Demografia e Borse
di Fagiano Giancarlo
Sono comparse sui media due notizie
all’apparenza difficilmente collegabili: l’andamento demografico italiano
nell’anno 2017 ed una nuova, consistente, perdita delle Borse mondiali, in
particolare quella americana di Wall Street. Eppure una qualche riflessione al
riguardo può offrire interessanti collegamenti. Almeno così a me pare. Iniziamo
dai dati demografici italiani, fonte ISTAT, qui riportati, per chi non avesse
avuto modo di vederli, con un grafico che li riassume in modo efficace:
Molti di questi dati meriterebbero una
specifica attenzione, ma per restare in tema è utile soffermarci sul dato macro
della popolazione diminuita anche nel 2017, a conferma di un trend che dura da
diversi anni. Al 1° gennaio 2018 si stima infatti che la popolazione italiana ammonti a
60 milioni 494 mila residenti, quasi 100 mila in meno sull'anno. Non è certo una
dato soltanto italiano, analoghe tendenze, relativamente alla popolazione
“indigena”, ossia quella al netto dei flussi migratori, sono da tempo in atto
in tutti i paesi dell’Occidente, USA compresi. Se si considera inoltre l’età media
della popolazione (indigena) in questa parte del mondo, appare evidente che il
processo di diminuzione, anche significativa, della popolazione è, salvo
clamorose inversioni di tendenza, al momento non rilevabili, destinato a
proseguire ed anzi ad accentuarsi ulteriormente, sia in Europa che negli States.
Così passati nell’altra sponda dell’Atlantico diventa possibile occuparci dei
“tonfi” di Wall Street che stanno trascinando a cascata le Borse mondiali. Con
una premessa d’obbligo: per quanto la scuola economica mainstream, quella
prevalente di chiara impostazione neo-liberista, si ostini a considerare
l’economia una scienza esatta, gestibile con formule ed algoritmi, appare al
contrario evidente che molti fenomeni economici, ed in particolare proprio
quelli finanziari, si basano su di una così vasta serie di possibili
fattori da rendere problematica, se non impossibile, una loro gestione
“scientifica”, e la stessa
individuazione esatta dei motivi scatenanti. Non a caso molti economisti assegnano
un ruolo determinante agli aspetti “psicologici” dei comportamenti, individuali
e collettivi, dei protagonisti dell’economia. In particolari molti vedono
nell’impennarsi improvviso di acquisti e vendite in Borsa il peso di
aspettative, ottimistiche o pessimistiche, determinate in misura tanto decisiva
quanto incontrollabile, da fattori emotivi slegati dai dati economici “reali”.
Si tenga poi conto che molte transazioni in Borsa sono ormai gestite da
“cervelli elettronici” che, anche in questo caso sulla base di fantomatici
algoritmi, reagiscono automaticamente alle fluttuazioni di fatto accentuandole
spesso oltre misura. Ciò premesso molti autorevoli commentatori (personalmente
ho trovato molto chiaro e convincente un recente intervento sul tema del premio
Nobel per l’economia Joseph Stiglitz) ritengono che dietro le turbolenze di
Wall Street si celi il timore, accentuato dalle dinamiche psicologiche di cui
si è detto, di un rallentamento dell’economia collegato proprio ai dati
demografici, in questo caso americani. Molti operatori di Borsa starebbero infatti
iniziando a temere una sorta di corto circuito fra la diminuzione della popolazione
“indigena” e la crescita dell’economia che sembra al contrario tornata a buoni
livelli. Negli USA in effetti da diversi anni, prima grazie alle politiche di
sostegno all’economia avviate dall’amministrazione Obama e ora grazie all’effetto,
per altro da valutare sui tempi lunghi, della consistente riduzione delle tasse
e delle politiche protezionistiche adottate da Trump, l’economia va bene,
persino troppo bene, lo dimostra innanzitutto il dato dell’occupazione: a
livelli così alti da consentire di parlare di “piena occupazione”. Ed è proprio
qui che potrebbe scattare il corto circuito: l’economia di mercato, come già
diceva il buon Carletto Marx, è costituzionalmente condannata alla crescita
continua pena l’innesco di spinte recessionistiche, obiettivo però non semplice
e tanto più difficile da conseguire quanto più è sostenuta la crescita stessa. Per
farlo tutti i fattori che concorrono a crearla devono essere disponibili e
funzionare al loro meglio. Ma come fare a disporre di ulteriore manodopera, di
più lavoratori, di più forza lavoro direbbe Carletto, se la popolazione tende a
diminuire? Se diminuisce quella indigena e, al contempo, si pensa - e si inizia
a fare - di fermare i flussi immigratori? Se stanno ormai per uscire dal mondo
del lavoro i baby boomers indigeni, i tantissimi americani nati negli anni sessanta,
e al contempo si vuole allontanare i baby dreamers, i nati degli ultimi decenni da famiglie immigrate che hanno ancora lo status di clandestini (calcolati in un milione e
seicentomila individui, giovani)? Questo dubbio agita i sonni degli operatori
di Wall Street e potrebbe spiegare, almeno in parte, le turbolenze di questi
giorni. Non siamo per altro di fronte a problematiche “nuove”, da tempo molti
insistono sulla necessità di riflettere, in modo razionale e lungimirante, sul
rapporto fra dati demografici e sostenibilità dell’economia. Qui in Europa la
Germania è da anni capofila in queste considerazioni e le misure di accoglienza
adottate dalla Merkel, a costo di perdita di consensi elettorali, sono una
miscela di valutazioni etiche di solidarietà e di concretezza politica.
Ovviamente qui in Italia siamo molto lontani da tutto ciò, la campagna
elettorale gioca sul tema dei migranti ben altre considerazioni che quella del
collegamento fra dati demografici e tendenze economiche. Vero è che siamo ben
lontani dalla piena occupazione, che la ripresa è perlomeno fragile ed incerta, che in questo contesto le politiche di accoglienza sono ancor più complicate, ma una politica meno urlata, e meno cialtronamente dedita a parlare alla “pancia”
del paese, qualche riflessione sugli orizzonti lunghi di un paese sempre più
vecchio, sempre meno popolato dovrebbe iniziare a farla. Senza attendere altri
tonfi delle Borse o i dati Istat del prossimo anno.
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