Un articolo utile a capire
quanto si muove nel mondo della Rete, andando oltre i social, le fake
news, i soliti siti. Non spaventatevi per alcuni passaggi forse un poco troppo
tecnicisti, quello che deve interessare in questa vicenda, sicuramente esemplare
delle partite complesse che si giocano attorno alla Rete, è la comprensione che l’universo Rete può
essere popolato da lodevoli utopie, ma anche che queste stesse rischiano spesso
di trasformarsi in pericolose distopie
Il dilemma della blockchain
Potenzialità, valori e
inquietanti prospettive future di una della tecnologie più rivoluzionarie
degli ultimi anni.
Articolo,
tratta dalla rivista on-line La Tascabile, di Andrea Daniele Signorelli milanese,
classe 1982, si occupa del rapporto tra nuove tecnologie, politica e società.
Scrive per La Stampa, Wired, Il Tascabile, Pagina99 e altri. Nel 2017 ha
pubblicato “Rivoluzione Artificiale: l’uomo nell’epoca delle macchine
intelligenti” per Informant Edizioni.
C’ è
un aspetto fondamentale che differenzia la blockchain
– il registro digitale, distribuito, anonimo e crittografato che rende
possibile l’esistenza dei bitcoiun (è una moneta elettronica creata nel 2009 da un anonimo
inventore, noto con lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto,
che sviluppò un'idea da lui stesso presentata su Internet
a fine 2008.
Per convenzione, il termine Bitcoin,
con l'iniziale maiuscola, si riferisce alla tecnologia
e alla rete, mentre il minuscolo bitcoin si riferisce alla valuta in
sé.. A differenza
della maggior parte delle valute tradizionali, Bitcoin non fa uso di un ente centrale:
esso utilizza un database distribuito tra i nodi della rete che
tengono traccia delle transazioni, ma sfrutta la crittografia
per gestire gli aspetti funzionali, come la generazione di nuova moneta e
l'attribuzione della proprietà dei bitcoi) e non solo – dalle altre grandi innovazioni tecnologiche di
questi anni (dall’intelligenza artificiale alla Internet of Things): la forte
impronta ideologica che ne sta alla base e che si può riassumere nella volontà
di rendere superflua ogni forma di entità centrale (governi, aziende, banche e
qualunque istituzione si frapponga tra i liberi cittadini/proprietari). Una
sorta di versione tecnologica dell’anarco-individualismo
che va molto oltre il generale libertarianesimo che ammanta la Silicon Valley. L’obiettivo
ultimo della blockchain, e delle applicazioni che su essa si reggono (le note
criptomonete, ma anche agli smart contracts o le organizzazioni decentralizzate), è infatti quello di liberare
l’uomo da qualunque forma di fiducia siamo oggi costretti ad accordare agli
intermediari che regolano buona parte delle nostre vite di cittadini. Grazie
alla blockchain, almeno nella teoria, resterebbero solo liberi individui che
scambiano beni e prendono accordi tra di loro, approfittando degli automatismi
garantiti da questa tecnologia. In questa utopia libertaria non ci sono banche,
non ci sono notai, non ci sono finanziarie; un domani, volendo esagerare, forse
nemmeno governi: ogni ente centrale viene sostituito da un
codice matematico che non richiede nessuna fiducia e che non può essere manomesso.
A questo punto, una breve digressione sul meccanismo che regola questa
tecnologia è d’obbligo. La blockchain può essere definita come un registro
aperto e distribuito: una “catena di blocchi” a cui chiunque può partecipare –
diventando così un nodo – semplicemente installando sul proprio computer il
registro che contiene la storia delle varie transazioni (per esempio dei
bitcoin) e iniziando così a monitorare automaticamente i vari passaggi che
avvengono attraverso la catena. Restando al caso dei bitcoin, il lavoro svolto
dai nodi viene incentivato per via economica: quando viene dato il via libera a
un passaggio di denaro, risolvendo per via informatica una complessa equazione,
questi ottengono in cambio delle criptomonete (al momento, 12 bitcoin per ogni
transazione). Ogni volta che un gruppo di transazioni è approvato, viene
collegato al blocco precedente attraverso un hash, un’impronta unica e immutabile che fornisce la garanzia
che nessuno potrà manomettere i dati registrati. A meno di riuscire a
conquistare il 51% del potere di calcolo dell’intera blockchain, è impossibile
per il singolo apportare modifiche al registro; perché verrebbe meno il
consenso necessario tra i nodi. Questo è un elemento fondamentale: la
decentralizzazione della blockchain è ciò che la rende sicura e distribuita;
oltre a consentire l’eliminazione di ogni ente centrale facendo invece
affidamento sulla “democrazia del potere di calcolo” assicurata dalle migliaia di partecipanti
alla blockchain dei bitcoin. Ma c’è un problema: il numero dei nodi che
partecipano alla catena dei bitcoin sta calando. In particolare, sta scendendo rapidamente il
numero dei “full nodes”; ovvero di chi mantiene una copia dell’intera
blockchain sul proprio computer. Com’è possibile, considerando che il successo
crescente delle criptomonete dovrebbe portare sempre più persone a diventare
parte di un meccanismo che offre importanti incentivi economici? È qui che le
cose si fanno un po’ tecniche. È qui, soprattutto, che si capisce come l’idea
anarco-capitalista di un sistema interamente decentralizzato stia fallendo di
fronte al suo stesso successo. I problemi sono diversi. Prima di tutto: più il
tempo passa, più il peso della blockchain aumenta; se due anni fa era
sufficiente scaricare sul proprio computer 40 giga di dati, oggi questa cifra
si sta approssimando a 130 GB, rendendo sempre più complesso diventare un “full
node” della catena per chi possiede un normale computer casalingo. Non è tutto:
il numero di transazioni in bitcoin continua a crescere, mettendo a dura prova
un sistema che, al momento, può processare solo 3/7 transazioni al secondo (per
fare un paragone, un circuito finanziario come VISA può convalidare 60.000
transazioni ogni secondo). Dal momento che ogni blocco della catena
(all’interno del quale vengono racchiusi i dati cifrati delle transazioni) non
può avere una dimensione superiore a 1 MB, l’attesa per vedere convalidati i
pagamenti, che teoricamente dovrebbe essere di pochi minuti, spesso diventa di
ore se non giorni (facendo inoltre salire le commissioni). Con questi tempi, i
bitcoin rischiano di diventare inutili: a chi serve una moneta virtuale che fa
aspettare giorni prima di sapere se il pagamento è andato a buon fine? Le
soluzioni tecniche esistono, ma il prezzo da pagare è molto alto. Sul finire di
luglio, i programmatori che, di fatto, gestiscono la blockchain dei bitcoin
hanno introdotto un nuovo protocollo (SegWit), che riduce il peso dei blocchi spacchettando i dati
relativi alla firma digitale e liberando così un po’ di spazio. Più importante
ancora, nei prossimi mesi la dimensione dei blocchi dovrebbe salire a 2 MB,
aumentando il numero di transazioni processabili ogni secondo. Nonostante le
ultime modifiche siano state apportate dopo l’accordo che ha posto fine a una vera e propria guerra civile all’interno della comunità Bitcoin, non tutti
sono rimasti soddisfatti. Una parte dei programmatori ha quindi dato vita a un hard fork
(una biforcazione irreversibile della blockchain) per creare una nuova catena i
cui blocchi – se il processo avrà successo – avranno una dimensione massima di
8 MB, scalando di diverse misure la rapidità con cui si possono convalidare le
transazioni. La moneta creata con questa biforcazione è la neonata Bitcoin Cash.Ma perché fermarsi a 8? È sufficiente modificare
una riga di codice per proporre (ma poi bisogna vedere quanti nodi seguono la
proposta) una blockchain i cui blocchi abbiano dimensioni di 10/20/30 MB;
quanti se ne vuole. Ogni volta che si aumentano le dimensioni dei blocchi,
però, ai miners viene richiesto maggiore potere computazionale, e di
conseguenza strumenti più costosi e maggiore energia da consumare per far
girare le macchine. Il risultato è facilmente intuibile: sempre meno attori
saranno in grado di agire come nodi, riducendo progressivamente la
distribuzione che è proprio il valore alla base della blockchain. Non è un
problema del futuro. Anzi, è esattamente la ragione per cui, ormai un anno e
mezzo fa, lo storico sviluppatore Mike Hearn aveva dichiarato la morte dell’esperimento Bitcoin. Già oggi, infatti, la parte
del leone la svolgono i cosiddetti mining pool: gruppi di minatori professionisti che uniscono le
forze per avere la potenza di calcolo sufficiente a risolvere un blocco prima
che lo faccia qualcun altro. I primi otto mining pool
più potenti al mondo si trovano in Cina; ma basterebbe un accordo
tra le prime quattro di queste società per superare o avvicinarsi drasticamente
alla fatidica quota del 51% della potenza del network, che, in linea teorica,
permette di prendere il controllo della blockchain. È questo il dilemma
che attanaglia sostenitori e fautori della blockchain: scalabilità ed efficacia
portano inevitabilmente a una drastica riduzione della decentralizzazione; un
sistema veramente decentralizzato, invece, rischia di restare un prodotto di
nicchia per pochi appassionati, non in grado di incidere sulla società (da
notare che su GitHub, invece che di dilemma, si parla di trilemma;
perché l’aumento della dimensione dei blocchi espone l’intero sistema anche a
maggiori rischi). Quale dev’essere, allora, lo scopo dei bitcoin: diventare una
moneta in grado di fare concorrenza a quelle tradizionali, aumentando però la
concentrazione, o restare principalmente un asset speculativo (o un bene
rifugio) che non ha vero uso nel mondo, ma che mantiene in vigore (almeno in
parte) la distribuzione che è alla base del progetto? Al momento, come forse
inevitabile, sembra essere la prima opzione a farsi largo. E non è detto che si
possa parlare di tradimento dello spirito originario, dal momento che lo stesso
titolo del white paper
con cui Satoshi Nakamoto (chiunque esso sia o essi siano) lanciò l’idea dei
bitcoin parlava di un “peer to peer electronic cash system”: il che fa
pensare che la sua priorità fosse quella di creare un sistema per i pagamenti
davvero funzionante, in grado di competere con i canali tradizionali. La
ragione per cui si sta favorendo la scalabilità in luogo della
decentralizzazione, però, è anche un’altra: nei primi sei mesi del 2017 i venture
capitalists hanno investito oltre 300 milioni di euro nelle startup che lavorano con i
bitcoin o in generale con i molteplici utilizzi della blockchain; nel settore, inoltre,
hanno fatto il loro ingresso colossi del calibro di R3, un consorzio che ha
riunito le 40 banche più grandi del mondo (tra cui le italiane Unicredit e
Intesa Sanpaolo) per studiare le potenzialità della catena di blocchi. Per
attori di questo calibro, la distribuzione non è necessariamente una virtù:
quello che conta è che sia uno strumento efficace. “Se il Bitcoin continuasse
ad avere successo, la rete è destinata a crescere a dismisura”, si legge su un sito italiano specializzato. “Se le transazioni
raggiungessero la frequenza di utilizzo di Paypal o Visa, la blockchain
crescerebbe esponenzialmente, rimanendo prerogativa di pochi o pochissimi full
nodes. (…) Se il Bitcoin dovesse addirittura rimpiazzare l’utilizzo del
contante, necessiteremmo di enormi datacenter per memorizzare la blockchain”. E
quindi, addio decentralizzazione. Fin qui abbiamo parlato principalmente di
bitcoin, ma lo stesso discorso varrà sempre più anche per Ethereum e i suoi
smart contracts e per ogni applicazione che, per funzionare davvero bene, deve
quanto meno limitare la propria decentralizzazione. Ma a questo punto, cosa
diventerebbe la blockchain? Da sogno anarco-libertario, si trasformerebbe in un
metodo efficace, crittografato e solo parzialmente sicuro (pochi data center
sono più facilmente aggredibili rispetto a migliaia di computer sparsi nel
mondo); in cui l’aspetto ideologico viene meno e in cui gli intermediari di cui
ci si doveva sbarazzare riemergono con in mano le chiavi della catena (gli
istituti bancari, in effetti, sono stati i primi a investigare le potenzialità
di questa tecnologia). Al di là di qualche possibile soluzione (Bitcoin Cash
dovrebbe utilizzare lo sharding
– una sorta di frammentazione dei compiti – per aumentare le capacità
conservando la distribuzione), la verità è che la strada sembra essere segnata.
Lo dimostra il fatto che si parla sempre più spesso di creare blockchain
private: “Invece di avere un network pubblico e non controllato, è possibile
creare un sistema in cui i permessi per accedere sono strettamente controllati
e in cui solo alcuni utenti hanno il diritto di leggere o modificare la catena,
pur mantenendo alcune delle caratteristiche, in termini di autenticità e
decentralizzazione, che la blockchain fornisce”, scrive Vitalik Buterin,
fondatore di Ethereum, sul suo blog. “Questi sistemi sono di fondamentale interesse
per le istituzioni finanziarie e hanno provocato una reazione da parte di chi
vede in questi sviluppi qualcosa che fa venire meno la ragione stessa della
decentralizzazione, oppure l’atto disperato di alcuni dinosauri che provano a
mantenere la loro posizione”. Buterin, che sul tema sembra essere molto
pragmatico, si spinge anche a evidenziare alcuni fondamentali vantaggi tecnici
delle blockchain private; di cui almeno due sono da evidenziare: “Solo dei
soggetti noti avranno il permesso di convalidare le transazioni, quindi ogni
rischio di un attacco del 51% portato da eventuali collusioni di miner cinesi
verrebbe meno. Inoltre, le transazioni diventerebbero più economiche, perché
sarebbero verificate solo da pochi nodi dall’elevatissimo potere di calcolo”.
In poche parole, eliminando dal trilemma la distribuzione, si ottiene la
scalabilità senza nemmeno rinunciare del tutto alla sicurezza. Tutto bene,
quindi? In verità, alcuni aspetti inquietanti iniziano a farsi largo quando si
pensa a blockchain private completamente nelle mani di grandi aziende. Ciò che
doveva essere un’utopia della liberazione rischia di trasformarsi in una
dittatura del codice, governata da aziende ed enti centrali in grado di
sfruttare gli automatismi garantiti dalla blockchain per trasformare in realtà
i loro sogni più reconditi. Per capirci qualcosa di più, basta pensare agli
smart contracts: contratti basati sulla catena di blocchi che si eseguono
automaticamente nel momento in cui le condizioni vengono soddisfatte.
Teoricamente, nascono per eliminare il bisogno di terze parti come i notai o
anche solo le agenzie di scommesse; nel momento in cui questa tecnologia si
fonde con la internet of things, però, le prospettive vanno molto oltre. “Immaginiamo
che tutti i lucchetti di un appartamento siano connessi a internet”, ha
spiegato Chris Ellis di Feathercoin a Fast Company. “Quando fai una transazione in bitcoin per
affittare la casa, lo smart contract che tu e io abbiamo sottoscritto ti
permette di aprire automaticamente l’appartamento, usando le chiavi che hai sul
tuo smartphone”. Uno dei primi teorici degli smart contracts, Nick Szabo, aveva
portato un esempio simile: anche il mutuo dell’auto si potrebbe stipulare
attraverso gli smart contracts; se salti un pagamento, la blockchain può
automaticamente cancellare le chiavi digitali che permettono di far funzionare
la macchina. Qualcosa del genere esiste già nella realtà: Slock.it è una startup
tedesca che progetta serrature collegate alla internet of things e agli smart
contracts, studiate per rendere completamente automatico l’affitto di
appartamenti su AirBnb o dare la possibilità di noleggiare la propria auto a
terzi e guadagnare senza dover fare nulla (lo smart contract, in base
alle vostre indicazioni, può valutare se il rating di chi vuole noleggiare
l’auto è sufficiente). Le prospettive, però, potrebbero anche prendere una
brutta piega: “Lo stesso sistema potrebbe venire programmato per impedire
l’apertura del lucchetto dopo il pagamento dell’ultimo mese di affitto”, si legge sull’Atlantic. “O magari potrebbe togliere l’energia
o la connessione a internet se il sensore all’interno dell’appartamento
determinasse che gli occupanti stanno facendo troppo chiasso”. E ovviamente si
può anche andare oltre: oggi le famiglie morose possono tutelare i loro
interessi ed evitare di subire uno sfratto rivolgendosi alle istituzioni
preposte; ma come fare se lo smart contract al quale hanno aderito permette al
proprietario di negare l’accesso alla casa, l’utilizzo dell’energia, dell’acqua
e di tutto ciò che può essere gestito attraverso la internet of things? “Se
tutto questo vi suona familiare”, prosegue Ian Bogost sull’Atlantic, “è perché
la cultura contemporanea si è già trovata ad affrontare situazioni simili. Le
tecnologie di controllo e sorveglianza, al confronto modeste, usate da Google,
Facebook e gli altri – il cui impatto ormai conosciamo bene – hanno proliferato
basandosi sull’assunto che avrebbero reso le vite delle persone migliori e più
efficienti (…) Ugualmente, il futuro della blockchain sembra essere legato alla
visione a breve termine di investitori e imprenditori a cui piace parlare di
un’ipotetica utopia distribuita, senza prendere le misure contro la tirannia
che potrebbe ugualmente realizzare”. Invece di liberarci dalla fiducia
obbligata che dobbiamo accordare a enti centrali, la blockchain potrebbe
rafforzare ulteriormente governi, istituti finanziari, aziende e quant’altro,
automatizzando meccanismi e tagliando fuori attori a cui oggi il cittadino può
rivolgersi per chiedere di essere difeso da eventuali soprusi o per far valere
i suoi diritti; fornendo in questo modo un livello di controllo centrale, e
automatizzato, che non ci si sarebbe certo attesi da un semplice “registro
distribuito”. Ancora una volta, utopia e distopia dimostrano di essere due facce della stessa medaglia, perfettamente in grado di
convivere. Le esperienze del passato – dall’open web che si trasforma in walled
garden, ai social network che diventano strumenti di raccolta dati a strascico
– ci dovrebbero però mettere in guardia dal fatto che, il più delle volte, la
bilancia non tende a pendere dal lato della libertà
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