giovedì 19 settembre 2024
martedì 17 settembre 2024
Intervento tenuto dal nostro socio Suriani Renzo al dibattito CGIL SPI del 14 Settembre 2024
Sintesi
della relazione sul tema “Sanità” del dott. Renzo Suriani
al dibattito
della CGIL SPI Lega 17 – Titolo Clima-Sanità-Pace
Devo ringraziare la compagna Irene
Chiaudano segreteria della lega 17 della SPI CGIL di Avigliana e il compagno
Felice Celestini per l’invito al dibattito organizzato oggi. Non è infatti così
scontato che un medico con esperienza clinica, un ex primario ospedaliero, e
quindi non un medico con cariche sindacali o politiche venga invitato dalla
CGIL ad un dibattito sindacale sulla sanità pubblica. Penso che questa sia
stata una scelta coraggiosa e quindi non vada sottovalutata come modello di
apertura a nuove idee, a interpretazioni della realtà politica in forme non
tradizionali giuste o sbagliate che queste siano. In realtà molti di Voi mi
conoscono, conoscono il mio orientamento politico ancorato nell’ambito della
sinistra ed Io conoscono molti dei presenti per cui dò per scontato che molte
dei fatti che riguardano il progressivo deterioramento della sanità pubblica
siano di comune conoscenza. Avrei poco da aggiungere al fatto che è necessario
aderire alla richiesta di sottoscrivere il referendum per l’abolizione
dell’autonomia differenziata regionale e che si debba sollecitare la massima
partecipazione al voto affinché il referendum possa integralmente bocciare la
riforma regionale in tutte le sue parti compreso il premierato. Il fatto
sorprendente è il riconoscimento del progressivo decadere della sanità pubblica
da parte di testate giornalistiche che appartengono politicamente ad un’area di
orientamento liberale come, ad esempio, il Sole 24 ore. In questo quotidiano
nell’articolo pubblicato il 24 luglio 2024 dal titolo “Scandalo liste di attesa, oltre un anno per esami e visite ed è una
babele di dati” vengono citati questi dati:
Ø 810
ospedali pubblici chiusi negli ultimi 40 anni (-44,6%),
Ø 43.000
medici ed infermieri in meno negli ultimi 10 anni,
Ø 70% di posti
letto tagliati dal 1975 (dai 10,6 posti letto ordinari ai 3,2 per 1000
abitanti nel 2021),
Ø 8,7 milioni
di italiani che non possono usufruire del diritto alle cure,
Ø 43 milioni
di euro tagliati negli ultimi 10 anni.”
Questo ed altri articoli pubblicati sullo stesso quotidiano e con un uguale profilo di allarme sul SSN hanno però un altro risvolto preoccupante che chiariscono subito la soluzione al problema nella visione liberale del SOLE 24 ore. In un articolo comparso sulla stessa testata il 2 giugno ’24 si legge “le pensioni schiacciano la spesa. Italia in coda per sanità e scuola”. Quindi in definitiva i pensionati sarebbero i veri responsabili del deficit sanitario pubblico e a pensare male, la decurtazione delle pensioni potrebbe essere un buon mezzo di bilanciamento economico. Ugualmente è allarmante l’articolo pubblicato sul quotidiano “La Stampa” del 26 luglio 2024 che riporta un’indagine eseguita dal sindacato dei medici ospedalieri ANAAO in Piemonte in cui viene riferito come il 91% dei dottori ospedalieri si sente abbandonato dalle istituzioni e l’81% è preoccupato per il futuro del servizio sanitario nazionale. Insomma il decadere del Servizio Sanitario Nazionale è un dato così evidente e incontrovertibile che anche alcuni esponenti dell’attuale governo denunciano perplessità sull’azione del governo. Tra questi ad esempio la vicepresidente del senato Licia Renzulli di Forza Italia, il governatore della regione Calabria e anche organi tecnici come l’Ufficio del Bilancio dello Stato. La situazione del Servizio Sanitario Italiano è centrale nelle politiche economiche nazionali non solo perché riguarda la salute di ciascuno di Noi, ma anche per il peso in termini assoluti del costo complessivo del Fondo Sanitario Nazionale ((FSN). Infatti la spesa sanitaria complessiva, pubblico e privato, ha totalizzato 176,2 miliardi nel 2023 rispetto ai 175,7 del 2022 come risulta dai dati dell’area studi di MEDIOBANCA. Se le risorse assegnate al SSN sono cresciute in termini assoluti, sono in realtà diminuite tenendo conto dell’inflazione come confermato dal Sole 24 ore da una analisi pubblicata in questa testata giornalistica il 7 aprile 2024. L’Italia in questo rapporto risulta per la sola spesa pubblica al di sotto della media OCSE con il 6,8% del PIL pro capite dietro Spagna (7,3%), Regno Unito (9,3%), Francia (10,3%), Germania (10,9). Il Piemonte risulta poi una regione povera rispetto a regioni come Lombardia, Emila Romagna e Veneto e quindi che più portare aiuto alle regioni del sud noi piemontesi dovremmo essere aiutati. Leggo sul quotidiano LA STAMPA un articolo pubblicato il 4 settembre in cui, secondo indiscrezioni, il governo sta apportando un aumento di 2/2,5 a favore del Servizio Sanitario Nazionale. Un tale aumento se da una parte testimonia la situazione al limite del collasso del SSN non più sostenibile in termini di popolarità delle scelte, lascia molte perplessità sulla sua reale fondatezza per cui anche Paolo Baroni responsabile dell’articolo si chiede “se si tratti solo di propaganda o no”. Molto meno pubblicizzati sono i conti della sanità privata come risulta dai dati forniti dagli studi di Area Medio Banca pubblicati il 5 giugno 2024.:
Ø Nel 2022 il
79% del valore complessivo della spesa sanitaria è determinato dalle strutture pubbliche
e il 21% da quelle accreditate.
Ø Nel 2022 salvo il periodo emergenziale legato
al COVID, il giro di affari dei maggiori operatori sanitari privati in Italia è
stato in crescita con ricavi di 10,6 miliardi di euro e ha realizzato un + 2,7%
sul 2021 e un 8,7% sul 2019.
Ø La ripresa è
stata significativa con +22,3% sul 2019 per la diagnostica medica, +10%
l’assistenza ospedaliera e +4,1% le residenze per gli anziani. La presenza di
strutture private con conti in attivo è localizzata prevalentemente nelle
regioni del Centro Nord e quindi per gli operatori privati l’autonomia
differenziata esiste già da almeno cinque anni. Tra gli operatori privati si
segnalano l’Humanitas di Rozzano in Lombardia e il San Raffaele di Roma e l’Istituto
Don Calabria in provincia di Verona.
La sanità privata è quindi un ottimo investimento in termini economici non solo per gli operatori del settore come case farmaceutiche, laboratori di analisi, il settore industriale legato alla produzione di presidi sanitari come TAC, Ecografi, ecc., ma anche per gli operatori sanitari. Infatti le strutture private non potrebbero esistere senza l’assunzione e il lavoro di una buona parte di medici ed infermieri. Non solo. Vi è la seria preoccupazione che il settore privato abbia le potenzialità di attrarre ancora più risorse umane a fronte delle basse remunerazioni nel settore pubblico e la scarsità di personale medico. Quest’ultimo fatto è stato determinato dal blocco alla laurea in medicina effettuata con il numero chiuso all’accesso alla facoltà in atto negli ultimi 10 anni. Inutile dire che il fenomeno era ben prevedibile, così come il pensionamento massiccio dei medici di questi ultimi anni. Pensare male è peccato, ma in questo caso nulla mi trattiene dal dire che vi sia stata e perduri una perversa razionalità nell’affossare la sanità pubblica agendo semplicemente sull’incremento della domanda con la scarsità dell’offerta. Quindi l’aumento dei ricavi della sanità privata con un andamento previsto in crescita e un andamento nettamente in negativo per la sanità pubblica è un fenomeno presente da tempo ancor prima del decreto Calderoli pubblicato nel giugno 2024 con il titolo le “Disposizioni per l'attuazione dell'autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione ”. Inoltre nel Consiglio dei Ministri nella seduta del 2 febbraio 2023 il federalismo differenziato viene poi subordinato alla determinazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP). I LEP dovrebbero comprendere molteplici funzioni per le regioni che richiedano maggiori spazi di autonomia e quindi non solo i LEA che rappresentano i Livelli Essenziali di Assistenza sanitaria, ma anche ciò che concerne istruzione, trasporto pubblico locale e assistenza sociale. La domanda legittima che quindi dobbiamo porci è: Quali sono le modifiche che l’autonomia differenziata comporta rispetto al già presente degrado del SSN? Prima di esaminare nel dettaglio le variazioni che il decreto Calderoli comporta, colpisce il fatto che di queste variazioni poco si conosce nella attuazione pratica perché non ci hanno fornito dati e già questo quindi è un fatto in sé negativo. Oltre a ciò nel decreto appare evidente una profonda mutazione di prospettiva. Se prima era permessa l’dea che chi possedeva maggiori risorse finanziarie potesse curarsi meglio, idea formulata in base alla realtà pragmatica dei fatti, io, singolo uomo ricco oppure io regione ricca, disponendo di maggiori risorse, comunque me la cavo, adesso con l’autonomia regionale quella che era ammessa solo come una possibilità, diventa un diritto acquisito per legge. Se fossi un uomo di legge, un costituzionalista non avrei dubbi nel giudicare il decreto come anti costituzionale, ma come medico posso esprimere un parere simile, ma ancora, se possibile, peggiore. Mi sento di dire che questa legge è disumana come le leggi razziali e le politiche contro l’immigrazione e quindi non è solo anti costituzionale. In effetti il principio di cure regolate dalla ricchezza è di per sé un concetto così aberrante che lo stesso legislatore sostiene come questo decreto sia eticamente e costituzionalmente ammissibile solo in base all’introduzione di misure di equità come i livelli essenziali di assistenza (LEA) e i livelli essenziali di prestazioni (LEP). In pratica ci si viene a dire che fatto salvo un livello di assistenza di base comune a tutti, chi vuole curarsi meglio in base a maggiori risorse ha il diritto, non solo la possibilità quindi di farlo. E’ inutile negare che questa un’idea possa risultare suggestiva e per molti versi attraente per i cittadini delle regioni più ricche. Supponendo che a tutti sia concessa un livello di assistenza accessibile (il pane quotidiano, LEA) nulla si può rimproverare a chi oltre il pane quotidiano mangi anche le brioches ricordando la regina Maria Antonietta prima che le venisse tagliata la testa! A questa interpretazione si contrappone da parte delle forze politiche di opposizione e dei movimenti sindacali come la CGIL la visione della solidarietà e dell’aiuto alle regioni più disagiate sostenendo che i LEA e i LEP accentueranno le disparità di prestazioni sanitarie tra regioni e singoli individui. Come medico sostengo che questa interpretazione è corretta, ma poco adatta a definire nella loro essenza tutti gli aspetti negativi proposti dall’autonomia differenziata. Basare la critica e l’opposizione al decreto sui concetti di solidarietà e aiuto ai più deboli è probabilmente insufficiente a mobilitare l’opinione pubblica contro la riforma. Questa è con ogni evidenza una valutazione politica, ma la storia dei LEA è tuttavia complessa e andrebbe analizzata anche storicamente. Le prime idee sui LEA erano formulate all’inizio degli anni 90 e una prima formalizzazione è avvenuta nel 1999. La riforma costituzionale n.3/2001 con le modifiche al Titolo V introduceva a livello costituzionale la nozione dei Livelli Minimi di Prestazioni (LEP) e nello stesso anno venivano formulati gli indicatori per i LEA. Questi indicatori come ad esempio l’occupazione dei posti letto, avevano l’intento di monitorizzare e armonizzare le prestazioni sanitarie. Infatti il D.P.C.M. del 12 gennaio del 2017 aveva introdotto nuovi servizi come nell’assistenza alla gravidanza, alle malattie rare o invalidanti, la vaccinazione gratuita per l’anti Papilloma virus ecc. Gli indicatori, 100, venivano poi suddivisi per classi e tipi di sottoclassi. Veniva anche approntata una grafica specifica denominata “rosone”, in pratica consisteva in una figura a cerchi concentrici di vario colore, in rosso i dati negativi, come fanno i bambini in quinta elementare. In base al punteggio esemplificato nel disegno, le regioni venivano classificate come adempienti o non adempienti. Il sistema degli indicatori e della classificazione ha poi seguito numerose variazioni nel tempo come nel 2020 con il Nuovo Sistema di Garanzia (NSG). Tuttavia questi sistemi di monitoraggio con alcune variazioni non fornivano né indicazioni sull’origine delle carenze e né i presupposti sul come fare per il loro superamento. Solo per la Calabria era stata individuata l’infiltrazione mafiosa. Il monitoraggio era solo una fotografia dello stato delle cose a livello regionale con risultati più o meno adeguati a seconda degli indicatori utilizzati. I piani di rientro (PdR) con il sistema di monitoraggio (STEM) introdotto nel 2010 prendevano in considerazione sostanzialmente l’obiettivo del pareggio di bilancio. In assenza di pareggio di bilancio le regioni erano sanzionate pesantemente con ad esempio il blocco automatico del turnover del personale. In buona sintesi l’dea iniziale di individuare carenze e attenuare le diseguaglianze tra regioni andava via via persa in ragione delle risorse economiche da preservare operando tagli lineari. Risorse economiche che il conflitto Russia-Ucraina ha fatto vedere come fossero per altro ben disponibili per armamenti. In sostanza i LEA non avevano o avevano poco a fare con la salute dei cittadini, ma erano un mero strumento di controllo della spesa sanitaria.Questo fatto è ben messo in risalto dall’Osservatorio dei Conti dei Conti Pubblici Italiani (CPI) con uno studio dell’università Cattolica del Sacro Cuore di Roma pubblicato il 31 marzo 2023 a firma di R. Arcano, I Maroccia e G. Turati di Roma. Questo studio rende conto dell’incoerenza nella definizione dei LEA che hanno necessitato per altro di revisioni di oltre 20 anni. Lo studio prendeva in considerazione i LEA dal 2012 al 2019. Se gli indicatori dei LEA fossero stati individuati con correttezza, ad un basso punteggio di indicatori in una regione, quindi scarsa qualità di prestazioni sanitarie, sarebbe dovuta corrispondere un tasso di migrazione in crescita verso regioni a punteggio più elevato e quindi con prestazioni sanitarie migliori. Questo non si è verificato. In Campania si osservava un aumento del tasso di migrazione di 1,49 punti a fronte di un miglioramento del punteggio dei LEA di 50 punti. Idem in modo inverso, per la Calabria con un tasso di emigrazione di 1,42 con un peggioramento del punteggio dei LEA di 8 punti. La conclusione di questi ricercatori è che la valutazione tecnica non collima con la valutazione della qualità dei servizi forniti dai cittadini. I cittadini, i pazienti intuiscono sulla loro pelle l’incoerenza dei dati e agiscono di conseguenza non badando alle statistiche governative. Un medico può raccontare ad un paziente un sacco di fandonie più o meno azzeccate, ma viene inevitabilmente un momento in cui la verità nuda e cruda emerge! Penso inoltre che l’analisi dovrebbe essere approfondita per cogliere alla radice il fallimento dei LEA come mezzo di tutela della salute pubblica. La salvaguardia della salute non deve essere intesa nel SSN come una “merce” paragonabile ad altre merci disponibili sul mercato. I criteri da adottare per una sua valutazione sono diversi da quelli comunemente adottati per altre merci. Non è possibile comperare due etti di gorgonzola e mezzo di chilo di una ecografia anche se l’esempio è del tutto irriverente rispetto ai medici che operano in campo ecografico. Sicuramente in ambito assicurativo la salute è una merce, se mi taglio il pollice destro sul lavoro ho una valutazione del danno peggiore del taglio del pollice sinistro, ma questo concetto non è applicabile in questi termini alla salute pubblica. La salute se è una merce, è una merce con caratteristiche peculiari non sempre quantificabili secondo il prezzo di mercato per cui ad esempio più un prodotto è caro meglio funziona. Per chiarire meglio la proposta Calderoli penso sia utile paragonare i LEA e i LEP agli orologi da polso. Esistono sul mercato orologi dal costo di poche decine di euro che svolgono egregiamente il loro compito che è quello di segnare l’ora esatta, esistono parallelamente orologi dal costo di migliaia di euro che assolvono ugualmente al loro compito di segnatempo. Se i LEP e i LEA fossero assimilabili agli orologi economici e svolgessero egregiamente al loro compito, non ci sarebbe nulla di male se ad alcuni facoltosi fosse garantito usufruire di oggetti appartenenti alla categoria del lusso. In sanità questa doppia opzione non è praticabile e in particolare l’opzione economicamente più onerosa, farmaci e terapie, può rivelarsi in molti casi nella pratica clinica o inefficace o addirittura dannosa. Qui di seguito riporto alcuni esempi a sostegno di questa tesi. In caso di infezione delle vie urinarie di eziologia batterica è buona prassi eseguire un antibiogramma sulle urine con l’urocultura per valutare la terapia batterica più efficace. Quindi somministrare a casaccio un antibiotico saltando quest’esame è dannoso anche se è praticamente possibile eliminare questo passaggio risparmiando un esame di laboratorio. In una data regione sarebbe quindi possibile ipotizzare che il LEA escluda l’urocultura dai criteri essenziali perché non indispensabile. Tuttavia una tale pratica è portatrice di guai sulla salute e anche economici. Infatti l’urocultura permette di stabilire come molte volte l’antibiotico più efficace non sia il più costoso ribadendo quindi il concetto che l’efficacia non è in funzione del costo. Inoltre un antibiotico di ultima generazione e quindi carissimo può causare resistenze se usato in modo inappropriato smentendo il pensiero che spendendo di più “guarisco prima e meglio”.
Alcuni farmaci sicuramente indispensabili come l’aspirina come antiinfiammatorio o ad esempio alcuni beta bloccanti indispensabili per l’alterazione del ritmo cardiaco o dell’ipertensione costano così poco che le ditte produttrici non ne garantiscono più la produzione oppure come per l’aspirina il principio attivo viene addizionato con vitamici altri composti non indispensabili per maggiorane il prezzo. Nuovamente a ribadire il concetto che il costo non ha un rapporto diretto all’efficacia. I reali di Inghilterra sono affetti da tumori di vario tipo come si può dedurre dalle notizie apparse su riveste e nei media. Non ho accesso alle cartelle cliniche di questi pazienti, ma sono sicuro che i protocolli oncologici impiegati sono simili se non del tutto uguali a quelli in adozione a Torino o a Milano. Non esistono pazienti con il sangue blu. Solo i risultati positivi derivati dall’impiego su un alto numero di pazienti garantisce la certezza della loro efficacia. I nobili quindi se vogliono salvarsi la pelle devono essere curati come le tute blu delle officine metalmeccaniche o come tutti quelli che vivono con il sudore della loro pelle. Nulla poi vieta che ai regnanti venga servita cena il brodo di tartaruga o il caviale ma i LEA del trattamento oncologico sono uguali e debbono essere necessariamente uguali per tutti. Veniamo poi ad esempi più vicini a noi tutti perché siamo una platea di persone oltre i cinquant’anni di età. Ebbene tutti noi siamo stati sottoposti allo screening del cancro del colon retto per la prevenzione del cancro intestinale. Ora pochi sanno, al di fuori della stretta cerchia del mondo sanitario, che la prevenzione è stata oggetto di un grosso dibattito in campo medico sulla strategia da adottare. Da un punto di vista strettamente teorico per una prevenzione efficace si sarebbe dovuto praticare a tutti i soggetti con età superiore ai 50 anni circa, la colonscopia per l’esame di tutto il colon un metro di intestino, centimetro più o centimetro meno. La colonscopia a miglia di pazienti avrebbe significato uno sforzo economico non sostenibile nel rapporto vita salvate e costi economici. Gli epidemiologi piemontesi dopo un ampio dibattito hanno optato per un approccio alternativo. Come voi tutti sapete siamo stati sottoposti o alla ricerca del sangue occulto nelle feci oppure al solo esame endoscopico degli ultimi 30 cm-40 cm. dell’intestino (la rettosigmodoscopia). Ebbene i risultati scientifici a distanza di anni hanno dimostrato la correttezza della scelta effettuata con riduzione della mortalità per cancro intestinale a fronte di costi di prevenzione accettabili. I medici quindi da molti anni e senza alcuna necessità di autonomia differenziata hanno preso in carico e tentato di adeguare i risultati clinici alle disponibilità economiche privilegiando la prevenzione della malattia alla sua cura. Ancora per i trapianti d’organo, cosa si farà con l’autonomia regionale differenziata? Ad un paziente nato in Piemonte verrà salvata la vita con il trapianto di fegato, mentre ad un cittadino calabrese no? L’idea mette ribrezzo al solo pensiero per cui questa possibilità non va neppure discussa. A fronte di questi esempi dovrebbe quindi risultare chiaro che i LEA e i LEP non hanno nessuna motivazione per essere accreditati con strumenti scientifici. Non esistono livelli di cure essenziali, ma esistono solo cure corrette o cure sbagliate. Tutta la comunità medica è da sempre impegnata a definire con percorsi diagnostici e terapeutici quali siano le cure più efficaci con la valutazione costo/beneficio. I LEA e i LEP non esistono e non devono esistere perché tutti noi medici dovremmo sempre attenerci alle linee guida indicate nei percorsi diagnostico terapeutici che le società scientifiche mediche di anno producono e rivedono. Chi tra i medici sostiene l’efficacia dei LEA o i LEP come mezzo di uguaglianza sanitaria non è un medico conservatore o di destra o un fascista è più semplicemente e soltanto un medico che pratica una cattiva medicina. Se la sanità non risponde alle caratteristiche di “merce” si deduce che il solo aumento delle risorse assegnate non risolve complessivamente il problema, ma si presenta solo come una pezza temporanea e inefficace nel tempo. E’ inutile ampliare le corsie di una autostrada per diminuire il traffico automobilistico, ma bisognerebbe pensare con nuovi modelli organizzativi come diminuire il trasporto privato. Così bisognerà pensare a nuovi modelli di procedure per dare salute pubblica, ma questo risulterà impossibile senza rivoluzionare i modelli organizzativi e culturali della “classe” medica.
Infine
l’annoso problema: Che fare?
La realtà è piuttosto semplice: se
ciascuno di noi riuscisse a comunicare ad altri questo o altri esempi che la
ricchezza non garantisce la salute e che in sanità il “si salvi chi può” non è
efficace, il problema sarebbe risolto. Se si riuscisse a convincere almeno un
altro individuo tra quelli che non si sono recati alle urne dell’assurdità e
della pericolosità delle scelte governative, i politici incompetenti potrebbero
essere mandati a casa! Siamo troppo anziani per poterlo fare? La risposta è
sicuramente no stando ai moventi suscitati e condotti dalle Nonne contro la
destra “Oma genen Rechts” in Germania che contano ormai oltre 30.000 persone
con età media sui 70 anni. Questo movimento unisce la lotta contro il nazismo a
quella della difesa per la democrazia e per il clima proprio come è stato fatto
qui ad Avigliana oggi, con la felice intuizione di legare l’ambiente, la sanità
e la pace in una discussione unitaria. Infine un’ultima considerazione gli
ospedali di Rivoli, di Avigliana e di Giaveno non appartengono nè alla famiglia
Agnelli nè a quelle di Berlusconi. Questi ospedali sono i nostri ospedali,
appartengono a noi, riprendiamoceli!
Avigliana
14 settembre 2024
domenica 15 settembre 2024
Il "Saggio" del mese - Settembre 2024
Il “Saggio” del mese
SETTEMBRE
2024
Come
già anticipato, sarà il valore dell’uguaglianza il filo conduttore del nostro
programma 2024/2025 che lo analizzerà, da diversi punti di osservazione, nelle
sue attuali diverse forme. Anche il saggio di questo mese ha al suo centro il
tema dell’uguaglianza, ma lo affronta, con un’ottica antropologica e archeologica,
risalendo alle origini delle varie culture espresse dall’umanità e comparando i
loro diversi modi di concepire e realizzare le relazioni sociali con
particolare attenzione alla declinazione di valori come la libertà e, per
l’appunto, l’uguaglianza. Per fare ciò questo saggio (già
recensito in un nostro post di Novembre 2022)
raccoglie e sistematizza una considerevole mole di dati e testimonianze ed ha
quindi una dimensione così cospicua da rendere impossibile, se si vuole
minimamente cogliere la sua preziosa ricchezza intellettuale, lo spazio normale
dei nostri post. Siamo quindi costretti a suddividere in tre parti questa
sintesi che si spera riesca a dare conto della trattazione generale
privilegiando al contempo le parti più connesse al tema della disuguaglianza.
(a destra della foto) David Graeber (1961/2020, antropologo statunitense, professore di antropologia culturale prima presso l’Università di Yale e poi presso la London Scholl of Economics, attivista politico promotore del movimento “Occupy Wall Street) e (a sinistra della foto) David Wengrow (1972, archeologo britannico, professore di archeologia comparata presso l'Institute of Archeology, University College London) che affrontano il tema dell’uguaglianza/disuguaglianza inserendolo in una ricostruzione di più ampio respiro ispirata da alcune domande di partenza:
Ø la
storia dell’umanità, fin dalle sue più lontane origini, può davvero essere
concepita come un avanzamento lineare che non
poteva avere altro esito che gli attuali modi di concepire e gestire la
società, l’economia, l’intera cultura?
Ø è
possibile che la sua ricostruzione classica sia in effetti la storia di un mito più o meno strumentalmente costruito proprio
per sostenere l’idea di un progresso lineare dall’esito scontato?
Ø quanto
ha pesato il fatto che questa idea del procedere umano sia sostanzialmente maturata nell’ambito della cultura occidentale anche grazie alla totale dimenticanza di altre
idee, di altre concezioni della storia umana?
Ø il concetto stesso di diseguaglianza, la cui
accettazione come fattore fondante delle società umane, come “fatto naturale”, ne è
forse il prodotto inevitabile?
Ø diventa
allora importante recuperare altri punti di vista, altre narrazioni, altri miti
capaci di spiegare diversamente quanto sin qui
successo?
Con questo spirito seguiamo con loro, per
meglio capire il presente, questo viaggio nel tempo
Parte prima – Capitoli 1
- 5
Nei primi due capitoli Graeber
e Wengrow ripercorrono i passaggi che hanno caratterizzato, fra il 1500 e il
1700, l’inaspettato incontro della cultura europea con altre civiltà e come
questo incontro abbia profondamente influenzato l’intero dibattito sui due
concetti/valori di libertà ed uguaglianza
1 - Addio all’infanzia
dell’umanità
Le attuali spaventose disuguaglianze
economiche rappresentano senza dubbio l’aspetto più rilevante dell’ingiustizia sociale
a livello globale. Non si tratta purtroppo
di una novità, ma solo negli ultimi secoli, quelli della Modernità europea e
del sistema capitalistico, essa è stata più compiutamente percepita come una
specifica ingiustizia. Ancora oggi è opinione diffusa assumere come momento di
avvio di questa riflessione la pubblicazione (avvenuta nel 1734)
dell’opera di Jean-Jacques Rosseau (1712/1778,
filosofo svizzero comunemente ritenuto francese) con
titolo “Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini”,
nella quale sostiene che l’avvento dell’agricoltura prima e delle città poi
abbia posto le condizioni per una compiuta “civiltà”, ma al prezzo di cancellare “l’armonia
egualitaria” delle piccole bande di cacciatori/raccoglitori, che per
decine di millenni aveva segnato la storia umana, creando così anche le
condizioni per l’affermarsi della disuguaglianza. L’idea di questa
idilliaca “infanzia dell’umanità” ha i tratti di una rudimentale
semplificazione, eppure è divenuta una sorta di mito consolatorio ancor oggi non
poco diffuso. Non meno radicata è però anche l’idea, esattamente opposta,
espressa un secolo prima da Thomas Hobbes
(1588/1679, filosofo inglese) nella
sua opera più famosa “Leviatano” (1651),
in cui sostiene che l’umanità è invece sempre vissuta in uno stato di guerra
permanente di “tutti contro tutti” risolto solamente con la nascita, avvenuta
in coincidenza con l’agricoltura, di società organizzate con adeguati meccanismi
di controllo e repressione affidati ad un forte potere poi evoluto nella sua
forma compiuta nello “Stato” moderno. Si tratta di due concezioni che, a distanza di secoli,
ancora compaiono sotto traccia con la prima, quella di Rousseau, nelle idee di
“sinistra”
e la seconda, quella di Hobbes, in quelle di “destra”. Il solo elemento certo
che le accomuna è il fatto, stabilito dalle attuali conoscenze, che ambedue non hanno
nulla a vedere con fatti realmente accaduti, sono cioè ambedue ipotesi
prive di fondamento scientifico. Non è infatti vero, come si avrà modo di
vedere, che prima dell’avvento dell’agricoltura l’umanità fosse composta solo
da piccole e sprovvedute bande di cacciatori/raccoglitori, che la proprietà
privata sia nata con la rivoluzione agricola e neppure che la concentrazione
nelle città abbia implicato il sorgere delle disuguaglianze. La persistenza nella
cultura europea ed occidentale di due tesi ormai scientificamente smentite non
sembra giustificata solo dall’ignoranza o dalla sottovalutazione delle
successive scoperte, ma rivela l’esistenza di un preconcetto intellettuale utile
per rafforzare una comoda, per quanto errata, narrazione della storia
dell’umanità. Come si avrà modo di cogliere, questo limite ha una ricaduta
diretta sulla comprensione della stessa disuguaglianza (un
concetto per secoli assente nel dibattito culturale europeo) da
rendere opportuno ….prima ancora di domandarci come abbiamo finito per essere
disuguali, chiederci come sia accaduto che la disuguaglianza sia divenuta un
problema così rilevante….. Un prezioso indizio per
capirlo compare nel momento storico in cui la cultura europea è per la prima
volta entrata in contatto con altre culture, altri modi di vedere la vita e la
società
2 - Libertà perversa
Torniamo a Rousseau e al suo citato testo
del 1734 scritto (aspetto importante) per
partecipare ad un concorso, indetto da un circolo giusnaturalista di Digione,
che non a caso aveva come titolo “Qual è l’origine della disuguaglianza tra gli
uomini?”. Una domanda, nata in un contesto di nuovi e intensi
fermenti culturali che manifestavano un inedito interesse verso questo tema, che
già lascia intendere come, al tempo, fosse naturale ritenere la disuguaglianza una
novità intervenuta in un determinato momento della storia umana (la
tesi di Rousseau). Ed
in effetti lungo tutti i secoli che, attraversando l’intero Medioevo, vanno dalla
classicità greco/romana al fine Rinascimento, ranghi e gerarchie, ed in genere
tutte le differenze fra gli uomini, erano vissute come un semplice dato di natura da sempre
esistito. Se il tema della libertà (più
individuale che collettiva) era stato, seppure con diverse
declinazioni, oggetto di attenzioni, quello della disuguaglianza di fatto non era mai emerso. L’uguaglianza sociale semplicemente non
esisteva come concetto, non era tema su cui valesse la pena di
dibattere. Al culmine del Rinascimento con l’esplodere dell’epoca dei “grandi viaggi”
e delle “scoperte geografiche” (che segnano l’avvio di
quella che diventerà una economia globale), buona parte dell’Europa,
fin lì decisamente ai margini della storia mondiale e totalmente ripiegata su
sé stessa, entra in sconvolgente contatto con altre culture, altre civiltà,
altri modi di concepire l’uomo e la società. La scoperta dell’esistenza di un’umanità,
prima mai nemmeno immaginata, sollecita inaspettati spunti di riflessione che,
in campo culturale, ruotano attorno ad un inedito quesito filosofico e legale: che diritti
hanno gli esseri umani per il semplice fatto di essere tali? Vale a dire: quali
diritti hanno “naturalmente” al di là della cultura e della religione alla
quale appartengono?
Sono esattamente queste
le domande che ispirano la corrente filosofico-giuridica del “giusnaturalismo” (proprio quella che nel
1734, sull’onda di queste riflessioni, indice il concorso, con il titolo di cui
si è detto, al quale partecipa Rousseau con il suo saggio) che, a partire dal
1600, ha sistematizzato, proprio in relazione all’emergere di una nuova e
diversa umanità, l’idea dell’esistenza di un “diritto naturale” prevalente sui diversi modelli di “diritto positivo” creati dall’uomo).
La comprensibile curiosità verso un’altra
umanità e verso altri modi di immaginare l’uomo e la società si diffuse rapidamente
negli ambienti culturali europei già a partire dal 1500 per poi crescere
costantemente nel corso del 1600 ed infine autenticamente esplodere nella prima
metà del 1700, in non casuale coincidenza con la piena affermazione dell’Illuminismo,
appena prima del periodo delle grandi Rivoluzioni di fine Settecento. Questa
curiosità è stata alimentata da una straordinaria pubblicazione di diari di
viaggio, di resoconti di missioni commerciali piuttosto che di evangelizzazione
(fra
i quali spicca sicuramente la collana “Relations
des jésuites” una raccolta di numerosissime relazioni composte da padri
gesuiti a formare ben settantadue volumi) capaci di offrire
impressioni “ricavate sul campo” su questa umanità così sconosciuta e così diversa.
Sono scritti da agenti commerciali, da militari, da missionari, che, per quanto
non poco condizionati dalle loro vere finalità, pur tuttavia raccontano, con
toni spesso stupefatti, modi di pensare e di vivere radicalmente differenti.
Nel mare magnum di questi resoconti Graeber e Wengrow si sono concentrati su
quelli relativi alle tribù indigene della “Nuova Francia”, la
regione dei grandi laghi canadesi e americani, (sono
quelli che, non per caso, Rousseau meglio conosceva e che di più lo hanno
ispirato).
si tratta delle tribù
che formavano le famiglie algonchine, montagnais-naskapi, irochesi e wendat, le
quali di fatto erano ancora tutte definibili come un mix di cacciatori/raccoglitori e di proto-agricoltori. Erano di
norma organizzate in comunità, anche numerose, governate da una sorta di
consiglio/assemblea e da poche figure gerarchiche di scarso peso, in cui esisteva
una sostanziale parità fra donne e uomini, una gestione comunitaria dei beni
primari, a tutti assicurati, e rarissime forme di proprietà privata limitata a beni
superflui. Questo contesto consentiva ampi spazi di libertà e di autonomia
individuale, senza rigide regole di obbedienza ai “capi”, in compenso era molto
forte il senso di appartenenza alla comunità rafforzato dall’unanime partecipazione
al consiglio.
Appartiene ad una tribù della confederazione
wendat anche il filosofo-statista Kondiaronk che,
inviato nel 1691 alla corte di Luigi XIV come ambasciatore, vive alcuni anni in
Europa, via via invitato in diverse corti, per sostenere dialoghi pubblici in
cui espone i valori che ispirano il modo di vivere wendat ed in cui giudica con
franchezza e acume quelli europei, acquisendo una incredibile notorietà (questi
dialoghi sono stati raccolti in un libro “Dialoghi con un selvaggio” da Louis-Armand Lahontan, 1666/1716,
militare e viaggiatore per dieci anni in Nuova Francia intimo amico di Kondiaronk).
L’incredibile vicenda di Kondiaronk (non a caso totalmente ignorata dagli
eurocentrici testi storici ufficiali) rappresenta forse l’esempio
più significativo dell’impattante influenza dell’insieme di queste
testimonianze su molti ambienti culturali europei del tempo. (Graeber
e Wengrow riportano numerosi passaggi sia dei resoconti che dei dialoghi di
Kondarionk qui, purtroppo, non riportabili in dettaglio).
Sono state sostanzialmente due le reazioni suscitate da questo “confronto”
riconducibili entrambe alle due scuole di pensiero evidenziate nel Capitolo
precedente: quella “hobbesiana di destra” che liquida ogni
altra cultura come “selvaggia”, amorale, incontrollata e
incontrollabile, priva di qualsivoglia valore, e quella “rousseauniana di sinistra”
che al contrario, identificandole con l’infanzia dell’umanità, trova in esse
preziose indicazioni su come recuperare libertà e superare la disuguaglianza. E’
in questo secondo campo che Graeber e Wengrow scavano di più partendo proprio
dalle critiche (raccolte nei vari resoconti oppure pubblicamente
espresse da Kondiaronk) dei “selvaggi” al modo di vivere
europeo ed ai valori che lo ispirano. Lungo tutta una prima fase tali critiche si
sono in prevalenza concentrate sulla libertà individuale, per Kondiaronk la
libertà primordiale consiste nella libertà di circolare, di disubbidire, di
creare e trasformare i rapporti sociali, così importanti e naturali
per i nativi e così assenti in Europa. Solo in una seconda fase è poi emerso il tema della
disuguaglianza vista proprio come
inevitabile conseguenza della mancanza di libertà e di mutualità e dei
collegati diritti di proprietà, finalizzati al tornaconto personale, ai loro
occhi del tutto incomprensibili. Rousseau, (in un passaggio del
suo saggio) sintetizza queste critiche
(da lui sicuramente molto ben conosciute) in una domanda non retorica:
com’è possibile
che la libertà individuale sia legata in modo inscindibile all’idea di
proprietà privata trasformandosi così in un qualcosa a spese degli altri?
Graeber e Wengrow, per
allargare la loro indagine su una scala più ampia, riformulano questa domanda
di Rousseau in: come è stato possibile che la
disuguaglianza, unitamente alla libertà ed alla fraternità, si sia storicamente
manifestata in alcune parti del mondo, in alcune culture e non in altre? I successivi tre Capitoli sono quindi dedicati a
ricostruire i diversi percorsi, di migliaia di anni, seguiti dall’umanità nella
fase precedente l’avvento dell’agricoltura
3 – Scongelare l’era
glaciale
Negli ultimi decenni l’archeologia (classica unitamente a quella genetica e biologica) ha affinato le
tecniche di ricerca e di studio dei reperti (che comunque sempre lasciano
spazio a soggettive interpretazioni) relativi alla
lunghissima
fase dell’evoluzione umana che va sotto il nome di preistoria, la
lunga era dell’homo sapiens cacciatore/raccoglitore, altrimenti definito “foraggiatore” (vale a dire quella,
coincisa con la fase terminale dell’ultima grande era glaciale di Wurm, da
110.000 a 15.000 anni fa) ma ancora non è realistico pensare di
ricostruire con adeguato rigore scientifico un percorso storico le cui residue testimonianze
sono comunque pochissime e frammentarie.
Allo stato attuale di
conoscenza uno dei pochi punti fermi acquisiti attesta che i primi homo sapiens
sono comparsi in Africa (non solo nelle savane orientali della Rift Valley,
come a lungo si è creduto, ma ovunque dal Marocco, nel suo Nord, al Capo di
Buona Speranza, nel suo estremo Sud) per poi da lì espandersi, in diverse
successive ondate, in tutto il pianeta. Le loro innate diversità biologiche,
accentuate da quelle degli ambienti in cui si sono installati e sono vissuti,
lasciano presupporre altrettante differenti organizzazioni sociali. Tali
diversità hanno implicato inevitabili conseguenze nell’evoluzione culturale di
homo sapiens. La comparsa di comportamenti definibili “cultura” è stata recentemente retrodatata (attestata da reperti
africani quali utensili di pietra e raccolte ordinate di conchiglie) a circa 80.000/100.000 anni
fa. E’ però solo a partire dal periodo preistorico del Paleolitico superiore (l’ultima fase della Preistoria umana che, iniziata circa
50.000 anni fa, viene fatta terminare 12.000/10.000 anni fa, con l’avvento
della cosiddetta Rivoluzione Agricola ed il convenzionale inizio ufficiale
della Storia) che le testimonianze archeologiche, più numerose e più facilmente
interpretabili, consentono ricostruzioni di maggiore attendibilità
Sbalordisce comunque la straordinaria
evoluzione culturale avvenuta in questo periodo, sono infatti emersi reperti
archeologici tali da smentire la superficiale idea, a lungo però prevalente, di
un’umanità ferma alla pura sopravvivenza materiale. Lo testimoniano il ritrovamento di
templi di pietra (rinvenuti
in una vasta area fra Europa e Asia databili in un arco temporale che inizia
25.000 anni fa. Il più famoso, ed il più studiato è quello rinvenuto a Gobleki Tepe,
un sito archeologico situato al confine tra
Turchia e Siria datato circa 9.000 anni fa), la
scoperta di sepolture principesche (analogamente diffuse e
databili fra i 15.000 e i 10.000 anni fa, fra le altre meritano di essere
segnalate quelle rivenute presso Ventimiglia, grotte Grimaldi e dei Balzi
Rossi, e quelle delle grotte Romito in Calabria) e di
monumenti
giganteschi di vario tipo, attorno ai quali sono
state portate alla luce evidenze di attivi centri di scambio e di produzione
artigianale. Si tratta di opere complesse che, per essere realizzate, hanno
richiesto l’utilizzo di tecniche adeguate, il coinvolgimento di moltissime
risorse umane, ma soprattutto la presenza di un sottostante pensiero astratto
capace di ispirarle. Si è cioè di fronte a testimonianze che attestano, senza
dubbio alcuno, che le società di cacciatori/raccoglitori dovevano
avere, per realizzare tutto ciò, istituzioni e pratiche sociali decisamente evolute
e specifiche forme di collaborazione fra più comunità di foraggiatori. E’ una
svolta di indubbia notevolissima portata la cui valutazione, costantemente
aggiornata, impone di andare oltre precedenti assodate convinzioni (le
sepolture principesche, ad esempio, non sembrano più indicare, come
canonicamente fin qui supposto, un omaggio a capi, i soggetti sepolti sembrano
piuttosto accumunati dal possesso di identiche caratteristiche fisiche,
l’altezza in particolare, che lasciano suppore una sorta di riconoscimento alla
“eccezionalità fisiologica”). La valutazione accurata dei
monumenti (ad esempio quelli della pianura di Salisbury in
Inghilterra, compreso il famoso circolo di Stonehenge. Studi recentissimi hanno
attestato che le loro enormi pietre provengono da cave del Galles distanti
qualcosa come 700 chilometri!) ha inoltre evidenziato un
particolare fenomeno di estremo interesse: quello della stagionalità della vita sociale.
Si tratta di un comportamento collettivo (ancora di recente analizzato
in alcune popolazioni amazzoniche da Claude Levi-Strauss, 1908/2009 antropologo
belga-francese, uno dei più importanti antropologi del Novecento, piuttosto che
nelle popolazioni inuit esquimesi) che vede l’alternarsi di
forme diverse di organizzazione sociale nelle stesse comunità
in alcuni periodi
dell’anno, ad esempio quelli più favorevoli per la caccia, i reperti indicano
la presenza di una più rigida struttura gerarchica, probabilmente
indispensabile per il suo buon esito. Prevaleva invece la consolidata gestione
comunitaria in tutti gli altri periodi che consentivano insediamenti stabili, con annesse saltuarie
pratiche proto-agricole, di scambio commerciale, di produzione artigianale, piuttosto
che la stessa costruzione di monumenti con valenza simbolica e rituale
(Stonehenge ad esempio è perfettamente allineata all’alba di mezza estate e al
tramonto di mezzo inverno) realizzati , come si è evidenziato, grazie al lavoro
coordinato di più comunità (la sola ipotesi che può spiegare l’incredibile
sforzo fisico per il trasporto e la costruzione)
Anche l’esistenza di questi schemi stagionali, che (come meglio si vedrà nei Capitoli della Parte Seconda) sono perdurati ancora dopo il Paleolitico nella fase ormai storicamente definita Rivoluzione Agricola, abbinata alla complessità della loro gestione, testimonia che homo sapiens foraggiatore ha per decine di migliaia di anni - all’alba di tutto, ben prima dell’avvento di ciò che convenzionalmente viene fatto rientrare nel concetto di “civiltà umana” - sperimentato in forma cosciente e ragionata variegate forme di organizzazione sociale fatte di relazioni complesse e molto flessibili, ma nella sostanza sempre stabilmente comunitarie ed egualitarie. Quel che però è certo è che al termine della grande era glaciale, dieci/dodici mila anni fa, si innescano alcuni cambiamenti che impongono di capire come e perchè l’umanità, o quantomeno una parte di essa, successivamente, abbia in qualche modo deciso di inquadrarsi in sistemi sociali gerarchici e disugualitari. La risposta, fin qui consolidata, consisteva nella convinzione che questa svolta sia stata la conseguenza dell’introduzione estesa dell’agricoltura e della collegata nascita delle città.
Graeber e Wengrow
pensano invece, sempre sulla base delle più recenti scoperte archeologiche, che
il percorso sia stato molto più complesso, molto più articolato e
differenziato, fatto di bivi che consentivano di muovere in direzioni diverse.
I prossimi due Capitoli sono dedicati a fissare alcune considerazioni
preliminari indispensabili per entrare successivamente (in Capitoli compresi nella Parte Seconda di questa nostra
sintesi) nel merito della “presunta” Rivoluzione Agricola
4 - Uomini liberi, origine delle culture e della proprietà privata
La
vulgata classica vuole che i cacciatori/raccoglitori del Neolitico scoprano,
letteralmente, le virtù di coltivazione e allevamento e che, in tempi brevi, le
adottino come forma principale se non unica di sostentamento, abbandonando così
le tradizionali attività di caccia e raccolta. (una svolta che, in
contemporanea, avrebbe comportato processi di accentuato inurbamento, con la
conseguente nascita di città e sistemi sociali più strutturati gerarchicamente).
Le obiezioni di Graeber e Wendrow vertono innanzitutto sulle concrete
motivazioni che avrebbero indotto i foraggiatori del tempo ad un così repentino
cambiamento. Per entrare nel merito prendono spunto dalle tesi sostenute in un
saggio, edito nel 1972, considerato uno dei caposaldi della moderna
antropologia: “L’economia dell’età della pietra” di Marshall Sahlins (1930/2021
antropologo statunitense, il suo testo
rappresenta l’ultimo e più rilevante esempio di “preistoria speculativa”, vale a dire l’assunzione di ipotesi sulla
vita dei foraggiatori basata più sulla comparazione con gli stili di vita delle
contemporanee residue popolazioni di cacciatori/raccoglitori che
sull’interpretazione di siti archeologici).
La sua tesi è che la normale vita dei cacciatori/raccoglitori, per quanto certo
non priva di problemi e pericoli, fosse di fatto sostanzialmente soddisfacente
e tranquilla, essendo fatta di molte meno ore di “lavoro” e di una
gratificante vita sociale (due presupposti che giustificano la sua
definizione di “società benestante originale”). Un’idea
(di
fatto simile a quella di Rousseau ed altrettanto priva di basi scientifiche) non
comprovabile, e come tale oggetto di critiche, che
ha però avuto il merito di incentivare ulteriori specifiche ricerche che hanno
consentito di meglio valutare importanti insediamenti tutti databili a cavallo
della transizione dal Paleolitico Superiore. Spiccano in particolare il sito di
Poverty
Point, sul delta del Mississippi negli USA,
(un’impressionante serie di terrapieni a formare anelli
concentrici, speculari a costellazioni, disposti su un’area molto vasta, la cui
costruzione, iniziata circa 10.000 anni fa,
ha richiesto, anch’essa, il lavoro
immane di moltissimi foraggiatori provenienti da diverse aree), di diversi siti
archeologi giapponesi collocabili nel periodo storico definito Jomon (iniziato circa 12.000 anni fa e
durato fino a meno di 2.000 anni fa, i geni di questi foraggiatori sono ancora rintracciabili
nel 15% della popolazione dell’arcipelago giapponese) e dei bastioni
di pietra, chiamati Jatinkirkko (chiese dei
giganti) innalzati
a decine da foraggiatori scandinavi. Questi siti (che evidenziano una
situazione comune e diffusa in aree diverse del mondo) erano
sede di incontri periodici di massa (probabilmente per ragioni di culto) e
testimoniano fitte reti di scambi culturali e di forti relazioni sociali fra numerose
comunità.
i foraggiatori del
Paleolitico vivevano di norma in gruppi poco numerosi, ma le loro
interrelazioni erano molto intense e stabili, tanto da formare autentiche “nazioni/confederazioni” (protrattesi a lungo
come dimostrano gli stessi nativi americani, si pensi ad esempio alla nazione
wendat del Capitolo 1). Una ricchezza di
relazioni sociali andata
però perduta con l’affermarsi della successiva maggiore stanzialità
Tutti
non solo confermano che comportamenti collettivi ricchi di cultura e
socialità erano ben presenti già millenni prima dell’avvento dell’agricoltura,
ma soprattutto raccontano il protrarsi di esperienze tipiche dei foraggiatori ancora
per millenni dopo l’acquisizione delle tecniche di coltivazione (presenti
in tutti questi siti) a testimoniare la scelta, razionale e
consapevole, di conservarle.
La cultura aborigena australiana, grazie al suo
millenario isolamento dal resto del mondo, è un’altra straordinaria
testimonianza della volontà di mantenere tradizionali stili di vita da
cacciatori/raccoglitori pur avendo, in modo ovviamente autonomo, sviluppato una
protoagricoltura. Parti del paesaggio
australiano sono infatti state adattate alle esigenze aborigene con il ricorso,
sistematico e studiato, ad incendi controllati, alla sarchiatura, alla
piantumazione di boschi cedui, alla fertilizzazione, alla potatura, a limitati
terrazzamenti, ma senza innescare una cultura stanziale
Nei Capitoli successivi (Parte
seconda di questa sintesi) Graeber e Wengrow entreranno nel
merito delle modalità “tecniche” di avvento dell’agricoltura, (evidenziandone
sorprendenti aspetti) quello che, su queste basi, fin da ora
sottolineano è che non è sostenibile la tesi che essa abbia
automaticamente innescato trasformazioni irreversibili sulla propensione alla
stanzialità e sulla struttura delle relazioni sociali. Là dove
queste si sono verificate (ma, come si vedrà, con tempistiche
incredibilmente dilatate) ciò non è avvenuto per rassegnato e
inconsapevole adattamento ad una forma diversa di sostentamento alimentare, ma al
contrario per consapevoli scelte che chiamano però in causa anche altri
specifici elementi di un’intervenuta evoluzione culturale. Ed è esattamente su
di questi, vista la loro centralità, che è opportuno indagare. Un primo spunto
in questo senso viene dal fatto che le caratteristiche di “incontro culturale” e la
stessa struttura di tutti questi siti definiscono indubbiamente il loro essere
anche “luoghi sacri”, un aspetto che molto può dire sulla stessa
origine della “proprietà privata”. I reperti lasciano infatti intuire (aspetto
peraltro avvalorato dal suo persistere in alcune delle attuali residue
popolazioni di cacciatori/raccoglitori) l’esistenza di una loro specifica
relazione, si tratta però di una forma di proprietà privata molto particolare,
ossia quella
che consente solo il diritto al possesso esclusivo di oggetti
rituali che sanciscono un rapporto
altrettanto esclusivo con elementi immateriali (quali formule magiche,
storie, conoscenze mediche) piuttosto che (come
per gli aborigeni australiani) di spazi territoriali il
cui “proprietario” è tenuto a salvaguardare e curare. Questa
particolare forma di proprietà privata sacralizzata è rafforzata dall’obbligo per
tutta la comunità del suo pieno rispetto
la classica definizione
di sacro, ossia di qualcosa che è a parte nel mondo ma legato ad una forza o un
essere superiore, messa a punto dal francese Emile Durkeim, 1858/1917 sociologo e storico delle religioni, è “ciò che occupa un posto a parte”, e la sua
espressione più chiara è il termine polinesiano “tabù” che significa “da non toccare”
Allo stato attuale della ricerca archeologica e antropologica non sono emerse, salvo rarissime eccezioni altre forme di proprietà o possesso (non è neppure dato sapere con certezza se erano veri possessi personali gli arredi funebri delle tombe principesche). Se quindi la proprietà privata ha una possibile origine, essa con buona probabilità è antica quanto l’idea di sacro, che a sua volta è antica quanto l’umanità, al punto che la domanda più corretta non è tanto chiedersi quando esattamente tutto ciò sia iniziato ad accadere, ma piuttosto “come sia riuscito, a lungo andare, a determinare molti altri aspetti delle vicende umane”. Non meno importante sarebbe chiedersi perché alcuni foraggiatori, convertiti all’agricoltura stanziale, abbiano sentito il bisogno di “produrre più del necessario” (le società ugualitarie, come quelle dei foraggiatori, sono di norma quelle con economie “a rendimento immediato”, si consuma tutto quanto prodotto ed eventuali avanzi sono condivisi, sono invece “a rendimento ritardato” quelle in cui si investono energie e risorse per attività capaci di dare frutti solo nel futuro) innescando così la comparsa “dell’eccedenza” fin lì assente nel loro modo di vivere. La comparsa, per qualsiasi ragione avvenuta, dell’eccedenza ha infatti inevitabilmente comportato domande e conseguenti diversificate risposte, sul suo utilizzo, sulla sua divisione e sulla sua gestione, tutti passaggi propedeutici alla nascita della “proprietà privata” e del concetto stesso di “lavoro”. Allo stato attuale della ricerca archeologica e antropologica questa resta però, da un punto di vista scientifico, una domanda senza soddisfacente risposta. Allo stesso modo Graeber e Wengrow rimandano ai Capitoli successivi l’approfondimento dei collegati percorsi che hanno portato all’instaurarsi di più definite strutture sociali gerarchiche e disugualitarie, anche in questo caso sembra ormai insostenibile la tesi che si siano potute innescare solamente ed unicamente dopo l’avvento dell’agricoltura. Non mancano in questo senso indiscutibili testimonianze archeologiche ed antropologiche (Come quella dei popoli “calusa” e “natchez” , in Florida, USA, non lontano da Poverty Point, che, favoriti dalla ricchezza di risorse naturali, hanno in questi stessi millenni sviluppato relazioni sociali fortemente gerarchiche e disugualitarie pur in totale assenza di agricoltura).
5 – Molte stagioni fa
Nella
California
pre-colombiana, un’area ecologicamente molto simile al Medio Oriente
della mesopotamica “Terra dei fiumi” in cui all’incirca
nello stesso periodo (10.000-12.000 anni fa) vivevano
centinaia di migliaia di foraggiatori frazionati in molte popolazioni (si
tratta quasi sicuramente della maggior concentrazione mondiale di foraggiatori
i cui stili di vita, così come per tutti i nativi americani, si sono
autonomamente evoluti in un contesto isolato fino all’arrivo dei colonizzatori
europei, consentendo così di essere conosciuti con osservazioni dirette prima
di essere progressivamente cancellati dalla cosiddetta civilizzazione). E’
qui, in California, che si è verificata una vicenda per molti versi esemplare sul
ruolo dell’agricoltura perché queste popolazioni (che pure conoscevano
molto bene le tecniche di coltivazione, da loro usate per produrre tabacco ed
altre piante usate a fini rituali) si sono deliberatamente rifiutate di
praticare una vera e propria agricoltura e di usare le colture come base della
loro alimentazione. Per meglio analizzarla e comprenderla è necessaria
una preliminare digressione di valenza generale (che riprende quanto
anticipato nel precedente Capitolo 4) sulle modalità di
trasmissione di elementi culturali tra le popolazioni di foraggiatori (un
tema che ha impegnato a lungo il dibattito antropologico, con diverse
contrapposte scuole di pensiero che hanno coinvolto anche gli storici
dell’evoluzione linguistica e della sua incredibile frammentazione).
L’ipotesi ormai prevalente è quella, formulata da Marcel Mauss (1872/1950,
antropologo e sociologo francese), che ritiene la “diffusione
culturale” il normale esito del loro nomadismo, fatto
di continui spostamenti che sono stati una costante occasione di incontri, di
confronto e quindi di reciproco scambio. Non deve stupire il diffondersi di comuni
tratti culturali, semmai è utile interrogarsi sul suo contrario, per
individuare le ragioni (da comprendere caso per caso) in
base alle quali alcune popolazioni di cacciatori/raccoglitori abbiano ritenuto di
non avvalersene.
Mauss ha persino
sostenuto l’idea che tutte le culture sempre
si definiscono rispetto a quelle vicine, a maggior ragione quando, per scelte
motivate, le rifiutano.
Nel
filone concettuale aperto da Mauss si colloca anche l’elaborazione da parte di
Gregory Bateson (1904/1980, antropologo e sociologo
britannico) dell’idea di “schismogenesi”, (sarà nostra Parola del mese di
Ottobre 2024), ossia l'insieme
di interazioni tra individui, ma soprattutto gruppi e culture, che dà origine a
eventuali loro divisioni anche distruttive. Le idee di Mauss e Bateson sono
utili per decifrare l’insolita scelta delle popolazioni californiane che
sembra proprio essere maturata per dinamiche culturali riconducibili ad una
classica situazione di schismogenesi. In effetti la grande estensione, con
accentuate diversità ambientali, della California ha favorito il sorgere di due
distinte aree culturali - una collocata a Nord, più prossima alla costa e
quindi con una economia basata sulla pesca, ed una più a Sud, molto più
eterogenea grazie al variegato habitat simil mediterraneo - le quali, pur
avendo da sempre relazioni di vario genere compresi intensi scambi culturali, hanno
sviluppato due forme di società totalmente diverse.
I resoconti dei primi
europei entrati con loro in contatto al culmine della loro millenaria vicenda
evolutiva, descrivono quella del Nord come una società
molto gerarchica con al suo vertice una aristocrazia guerriera capace di
sistematiche “azioni di cattura” per ridurre
in condizioni di semi-schiavitù membri delle popolazioni limitrofe a cui
delegare “il lavoro” della pesca e della
raccolta, godendo delle eccedenze in grandi feste collettive (definite potlatch). A Sud riferiscono invece di una società basata su una particolare forma di proprietà
privata, sui commerci, su una sorta di denaro
(conchiglie bianche), con una forte concezione etica del lavoro, del
senso della misura e del risparmio
Come
spiegare differenze così profonde fra
due aree culturali confinanti oltretutto (aspetto quanto mai
rilevante per le finalità di questo saggio) accomunate dal condiviso
rifiuto ragionato dell’agricoltura? Non
convince, secondo Graeber e Wengrow, la tesi classica, comunemente definita “teoria del
foraggiamento”(secondo la quale le società dei
cacciatori/raccoglitori si sono formate sulla base di valutazioni di
razionalità economica scegliendo cioè di organizzarsi, nel loro specifico
contesto ambientale, in relazione alle strategie di caccia/raccolta che meglio
garantivano il massimo di raccolta con il minimo di fatica)
perché le rispettive scelte, pesca al Nord e raccolta al Sud, presentavano pari
vantaggi e complicazioni, l’elemento determinante a loro avviso è piuttosto
rappresentato dall’attitudine guerresca dei foraggiatori del Nord e dalla
collegata pratica della schiavitù, aspetti
chiaramente connessi alla loro struttura sociale fortemente gerarchica, con al
suo vertice una autentica “classe” dominante, maturati nel corso del tempo
sulla base di consapevoli scelte cultural-politiche. Recuperando le idee di Mauss
sulla diffusione culturale ed il batesiano concetto di schismogenesi tali
scelte bene spiegano anche la contrapposta scelta dei foraggiatori del Sud.
Tutte le evidenze raccolte indicano infatti che la necessità di fronteggiare le “azioni
di cattura” di quelli del Nord
avrebbe sul lungo periodo incentivato, come reazione di “rifiuto della cultura altrui”,
il formarsi della loro contrapposta cultura sociale, con il ruolo centrale dato
al
lavoro e alla frugalità, compensati, non casualmente, dal riconoscimento di spazi di
proprietà privata (aree riservate per la raccolta). Questa
straordinaria vicenda evolutiva dei foraggiatori californiani da una parte
rafforza l’evidenza delle complessità culturali di popolazioni, quelle dei
cacciatori/raccoglitori, troppo a lungo ritenute incapaci di azioni politiche
intelligenti (ben prima che “magicamente”
l’agricoltura le mettesse in moto), dall’altra fa emergere un
primo aspetto centrale per meglio comprendere il percorso umano: libertà,
gerarchie sociali, uguaglianza, tendono a comporsi insieme l’una come
complemento dell’altra.
Si completa con
questo Capitolo 5 la Parte Prima di questa sintesi, nei Capitoli della prossima
Parte Seconda Graeber e Wengrow entreranno, come già anticipato, nel merito
della cosiddetta “Rivoluzione Agricola” per capire in quali modi si sia
inserita nel percorso evolutivo fin qui tracciato e quali cambiamenti abbia
realmente innescato