venerdì 23 febbraio 2018

Una miniera di geni indiani - articolo segnalato da Antonietta Fonnesu


Una miniera di geni indiani

Articolo di Silvia Bencivelli – Le Scienze del 10/02/2018

Le banche dati genetiche rappresentano soprattutto europei e statunitensi, per questo l’indiano Sumit Jamuar, co-fondatore e amministratore delegato di Global Gene Corporation, vuole sequenziare il DNA dei suoi connazionali. Il suo obiettivo è "democratizzare la genomica" e riequilibrare le disuguaglianze nell'accesso ai risultati della ricerca medica più avanzata



Sulla Terra, un essere umano su cinque è indiano. Ma nelle banche dati genetiche, è indiano solo un DNA su 500. Anche Sumit Jamuar è indiano: co-fondatore e amministratore delegato di Global Gene Corporation, ha deciso di porre rimedio a questa clamorosa diseguaglianza e di cominciare a sequenziare il DNA dei propri connazionali. E non si fermerà lì. C’è una parte di umanità poco considerata, tagliata fuori dai vantaggi della ricerca medica avanzata, sostiene Jamuar. Se questo non sembra abbastanza ingiusto, prosegue, è bene sapere che la democratizzazione della genomica dà grandi vantaggi anche alla parte ricca dell’umanità. Abbiamo incontrato Jamuar al Web Summit di Lisbona e ci siamo fatti spiegare il perché.


Sumit Jamuar partiamo dalla situazione indiana: che cosa significa non essere rappresentati nelle banche dati genetiche?

Possiamo dire che cosa significa essere rappresentati! Significa essere parte di quella fetta di umanità su cui si sta disegnando la medicina di precisione, cioè su cui sta nascendo la medicina del futuro, che dall’attuale modello one size fits all, impreciso e approssimativo, avrà più informazioni sulla predisposizione alle malattie, su come prevenirle, su come scegliere i trattamenti migliori paziente per paziente. Sono queste le grandissime potenzialità che offre oggi la genomica: in particolare si parla di malattie croniche, che sono quelle su cui attualmente, contenute le malattie infettive, si sta investendo sempre di più. Le informazioni raccolte su una parte limitata di umanità potrebbero non funzionare per tutti. In più abbiamo già cominciato a notare che avere un puzzle incompleto è svantaggioso sia per chi è escluso dalle banche dati sia per chi vi è dentro.

Che cosa intende dire?

Ve lo spiego con un esempio. Nel raccogliere i primi dati abbiamo considerato una coorte di indiani sani e ne abbiamo studiato il DNA. Bene, è venuto fuori che il 96 per cento aveva una mutazione che, nella letteratura medica, è considerata tra le cause dell’epilessia. Ma nessuno di loro aveva mai avuto una crisi epilettica! Che cosa significa? Che probabilmente non ci abbiamo capito niente. Che studiare parti omogenee di umanità, e avere banche dati in cui l’80 per cento del DNA è di provenienza caucasica, può portare a errori. Questi sono dati preliminari, tuttavia ci stanno mostrando chiaramente che, anche con le tecniche migliori del mondo, se non hai i dati giusti ti puoi ritrovare coi risultati sbagliati.
Per questo lei sostiene che è arrivato il momento di rimediare.
I numeri sono questi. Il DNA del 60 per cento dell’umanità rappresenta il cinque per cento di quello custodito nelle banche dati del DNA: è il DNA di africani, indiani, altri asiatici, sudamericani. Ma solo quattro o cinque anni fa rappresentava a malapena l’uno per cento, segno che le cose possono cambiare. Noi abbiamo cominciato in India quattro anni fa: non possiamo ancora rendere pubblici i nostri risultati, ma si consideri che più o meno abbiamo già raccolto 10.000 genomi insieme ai relativi dati clinici e consensi informati, e lo abbiamo fatto grazie a importanti collaborazioni con ospedali ed enti di ricerca. Dopo l’India andremo in Sud America, Africa e così via. È il momento giusto per farlo

Perché?
Perché oggi la genetica ha abbattuto i costi: sequenziare il primo genoma è costato circa 2,7 miliardi di dollari. Oggi bastano quattro ore e 1000 dollari, e via via che le tecnologie avanzano le cose si fanno più semplici ed economiche: presto il prezzo sarà intorno ai 100 dollari a persona. Non solo: avanzano le nostre conoscenze nell’ambito dell’intelligenza artificiale, quindi migliorano i nostri strumenti informatici e sappiamo sempre meglio come usare i dati.
Il momento è giusto anche per investire, dunque. Global Gene Corporation è nata nel 2013, ha sede a Singapore e ha il centro di ricerca e sviluppo a Cambridge, in Regno Unito, nel Wellcome Trust Sanger Institute. Perché non in India?

Abbiamo anche una sede in India, a Mumbai: io sono indiano, ho studiato in India e ho investito nel mio paese. Abbiamo anche una sede negli Stati Uniti, a Boston. Tuttavia la nostra è un’azienda e per costruire un’azienda che funzioni c’è bisogno delle professionalità migliori. E il Sanger Institute è uno dei luoghi chiave della ricerca genetica al mondo. Inoltre a Cambridge ho modo di lavorare con professionalità altissime di diversi settori. È una delle cose più belle della genomica, che mette insieme fisici, biologi, informatici e medici.
Lei però non è né genetista né niente di quello che ha nominato: laureato in ingegneria chimica, ha sempre lavorato nella finanza. Perché si è buttato in questa impresa?

Perché sono rimasto affascinato dalle potenzialità della genomica, e mi entusiasma l’idea di che cosa si può fare con questi dati, del salto che potrà fare l’assistenza medica e la prevenzione, la sanità in generale, e anche del fatto che oggi circa il 40 per cento dei farmaci che somministriamo è inefficace; un giorno tuttavia saremo capaci di usarli con precisione. Tra dieci o vent’anni avremo il DNA di tutti i neonati e tutti saranno sequenziati. Nel frattempo dobbiamo costruire banche dati che ci dicano, per esempio, quanto è probabile che un farmaco funzioni o meno. Prendiamo il tumore al polmone non a piccole cellule: se è presente una mutazione del gene EGFR, la chemioterapia funziona circa tre volte su quattro. Se quella mutazione non è presente, funziona solo nel cinque per cento dei casi. Bene, si è scoperto che nelle popolazioni asiatiche la mutazione è più frequente rispetto agli europei, quindi le terapie funzionano meglio. Osservazioni come questa possono aiutare a indirizzare meglio gli investimenti farmaceutici e la ricerca.

Che cosa fate con i dati raccolti? Cioè, l’obiettivo generale è democratizzare la genomica, va bene. Ma in pratica perché un indiano dovrebbe regalarvi il DNA?

Considerate che esistono altre iniziative per la raccolta dei dati genetici nelle parti del mondo finora escluse, ovvero tutte tranne Europa, Stati Uniti e Giappone, ma soprattutto l’Africa. Noi di Global Gene Corporation siamo consapevoli di essere parte di un ecosistema complesso, insomma. Quindi facciamo parte di una coalizione internazionale chiamata Global Alliance for Genomics and Health (GA4GH), che ha più di 500 partner al mondo e che sta lavorando proprio alla ricerca di standard scientifici, ma anche legali ed etici, per usare nel modo migliore i dati genetici dell’umanità. Questo a garanzia di tutti.


Sumit S. Jamuar è presidente e amministratore delegato di Global Gene Corporation (GGC), considerata tra le Next Big Thing dal Cambridge Network.
Prima di assumere gli incarichi alla GGC, Jamuar è stato amministratore delegato di SBICAP (UK), la sussidiaria europea della banca d’investimento affiliata alla State Bank of India, direttore generale di Lloyds Banking Group e consulente per McKinsey & Company. È stato co-presidente dell’iniziativa per l’inclusione finanziaria e il miglioramento della consapevolezza e della protezione dei consumatori promossa dall’agenzia specializzata delle Nazioni Unite per le telecomunicazioni (ITU) in collaborazione con la Bill & Melinda Gates Foundation. Si è laureato in ingegneria chimica all’Indian Institute of Technology di Delhi e ha un MBA dell'INSEAD di Fointainebleau.

Nessun commento:

Posta un commento