Emozione, ragione e sentimento
Riprendiamo con questo articolo, non solo un precedente post pubblicato a
Marzo 2018 di presentazione proprio del saggio di Antonio Damasio, ma in
particolare alcuni temi, quali Intelligenza Artificiale, Intenzionalità,
Post-umano, che, in relazione a conferenze già tenute e ad altre previste nei
futuri programmi di Circolarmente, riteniamo meritino la nostra attenzione
e riflessione
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Dai batteri all’uomo,
intervista ad Antonio Damasio, neuroscienziato e autore di “Lo strano ordine delle cose” - Adelphi 2018, di Matteo De Giuli , senior editor del Tascabile, collabora con
Radio3 Rai, al microfono a Radio3 Scienza. Co-autore di una newsletter che si
chiama MEDUSA publicata dalla rivista on-line La Tascabile
Lo vedo a tentoni”, mi dice Antonio Damasio, in italiano. È la citazione di
Shakespeare con cui ha scelto di aprire Lo strano ordine delle cose: Re
Lear, quarto atto, scena sei. A parlare è il vecchio Conte di Gloucester,
cieco. Rende meglio in inglese, però, aggiunge Damasio: “I see it feelingly”,
un’espressione che non evoca solo il tatto, come in tentoni, ma
anche altri modi di conoscere il mondo: quelli che passano attraverso le
sensazioni e, in senso più ampio, i sentimenti. Sentimenti ed emozioni sono
l’oggetto del lavoro scientifico di Damasio ormai da tempo. Neuroscienziato
statunitense, nato a Lisbona, direttore del Brain and Creativity Institute
della University of Southern California, Damasio è autore di ricerche
considerate fondamentali per le nostre conoscenze sul rapporto tra cervello e
coscienza, studi sulla memoria, sull’Alzheimer e sul ruolo delle emozioni nel
processo decisionale. Damasio è anche uno scrittore di successo e, come
sottolinea Paolo Pecere nella recensione di
Lo strano ordine delle cose, i suoi libri non sono soltanto saggi divulgativi.
Partendo solitamente da qualche riflessione sullo stato dell’arte della ricerca
neurobiologica, raccontano le radici dell’uomo in un contesto più ampio, che
raccoglie nello stesso sguardo la ricerca scientifica, la storia culturale e
quella del pensiero.
A
proposito di Shakespeare, lei lo ha definito uno dei neuroscienziati che stima
di più al mondo.
È così,
Shakespeare aveva una capacità sbalorditiva di comprendere la mente e il
comportamento umano, era in grado di descriverli con molta precisione. Per esempio,
la frase “I see it feelingly”, l’idea che si possa vedere tramite le
proprie sensazioni – un modo che non coinvolge solo il tatto perché il
personaggio, in questo caso, è cieco – è proprio l’idea di scoprire l’umanità
tramite i sentimenti, la stessa alla base della mia ricerca. Shakespeare è
molto preciso. Nelle tragedie, in particolare, si trovano bellissime
descrizioni di condizioni molto reali della mente umana.
Nei suoi
di libri invece c’è molta filosofia, che lei cerca spesso di ricollegare alle
ricerche scientifiche di frontiera.
Perché le
neuroscienze sono al tempo stesso una cosa nuova e una cosa non poi così nuova.
Abbiamo il dovere di collegarci al passato: è ovvio che il modo in cui studiamo
il cervello oggi sia più avanzato, perché abbiamo strumenti scientifici
migliori, ma le ricerche di oggi non costituiscono la storia completa.
Allargare lo sguardo è quello che mi piace fare in relazione a Shakespeare e
alla sua incredibile profondità di comprensione, lo stesso vale per Spinoza. Il
modo in cui Spinoza mette sullo stesso piano mente e corpo, li fonde, è
incredibilmente lungimirante. È come se avesse anticipato quello che la
scienza, oggi, con i fatti, ha dimostrato essere vero. Dobbiamo riconoscere il
debito che abbiamo nei suoi confronti. Anche se il mio lavoro non è ispirato da
Spinoza, mi sono rivolto a lui perché ero curioso di quello che aveva fatto e
perché era parte della storia di ciò che studiavo. Allo stesso modo, sarebbe
bello se tra 50 anni qualcuno si guardasse indietro e dicesse: “Quel tipo,
Damasio, ci aveva preso su qualcosa”. [ride]
Quando ha
deciso di iniziare a studiare i sentimenti si è ritrovato in un campo di
ricerca in quel momento praticamente inesistente.
È vero, e
anche questo è interessante proprio da un punto di vista storico. Nel
Diciannovesimo secolo esisteva un campo di ricerca vero e proprio. Pensi per
esempio a William James, uno dei giganti della filosofia. Aveva una mente
incredibilmente ricca, studiava qualsiasi cosa, dalla coscienza al linguaggio,
le emozioni, i sentimenti, parlava di creatività e religione. Era un pensatore
a tutto tondo. Quando parlava di emozioni, le persone lo rispettavano.
All’incirca nello stesso periodo, c’era anche Freud, che era chiaramente molto
interessato alle emozioni, ai sentimenti e a cercare di capire la mente umana.
Nel corso del secolo, però, c’è stato uno sviluppo nelle tecniche in grado di
scavare in profondità non solo nella mente, ma nel cervello. Così si è iniziato
a prestare un’enorme attenzione a cose che non potevano essere studiate prima.
Per esempio: la vista, l’udito, la memoria, le operazioni dell’intelligenza
cognitiva, il linguaggio. Già nel 1950 ci si confrontava con l’eredità di Alan
Turing nelle scienze computazionali, Chomsky per la linguistica, e un altro gruppo
di persone che studiava la vista – ammiro molto David Hubel, che raggiunse
un’enorme comprensione della materia – ricercatori che non volevano però
lasciarsi distrarre dallo studio dei sentimenti, delle emozioni, che a quel
punto erano considerati roba vecchia. All’inizio della mia carriera come
neurobiologo ero determinato a studiare la mente umana. Un collega neurologo mi
disse: “È stupido, non farlo, il futuro della neurologia è nelle malattie
muscolari”. E poi, più avanti, tra il 1990 e il 1995, ho deciso di dedicare il
mio intero laboratorio al lavoro sulle emozioni e i sentimenti. Mi ricordo una
conferenza che ho tenuto alla Società di neuroscienze, c’era questo mio collega
in prima fila – un esperto della memoria, come me all’epoca – che scuoteva la
testa come a dire: “Questo poveretto si sta davvero rovinando la carriera”. Più
avanti abbiamo creato il primo simposio sulle emozioni umane, e adesso tutti
studiano le emozioni e i sentimenti.
Sulla
sponda opposta, i sentimenti e in generale il comportamento umano sono
considerati da umanisti e letterati come ambiti troppo ricchi, unici e
complessi per essere spiegati dalla scienza, percepita come troppo fredda e
analitica.
Sì, e
infatti ho incontrato molto spesso anche quest’altro tipo di problemi. È la
paura dello spettro del riduzionismo, che spinge le persone a dire: “C’è troppa
dignità, troppa complessità nell’uomo, perché possa essere a portata della
scienza”. È interessante, perché le stesse persone di solito non si preoccupano
degli scienziati che studiano particelle sub-atomiche. Non vedono nulla di
sbagliato nel sondare i bosoni, ma allo stesso tempo sono molto preoccupati se
si vanno a esplorare le particelle del pensiero. Come se una cosa fosse più
naturale o dignitosa dell’altra.
Questo
ci porta a Lo strano ordine delle cose. Provo a riassumere il libro in
una frase: è la storia di come possiamo trovare i semi delle culture e delle
civiltà umane anche nel comportamento dei batteri e degli organismi
unicellulari, perché c’è qualcosa di preumano che condividiamo con le altre
specie, qualcosa che in noi si manifesta poi sotto forma di sentimenti ed
emozioni, sentimenti ed emozioni che sono stati la forza motrice che ha portato
alla costruzione delle culture e delle società umane.
[ride]
Ha passato l’esame.
E non
c’è un po’ di riduzionismo anche in questa sua visione?
No,
perché non sto riducendo gli esseri umani, e i pensieri umani, ai batteri. Sto
facendo l’opposto. Sto cercando di portare i batteri e altre creature semplici
come gli insetti sociali, che sono stati a lungo dimenticati e poco studiati, a
un livello più alto, perché hanno già delle caratteristiche simili alle nostre.
Non sto riducendo, sto amplificando in entrambi i sensi e cercando di far
vedere alle persone l’incredibile ricchezza e dignità della vita in generale.
L’altro giorno, durante una conferenza, Carlo Rovelli mi ha fatto una domanda
molto interessante, che riguardava la memoria, e mi ha portato a riflettere sul
fatto che la ricchezza della memoria umana ci rende davvero unici: perché siamo
in grado di ricordare un’enorme quantità di esperienze e, cosa ancora più
speciale, siamo in grado di ricordarci i programmi che facciamo per il futuro,
tutto quello che vogliamo ottenere nella vita, le persone che amiamo. Questa
capacità di proiettarci nel futuro e di relazionarci al passato, di costruire
questa mappa, è unica. Grazie a questo tutte le nostre gioie e sofferenze hanno
un valore aggiunto, non hanno solo un valore momentaneo come per gli altri
animali.
Il
concetto fondamentale per capire meglio il suo libro è quello dell’omeostasi e
dell’imperativo omeostatico.
L’omeostasi
in fondo è ciò che dicevamo prima: è la capacità, comune a tutti gli organismi
viventi, di conservare l’equilibrio biochimico necessario alla sopravvivenza.
Ed è un imperativo perché è l’unica via che permette la vita. È l’imperativo
della vita: una serie di regolazioni naturali che ci permettono di cercare
risorse e trasformarci. Senza non avremmo modo di sentire il motore della
vitalità.
Che
differenza c’è tra noi e i batteri sotto questo punto di vista?
Lo
spirito di un essere è la sua vitalità, è quello che lo fa muovere. È qualcosa
che anche le creature più semplici hanno. Poi, nel corso dell’evoluzione, si è
arrivati a quest’altra cosa meravigliosa che è il sistema nervoso. I batteri
hanno l’impulso ad agire, ma non c’è niente che ci faccia credere che pensino a
come agire. Non agiscono in modo cosciente, intenzionale, di fatto agiscono
automaticamente per eseguire le proprie funzioni vitali. Una svolta cruciale è
arrivata solo con lo sviluppo del sistema nervoso: il comportamento viene
regolato attraverso una rete nervosa, e grazie a questa rete a un certo punto
subentra la possibilità di creare una mappa, e quindi di creare immagini. Non
sto parlando di immagini visive, ma immagini dell’interiorità, del suono,
dell’olfatto. Che è proprio la ragione per cui l’espressione I see it
feelingly è particolarmente importante, perché queste immagini sono il
punto di ingresso per i sentimenti. I sentimenti sono immagini dello stato del
corpo. Quello che tu immagini non è questa tazza, o la sua temperatura o
consistenza, ma lo stato del tuo respiro, delle molecole che conducono il
processo. È il cervello che guarda dentro al proprio corpo, quindi la
connessione e l’interazione sono totali. Una delle cose su cui insisto nel mio
libro è che l’interiorità è la cosa più semplice da immaginare.
E nel libro sottolinea più volte proprio il rapporto stretto tra cervello e
corpo.
Tendiamo a pensare al nostro cervello e al sistema nervoso come a qualcosa
di separato dal resto del corpo. La verità è, appunto, che c’è un dialogo
costante. Le fondamenta stesse della nostra mente risiedono nella conversazione
che il nostro cervello ha con il nostro corpo. Noi due siamo separati nello
spazio e abbiamo bisogno di una convenzione esterna come il linguaggio per
entrare in connessione. Mente e corpo sono nello stesso spazio. Sono nello
stesso sacco [in italiano].
Anche qui, incontriamo di nuovo un pregiudizio (e di nuovo un “pacchetto di
neuroni”.
Sì, è
terribile ma succede ancora. È un bias enorme. Per alcuni di questi scienziati
le cose che dico nel libro sono completamente folli. Credono che il cervello da
solo possa creare stati di coscienza. Ma chi l’ha detto che è da solo? È
assieme al corpo. Il cervello produce la mente solo perché è collegato a tutto
il resto, al nostro corpo e alle nostre vite.
E questo
è il motivo per cui lei non crede che sarà mai possibile costruire
un’intelligenza artificiale senziente, capace di provare emozioni.
Esattamente:
l’idea errata che il cervello sia l’unico a produrre la coscienza porta anche
all’idea, destinata a fallire, che si possa ricreare un essere vivente
attraverso l’intelligenza artificiale. Non è così. Si può creare qualcosa di
simile, magari anche qualcosa di più ingegnoso di noi due, perché penso che
l’intelligenza artificiale sia già a questo punto. Le AI possono avere accesso
a tutta l’informazione che vogliono, possono manipolare i big data come se non
ci fosse un domani, possono inventare nuovi modi di processare informazioni,
mentre noi siamo limitati ai vecchi metodi di induzione e deduzione. Possono
essere e sono già super super intelligenti. Ma possono sentire? Possono essere
coscienti? No, perché non hanno un corpo. I sentimenti non possono essere
inventati: si possono simulare, ma la simulazione non è creazione.
C’è un
altro concetto chiave nel suo libro: la differenza tra sentimenti ed emozioni.
Le
emozioni sono la varietà più semplice, primaria, nel senso che derivano da
un’azione – il termine stesso implica un movimento – e non sono necessariamente
legate a un’immagine interiore, la mente non è implicata. Quando abbiamo il
sentimento di un’emozione, in pratica abbiamo l’esperienza di quello che è
successo durante quell’emozione. Quindi ad esempio, se mi dice qualcosa che mi
spaventa, ci saranno un sacco di cambiamenti nel mio cuore e nel mio respiro,
verranno rilasciati certi ormoni, le mie viscere si contrarranno, tutte queste
cose. Ho un’emozione, che è azione. Quando ho l’esperienza di queste azioni che
avvengono in me, quello è il sentimento. È una differenza elementare, però sono
termini che confondiamo continuamente.
Quando
parla di emozioni e di sentimenti, intende qualcosa di puramente elementare –
istintivo – o qualcosa che può essere insegnato e appreso e che può evolvere e
cambiare con il passare del tempo?
È
qualcosa che può essere educato. Quanto possiamo trasformare le nostre
emozioni è una bella domanda. Credo che possiamo fino a un certo punto. Per
esempio, persone molto paurose possono imparare a domare la loro paura. Persone
molto eccitabili possono lavorarci su. Il profilo emotivo di ognuno di noi è
parte del nostro temperamento. Ci sono cose che ereditiamo e che possiamo
manipolare fino a un certo punto, ma sono radicate molto in profondità.
Possiamo cambiarle, ma non radicalmente. Se una persona è paurosa,
probabilmente lo sarà per tutta la vita, anche se in parte si può attenuare. Si
può imparare in diversi modi. Per esempio, molti anni fa ero su un aereo che ha
rischiato di schiantarsi. È stato terrificante. Per un po’, tutte le volte che
prendevo un aereo e c’era turbolenza mi spaventavo moltissimo – non al punto da
urlare, ma mi sentivo molto a disagio. Poi pian piano la paura è scomparsa. Non
è successo da un giorno all’altro, ma era dovuto alla ripetizione
dell’esperienza positiva.
Il fatto,
però, che la vita sia costantemente guidata da un “imperativo interno di
continuazione” non significa che noi esseri umani dobbiamo basare i nostri
comportamenti solo su quello, che non abbiamo bisogno di morale o etica.
Al
contrario, credo che abbiamo sviluppato l’etica proprio seguendo lo stesso
imperativo, che non significa istinto e caos. Abbiamo sviluppato l’etica perché
eravamo abbastanza intelligenti come esseri umani da renderci conto che l’uomo
ha probabilità più alte di sopravvivere se sta facendo qualcosa di buono per la
sua vita e per quella degli altri. Pensa ai 10 comandamenti, sono un
bell’esempio di sistema morale. A cosa servivano? In sostanza sono un insieme di
regole che permettono di fare e ricevere il minor danno possibile e di
stabilire regole che non sono altro che l’emanazione del principio omeostatico.
Per questo insisto sul punto che le culture, che pensiamo siano spuntate dal
nulla, sono, sotto tutti i punti di vista, la proiezione omeostatica nello
spazio della cultura, nello spazio umano. I sistemi morali sono un buon
esempio, ma anche i governi, l’economia (che poi è parte dei governi), le arti,
la tecnologia. La medicina è un altro buon esempio. Cos’è? È un insieme di
tecnologie che ai giorni nostri provengono in gran parte dalla scienza. Ma è lì
per continuare l’omeostasi.
E
quindi un altro modo di raccontare l’imperativo omeostatico è dire che gli
uomini hanno formato le società e le culture per evitare sofferenza e dolore.
Eppure oggi abbiamo ancora guerre e violenza o emozioni come rabbia,
diffidenza, risentimento verso altri gruppi di persone.
Non
siamo perfetti, al contrario. Bisogna sottolineare che tutto questo è un lavoro
in corso, e che è molto debole sotto molti punti di vista. Dal momento che
l’omeostasi si è sviluppata biologicamente per un singolo individuo, continua a
lavorare in gran parte a livello personale. Penso che nei secoli siamo riusciti
con successo a estendere l’omeostasi alla famiglia, alle persone che amiamo.
L’abbiamo anche allargata a livello di tribù, e questa “omeostasi tribale”
esiste da tanti, tanti anni. Ma è qui che arrivano i problemi. Perché le tribù
combattono per i territori, per le risorse necessarie per mantenere la propria,
di omeostasi. Quindi gli scontri tribali fanno parte del processo, ma c’è una
parte che vince e una parte che perde. La grande sfida, alla quale la cultura
sta provando a dare una risposta sotto molti punti di vista, è contenere gli
scontri tra gruppi. Ma dal momento che ogni gruppo ha i suoi interessi
omeostatici, non è facile. Dobbiamo imparare a operare in grandi gruppi, ed è
una cosa delicata e difficile da fare.
L’obiettivo
ultimo, in questo senso, sarà allargare il nostro cerchio sempre di più,
costruire una tribù che contenga l’intera umanità?
Non mi
stupirebbe che fosse questa la direzione finale. Me lo auguro, ma è difficile
dire come e quando potrà essere raggiunto l’obiettivo. Per esempio, dopo la
seconda guerra mondiale, una delle più distruttive di sempre, abbiamo
affrontato altre guerre e altri ostacoli, ma di base siamo stati in grado di
salvaguardare l’omeostasi su larga scala: prendiamo la creazione delle Nazioni
Unite, o un esperimento come la Comunità Europea. È una cosa facile da fare?
No. Basta guardare proprio l’Europa, con gli interessi del nord, più ricco, che
non combaciano necessariamente con quelli del sud più povero. O considerare
problemi enormi e complessi come le migrazioni. Come abbiamo intenzione di
affrontarle? Come rispondiamo? Apriamo o chiudiamo le porte? Queste sono le
scelte da fare.
Il
libro si conclude con una riflessione sui tempi che stiamo vivendo, che lei
definisce di crisi culturale.
Da
quando ho finito il libro le cose non hanno fatto che peggiorare. La cultura
occidentale sta attraversando una fase di trionfalismo, e per molti di noi le
cose vanno piuttosto bene. Ma allargando lo sguardo, direi che non viviamo
tempi felici. Non ho una ricetta per uscirne, ma penso che la soluzione passi
per un’educazione massiccia, un grande sforzo di civilizzazione. Più sappiamo
come noi stessi funzioniamo e maggiori sono le possibilità di fare progressi e
di ridurre gli errori. In questo senso, bisogna rendere le persone più
consapevoli di quello che sono, non solo dal punto di vista cognitivo ma anche
dei sentimenti e delle emozioni, del significato del dolore e della sofferenza.
Questo è il fattore determinante del rispetto nei confronti degli altri. Essere
consapevoli delle nostre debolezze ci rende più rispettosi di quelle degli
altri
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