domenica 2 luglio 2023

Ls Parola del mese - Luglio 2023

 

La Parola del mese

Una parola in grado di offrirci nuovi spunti di riflessione

LUGLIO 2023

La parola di questo mese già giaceva nell’elenco (peraltro sempre più impegnativo da aggiornare!) di quelle pubblicabili in attesa di uno spunto, di un aggancio, piuttosto che di un supporto, adatti allo scopo. L’occasione si è infine presentata grazie alla ristampa di un libro che contiene quattro brevi saggi uno dei quali è espressamente dedicato a questo termine e per di più proprio nell’accezione che già ci sembrava più interessante. Il libro in questione è ….

ed il suo autore è David Graeber


Graeber (1961-2020, antropologo statunitense, professore di antropologia all’Università di Yale fino al 2005, a seguito del mancato rinnovo dell’incarico per motivi politici si è trasferito a Londra come professore di antropologia presso il Goldsmiths College dell’Università di Londra ) si è imposto negli ultimi anni (anche grazie al clamore mediatico suscitato dalla sua improvvisa morte per infarto avvenuta a Venezia dove stava partecipando ad un convegno) come una delle voci più significative della controcultura americana e mondiale (è noto anche per essere stato ispiratore e leader del movimento “Occupy Wall Street”). Il suo punto di vista da antropologo sulle più dirimenti questioni sociali dell’attuale contemporaneità ha fornito numerose innovative e provocatorie idee nel dibattito politico e culturale americano ed europeo (è autore di numerosi saggi, fra i quali spicca “L’alba di tutto” presentato in un nostro post dello scorso Novembre 2022). Un pregio che emerge anche nel breve saggio che ha dedicato ad una delle più rilevanti tematiche delle società occidentali (ma in estensione globale) tanto da essere da molti considerata, da diversi decenni, un tratto fondante economico, sociale e culturale del modo di vivere contemporaneo. Stiamo parlando di …..

CONSUMO (consumismo)

E’ negli anni Sessanta, con l’estensione globale dell’ “american way of life”, che il tema consumo/consumismo inizia ad essere molto dibattuto e analizzato tanto da produrre una sterminata saggistica che lo affronta da diverse angolazioni. Il termine in sé sembra poi perdere rilevanza per essere sostituito, ma con analoga attenzione critica, da un più indistinto “stili di vita”. Lo spazio di una “parola del mese” certo non si presta a recuperare una panoramica, per quanto sintetica, di questa intensa e prolungata discussione, e a maggior ragione quindi è sembrato interessante il breve (ma non per questo meno intricato e complesso tale da richiedere una buona dose di attenzione) saggio di Graeber, che apertamente dichiara in apertura: questo saggio non è una critica del consumismo, non vuole essere l’ennesima denuncia dei mali del consumo di massa….ciò che si intende fare è indagare come mai si parla di consumo e di pratiche di consumo, è ricercare da dove viene il termine, perché mai si è cominciato ad usarlo e cosa ci dice circa le nostre convinzioni riguardo alla proprietà, al desiderio e alle relazioni sociali Questo suo evidente approccio antropologico (con intrusioni in  filosofia e psicologia di massa) è peraltro sollecitato dalla sua convinzione che proprio il lungo dibattito attorno a consumo/consumismo sia stato in qualche modo viziato da un eccesso di giudizio “morale e politico” che ha impedito di meglio indagare le ragioni per cui vengono definiti consumo determinati tipi di comportamento umano. Questa dichiarata finalità ci è quindi sembrata utile per costruire su di essa questa “Parola del mese”, iniziando proprio dalla ricostruzione che Graeber fa della sua etimologia, che qui riportiamo in luogo della abituale definizione da vocabolario:

Consumo = il verbo “consumare(da cui il sostantivo “consumo”) deriva dal verbo latino “consumere il cui significato letterale è “impossessarsi di qualcosa, conquistarla del tutto”, e quindi per estensione: mangiare, divorare, sprecare, distruggere, dissipare

Il termine consumo di fatto non esiste nel linguaggio scritto e parlato fino al suo primo comparire nel XIV secolo (in questo secolo diversi testi di medicina parlavano di malattie logoranti che “consumavano”, in Inghilterra la tubercolosi era denominata “consumption”) mantenendo l’originario  significato latino ad indicare quindi che l’oggetto consumato non viene solo completamente acquisito, conquistato, ma utilizzato fino al punto di essere distrutto, cancellato. Il suo uso per indicare il mangiare ed il bere è stato a lungo del tutto secondario, e nella cultura popolare consumo è, non a caso, sempre stato sinonimo di “spreco”, di un esagerato ed inutile utilizzo. Fino a tutto il 1600, se mai fosse stato possibile usarla, la denominazione “società consumistica” avrebbe semplicemente indicato una società di spreconi, di distruttori. Un uso più vicino a quello contemporaneo compare soltanto nei testi di economia politica di fine XVIII secolo, quando autori come Adam Smith (1723-1790, filosofo ed economista inglese) e David Ricardo (1772-1823, economista inglese) iniziano a definire la “produzione” anche come “consumo”. Ciò avviene in una fase storica in cui per la prima volta, con l’avvento del modo di produrre capitalistico, si concretizza una distinzione tra i “luoghi del lavorare” ed i “luoghi del vivere”, e quindi a concepire due sfere nettamente separate: nella prima i beni vengono “prodotti”, nella seconda vengono “consumati”. Si innestano da subito, proprio su questa separazione, due caratteristiche fondanti del capitalismo: là dove si produce per mantenere un equilibrio economico occorre costantemente “crescere”, là dove si vive devono necessariamente esserci cicli infiniti di “distruzione(più o meno immediata) per sostenere tale crescita. Ed è esattamente questa, allora come oggi, la caratteristica distintiva di un “società dei consumi”: un sistema che scarta ogni valore duraturo in favore di cicli infiniti di produzione di cose effimere. Il consumo, così come è venuto a configurarsi dalla Rivoluzione Industriale in poi, è quindi una pratica umana, inizialmente limitata nella parte euro-americana del mondo, che ridotta alla sua essenza si può così riassumere: fuori dal luogo di lavoro gli esseri umani non fanno praticamente altro se non distruggere o usurare cose (gli studi antropologici hanno evidenziato pratiche di consumo assimilabili a queste distruzioni anche in altre culture, ma tutte con carattere episodico e con finalità rituali). Ma quali motivazioni, quali desideri, possono portare ad un comportamento simile? Nell’ambito degli studi antropologici sembra possibile sostenere che “il desiderio di consumare” sia in effetti una novità intervenuta solo nella modernità occidentale, essendo i “classici desideri umani”, con tutte le loro possibili articolazioni, sostanzialmente circoscritti a tre finalità: i piaceri carnali, l’accumulo di ricchezza e della collegata altrui approvazione (lo stesso Adam Smith nella sua opera “Teoria dei sentimenti morali” sostiene che la maggior parte degli uomini desidera soprattutto l’ammirazione altrui), il potere. La nozione di consumo, intesa come distruzione o usura di cose, storicamente si presenta solo nel momento in cui si afferma una società basata su una economia capitalistica, non a caso definita anche “di mercato”, votata alla produzione di “beni di consumo”, vale a dire beni non indispensabili, ma “oggetto di desiderio”, scelti tra una gamma di prodotti spesso soggetti alle mutazioni “dell’immaginario effimero”. Si sta quindi parlando di una svolta storica nelle pratiche umane difficilmente comprensibile se non si esplora la sfera, individuale e collettiva, del “desiderio(è questo un tema che attraversa l’intera storia dell’umanità, dibattuto ed esplorato da molti punti di vista, va da sé che in questo breve saggio Graeber si limita a riprendere gli aspetti a suo avviso più strettamente connessi al consumo). Se per Platone (428/427-348/347 a.C.,) il primo (perlomeno nel pensiero occidentale) a tentare una sua definizione, il desiderio è generato da sentimenti di assenza, di mancanza, si desidera cioè ciò che non si ha, per Spinoza (1632-1677), coerentemente al suo impianto filosofico, il desiderio esprime invece qualcosa di più profondo, scaturendo dal “conatus(la tendenza all’autoconservazione) è lo sforzo di continuare a vivere (Nietzsche riprendendo questo concetto lo definisce come “la vita che desidera sé stessa). Sono i due modi di intendere il desiderio che possono essere assunti come quelli che delimitano millenni di riflessioni sul di esso. Tant’è che ancora ai giorni nostri Jacques Lacan (1901-1981, filosofo e psicanalista francese) tenta una loro sintesi e sviluppa l’idea platonica di desiderio come mancanza in una tendenza spinoziana di raggiungimento di una perfezione dell’immagine di sé stesso. Nel dibattito attorno al tema del desiderio, con buona probabilità destinato a durare eternamente mutando con il mutare dei contesti sociali e culturali, Graeber si limita ad individuare l’elemento a suo avviso più presente, più costante: l’idea di desiderio come “immaginazione di un appetito, essendo gli oggetti del desiderio sempre oggetti immaginari”. Un altro aspetto (troppo trascurato dall’estremo individualismo tipico della filosofia occidentale) distingue inoltre il desiderio dai bisogni, dagli impulsi, dalle intenzioni: esso sempre comporta, per completarsi, una relazione sociale che attesti il suo eventuale compimento. L’idea di desiderio come riconoscimento avanzata da Hegel (1770-18319) va esattamente in questa direzione, a suo avviso il desiderio, anche quello mosso da mancanze/assenze, per completarsi deve comunque vedere l’individuo che lo prova “divenire l’oggetto di desiderio di qualcun altro”. Una tendenza individuale che inevitabilmente implica tensioni nelle relazioni sociali: la ricerca del riconoscimento altrui è sempre operazione complessa, insidiosa, sempre soggetta al rischio di altrui prevaricazione. Sono comunque questi, secondo Graeber, gli aspetti più rilevanti per avviare una migliore comprensione del concetto di desiderio-consumo, sono i presupposti per tentare una sua prima sintesi articolabile su tre assunti. Il desiderio:

1.  si radica sempre nell’immaginazione

2.  tende a qualche forma di relazione sociale

3.  vista però come un riconoscimento (e quindi di una ricostruzione immaginativa del sé) che può gravare negativamente su di essa

Ma questa sintesi non sembra essere sufficientemente completa, è ancora necessario uno sforzo di approfondimento che chiama in causa altri approcci, dopo quello filosofico entra in gioco quello sociologico. Uno spunto interessante è offerto dal saggio di Colin Campbell (1940, sociologo inglese) “Etica romantica e spirito del consumismo moderno”, nel quale viene criticata l’idea sociologica mainstream che vede nella costante insoddisfazione per gli acquisti fatti la molla che genera la propensione compulsiva al consumo, come a dire che  da una parte l’appagamento del desiderio crea un vuoto che in breve ne genera uno nuovo e dall’altra che se il sistema produttivo mantenesse davvero le sue promesse di appagamento non potrebbe allora che crollare. Campbell ritiene invece che la stessa insoddisfazione sia in effetti una sorta di piacere in sè, persino capace, con il suo continuo ripresentarsi, di creare una nuova forma di edonismo diverso da quello tradizionale che (ingenuamente?) coincideva pienamente nel piacere, concreto, del consumo. L’edonismo dei tempi moderni, non poco rafforzato dalla pubblicità e dagli studi di marketing (una pratica assolutamente rivoluzionaria del tutto assente nelle epoche precedenti) si basa al contrario sul preliminare piacere della sua immaginata realizzazione: il vero godimento non sta nel consumo ma nelle fantasticherie che lo precedono. Graeber condivide solo parzialmente la tesi di Campbell (ritenendola comunque molto utile per aver coinvolto la componente emotiva del consumo) a suo avviso infatti questo nuovo edonismo tanto nuovo non è, seppure per tutt’altre ragioni nella società decisamente più povera del primo capitalismo, il consumo obbligatoriamente già si esauriva nel fantasticarlo. Un secondo interessante contributo, opposto all’edonismo di Campbell, viene dall’analisi delle teorie dell’amore medioevali e rinascimentali fatta da Giorgio Agamben (1942, filosofo italiano). Queste teorie erano mirate a spiegare come fosse possibile che oggetti fisici, persone comprese, potessero generare turbamento dell’anima, in particolare il loro interesse era rivolto a comprendere i “meccanismi dell’innamoramento”. Per farlo hanno postulato l’esistenza di una “sostanza astrale”, la “pneuma”, capace di tradurre le impressioni dei sensi in immagini fantasmagoriche che colpivano prima il cuore e poi la mente. Anche in questo caso quello che viene anelato non è quindi tanto l’oggetto in sé (la persona concupita), ma “l’immagine” che di esso (essa) viene creata dal pneuma, ed anche qui il soddisfacimento ottenuto dal possedere concretamente l’oggetto (la persona concupita), azzerandone l’immagine, poteva persino provocare un profondo disturbo mentale, la “malinconia(Giordano Bruno, 1548-1600, giunse a considerare tale meccanica emotiva il paradigma di tutte le forme di attrazione e desiderio, compreso quello del potere). L’affinità tra la tesi di Campbell e l’analisi di Agamben sembra significativa, ma a ben vedere emerge un divergenza, di fondamentale importanza per inquadrare il moderno consumo/consumismo: Agamben recupera una concezione totalmente votata all’amore, Campbell invece parla dell’acquisto di terreni beni di consumo, vale a dire che da un paradigma erotico si è passati ad uno la cui metafora principale è di fatto il cibarsi (inteso in senso molto lato).Tutto lineare, tutto definito? Certo che no, ancora si affaccia la necessità di alcune precisazioni/complicazioni La prima consiste nell’individualismo: a ben vedere l’individuo che desidera se colpito da stimoli a lui esterni è un soggetto passivo, rinchiuso sul sè e che quindi di fatto nega la sfera delle relazioni interpersonali (ciò avviene anche nell’innamoramento, là dove è il desiderio dell’immagine della persona sospirata). Ciò si spiega con il fatto che sia la teoria pneumatica che quella di Campbell non poggiano su “azioni”, che impongono relazioni interpersonali, ma bensì su “passioni” individuali. E azioni e passioni sono mosse da logiche differenti: le prime prevedono di intervenire sul mondo mentre nelle seconde è il mondo ad agire su di noi, a maggior ragione quando sono forti emozioni che agiscono contro la nostra stessa volontà (razionale). Il desiderio che induce al consumo/consumismo rientrerebbe in pieno nella sfera delle passioni negando quindi i precedenti assunti 2 e 3. Una seconda precisazione/complicazione chiama in causa i parametri di classe e di genere: la concezione pneumatica medioevale e rinascimentale, a differenza di quella moderna di Campbell, sembra produrre solo nelle classi “in alto” un desiderio erotico/amoroso, mentre “in basso(contadini, artigiani, gente povera) il desiderio prevalente resta quello dell’abbondanza di cibo, il Paradiso sognato altro non è che il paese della cuccagna (ben rappresentato nell’omonimo quadro di Bruegel il vecchio), ma allora Campbell (il godimento non è nel consumo ma nel fantasticarlo) avrebbe meglio colto nel segno (nel Paradiso delle classi alte i piaceri della tavola sono sostituiti da beni di consumo di lusso, dell’effimero). Non solo: il Paradiso delle classi alte era individuale, il Paese della cuccagna era collettivo, aveva l’aspetto di una carnevale (sempre Bruegel) dove una inaspettata ricchezza diveniva un appagamento di tutti. Non è da escludere che questa storica divaricazione “di classe” ancora determini una analoga differenza fra alto e basso nell’attuale consumo/consumismo, a maggior ragione se si tiene conto di un secondo aspetto: la differenza di genere. Il desiderio erotico/amoroso delle classi alte era solo maschile, in quello delle classi basse la donna al contrario compare, ma, addirittura dimostrandosi quella più insaziabile, famelica, lussuriosa, testimonia il suo lato selvaggio, incontrollabile (aspetto che abbiamo visto essere esplorato da Carolyn Merchant nel suo testo “La morte della natura”, nostro “Saggio” dello scorso mese di Maggio). E’ questo un aspetto che curiosamente riemergerà, ma senza più distinzione tra alto e basso quando il desiderio di consumo, agli albori del consumismo diventa carattere prettamente femminile. Agamben ritorna però in campo proponendo una possibile spiegazione per questa curiosa evoluzione: quel desiderio da lui studiato che fino all’epoca moderna si muoveva in una sfera immaginifica, viene mutato, con il pieno affermarsi del capitalismo e con i suoi cambiamenti economico-sociali (ovviamente con una progressione che coinvolge con tempi differenti le classi sociali) e quindi trasportato nella dimensione del “mondo reale”. Graeber condivide l’idea che il moderno consumo sia sorto quando il desiderio tipico delle classi alte si è progressivamente fuso con quello delle classi basse, ma non di meno ha pesato il fatto che anche il desiderio collettivo del Paese della cuccagna si sia evoluto nell’ “individualismo possessivo” tipico della definitiva affermazione del concetto di “proprietà privata”, fondamento della società borghese e capitalistica. L’idea di proprietà privata contiene infatti una contraddizione fondamentale per comprendere il rapporto tra “individuo e oggetto posseduto”. Quella che inizialmente si manifesta come formale relazione sociale, come accordo collettivo, in base al quale tutto quanto posseduto dal singolo “viene precluso” agli altri, di fatto nel capitalismo conosce una evoluzione che la ridimensiona, ma enfatizzandola, nella preclusione degli “oggetti posseduti(beni mobili e immobili). Questa evoluzione trova origine proprio nel parallelo mutare dell’idea di proprietà privata che nasce all’inizio della modernità come progressivo trasferimento verso il basso del “dominium”, della “sovranità” fin lì esistita, quella del “sovrano”. Ma se l’essenza ultima di questa consisteva soprattutto nel diritto di “vita o morte” sui sudditi, il suo trasferimento verso il basso, dell’esclusività degli oggetti posseduti, non poteva che completarsi analogamente nel diritto di “distruggere”, di dare cioè morte all’oggetto posseduto. Con quest’ultima Graeber raccoglie le varie suggestioni sin qui presentate per arrischiare una qualche sintesi di quanto è racchiuso nella parola “consumo”. La quale, di per sé stessa, in effetti altro non è che una metafora non di rado usata in modo troppo estensivo (un conto è parlare di consumo di un cibo, piuttosto che di un pieno di benzina, altro è parlare di consumo di programmi televisivi, e di tutti i prodotti che, per la loro natura, possono essere consumati, assimilati, in modi molto differenti, creando quello che è definibile “consumo creativo”). Proprio questa eccesiva estensione ci riporta alla considerazione di partenza sulla separazione tra “luoghi della produzione” e “luoghi del consumo”, in base alla quale (al massimo con l’aggiunta della sfera dello “scambio”) tutto ciò che esce dal ciclo/luogo della produzione si presta ad essere “consumato (cibo, benzina o programmi televisivi che sia). Questa appare storicamente essere la nascita, lo sviluppo, l’attuale estensione di tutto ciò che confluisce nel termine consumo, che esasperato dalla necessità di dare esito alla produzione di una crescente platea di “prodotti di consumo” ha innescato il fenomeno che definiamo “consumismo”. Se questa situazione è il risultato concreto del progressivo intrecciarsi dei fattori, in alcuni casi in conflitto tra di loro, che Graeber ha qui ritenuto utili per meglio comprendere i concetti di consumo/consumismo, quali conseguenze, di ordine analitico, si possono dedurre? La prima è che il consumo è divenuto un’ideologia ancora tutta da indagare in quanto tale. La seconda consiste nel salto di qualità avvenuto nell’attuale culmine della modernità: “i luoghi della produzione” (il capitalismo) non producono solo beni di consumo ma, per garantire il compimento del ciclo economico (profitti), ormai producono gli stessi consumatori (non a caso il parametro usato per valutare l’uscita dalla povertà del Sud del mondo consiste nel misurare i loro livelli di consumo). Queste considerazioni non implicano la condanna tout court della produzione di beni, semmai impongono di recuperare in essa l’idea di un ciclo produzione-consumo subordinato alla costruzione di una giusta identità sociale del consumatore (fatta anche di rispetto dei limiti imposti da un pianeta dalle risorse finite)


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