domenica 1 luglio 2018

La parola del mese - Luglio 2018


La parola del mese

 A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni

Luglio 2018


Galeotta per la scelta di questa  “parola del mese” è stata una coinvolgente discussione avvenuta in una parte della tavolata della nostra cena di fine anno. Sollecitata da alcuni commenti al recente “Il saggio del mese” (“Vita 3.0” di Max Tegmark) ben presto, seppure, com’era giusto, in un contesto di rilassata chiacchierata conviviale, questa parola è diventata il parametro fondamentale per valutare le prospettive, e la sostenibilità etica, della I.A., della Intelligenza Artificiale. L’idea di proporla alla nostra attenzione come “parola del mese” va comunque oltre questa sua particolare applicazione, poiché essa, nella sua accezione filosofica completa, investe la struttura mentale e culturale umana nel suo complesso.


Intenzionalità

sostantivo femminile
Carattere risultante dalla partecipazione attiva e consapevole della volontà a un dato fatto.  

La definizione da dizionario, quanto mai sintetica e stringata, non deve trarre in inganno; le riflessioni che “intenzionalità” può sollecitare sono diverse e profonde; impossibile in questo spazio recuperarle in modo esaustivo; ci affidiamo ad una sua presentazione nella “Enciclopedia filosofica on-line Treccani” che ci è parsa una buona sintesi (per quanto non brevissima e “leggera”) del suo utilizzo esteso. Nel farlo chiediamo ai nostri lettori un poco di indulgenza per aver proposto un testo decisamente impegnativo in questi caldi tempi estivi, ma forse, a ben pensarci, la nostra “intenzionalità” era proprio quella di ribellarci all’assioma che vuole, nei mesi di gran caldo, mandare in vacanza non solo i nostri corpi ma anche le nostre menti


…………………….Il concetto di intenzionalità può essere compreso secondo molteplici percorsi, accomunati, però, da uno spostamento di senso che va dal concreto all'astratto e dal particolare al generale. L'intenzionalità è la qualità dell'essere intenzionale, e in quanto tale valorizza il 'fatto' che la maggior parte delle condotte animali appare direzionata, orientata a uno scopo. Nel caso dell'uomo queste condotte vengono descritte come incardinate su un''intenzione'. In effetti, il mondo fisico e sociale in cui l'organismo umano conduce la sua esistenza si pone come matrice di attività orientate. Ogniqualvolta l'organismo umano si rivela in relazione con il mondo attiva proprio questa modalità generale di funzionamento della mente: l'intenzionalità. Tale capacità psicologica è evidenziabile sia come proprietà della coscienza, sia come schema della rappresentazione segnica con cui opera la mente. Inoltre, se viene intesa riflessivamente, cioè come proprietà inerente all'essere soggetto nel mondo, l'intenzionalità emerge come tratto che specifica il racconto di sé con cui ogni agente umano - individuale e sociale - si assegna la sua mobile identità. Grazie all'intenzionalità, l'uomo si sperimenta come un essere capace di costruire oggetti verso cui indirizzare il suo impegno conoscitivo (oltre che produttivo). Definire la relazione uomo-mondo in termini di intenzionalità è il modo più ricorrente di sottolineare il carattere aperto e creativo della presenza umana nel mondo.

Contesti operativi dell'intenzionalità

Nel linguaggio ordinario il termine intenzionalità ricorre con maggiore frequenza e pregnanza di senso nei contesti giuridici, allorché si tratta di stabilire la natura premeditata degli atti imputati ai soggetti. Infatti, almeno nel sistema delle società occidentali, l'intenzionalità è anzitutto la qualità che assegna un preciso valore morale alle azioni. Di conseguenza, le persone possono e/o debbono (e di solito vogliono) essere ritenute capaci di portare il peso delle conseguenze connesse solo alle loro azioni intenzionali, perché in esse impegnano la loro pretesa di libero arbitrio. Se un poliziotto uccide un passante capitato per caso sulla traiettoria di un proiettile destinato a un pericoloso criminale, verrà punito molto meno severamente del criminale che orienta il suo proiettile su un passante per costringere il poliziotto a occuparsene, così da sfuggirgli. L'azione di premere il grilletto è la stessa, il fine perseguito è diverso. L'esperienza della morte fatta dal passante non discrimina tra proiettile 'intenzionale' e 'preterintenzionale', perché tale evento è l'effetto di processi che si svolgono sul piano fisico. La ricostruzione del fatto operata dagli organi inquirenti - attraverso criteri socialmente pattuiti, come i resoconti di testimoni, le dichiarazioni giurate, le confessioni, le prove balistiche, le videoregistrazioni ecc. - è interessata invece proprio alle differenze che, sul piano psicologico, sono riconducibili al tracciato di intenzionalità operante in quell'azione. Per interpretare che cosa intendono fare il poliziotto e il criminale mentre premono il grilletto, dobbiamo far ricorso a canoni intersoggettivamente validi, capaci di sondare le ragioni che innescano l'azione, per cui siamo in grado di stabilire una diversa configurazione per lo stesso stato intenzionale: mentre il poliziotto crede di star seguendo la regola che sottende la sua funzione di difesa sociale e personale, il criminale crede di essere costretto a violare qualsiasi regola nell'intento di procurarsi una via di fuga.

L'esempio chiarisce la portata pratica e il radicamento psicologico dell'intenzionalità: noi siamo interessati a riconoscere quali intenzioni hanno gli altri in ciò che fanno, e a rendere per loro comprensibili (e accettabili) le nostre in ciò che facciamo. Un primo livello di problematicità risiede dunque nel carattere finalizzato del funzionamento psicologico, radicato com'è nel fatto che le attività pratiche degli esseri dotati di mente, essendo orientate a obiettivi e mete, sono organizzate da 'piani'.

L'intenzionalità come perno della psicologia filosofica: Franz Brentano

La dimensione intenzionale dell'attività rende trasparente alla superficie dei vari tipi di condotta umana il tratto di intenzionalità che marca la struttura profonda della mente. Ecco perché il tema dell'intenzionalità ritorna in tutte le questioni intricate che vertono sull'autocomprensione che l'uomo propone di se stesso: qual è la natura della conoscenza? In che modo la mente si rapporta al mondo? Che tipo di relazione la mente stabilisce con il cervello quale suo sostrato biologico? Che nesso si dà tra la caratteristica intenzionale della mente e la sfera (sociale) del significare? Sono legittime le implicazioni che dall'intenzioalità si traggono per attribuire responsabilità agli agenti sociali? Questo genere di interrogativi alimenta una vasta area di ricerche e di riflessioni afferenti alla 'psicologia filosofica', recentemente divenuta di moda con l'etichetta di philosophy of mind, per cui l'intenzionalità indica il punto di articolazione tra filosofia e scienza cognitiva nella moderna riflessione sull'uomo. Il primo momento di massima esplicitazione di tale nesso è ravvisabile nella proposta di Brentano di porre nella nozione di intenzionalità la matrice teorica capace di generare la "psicologia da un punto di vista empirico" (Brentano 1874). Ecco come l'ex sacerdote cattolico e insigne filosofo viennese riassume la sua proposta: "Ogni fenomeno psichico è caratterizzato da ciò che gli scolastici medioevali chiamarono l'in/esistenza intenzionale (ovvero mentale) di un oggetto, e che noi, anche se con espressioni non del tutto prive di ambiguità, vorremmo definire il riferimento a un contenuto, la direzione verso un obietto (che non va inteso come una realtà), ovvero l'oggettività immanente. Ogni fenomeno psichico contiene in sé qualcosa come oggetto, anche se non ciascuno nello stesso modo. Nella presentazione qualcosa è presentato, nel giudizio qualcosa viene o accettato o rifiutato, nell'amore qualcosa viene amato, nell'odio odiato, nel desiderio desiderato, ecc." . Questa famosa affermazione di Brentano è estremamente densa, perché, oltre a recuperare le origini storiche del termine, esibisce avviluppate insieme le due basilari problematiche relative all'intenzionalità., la cui messa a fuoco scandirà i successivi posizionamenti di E. Husserl rispetto a Brentano e di M. Heidegger rispetto a Husserl. Nell'intenzionalità sembrano trovare risposta sia la questione psicologica (che cosa differenzia i fenomeni psichici da altri tipi di fenomeni?), sia la questione ontologica (che tipo di realtà istanziano i fenomeni psichici?).

Il tema dell'intenzionalità era stato ampiamente discusso nella Scolastica dei secoli 13° e 14°, con particolare attenzione al valore intenzionale delle rappresentazioni mentali attraverso le quali il soggetto 'tende' all'oggetto rappresentato. Brentano trasferisce sul piano psicologico le indagini sull'intenzionalità: un'indagine sulle forme di costituzione del soggetto diventa possibile in base all'analisi delle "strutture dell'intenzionalità", da cui risulta che le funzioni psichiche operano nella necessità di avere ognuna un oggetto in modo proprio. Il carattere intenzionale dei fenomeni psichici autorizza una scienza psicologica in quanto indagine sull'esperienza che l'uomo fa di sé come produttore di atti (oltre che di azioni). Per far fronte alla natura attuale dell'esperienza umana del mondo e di sé, occorre una psicologia descrittiva, a priori e pura, comunque sottratta ai riduzionismi incombenti sulla nascente (e vincente) psicologia fisiologica e sperimentale.

L'intenzionalità come vettore della coscienza

Risalire a Brentano, rievocandone la dottrina dell'intenzionalità, è un gesto teorico ricorrente nel pensiero filosofico e psicologico del Novecento. Il suo valore argomentativo consiste nell'indicare un orizzonte di senso tale da respingere il monismo materialista e il riduzionismo del vocabolario della psicologia all'unico linguaggio estensionale delle proposizioni della scienza fisica. La riscoperta dell'ntenzionalità annoda problematiche di natura epistemologica e metodologica sulla consistenza della psicologia come sapere scientifico sull'uomo, che necessariamente si articola con altri universi di discorso rilevanti per l'esperienza umana del mondo (l'etica, il diritto, la politica). Il nocciolo della questione può essere visto nell'alternativa radicale che si pone tra causalità (fisica) e intenzionalità (psicologica). L'opposizione così istituita segnala come possa mutare il contesto argomentativo in cui ci si interroga sul valore delle teorie e sul senso delle operazioni scientifiche che si compiono, giacché sono soggette a logiche deontiche differenti (necessità versus possibilità). Ipotizzare che tra due fenomeni vi sia un legame di causa-effetto significa ammettere che l'uno contenga le condizioni di determinazione (necessaria) dell'altro. Per contro, ipotizzare che tra due fenomeni vi sia un nesso di intenzione-risultato significa riconoscere che l'uno esibisce le condizioni di interpretazione (possibile) dell'altro.

Il primo a 'tornare a Brentano' è, naturalmente, il suo allievo più importante, Husserl, il cui progetto di fenomenologia mira a sottrarre il "mondo della vita" umana ai vincoli troppo restrittivi posti dal positivismo. Husserl dà alla caratteristica intenzionale dei fenomeni psichici proposta da Brentano uno spessore metodologico radicale, così da illuminare tutta la complessa trama dell'esperienza di sé accessibile all'uomo. Husserl indaga l'intenzionalità come proprietà costitutiva della coscienza. Egli osserva che, per essere coscienti, occorre che ci si diano degli oggetti: non può esserci coscienza senza che qualcosa la informi di sé. Gli atti, o i modi, in cui gli oggetti si offrono alla coscienza la definiscono come 'coscienza di', cioè le assegnano la sua natura intenzionale. Questa dinamica relazionale tra i modi della coscienza e i suoi oggetti è tale da conservare loro un'invalicabile distanza, per cui la coscienza non può essere mai oggettivata in una parte del mondo e tutto ciò che nel mondo può essere oggetto di coscienza le rimane trascendente. Gli oggetti della coscienza non si esauriscono nel 'senso' che essi ricevono dal nostro percepirli, concettualizzarli, appetirli, valorizzarli in un certo modo. L'essenza dell'intenzionalità consiste nel rendere possibili i fenomeni della coscienza quali processi di attribuzione di senso, senza però mai bloccarli in ruoli reificati. La corrente delle esperienze vissute che trascolora in coscienza del mondo ci proietta verso nuovi compiti: noi siamo sempre intenti verso qualcosa che ci sfugge.

Il carattere intenzionale della coscienza è anche il nesso basilare che aggancia la fenomenologia all'esistenzialismo, l'altra corrente della cultura filosofica sviluppatasi nei primi decenni del 20° sec. ad opera di Heidegger, uno dei più acuti allievi di Husserl. Una radice del disaccordo tra questi giganti del pensiero filosofico del Novecento è proprio nell'interpretazione dell'intenzionalità quale carattere originario o meno dell'essere umano. In ogni caso, nell'interpretazione filosofica dell'intenzionalità quale tratto definitorio della mente umana, il riferimento quasi esclusivo è alla dinamica tra coscienza e autocoscienza.

L'intenzionalità come tratto metalinguistico del mentale

Nell'apparato concettuale delineato dalla psicologia filosofica, l'intenzionalità è quella dimensione relazionale per cui il fenomeno psichico non è autoreferenziale, ma 'trascendente': ogni manifestazione del mentale mette in atto uno schema di riferimento ad altro da sé. L'intenzionalità mostra la mente come una procedura che co-struttura un soggetto e un oggetto in relazione. I processi mentali - come 'credere', 'aspettarsi', 'desiderare', 'immaginare' - attivano 'stati intenzionali' in quanto sono sempre intorno a qualcosa. Tutti i contenuti mentali sono intenzionali perché sono incardinati su una relazione (soggetto-oggetto), che si pone come schematismo fondamentale espresso dalla metafora dell'opposizione interno versus esterno. Infatti, la mente può occuparsi di oggetti non esistenti, non localizzabili esternamente, a cominciare dalle allucinazioni o anche solo dai sogni fino alla fiction letteraria e all'utopia politica. Che tipo di 'realtà' possiamo attribuire agli oggetti rappresentati nella mente? Una realtà di natura intensionale, cioè corrispondente al suo 'senso' che "denota il modo in cui quell'oggetto ci viene dato" e non coincide col suo significato referenziale o denotativo. Pertanto, l'intenzionalità caratterizza la mente sia come procedura che come esito: opera intenzionalmente e produce oggetti intensionali. Tra gli oggetti intensionali prodotti dalla mente spiccano gli schemi cognitivi (o concetti) attivati dai significanti linguistici. In tal modo l'intenzionalità della mente si intreccia alla 'intenzionalità' del linguaggio. Invero il nodo dell'intenzionalità sembra potersi sciogliere quando viene interpretato secondo i principi propri della filosofia analitica o, più in generale, della filosofia linguistica. Infatti, in questa nuova chiave di lettura, la questione viene posta in termini di alternativa radicale, come risulta da una celebre discussione che coinvolse alcuni ambienti filosofici statunitensi tra gli anni Cinquanta e Sessanta, allorché la critica al comportamentismo in psicologia (e al neopositivismo logico che lo giustificava sul piano epistemologico) favorì quel nuovo orientamento razionalistico che avrebbe poi imposto il paradigma cognitivista nelle scienze umane. Il primo a proporre delle coordinate linguistiche per l'intenzionalità è R. Chisholm, il quale sostiene che se - come sembra accertato - la semiotica non può fare a meno di ricorrere al 'mentalese', è perché ogni uso di segni presuppone qualche stato intenzionale. In tal modo si ritiene di poter salvaguardare l'autonomia del pensiero umano dalla morsa mortale del comportamentismo filosofico, anche a costo di autorizzare qualche versione aggiornata del dualismo cartesiano, già confutato in molti modi. La posizione di Chisholm viene discussa criticamente da W. Sellars, il quale tenta di proporre "una soluzione semantica del problema mente-corpo", sostenendo che l'intenzionalità del mentale è una traduzione interiorizzata (e quindi derivata) di una intenzionalità ascrivibile al metalinguaggio della socializzazione, grazie al quale l'organismo biologico diventa una persona umana. L'argomento di Sellars potrebbe riassumersi in un aforisma: siamo costretti a ricorrere al 'mentalese', cioè a inquadrare il significato come un fenomeno mentale, perché il fenomeno mentale è nel significare.

Anche negli ultimi decenni del Novecento la riscoperta dell'intenzionalità ha rappresentato la via maestra di ogni 'ritorno alla coscienza'. Negli anni Ottanta l'arma dell'intenzionalità viene brandita da quanti, nell'ambito della philosophy of mind, cercano una via d'uscita dalle pastoie della prevalente teoria dell'identità mente-cervello. L'ipotesi guida che sembra autorizzare tale paradigma, sostenuto principalmente dai filosofi australiani J.J. Smart e D.M. Armstrong, stabilisce che se gli stati mentali accadono 'nel cranio', non sono distinguibili dagli stati neurocerebrali. Per contrastare tale materialismo identista, si tende a far valere l'intenzionalità quale tratto che caratterizzerebbe gli eventi mentali all'interno di quelli fisici. L'apparato concettuale in cui viene affrontato il mind-body-problem si avvale delle ricerche di intelligenza artificiale e delle neuroscienze, e ne mutua il tentativo di mitigare lo sciovinismo antropologico che sembra connaturato alla psicologia filosofici. Le varie interpretazioni della metafora computerologica dipendono anche dalla diversa focalizzazione che riceve la riscoperta dell'intenzionalità, alla quale si richiamano esplicitamente, ma con esiti divergenti, sia l'approccio 'funzionalista' di D.C. Dennett che l'impostazione 'emergentista' di J.R. Searle.

Invero "l'ultima roccaforte del mistero, la mente umana" non può essere recintata dall'attribuzione di intenzionalità, perché questa è una proprietà sia degli organismi che dei sistemi fisici (per es., un computer provvisto di un software per giocare a scacchi). Dennett attribuisce un 'atteggiamento intenzionale' a qualsiasi sistema, organico o meno, il cui comportamento sia spiegabile e/o prevedibile in base a credenze, desideri, intenzioni. Le menti degli animali (e delle persone) e i software dei computer funzionano come sistemi intenzionali. L'analogia mente-computer si regge sull'ipotesi che questa nuova tecnologia della conoscenza e della comunicazione umana, fornendoci un modello di come funzionano tutti i sistemi intenzionali, ci consenta di "spiegare la coscienza".

Il computer è sì un manipolatore di rappresentazioni evidentemente privo di mente, ma è capace di simulare quest'ultima. Infatti, le strutture di dati operanti nei software sono "rappresentazioni autocomprendentisi", per cui possiamo bloccare il regresso all'infinito implicito nella tradizionale teoria degli 'omuncoli' quali entità interne cui attribuire l'uso delle rappresentazioni. La posizione di Dennett comporta almeno due sviluppi per la teoria dell'intenzionalità, giacché la mente viene sganciata dalla biologia e dotata di una 'prospettiva in terza persona'. Infatti, se l'intelligenza umana e tutti gli stati mentali sono come dei programmi di computer, con caratteristiche non dipendenti dal supporto biologico, allora la mente può essere implementata sia nel cervello che in qualsiasi altro hardware compatibile con l'intenzionalità di quella. Inoltre, se la mente opera come un computer, l'uomo può abbandonare la pretesa di essere un 'Io', per descriversi solo come un 'Ciò', in quanto - per dirlo con Eco - il suo 'dentro' è fatto dello stesso materiale del suo 'fuori': simboli, o per meglio dire, 'espressioni'. L'errore filosofico denunciato da Searle (1991) in quest'interpretazione forte dell'analogia cervello/computer risiede proprio nell'attribuzione metaforica dell'intenzionalità a mezzi meccanici. Il fascino del metodo eterofenomenologico proposto da Dennett scaturisce dalla sua volontà dichiarata di sostituire le metafore tradizionali con un nuovo schieramento di analogie: la coscienza non risiede più in un 'grande concettualizzatore', ma in una serie di 'bozze multiple' che vengono continuamente riviste.

Senza dubbio va riconosciuto a Searle il merito di aver fornito il contributo più ampio e sistematico all'approfondimento dell'intenzionalità all'interno della recente philosophy of mind. Se si adotta "un approccio non ontologico" all'intenzionalità allora la forma umana di intenzionalità non fa che specificare una "più biologicamente fondamentale capacità della mente (o del cervello) di porre in relazione l'organismo con il mondo". Quando l'organismo vivente si rapporta al mondo, il suo cervello/mente si dispone necessariamente in certi stati intenzionali, etichettabili come 'azione', 'credenza', 'desiderio', 'aspettativa' ecc. Per spiegare la natura generale di tali stati intenzionali, Searle sviluppa il suo argomento su due versanti: quello euristico-pedagogico e quello logico. Se vogliamo illustrare che cos'è l'intenzionalità, ci torna utile vederla all'opera soprattutto nel linguaggio. Da un punto di vista logico, però, il linguaggio funziona (cioè ci consente di agire da uomini) perché ha una base intenzionale. Il contributo di Searle può apparire circolare in quanto mira a "spiegare l'intenzionalità in termini di linguaggio" e a "spiegare il linguaggio in termini di intenzionalità", ma tale impressione è dovuta all'ambivalenza del termine spiegare che, nel primo caso, significa illustrare, chiarire (versante pedagogico), nel secondo, invece, significa risolvere, ricondurre (versante logico). L'intenzionalità del mentale si esprime al meglio nel linguaggio, ma non può partire dal linguaggio, perché altrimenti saremmo costretti a escludere ogni vita mentale nei soggetti prelinguistici (animali, bambini).

Searle usa la sua teoria degli "atti linguistici" come modello esplicativo degli stati intenzionali. Si possono, infatti, registrare le seguenti affinità. 1) Come negli atti linguistici distinguiamo tra forza illocutoria (prometto, giuro, ordino, consiglio, suggerisco) e contenuto proposizionale (che tu venga qui), così negli stati intenzionali possiamo distinguere tra modo psicologico (credenza, desiderio) e contenuti rappresentativi. 2) Sia gli atti linguistici che gli stati intenzionali possono avere due diverse direzioni di adattamento: quando io affermo qualcosa, è la mia parola che si adatta al mondo e i valori di verità/falsità esprimono tale corrispondenza; quando invece prometto qualcosa, mi impegno affinché il mondo convalidi la mia promessa. Analogamente, nella mia credenza la relazione di intenzionalità va dalla mente al mondo (tant'è vero che se la credenza è inadatta, la cambio), mentre, nel mio desiderio la relazione di intenzionalità va dal mondo alla mente: io cerco di far sì che la realtà si adatti al contenuto del mio desiderio. 3) Sia agli atti linguistici che agli stati intenzionali si applicano le nozioni di "condizione di sincerità" e "condizioni di soddisfazione".

Per spiegare questa radicale affinità tra atto linguistico e stato mentale, bisogna far ricorso alla nozione "sufficientemente vaga" di rappresentazione. Atti linguistici e stati intenzionali rappresentano oggetti e stati di cose, in quanto entrambi hanno contenuti proposizionali che determinano le condizioni di soddisfazione e la direzione di adattamento. Proprio la relazione di "causazione intenzionale" consente di risolvere il problema mente-corpo in una pluralità di livelli, per cui "gli stati mentali sono sia causati dalle operazioni del cervello che realizzati nelle strutture del cervello".

Per poter svolgere la sua "funzione principale, che è quella di rappresentare", la mente deve configurarsi nel formato dell'intenzionalità, che però presuppone uno sfondo mentale pre-rappresentazionale: "Come precondizione dell'intenzionalità, lo Sfondo è tanto invisibile all'intenzionalità quanto l'occhio che vede è invisibile a se stesso" (Searle 1983; trad. it. 1985, p. 160). È significativo che gli argomenti a favore dell'ipotesi dello sfondo siano tratti dall'analisi della comprensione del significato letterale e metaforico, oltre che dalla distinzione ben chiarita dalla psicologia cognitivista tra processi automatici e processi controllati nell'esecuzione di abilità fisiche.

La teoria naturalistica di Searle pretende di giustificare il rapporto di derivazione logica che va dall'intenzionalità del mentale all'intenzionalità del linguistico. Per Searle, la mente ha una forma di intenzionalità intrinseca, il significato (linguistico) ha una forma di intenzionalità derivata. La storia biologico-evolutiva non solo comporta "un ordine di priorità nello sviluppo dei fenomeni intenzionali", per cui le specie viventi si differenziano per il grado di complessità delle loro operazioni mentali - dalla percezione sensoriale alla consapevolezza di avere un linguaggio -, ma autorizza una spiegazione logica, in base alla quale si dà che "certe nozioni semantiche fondamentali, come il significato, siano analizzabili in termini di nozioni psicologiche ancora più fondamentali, come credenza, desiderio e intenzione" .

La distinzione tra significato naturale dell'enunciato e significato non naturale dell'enunciatore chiarisce che il significato linguistico è costruito su una duplice traccia di intenzionalità, giacché rappresenta (rinvia a, contiene) uno stato intenzionale e nello stesso tempo intende essere riconosciuto come tale dall'altro (se, nella comunicazione, lo comprende).

L'introduzione dell'intenzionalità comunicativa arricchisce ulteriormente il quadro, perché immette come necessari i riferimenti a procedure di convenzionalizzazione del senso. Dovendo essere comunicabile, il tipo di intenzionalità inerente al significato linguistico finisce per non essere del tutto localizzabile 'nella testa', ma fa intravedere uno spazio di costituzione 'tra le teste'. È lo stesso Searle ad affrontare la questione nei termini di "intenzionalità collettiva" (we-intentions): una forma elementare di intenzionalità che non si esaurisce in una somma dei comportamenti intensionali individuali, ma organizza il rapporto tra l'intenzione-in-azione individuale e l'intenzione-in-azione collettiva secondo lo schema mezzo-scopo e sulla base di un senso pre-intenzionale dell'altro: occorre che Jones versi la salsa e Smith la mescoli perché entrambi preparino il sugo.

L'intenzionalità come trama culturale dell'interpretante

Per Searle, l'intenzionalità è la porta attraverso cui il biologico accede allo psicologico, ma è pur sempre "un fenomeno biologico ed è parte del mondo naturale". Il doppio versante del suo argomento consente a Searle di chiarire la mente intenzionale in base al suo modo di funzionare nell'interazione verbale e, nel contempo, di derivare il significato sociale della lingua dall'organizzazione biologica individuale. Ma l'intenzionalità può essere vista anche come la porta attraverso cui il culturale si apre sullo psicologico. L'"enigma della mente" può trovare una soluzione non mentalistica, tale però da potersi ancora avvalere del valore euristico dell'intenzionalità, se questa pararelazione viene intesa come schema di riferimento della persona umana alla cultura che la fa essere tale.

Il legame misterioso tra mente e linguaggio, sondato da secoli di riflessioni, si dà a vedere nel comune tratto dell'intenzionalità. Se affrontiamo pragmaticamente l'analisi di quel nesso, siamo costretti a riconoscere che la mente-in-azione-in-contesto diventa 'persona' e il linguaggio-in-azione-in-contesto diventa 'discorso”.

1 commento:

  1. Il dizionario filosofico della Treccani, anche se attraverso un linguaggio non sempre semplice, spiega molto bene il significato della parola. Per illustrare i pochi concetti che mi stanno a cuore, sono sufficienti alcune definizioni tratte dal testo riportato (molto opportunamente) nell’Agorà di CircolarMente:
    o l’intenzionalità ha a che fare con il rapporto Uomo-Mondo
    o attraverso l’intenzionalità l’Uomo sperimenta la sua capacità di costruire oggetti attraverso il suo impegno conoscitivo
    o attraverso l’intenzionalità l’Uomo esercita il proprio libero arbitrio.
    Gli aspetti che mi sento di aggiungere o meglio di precisare sulla base dei miei attuali interessi sono i seguenti:
    o Mi pare si possa dire in modo forse un po’ gretto che l’intenzionalità è l’attitudine di chi ha una concreta volontà di attuare, con gli strumenti della sua conoscenza, il fine che il soggetto ha elaborato sotto forma di intenzione. Si potrebbe sostenere che l’intenzionalità è funzione dell’intensità e della concretezza con cui il soggetto persegue la realizzazione della sua intenzione, ma questo non aggiunge molto all’affermazione precedente.
    o L’atteggiamento intenzionale è tipico di chi aspira a creare qualcosa di nuovo oppure a trasformare in modo apprezzabile qualcosa che già esiste. In breve, di chi aspira a porre in essere un’azione verso il mondo esterno. Questa volontà di azione sottomette l’intenzione ad una verifica della sua genuinità perché la espone al rischio delle conseguenze che l’azione può generare. In un certo modo, l’intenzionalità fa sì che l’azione diventi responsabile.
    o Per trovare un percorso efficace, l’intenzionalità ha bisogno di un criterio (metodo?) per attuare l’azione e per valutarne l’efficacia secondo gli intendimenti originari.
    o Credo che il criterio di efficacia debba includere la completezza e la congruenza dell’azione. La completezza impone all’azione di coinvolgere tutte le sensibilità (discipline?) necessarie a considerare tutte le dimensioni dell’oggetto al quale l’azione si rivolge. Il criterio di congruenza impone che l’azione non generi conseguenze che contraddicano l’intenzione e sottopone quindi l’azione a un severo scrutinio della sua progettazione e della sua esecuzione.
    o In relazione all’attività di ricerca ed di innovazione, l’intenzionalità si riflette nell’intento trasformativo (attivo) del ricercatore in alternativa all’atteggiamento di razionalizzazione dell’esistente che rende l’azione di ricerca prona agli interessi dell’economia e ne indebolisce lo spirito critico e responsabile.

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