Il
“saggio” del mese
Luglio 2018
Il
libro che presentiamo non è collegato direttamente agli argomenti che
ultimamente sono stati proposti all’attenzione dei nostri lettori, pur
attenendo in senso lato al tema della disuguaglianza che come associazione
culturale sentiamo come particolarmente cogente. Si tratta infatti di un saggio
(monumentale) su di uno dei principali snodi in cui essa si manifesta in questo
nostro pianeta che trabocca di cibo, ma nel quale molte persone non hanno
accesso ad una alimentazione decente, oltre a tutto ciò che una vita dignitosa
richiederebbe. Lo ha scritto un giornalista e scrittore argentino, Martín
Caparrós, che dopo gli anni dell’esilio in Spagna e in Francia, dove si è
laureato in storia alla Sorbona, si è dedicato ad una intensa attività di
giornalismo investigativo lavorando presso diverse testate giornalistiche,
radiofoniche e televisive e scrivendo nel contempo molti saggi e romanzi.
Fra le
opere tradotte in Italiano, segnaliamo:
IL
LADRO DEL SORRISO (Ponte alle Grazie 2006)
NON E’
UN CAMBIO DI STAGIONE: UN IPERVIAGGIO NELL’APOCALISSE CLIMATICA (Edizioni
Ambiente 2011)
AMORE
E ANARCHIA. LA VITA URGENTE DI SOLEDAD ROSAS (Einaudi 2018)
………………………………………………
Davanti a questo libro “monstre” (più di 700
pagine!) non possiamo fare a meno di chiederci che cosa abbia spinto questo
giornalista-scrittore a compiere un così lungo e faticoso viaggio, che lo ha
portato ad attraversare quasi tutti i continenti (dal Niger al Madagascar, dall’India
al Bangladesh, dagli Stati Uniti all’Argentina) per parlare di qualcosa che è
davvero molto complicato da raccontare.
Il tema della fame è infatti disseminato di
trappole non facilmente evitabili, come lo stesso autore riconosce nel testo.
Quella del sentimentalismo in primo luogo, altrettanto pernicioso a suo
giudizio del luogo comune su cui in effetti è sempre facile scivolare, e ancora
quella del sensazionalismo che certo può solleticare l’attenzione dei lettori,
ma che non si addice ad una questione che di eccezionale non ha proprio nulla.
La fame non è infatti un evento fuori dal
comune – nel testo non si parla di carestie, che del resto in qualche modo
ultimamente sembrano arginabili – ma è piuttosto, secondo quanto emerge dal
libro, uno stato costante che condiziona la vita di almeno un miliardo e mezzo
di persone (una ogni sette, in un pianeta come il nostro che potrebbe nutrirne
almeno dodici miliardi), portando con sé accompagnatori altrettanto funesti. La
denutrizione, l’impossibilità di poter assumere degli alimenti in modo regolare
e in quantità sufficiente espongono
infatti non solo a malattie che sarebbero altrimenti curabili (come vedremo
seguendo l’autore in un percorso che lo ha portato, soprattutto negli
ambulatori africani di Médecins sans frontieres, a condividere in molti casi l’impotenza
dei soccorritori), ma obbliga chi cerca di sfuggire alla fame ad
accettare lavori degradanti, a non
potersi difendere da coloro che detengono il potere di dare o negare cibo,
lavoro, dignità, a reiterare fatalmente percorsi familiari di miseria e di
degrado sociale e culturale senza riuscire a compiere un percorso di
emancipazione, superando anche gli ostacoli che possono venire dalla tradizione
e dalle superstizioni che ad essa spesso si accompagnano e su cui Caparrós non
fa certo sconti.
Altrettante trappole peraltro si nascondono,
a suo giudizio, quando si affronta il problema delle cause, perché se è giusto
riconoscerne la complessità – e in effetti non si può negare che esse siano
composite e difficili da districare - può essere ad un certo punto fuorviante
addentrarsi in un livello di spiegazione troppo sottile e complesso in cui
tutto si tiene, perché c’è il rischio di rimanerci avvoltolati senza scorgerne
il nucleo brutale: è cioè il fatto che al di là della rapina coloniale e della voracità
di un capitalismo che sui nostri desideri sollecitati ed ampliati fonda i suoi
profitti giganteschi, c’è una parte del mondo che per vivere meglio decide
che “può o deve o le conviene tenere nella miseria un’altra parte, e fa sì
che tutti quei meccanismi esistano, funzionino, diano i risultati che danno”
.
Una parte del mondo in cui ci siamo anche noi
che stiamo leggendo o che ci accingiamo a leggere questo libro, e in cui c’è
l’autore stesso che non se ne tira fuori, anzi: solo sta cercando – pur nella
consapevolezza della difficoltà del compito - di non comportarsi come quei
convitati al banchetto di Nerone di cui riferisce Tacito, che nulla obiettarono
al fatto che gli splendidi giardini fossero illuminati da torce umane (se
vogliamo usare un riferimento sicuramente urticante che Caparrós ci propone, riprendendolo a sua
volta da Amarthya Sen).
Certo, dietro questo sforzo che ci chiama a
rispondere e a non distogliere lo sguardo c’è un uomo che ha già dovuto
misurarsi, negli anni giovanili, con esperienze potenzialmente devastanti (la
dittatura, l’esilio) e alle cui spalle, come scopriamo leggendo il testo, c’è
l’eco di una tragedia familiare che ha
lasciato il segno (come tutti gli
abitanti del ghetto di Varsavia, anche una sua bisnonna è stata sicuramente
costretta a sperimentare, prima ancora di essere soppressa nelle camere a gas
di Treblinka, l’atroce programma di annichilimento per fame messo in atto dai
nazisti, di cui alcuni medici ebrei
hanno testimoniato con dovizia di particolari i drammatici effetti).
Esperienze e ricordi che hanno certamente
influito sulla sensibilità di un giornalista che ha sempre dimostrato coraggio
e passione investigativa, e che probabilmente è
stato spinto a scrivere questo saggio sulla geografia della fame anche dall’amara
visione del suo paese, in cui la
fertilità della terra è stata messa al servizio
delle multinazionali che hanno imposto le coltivazioni della soia destinata
in gran parte all’esportazione e all’alimentazione animale: il consumo di carne
sta infatti crescendo in quei paesi che si affacciano ora al benessere – vedi
la Cina, i cui maiali vanno nutriti… Di conseguenza è venuta a determinarsi l’urbanizzazione
forzata di molti contadini, trasformati in sottoproletari poveri ridotti spesso
a rovistare nella spazzatura in cerca di cibo (lo vedremo in una delle pagine
più impressionanti del testo, che del resto molte altre ne offre).
Come molti commentatori hanno evidenziato, in
questa descrizione di un mondo che in genere non vogliamo vedere (o verso il
quale può spingerci un altrettanto inefficace coinvolgimento moralistico, che
lascia inalterate le strutture politiche e sociali della disuguaglianza) e
in cui veniamo invece abilmente condotti tra dialoghi e storie di vita,
riferimenti storici e analisi sociale, l’autore si dimostra un degno esponente
di quella scuola sudamericana detta cronica,
che fonde reportage e letteratura. In effetti quello che viene chiamato nel
testo “AltroMondo” ha ricordato, alla
lettrice che presenta ora questo libro, l’allucinato “Paese delle Ultime Cose” nato dalla fantasia distopica dello
scrittore statunitense Paul Auster, peraltro con una resa drammatica ancora
maggiore dal momento che in Caparrós l’abilità narrativa è messa al servizio
della realtà.
Quello che proponiamo è dunque un libro
davvero coinvolgente per la passione che lo anima e per l’ampiezza dello
sguardo, dunque meritevole di questo nostro invito alla lettura nonostante la
mole e l’inquietudine che certo ne deriverà, comune del resto a molti dei testi
che vengono presentati in questa sezione destinata alla riflessione.
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Per CircolarMente,
Enrica Gallo
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