domenica 15 settembre 2024

Il "Saggio" del mese - Settembre 2024

 

Il “Saggio” del mese

 SETTEMBRE 2024

Come già anticipato, sarà il valore dell’uguaglianza il filo conduttore del nostro programma 2024/2025 che lo analizzerà, da diversi punti di osservazione, nelle sue attuali diverse forme. Anche il saggio di questo mese ha al suo centro il tema dell’uguaglianza, ma lo affronta, con un’ottica antropologica e archeologica, risalendo alle origini delle varie culture espresse dall’umanità e comparando i loro diversi modi di concepire e realizzare le relazioni sociali con particolare attenzione alla declinazione di valori come la libertà e, per l’appunto, l’uguaglianza. Per fare ciò questo saggio (già recensito in un nostro post di Novembre 2022) raccoglie e sistematizza una considerevole mole di dati e testimonianze ed ha quindi una dimensione così cospicua da rendere impossibile, se si vuole minimamente cogliere la sua preziosa ricchezza intellettuale, lo spazio normale dei nostri post. Siamo quindi costretti a suddividere in tre parti questa sintesi che si spera riesca a dare conto della trattazione generale privilegiando al contempo le parti più connesse al tema della disuguaglianza.

I suoi due autori sono

(a destra della foto) David Graeber (1961/2020, antropologo statunitense, professore di antropologia culturale prima presso l’Università di Yale e poi presso la London Scholl of Economics, attivista politico promotore del movimento “Occupy Wall Street) e (a sinistra della foto) David Wengrow (1972, archeologo britannico, professore di archeologia comparata presso l'Institute of Archeology, University College London) che affrontano il tema dell’uguaglianza/disuguaglianza inserendolo in una ricostruzione di più ampio respiro ispirata da alcune domande di partenza:

Ø la storia dell’umanità, fin dalle sue più lontane origini, può davvero essere concepita come un avanzamento lineare che non poteva avere altro esito che gli attuali modi di concepire e gestire la società, l’economia, l’intera cultura?

Ø è possibile che la sua ricostruzione classica sia in effetti la storia di un mito più o meno strumentalmente costruito proprio per sostenere l’idea di un progresso lineare dall’esito scontato?

Ø quanto ha pesato il fatto che questa idea del procedere umano sia sostanzialmente maturata nell’ambito della cultura occidentale anche grazie alla totale dimenticanza di altre idee, di altre concezioni della storia umana?

Ø il concetto stesso di diseguaglianza, la cui accettazione come fattore fondante delle società umane, come “fatto naturale”, ne è forse il prodotto inevitabile?

Ø diventa allora importante recuperare altri punti di vista, altre narrazioni, altri miti capaci di spiegare diversamente quanto sin qui successo?

Con questo spirito seguiamo con loro, per meglio capire il presente, questo viaggio nel tempo

Parte prima – Capitoli 1 - 5

Nei primi due capitoli Graeber e Wengrow ripercorrono i passaggi che hanno caratterizzato, fra il 1500 e il 1700, l’inaspettato incontro della cultura europea con altre civiltà e come questo incontro abbia profondamente influenzato l’intero dibattito sui due concetti/valori di libertà ed uguaglianza

1 - Addio all’infanzia dell’umanità

Le attuali spaventose disuguaglianze economiche rappresentano senza dubbio l’aspetto più rilevante dell’ingiustizia sociale a livello globale. Non si tratta purtroppo di una novità, ma solo negli ultimi secoli, quelli della Modernità europea e del sistema capitalistico, essa è stata più compiutamente percepita come una specifica ingiustizia. Ancora oggi è opinione diffusa assumere come momento di avvio di questa riflessione la pubblicazione (avvenuta nel 1734) dell’opera di Jean-Jacques Rosseau (1712/1778, filosofo svizzero comunemente ritenuto francese) con titolo “Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini”, nella quale sostiene che l’avvento dell’agricoltura prima e delle città poi abbia posto le condizioni per una compiuta “civiltà”, ma al prezzo di cancellare “l’armonia egualitaria” delle piccole bande di cacciatori/raccoglitori, che per decine di millenni aveva segnato la storia umana, creando così anche le condizioni per l’affermarsi della disuguaglianza. L’idea di questa idilliaca “infanzia dell’umanità” ha i tratti di una rudimentale semplificazione, eppure è divenuta una sorta di mito consolatorio ancor oggi non poco diffuso. Non meno radicata è però anche l’idea, esattamente opposta, espressa un secolo prima da Thomas Hobbes (1588/1679, filosofo inglese) nella sua opera più famosa “Leviatano(1651), in cui sostiene che l’umanità è invece sempre vissuta in uno stato di guerra permanente di “tutti contro tutti” risolto solamente con la nascita, avvenuta in coincidenza con l’agricoltura, di società organizzate con adeguati meccanismi di controllo e repressione affidati ad un forte potere poi evoluto nella sua forma compiuta nello “Stato moderno. Si tratta di due concezioni che, a distanza di secoli, ancora compaiono sotto traccia con la prima, quella di Rousseau, nelle idee di “sinistra” e la seconda, quella di Hobbes, in quelle di “destra”. Il solo elemento certo che le accomuna è il fatto, stabilito dalle attuali conoscenze, che ambedue non hanno nulla a vedere con fatti realmente accaduti, sono cioè ambedue ipotesi prive di fondamento scientifico. Non è infatti vero, come si avrà modo di vedere, che prima dell’avvento dell’agricoltura l’umanità fosse composta solo da piccole e sprovvedute bande di cacciatori/raccoglitori, che la proprietà privata sia nata con la rivoluzione agricola e neppure che la concentrazione nelle città abbia implicato il sorgere delle disuguaglianze. La persistenza nella cultura europea ed occidentale di due tesi ormai scientificamente smentite non sembra giustificata solo dall’ignoranza o dalla sottovalutazione delle successive scoperte, ma rivela l’esistenza di un preconcetto intellettuale utile per rafforzare una comoda, per quanto errata, narrazione della storia dell’umanità. Come si avrà modo di cogliere, questo limite ha una ricaduta diretta sulla comprensione della stessa disuguaglianza (un concetto per secoli assente nel dibattito culturale europeo) da rendere opportuno ….prima ancora di domandarci come abbiamo finito per essere disuguali, chiederci come sia accaduto che la disuguaglianza sia divenuta un problema così rilevante….. Un prezioso indizio per capirlo compare nel momento storico in cui la cultura europea è per la prima volta entrata in contatto con altre culture, altri modi di vedere la vita e la società

2 - Libertà perversa

Torniamo a Rousseau e al suo citato testo del 1734 scritto (aspetto importante) per partecipare ad un concorso, indetto da un circolo giusnaturalista di Digione, che non a caso aveva come titolo “Qual è l’origine della disuguaglianza tra gli uomini?”. Una domanda, nata in un contesto di nuovi e intensi fermenti culturali che manifestavano un inedito interesse verso questo tema, che già lascia intendere come, al tempo, fosse naturale ritenere la disuguaglianza una novità intervenuta in un determinato momento della storia umana (la tesi di Rousseau).  Ed in effetti lungo tutti i secoli che, attraversando l’intero Medioevo, vanno dalla classicità greco/romana al fine Rinascimento, ranghi e gerarchie, ed in genere tutte le differenze fra gli uomini, erano vissute come un semplice dato di natura da sempre esistito. Se il tema della libertà (più individuale che collettiva) era stato, seppure con diverse declinazioni, oggetto di attenzioni, quello della disuguaglianza di fatto non era mai emerso. L’uguaglianza sociale semplicemente non esisteva come concetto, non era tema su cui valesse la pena di dibattere. Al culmine del Rinascimento con l’esplodere dell’epoca dei “grandi viaggi” e delle “scoperte geografiche(che segnano l’avvio di quella che diventerà una economia globale), buona parte dell’Europa, fin lì decisamente ai margini della storia mondiale e totalmente ripiegata su sé stessa, entra in sconvolgente contatto con altre culture, altre civiltà, altri modi di concepire l’uomo e la società. La scoperta dell’esistenza di un’umanità, prima mai nemmeno immaginata, sollecita inaspettati spunti di riflessione che, in campo culturale, ruotano attorno ad un inedito quesito filosofico e legale: che diritti hanno gli esseri umani per il semplice fatto di essere tali? Vale a dire: quali diritti hanno “naturalmente” al di là della cultura e della religione alla quale appartengono?

Sono esattamente queste le domande che ispirano la corrente filosofico-giuridica del “giusnaturalismo” (proprio quella che nel 1734, sull’onda di queste riflessioni, indice il concorso, con il titolo di cui si è detto, al quale partecipa Rousseau con il suo saggio) che, a partire dal 1600, ha sistematizzato, proprio in relazione all’emergere di una nuova e diversa umanità, l’idea dell’esistenza di un “diritto naturale” prevalente sui diversi modelli di “diritto positivo” creati dall’uomo).

La comprensibile curiosità verso un’altra umanità e verso altri modi di immaginare l’uomo e la società si diffuse rapidamente negli ambienti culturali europei già a partire dal 1500 per poi crescere costantemente nel corso del 1600 ed infine autenticamente esplodere nella prima metà del 1700, in non casuale coincidenza con la piena affermazione dell’Illuminismo, appena prima del periodo delle grandi Rivoluzioni di fine Settecento. Questa curiosità è stata alimentata da una straordinaria pubblicazione di diari di viaggio, di resoconti di missioni commerciali piuttosto che di evangelizzazione (fra i quali spicca sicuramente la collana “Relations des jésuites” una raccolta di numerosissime relazioni composte da padri gesuiti a formare ben settantadue volumi) capaci di offrire impressioni “ricavate sul campo” su questa umanità così sconosciuta e così diversa. Sono scritti da agenti commerciali, da militari, da missionari, che, per quanto non poco condizionati dalle loro vere finalità, pur tuttavia raccontano, con toni spesso stupefatti, modi di pensare e di vivere radicalmente differenti. Nel mare magnum di questi resoconti Graeber e Wengrow si sono concentrati su quelli relativi alle tribù indigene della “Nuova Francia”, la regione dei grandi laghi canadesi e americani, (sono quelli che, non per caso, Rousseau meglio conosceva e che di più lo hanno ispirato).

si tratta delle tribù che formavano le famiglie algonchine, montagnais-naskapi, irochesi e wendat, le quali di fatto erano ancora tutte definibili come un mix di cacciatori/raccoglitori e di proto-agricoltori. Erano di norma organizzate in comunità, anche numerose, governate da una sorta di consiglio/assemblea e da poche figure gerarchiche di scarso peso, in cui esisteva una sostanziale parità fra donne e uomini, una gestione comunitaria dei beni primari, a tutti assicurati, e rarissime forme di proprietà privata limitata a beni superflui. Questo contesto consentiva ampi spazi di libertà e di autonomia individuale, senza rigide regole di obbedienza ai “capi”, in compenso era molto forte il senso di appartenenza alla comunità rafforzato dall’unanime partecipazione al consiglio.           

Appartiene ad una tribù della confederazione wendat anche il filosofo-statista Kondiaronk che, inviato nel 1691 alla corte di Luigi XIV come ambasciatore, vive alcuni anni in Europa, via via invitato in diverse corti, per sostenere dialoghi pubblici in cui espone i valori che ispirano il modo di vivere wendat ed in cui giudica con franchezza e acume quelli europei, acquisendo una incredibile notorietà (questi dialoghi sono stati raccolti in un libro “Dialoghi con un selvaggio” da Louis-Armand Lahontan, 1666/1716, militare e viaggiatore per dieci anni in Nuova Francia intimo amico di Kondiaronk). L’incredibile vicenda di Kondiaronk (non a caso totalmente ignorata dagli eurocentrici testi storici ufficiali) rappresenta forse l’esempio più significativo dell’impattante influenza dell’insieme di queste testimonianze su molti ambienti culturali europei del tempo. (Graeber e Wengrow riportano numerosi passaggi sia dei resoconti che dei dialoghi di Kondarionk qui, purtroppo, non riportabili in dettaglio). Sono state sostanzialmente due le reazioni suscitate da questo “confronto” riconducibili entrambe alle due scuole di pensiero evidenziate nel Capitolo precedente: quella “hobbesiana di destra” che liquida ogni altra cultura come “selvaggia”, amorale, incontrollata e incontrollabile, priva di qualsivoglia valore, e quella “rousseauniana di sinistra” che al contrario, identificandole con l’infanzia dell’umanità, trova in esse preziose indicazioni su come recuperare libertà e superare la disuguaglianza. E’ in questo secondo campo che Graeber e Wengrow scavano di più partendo proprio dalle critiche (raccolte nei vari resoconti oppure pubblicamente espresse da Kondiaronk) dei “selvaggi” al modo di vivere europeo ed ai valori che lo ispirano. Lungo tutta una prima fase tali critiche si sono in prevalenza concentrate sulla libertà individuale, per Kondiaronk la libertà primordiale consiste nella libertà di circolare, di disubbidire, di creare e trasformare i rapporti sociali, così importanti e naturali per i nativi e così assenti in Europa. Solo in una seconda fase è poi emerso il tema della disuguaglianza vista proprio come inevitabile conseguenza della mancanza di libertà e di mutualità e dei collegati diritti di proprietà, finalizzati al tornaconto personale, ai loro occhi del tutto incomprensibili. Rousseau, (in un passaggio del suo saggio) sintetizza queste critiche (da lui sicuramente molto ben conosciute) in una domanda non retorica: com’è possibile che la libertà individuale sia legata in modo inscindibile all’idea di proprietà privata trasformandosi così in un qualcosa a spese degli altri?

Graeber e Wengrow, per allargare la loro indagine su una scala più ampia, riformulano questa domanda di Rousseau in: come è stato possibile che la disuguaglianza, unitamente alla libertà ed alla fraternità, si sia storicamente manifestata in alcune parti del mondo, in alcune culture e non in altre? I successivi tre Capitoli sono quindi dedicati a ricostruire i diversi percorsi, di migliaia di anni, seguiti dall’umanità nella fase precedente l’avvento dell’agricoltura

3 – Scongelare l’era glaciale

Negli ultimi decenni l’archeologia (classica unitamente a quella genetica e biologica) ha affinato le tecniche di ricerca e di studio dei reperti (che comunque sempre lasciano spazio a soggettive interpretazioni) relativi alla lunghissima fase dell’evoluzione umana che va sotto il nome di preistoria, la lunga era dell’homo sapiens cacciatore/raccoglitore, altrimenti definito foraggiatore” (vale a dire quella, coincisa con la fase terminale dell’ultima grande era glaciale di Wurm, da 110.000 a 15.000 anni fa) ma ancora non è realistico pensare di ricostruire con adeguato rigore scientifico un percorso storico le cui residue testimonianze sono comunque pochissime e frammentarie.

Allo stato attuale di conoscenza uno dei pochi punti fermi acquisiti attesta che i primi homo sapiens sono comparsi in Africa (non solo nelle savane orientali della Rift Valley, come a lungo si è creduto, ma ovunque dal Marocco, nel suo Nord, al Capo di Buona Speranza, nel suo estremo Sud) per poi da lì espandersi, in diverse successive ondate, in tutto il pianeta. Le loro innate diversità biologiche, accentuate da quelle degli ambienti in cui si sono installati e sono vissuti, lasciano presupporre altrettante differenti organizzazioni sociali. Tali diversità hanno implicato inevitabili conseguenze nell’evoluzione culturale di homo sapiens. La comparsa di comportamenti definibili “cultura” è stata recentemente retrodatata (attestata da reperti africani quali utensili di pietra e raccolte ordinate di conchiglie) a circa 80.000/100.000 anni fa. E’ però solo a partire dal periodo preistorico del Paleolitico superiore (l’ultima fase della Preistoria umana che, iniziata circa 50.000 anni fa, viene fatta terminare 12.000/10.000 anni fa, con l’avvento della cosiddetta Rivoluzione Agricola ed il convenzionale inizio ufficiale della Storia) che le testimonianze archeologiche, più numerose e più facilmente interpretabili, consentono ricostruzioni di maggiore attendibilità

Sbalordisce comunque la straordinaria evoluzione culturale avvenuta in questo periodo, sono infatti emersi reperti archeologici tali da smentire la superficiale idea, a lungo però prevalente, di un’umanità ferma alla pura sopravvivenza materiale. Lo testimoniano il ritrovamento di templi di pietra (rinvenuti in una vasta area fra Europa e Asia databili in un arco temporale che inizia 25.000 anni fa. Il più famoso, ed il più studiato è quello rinvenuto a Gobleki Tepe, un sito archeologico situato al confine tra Turchia e Siria datato circa 9.000 anni fa), la scoperta di sepolture principesche (analogamente diffuse e databili fra i 15.000 e i 10.000 anni fa, fra le altre meritano di essere segnalate quelle rivenute presso Ventimiglia, grotte Grimaldi e dei Balzi Rossi, e quelle delle grotte Romito in Calabria) e di monumenti giganteschi di vario tipo, attorno ai quali sono state portate alla luce evidenze di attivi centri di scambio e di produzione artigianale. Si tratta di opere complesse che, per essere realizzate, hanno richiesto l’utilizzo di tecniche adeguate, il coinvolgimento di moltissime risorse umane, ma soprattutto la presenza di un sottostante pensiero astratto capace di ispirarle. Si è cioè di fronte a testimonianze che attestano, senza dubbio alcuno, che le società di cacciatori/raccoglitori dovevano avere, per realizzare tutto ciò, istituzioni e pratiche sociali decisamente evolute e specifiche forme di collaborazione fra più comunità di foraggiatori. E’ una svolta di indubbia notevolissima portata la cui valutazione, costantemente aggiornata, impone di andare oltre precedenti assodate convinzioni (le sepolture principesche, ad esempio, non sembrano più indicare, come canonicamente fin qui supposto, un omaggio a capi, i soggetti sepolti sembrano piuttosto accumunati dal possesso di identiche caratteristiche fisiche, l’altezza in particolare, che lasciano suppore una sorta di riconoscimento alla “eccezionalità fisiologica”). La valutazione accurata dei monumenti (ad esempio quelli della pianura di Salisbury in Inghilterra, compreso il famoso circolo di Stonehenge. Studi recentissimi hanno attestato che le loro enormi pietre provengono da cave del Galles distanti qualcosa come 700 chilometri!) ha inoltre evidenziato un particolare fenomeno di estremo interesse: quello della stagionalità della vita sociale. Si tratta di un comportamento collettivo (ancora di recente analizzato in alcune popolazioni amazzoniche da Claude Levi-Strauss, 1908/2009 antropologo belga-francese, uno dei più importanti antropologi del Novecento, piuttosto che nelle popolazioni inuit esquimesi) che vede l’alternarsi di forme diverse di organizzazione sociale nelle stesse comunità

in alcuni periodi dell’anno, ad esempio quelli più favorevoli per la caccia, i reperti indicano la presenza di una più rigida struttura gerarchica, probabilmente indispensabile per il suo buon esito. Prevaleva invece la consolidata gestione comunitaria in tutti gli altri periodi che consentivano  insediamenti stabili, con annesse saltuarie pratiche proto-agricole, di scambio commerciale, di produzione artigianale, piuttosto che la stessa costruzione di monumenti con valenza simbolica e rituale (Stonehenge ad esempio è perfettamente allineata all’alba di mezza estate e al tramonto di mezzo inverno) realizzati , come si è evidenziato, grazie al lavoro coordinato di più comunità (la sola ipotesi che può spiegare l’incredibile sforzo fisico per il trasporto e la costruzione)

Anche l’esistenza di questi schemi stagionali, che (come meglio si vedrà nei Capitoli della Parte Seconda) sono perdurati ancora dopo il Paleolitico nella fase ormai storicamente definita Rivoluzione Agricola, abbinata alla complessità della loro gestione, testimonia che homo sapiens foraggiatore ha per decine di migliaia di anni - all’alba di tutto, ben prima dell’avvento di ciò che convenzionalmente viene fatto rientrare nel concetto di “civiltà umana” - sperimentato in forma cosciente e ragionata variegate forme di organizzazione sociale fatte di relazioni complesse e molto flessibili, ma nella sostanza sempre stabilmente comunitarie ed egualitarie. Quel che però è certo è che al termine della grande era glaciale, dieci/dodici mila anni fa, si innescano alcuni cambiamenti che impongono di capire come e perchè l’umanità, o quantomeno una parte di essa, successivamente, abbia in qualche modo deciso di inquadrarsi in sistemi sociali gerarchici e disugualitari. La risposta, fin qui consolidata, consisteva nella convinzione che questa svolta sia stata la conseguenza dell’introduzione estesa dell’agricoltura e della collegata nascita delle città.

Graeber e Wengrow pensano invece, sempre sulla base delle più recenti scoperte archeologiche, che il percorso sia stato molto più complesso, molto più articolato e differenziato, fatto di bivi che consentivano di muovere in direzioni diverse. I prossimi due Capitoli sono dedicati a fissare alcune considerazioni preliminari indispensabili per entrare successivamente (in Capitoli compresi nella Parte Seconda di questa nostra sintesi) nel merito della “presunta” Rivoluzione Agricola 

4 - Uomini liberi, origine delle culture e della proprietà privata

La vulgata classica vuole che i cacciatori/raccoglitori del Neolitico scoprano, letteralmente, le virtù di coltivazione e allevamento e che, in tempi brevi, le adottino come forma principale se non unica di sostentamento, abbandonando così le tradizionali attività di caccia e raccolta. (una svolta che, in contemporanea, avrebbe comportato processi di accentuato inurbamento, con la conseguente nascita di città e sistemi sociali più strutturati gerarchicamente). Le obiezioni di Graeber e Wendrow vertono innanzitutto sulle concrete motivazioni che avrebbero indotto i foraggiatori del tempo ad un così repentino cambiamento. Per entrare nel merito prendono spunto dalle tesi sostenute in un saggio, edito nel 1972, considerato uno dei caposaldi della moderna antropologia: “L’economia dell’età della pietra” di Marshall Sahlins (1930/2021 antropologo statunitense, il suo testo rappresenta l’ultimo e più rilevante esempio di preistoria speculativa”, vale a dire l’assunzione di ipotesi sulla vita dei foraggiatori basata più sulla comparazione con gli stili di vita delle contemporanee residue popolazioni di cacciatori/raccoglitori che sull’interpretazione di siti archeologici). La sua tesi è che la normale vita dei cacciatori/raccoglitori, per quanto certo non priva di problemi e pericoli, fosse di fatto sostanzialmente soddisfacente e tranquilla, essendo fatta di molte meno ore di “lavoro” e di una gratificante vita sociale (due presupposti che giustificano la sua definizione di “società benestante originale”). Un’idea (di fatto simile a quella di Rousseau ed altrettanto priva di basi scientifiche) non comprovabile, e come tale oggetto di critiche, che ha però avuto il merito di incentivare ulteriori specifiche ricerche che hanno consentito di meglio valutare importanti insediamenti tutti databili a cavallo della transizione dal Paleolitico Superiore. Spiccano in particolare il sito di Poverty Point, sul delta del Mississippi negli USA, (un’impressionante serie di terrapieni a formare anelli concentrici, speculari a costellazioni, disposti su un’area molto vasta, la cui costruzione, iniziata circa 10.000 anni fa, ha richiesto, anch’essa,  il lavoro immane di moltissimi foraggiatori provenienti da diverse aree), di diversi siti archeologi giapponesi collocabili nel periodo storico definito Jomon (iniziato circa 12.000 anni fa e durato fino a meno di 2.000 anni fa, i geni di questi foraggiatori sono ancora rintracciabili nel 15% della popolazione dell’arcipelago giapponese) e dei bastioni di pietra, chiamati Jatinkirkko (chiese dei giganti)  innalzati a decine da foraggiatori scandinavi. Questi siti (che evidenziano una situazione comune e diffusa in aree diverse del mondo) erano sede di incontri periodici di massa (probabilmente per ragioni di culto) e testimoniano fitte reti di scambi culturali e di forti relazioni sociali fra numerose comunità.

i foraggiatori del Paleolitico vivevano di norma in gruppi poco numerosi, ma le loro interrelazioni erano molto intense e stabili, tanto da formare autentiche “nazioni/confederazioni” (protrattesi a lungo come dimostrano gli stessi nativi americani, si pensi ad esempio alla nazione wendat del Capitolo 1). Una ricchezza di relazioni sociali andata però perduta con l’affermarsi della successiva maggiore stanzialità

Tutti non solo confermano che comportamenti collettivi ricchi di cultura e socialità erano ben presenti già millenni prima dell’avvento dell’agricoltura, ma soprattutto raccontano il protrarsi di esperienze tipiche dei foraggiatori ancora per millenni dopo l’acquisizione delle tecniche di coltivazione (presenti in tutti questi siti) a testimoniare la scelta, razionale e consapevole, di conservarle.

La cultura aborigena australiana, grazie al suo millenario isolamento dal resto del mondo, è un’altra straordinaria testimonianza della volontà di mantenere tradizionali stili di vita da cacciatori/raccoglitori pur avendo, in modo ovviamente autonomo, sviluppato una protoagricoltura. Parti del paesaggio australiano sono infatti state adattate alle esigenze aborigene con il ricorso, sistematico e studiato, ad incendi controllati, alla sarchiatura, alla piantumazione di boschi cedui, alla fertilizzazione, alla potatura, a limitati terrazzamenti, ma senza innescare una cultura stanziale

Nei Capitoli successivi (Parte seconda di questa sintesi) Graeber e Wengrow entreranno nel merito delle modalità “tecniche” di avvento dell’agricoltura, (evidenziandone sorprendenti aspetti) quello che, su queste basi, fin da ora sottolineano è che non è sostenibile la tesi che essa abbia automaticamente innescato trasformazioni irreversibili sulla propensione alla stanzialità e sulla struttura delle relazioni sociali. Là dove queste si sono verificate (ma, come si vedrà, con tempistiche incredibilmente dilatate) ciò non è avvenuto per rassegnato e inconsapevole adattamento ad una forma diversa di sostentamento alimentare, ma al contrario per consapevoli scelte che chiamano però in causa anche altri specifici elementi di un’intervenuta evoluzione culturale. Ed è esattamente su di questi, vista la loro centralità, che è opportuno indagare. Un primo spunto in questo senso viene dal fatto che le caratteristiche di incontro culturalee la stessa struttura di tutti questi siti definiscono indubbiamente il loro essere ancheluoghi sacri”, un aspetto che molto può dire sulla stessa origine della “proprietà privata”. I reperti lasciano infatti intuire (aspetto peraltro avvalorato dal suo persistere in alcune delle attuali residue popolazioni di cacciatori/raccoglitori) l’esistenza di una loro specifica relazione, si tratta però di una forma di proprietà privata molto particolare, ossia quella che consente solo il diritto al possesso esclusivo di oggetti rituali che sanciscono un rapporto altrettanto esclusivo con elementi immateriali (quali formule magiche, storie, conoscenze mediche) piuttosto che (come per gli aborigeni australiani) di spazi territoriali il cuiproprietarioè tenuto a salvaguardare e curare. Questa particolare forma di proprietà privata sacralizzata è rafforzata dall’obbligo per tutta la comunità del suo pieno rispetto

la classica definizione di sacro, ossia di qualcosa che è a parte nel mondo ma legato ad una forza o un essere superiore, messa a punto dal francese Emile Durkeim, 1858/1917  sociologo e storico delle religioni, è “ciò che occupa un posto a parte”, e la sua espressione più chiara è il termine polinesiano “tabù” che significa “da non toccare

Allo stato attuale della ricerca archeologica e antropologica non sono emerse, salvo rarissime eccezioni altre forme di proprietà o possesso (non è neppure dato sapere con certezza se erano veri possessi personali gli arredi funebri delle tombe principesche). Se quindi la proprietà privata ha una possibile origine, essa con buona probabilità è antica quanto l’idea di sacro, che a sua volta è antica quanto l’umanità, al punto che la domanda più corretta non è tanto chiedersi quando esattamente tutto ciò sia iniziato ad accadere, ma piuttosto “come sia riuscito, a lungo andare, a determinare molti altri aspetti delle vicende umane”. Non meno importante sarebbe chiedersi perché alcuni foraggiatori, convertiti all’agricoltura stanziale, abbiano sentito il bisogno di produrre più del necessario(le società ugualitarie, come quelle dei foraggiatori, sono di norma quelle con economie “a rendimento immediato”, si consuma tutto quanto prodotto ed eventuali avanzi sono condivisi, sono invece “a rendimento ritardato” quelle in cui si investono energie e risorse per attività capaci di dare frutti solo nel futuro) innescando così la comparsadell’eccedenzafin lì assente nel loro modo di vivere. La comparsa, per qualsiasi ragione avvenuta, dell’eccedenza ha infatti inevitabilmente comportato domande e conseguenti diversificate risposte, sul suo utilizzo, sulla sua divisione e sulla sua gestione, tutti passaggi propedeutici alla nascita dellaproprietà privatae del concetto stesso di lavoro”. Allo stato attuale della ricerca archeologica e antropologica questa resta però, da un punto di vista scientifico, una domanda senza soddisfacente risposta. Allo stesso modo Graeber e Wengrow rimandano ai Capitoli successivi l’approfondimento dei collegati percorsi che hanno portato all’instaurarsi di più definite strutture sociali gerarchiche e disugualitarie, anche in questo caso sembra ormai insostenibile la tesi che si siano potute innescare solamente ed unicamente dopo l’avvento dell’agricoltura. Non mancano in questo senso indiscutibili testimonianze archeologiche ed antropologiche (Come quella dei popoli “calusa” e “natchez” , in Florida, USA, non lontano da Poverty Point, che, favoriti dalla ricchezza di risorse naturali, hanno in questi stessi millenni sviluppato relazioni sociali fortemente gerarchiche e disugualitarie pur in totale assenza di agricoltura).

5 – Molte stagioni fa 

Nella California pre-colombiana, un’area ecologicamente molto simile al Medio Oriente della mesopotamica “Terra dei fiumi in cui all’incirca nello stesso periodo (10.000-12.000 anni fa) vivevano centinaia di migliaia di foraggiatori frazionati in molte popolazioni (si tratta quasi sicuramente della maggior concentrazione mondiale di foraggiatori i cui stili di vita, così come per tutti i nativi americani, si sono autonomamente evoluti in un contesto isolato fino all’arrivo dei colonizzatori europei, consentendo così di essere conosciuti con osservazioni dirette prima di essere progressivamente cancellati dalla cosiddetta civilizzazione). E’ qui, in California, che si è verificata una vicenda per molti versi esemplare sul ruolo dell’agricoltura perché queste popolazioni (che pure conoscevano molto bene le tecniche di coltivazione, da loro usate per produrre tabacco ed altre piante usate a fini rituali) si sono deliberatamente rifiutate di praticare una vera e propria agricoltura e di usare le colture come base della loro alimentazione. Per meglio analizzarla e comprenderla è necessaria una preliminare digressione di valenza generale (che riprende quanto anticipato nel precedente Capitolo 4) sulle modalità di trasmissione di elementi culturali tra le popolazioni di foraggiatori (un tema che ha impegnato a lungo il dibattito antropologico, con diverse contrapposte scuole di pensiero che hanno coinvolto anche gli storici dell’evoluzione linguistica e della sua incredibile frammentazione). L’ipotesi ormai prevalente è quella, formulata da Marcel Mauss (1872/1950, antropologo e sociologo francese), che ritiene la “diffusione culturale” il normale esito del loro nomadismo, fatto di continui spostamenti che sono stati una costante occasione di incontri, di confronto e quindi di reciproco scambio. Non deve stupire il diffondersi di comuni tratti culturali, semmai è utile interrogarsi sul suo contrario, per individuare le ragioni (da comprendere caso per caso) in base alle quali alcune popolazioni di cacciatori/raccoglitori abbiano ritenuto di non avvalersene.

Mauss ha persino sostenuto l’idea che tutte le culture sempre si definiscono rispetto a quelle vicine, a maggior ragione quando, per scelte motivate, le rifiutano.

Nel filone concettuale aperto da Mauss si colloca anche l’elaborazione da parte di Gregory Bateson (1904/1980, antropologo e sociologo britannico) dell’idea di “schismogenesi”, (sarà nostra Parola del mese di Ottobre 2024), ossia l'insieme di interazioni tra individui, ma soprattutto gruppi e culture, che dà origine a eventuali loro divisioni anche distruttive. Le idee di Mauss e Bateson sono utili per decifrare l’insolita scelta delle popolazioni californiane che sembra proprio essere maturata per dinamiche culturali riconducibili ad una classica situazione di schismogenesi. In effetti la grande estensione, con accentuate diversità ambientali, della California ha favorito il sorgere di due distinte aree culturali - una collocata a Nord, più prossima alla costa e quindi con una economia basata sulla pesca, ed una più a Sud, molto più eterogenea grazie al variegato habitat simil mediterraneo - le quali, pur avendo da sempre relazioni di vario genere compresi intensi scambi culturali, hanno sviluppato due forme di società totalmente diverse.

I resoconti dei primi europei entrati con loro in contatto al culmine della loro millenaria vicenda evolutiva, descrivono quella del Nord come una società molto gerarchica con al suo vertice una aristocrazia guerriera capace di sistematiche “azioni di cattura” per ridurre in condizioni di semi-schiavitù membri delle popolazioni limitrofe a cui delegare “il lavoro” della pesca e della raccolta, godendo delle eccedenze in grandi feste collettive (definite potlatch). A Sud riferiscono invece di una società basata su una particolare forma di proprietà privata, sui commerci, su una sorta di denaro (conchiglie bianche), con una forte concezione etica del lavoro, del senso della misura e del risparmio

Come spiegare differenze così profonde fra due aree culturali confinanti oltretutto (aspetto quanto mai rilevante per le finalità di questo saggio) accomunate dal condiviso rifiuto ragionato dell’agricoltura? Non convince, secondo Graeber e Wengrow, la tesi classica, comunemente definita “teoria del foraggiamento(secondo la quale le società dei cacciatori/raccoglitori si sono formate sulla base di valutazioni di razionalità economica scegliendo cioè di organizzarsi, nel loro specifico contesto ambientale, in relazione alle strategie di caccia/raccolta che meglio garantivano il massimo di raccolta con il minimo di fatica) perché le rispettive scelte, pesca al Nord e raccolta al Sud, presentavano pari vantaggi e complicazioni, l’elemento determinante a loro avviso è piuttosto rappresentato dall’attitudine guerresca dei foraggiatori del Nord e dalla collegata pratica della schiavitù, aspetti chiaramente connessi alla loro struttura sociale fortemente gerarchica, con al suo vertice una autentica “classe” dominante, maturati nel corso del tempo sulla base di consapevoli scelte cultural-politiche. Recuperando le idee di Mauss sulla diffusione culturale ed il batesiano concetto di schismogenesi tali scelte bene spiegano anche la contrapposta scelta dei foraggiatori del Sud. Tutte le evidenze raccolte indicano infatti che la necessità di fronteggiare le “azioni di cattura” di quelli del Nord avrebbe sul lungo periodo incentivato, come reazione di “rifiuto della cultura altrui”, il formarsi della loro contrapposta cultura sociale, con il ruolo centrale dato al lavoro e alla frugalità, compensati, non casualmente, dal riconoscimento di spazi di proprietà privata (aree riservate per la raccolta). Questa straordinaria vicenda evolutiva dei foraggiatori californiani da una parte rafforza l’evidenza delle complessità culturali di popolazioni, quelle dei cacciatori/raccoglitori, troppo a lungo ritenute incapaci di azioni politiche intelligenti (ben prima che “magicamente” l’agricoltura le mettesse in moto), dall’altra fa emergere un primo aspetto centrale per meglio comprendere il percorso umano: libertà, gerarchie sociali, uguaglianza, tendono a comporsi insieme l’una come complemento dell’altra.

Si completa con questo Capitolo 5 la Parte Prima di questa sintesi, nei Capitoli della prossima Parte Seconda Graeber e Wengrow entreranno, come già anticipato, nel merito della cosiddetta “Rivoluzione Agricola” per capire in quali modi si sia inserita nel percorso evolutivo fin qui tracciato e quali cambiamenti abbia realmente innescato

 


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