Tutti, ed altri ancora, indicano che lentamente nel vuoto
scavato dalla fine, senza rimedio, dell’antico modo di abitarle e dal
devastante assalto ai suoi pendii, si sta delineando un’idea alternativa del
modo di vivere le Alpi. Occorre però agire in fretta e con chiare visioni
alternative in tempi ormai pesantemente segnati dall’emergenza ambientale e
climatica.
ben testimoniata dalla pratica
diffusa delle “fotografie diacroniche”. Lungo tutto l’arco alpino sono stati individuati,
e segnalati con appositi paletti, dei punti strategici per scattare, con
frequenza regolare, foto che immortalano la morte dei ghiacciai, piuttosto che
il lento franare di cime e costoni
La
suicida ostinazione di tenere in vita ad ogni costo l’industria dello sci e del
turismo di massa, ancora considerate le uniche vocazioni montane praticabili deve
essere fermata da subito. Vanno bloccati tutti gli assurdi progetti di
ulteriore allargamento dei grandi comprensori, ormai avvitati in una spirale di
reciproca concorrenza non più sostenuta da una domanda adeguata (il
numero di praticanti è in costante diminuzione, al momento rinsaldato almeno in
parte dall’arrivo dei nuovi “ricchi” dei paesi dell’Est),
la cui unica finalità, svanita da tempo la ricaduta capillare sulla popolazione
locale, è il ritorno in termini di profitto dei sempre più consistenti necessari
investimenti
Si stanno diffondendo pratiche
disperate di conservazione della materia prima per questa industria: in molti
ghiacciai svizzeri e italiani la parte utilizzata per le piste viene d’estate
coperta con teli geotessili per contrastare il più possibile il loro
scioglimento. In parte funzionano, ma appare evidente che non è certo questo il
modo di salvare i ghiacciai alpini, oltretutto ottenuto con l’utilizzo di
materie plastiche certo non “rinnovabili”
E’
quindi necessario che quantomeno il “pubblico” faccia sua, regolandosi di conseguenza, la
consapevolezza che l’industria dello sci, nelle sue attuali esasperate forme, è
destinata a morire per incompatibilità ambientale e per i collegati costi
sempre più insostenibili. E che, conseguentemente, passi a sostenere le sempre
più diffuse esperienze virtuose mosse da una diversa idea di ri-occupazione
delle valli all’insegna della “diffusione”
e non della “concentrazione”, dal
valore del “piccolo” e non del “grande richiamo”. E’ sempre più tempo
che lo stantio slogan “valorizzare la
montagna” sia, da parte di Presidenti di Regione, sindaci e
assessori, declinato abbandonando infausti gigantismi per recuperare, con
interventi minimi, diffusi, compatibili, il “valore”
che le Alpi, la montagna, già possiedono del loro. Evitando inoltre di muoversi
con la logica, quella che ha guidato l’assalto, di una forzata omogeneizzazione
basata su una sola idea di Alpi, che al contrario sono una straordinaria
raccolta di peculiarità, ambientali e culturali, ognuna delle quali richiede
attenzioni altrettanto specifiche.
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