domenica 15 luglio 2018

Il "saggio" del mese - Luglio 2018


Il “saggio” del mese
Luglio 2018


 

Il libro che presentiamo non è collegato direttamente agli argomenti che ultimamente sono stati proposti all’attenzione dei nostri lettori, pur attenendo in senso lato al tema della disuguaglianza che come associazione culturale sentiamo come particolarmente cogente. Si tratta infatti di un saggio (monumentale) su di uno dei principali snodi in cui essa si manifesta in questo nostro pianeta che trabocca di cibo, ma nel quale molte persone non hanno accesso ad una alimentazione decente, oltre a tutto ciò che una vita dignitosa richiederebbe. Lo ha scritto un giornalista e scrittore argentino, Martín Caparrós, che dopo gli anni dell’esilio in Spagna e in Francia, dove si è laureato in storia alla Sorbona, si è dedicato ad una intensa attività di giornalismo investigativo lavorando presso diverse testate giornalistiche, radiofoniche e televisive e scrivendo nel contempo molti saggi e romanzi.
Fra le opere tradotte in Italiano, segnaliamo:
IL LADRO DEL SORRISO (Ponte alle Grazie 2006)
NON E’ UN CAMBIO DI STAGIONE: UN IPERVIAGGIO NELL’APOCALISSE CLIMATICA  (Edizioni Ambiente 2011)
AMORE E ANARCHIA. LA VITA URGENTE DI SOLEDAD ROSAS (Einaudi 2018)
………………………………………………


Davanti a questo libro “monstre” (più di 700 pagine!) non possiamo fare a meno di chiederci che cosa abbia spinto questo giornalista-scrittore a compiere un così lungo e faticoso viaggio, che lo ha portato ad attraversare quasi tutti i continenti (dal Niger al Madagascar, dall’India al Bangladesh, dagli Stati Uniti all’Argentina) per parlare di qualcosa che è davvero molto complicato da raccontare.
Il tema della fame è infatti disseminato di trappole non facilmente evitabili, come lo stesso autore riconosce nel testo. Quella del sentimentalismo in primo luogo, altrettanto pernicioso a suo giudizio del luogo comune su cui in effetti è sempre facile scivolare, e ancora quella del sensazionalismo che certo può solleticare l’attenzione dei lettori, ma che non si addice ad una questione che di eccezionale non ha proprio nulla.
La fame non è infatti un evento fuori dal comune – nel testo non si parla di carestie, che del resto in qualche modo ultimamente sembrano arginabili – ma è piuttosto, secondo quanto emerge dal libro, uno stato costante che condiziona la vita di almeno un miliardo e mezzo di persone (una ogni sette, in un pianeta come il nostro che potrebbe nutrirne almeno dodici miliardi), portando con sé accompagnatori altrettanto funesti. La denutrizione, l’impossibilità di poter assumere degli alimenti in modo regolare e in quantità sufficiente  espongono infatti non solo a malattie che sarebbero altrimenti curabili (come vedremo seguendo l’autore in un percorso che lo ha portato, soprattutto negli ambulatori africani di Médecins sans frontieres, a condividere in molti casi l’impotenza dei soccorritori),  ma  obbliga chi cerca di sfuggire alla fame ad accettare lavori degradanti, a  non potersi difendere da coloro che detengono il potere di dare o negare cibo, lavoro, dignità, a reiterare fatalmente percorsi familiari di miseria e di degrado sociale e culturale senza  riuscire a compiere un percorso di emancipazione, superando anche gli ostacoli che possono venire dalla tradizione e dalle superstizioni che ad essa spesso si accompagnano e su cui Caparrós non fa certo sconti.
Altrettante trappole peraltro si nascondono, a suo giudizio, quando si affronta il problema delle cause, perché se è giusto riconoscerne la complessità – e in effetti non si può negare che esse siano composite e difficili da districare - può essere ad un certo punto fuorviante addentrarsi in un livello di spiegazione troppo sottile e complesso in cui tutto si tiene, perché c’è il rischio di rimanerci avvoltolati senza scorgerne il nucleo brutale: è cioè il fatto che al di là della rapina coloniale e della voracità di un capitalismo che sui nostri desideri sollecitati ed ampliati fonda i suoi profitti giganteschi, c’è una parte del mondo che per vivere meglio decide che   può o deve o le conviene tenere nella miseria un’altra parte, e fa sì che tutti quei meccanismi esistano, funzionino, diano i risultati che danno” .
Una parte del mondo in cui ci siamo anche noi che stiamo leggendo o che ci accingiamo a leggere questo libro, e in cui c’è l’autore stesso che non se ne tira fuori, anzi: solo sta cercando – pur nella consapevolezza della difficoltà del compito - di non comportarsi come quei convitati al banchetto di Nerone di cui riferisce Tacito, che nulla obiettarono al fatto che gli splendidi giardini fossero illuminati da torce umane (se vogliamo usare un riferimento sicuramente urticante che  Caparrós ci propone, riprendendolo a sua volta da Amarthya Sen).
Certo, dietro questo sforzo che ci chiama a rispondere e a non distogliere lo sguardo c’è un uomo che ha già dovuto misurarsi, negli anni giovanili, con esperienze potenzialmente devastanti (la dittatura, l’esilio) e alle cui spalle, come scopriamo leggendo il testo, c’è l’eco di una tragedia familiare  che ha lasciato il segno (come tutti gli  abitanti del ghetto di Varsavia, anche una sua bisnonna è stata sicuramente costretta a sperimentare, prima ancora di essere soppressa nelle camere a gas di Treblinka, l’atroce programma di annichilimento per fame messo in atto dai nazisti, di cui alcuni medici ebrei  hanno testimoniato con dovizia di particolari i drammatici effetti).
Esperienze e ricordi che hanno certamente influito sulla sensibilità di un giornalista che ha sempre dimostrato coraggio e passione investigativa, e che probabilmente è  stato spinto a scrivere questo saggio sulla geografia della fame anche dall’amara visione  del suo paese, in cui la fertilità della terra è stata messa al servizio  delle multinazionali che hanno imposto le coltivazioni della soia destinata in gran parte all’esportazione e all’alimentazione animale: il consumo di carne sta infatti crescendo in quei paesi che si affacciano ora al benessere – vedi la Cina, i cui maiali vanno nutriti… Di conseguenza è venuta a determinarsi l’urbanizzazione forzata di molti contadini, trasformati in sottoproletari poveri ridotti spesso a rovistare nella spazzatura in cerca di cibo (lo vedremo in una delle pagine più impressionanti del testo, che del resto molte altre ne offre).
Come molti commentatori hanno evidenziato, in questa descrizione di un mondo che in genere non vogliamo vedere (o verso il quale può spingerci un altrettanto inefficace coinvolgimento moralistico, che lascia  inalterate le strutture  politiche e sociali della disuguaglianza) e in cui veniamo invece  abilmente  condotti tra dialoghi e storie di vita, riferimenti storici e analisi sociale, l’autore si dimostra un degno esponente di quella scuola sudamericana detta cronica, che fonde reportage e letteratura. In effetti quello che viene chiamato nel testo “AltroMondo” ha ricordato, alla lettrice che presenta ora questo libro, l’allucinato “Paese delle Ultime Cose” nato dalla fantasia distopica dello scrittore statunitense Paul Auster, peraltro con una resa drammatica ancora maggiore dal momento che in Caparrós l’abilità narrativa è messa al servizio della realtà.
Quello che proponiamo è dunque un libro davvero coinvolgente per la passione che lo anima e per l’ampiezza dello sguardo, dunque meritevole di questo nostro invito alla lettura nonostante la mole e l’inquietudine che certo ne deriverà, comune del resto a molti dei testi che vengono presentati in questa sezione destinata alla riflessione.
        ………………………………………………….

Per CircolarMente,
Enrica Gallo

Nessun commento:

Posta un commento