Il cervello raccontato
Tra
neuroscienze, psicologia e letteratura,
la nascita di un’epica moderna.
Articolo di Paolo Pecere
(si occupa di filosofia e letteratura. Tra i suoi
saggi "La filosofia della natura in Kant" (2009) e "Dalla parte
di Alice. La coscienza e l'immaginario" (2015). Suoi racconti sono
comparsi su "Nazione indiana" e "Nuovi argomenti". Nel 2018
ha pubblicato il romanzo "La vita lontana") apparso sulla rivista on-line La Tascabile
Il rapporto tra
l’attività cerebrale e l’identità di una persona è un tema attualissimo, che
fin dalle sue prime formulazioni moderne ha messo in questione il ruolo della
narrazione: come può collegarsi l’operare dei miliardi di neuroni che
compongono il cervello, e che procedono in parallelo senza un centro di
elaborazione unitaria, con la linea narrativa in cui l’individuo cerca di
strutturare la propria vita, facente capo al pronome “io”? La sfida delle
neuroscienze rispetto alla psicologia individuale e alla narrazione fu
formulata dal grande biologo Francis Crick in termini singolarmente brutali: “Tu,
le tue gioie e le tue tristezze, le tue memorie e le tue ambizioni, il tuo
senso dell’identità personale e del libero arbitrio, di fatto non sei altro che
il comportamento di un’ampia assemblea di cellule nervose”. L’immagine
dell’anima o della mente come città o parlamento, divisa e potenzialmente
lacerata da conflitti, comune in filosofia da Platone a Hume, è ormai
comunemente trascritta in termini neurologici. Ma l’urgenza di ribadire il
fondamento materiale della mente non elimina la questione di capire come si
formi un senso di identità, la cui natura autobiografica non sembra
immediatamente comprensibile in una prospettiva neurocentrica. Il filosofo Daniel
Dennett, nel tentativo di articolare questo scarto, ha presentato il sé come
una singolare “rete di parole e gesti”, prodotta in modo solo parzialmente
consapevole, che costituisce una componente essenziale della vita
dell’individuo pur essendo esterna al corpo di quest’ultimo, così come la
ragnatela per un ragno. Ma posto che il sé sia prodotto mediante l’elaborazione
cerebrale, per molti studiosi questa descrizione è ancora insufficiente a dar
conto dell’esperienza soggettiva e del modo in cui in questa ha una relazione
di passività ma anche di attività rispetto ai processi cerebrali che ne
costituiscono la base inconscia. Su questo punto neuroscienze, psicologia e
letteratura hanno trovato un luogo di incontro.
Una lotta continua
Tra i documenti più
straordinari di questo incontro vi è il manoscritto autobiografico redatto da
Lev Zaseczij e poi rielaborato dal grande psicologo sovietico Alexandr Lurija
nel suo Un mondo perduto e ritrovato (1971). Zaseczij era un giovane
tenente dell’armata rossa, ferito alla testa da un proiettile tedesco, che in
seguito alle lesioni cerebrali perse gran parte della memoria a lungo e a breve
termine, restò quasi del tutto incapace di parlare e finanche di orientarsi
nello spazio, conservando tuttavia una coscienza di sé perfettamente integra e
scoprendo che, sebbene riuscisse a leggere e a concentrarsi sulle parole solo
con estrema fatica e lentezza, era ancora capace di scrivere fluentemente. Ne
risultò un progetto di scrittura durato oltre vent’anni anni, intitolato Storia
di una ferita terribile o Lotto ancora!, tremila pagine in cui
Zaseczij racconta il suo drammatico impegno quotidiano per recuperare in parte
le proprie capacità e ricostruire un senso della propria vita, partendo dal
ricordo di quel ferimento che, come scriveva, lo aveva trasformato in un altro:
“Ho ripetuto spesso a tutti che dopo essere stato ferito sono diventato
un’altra persona, che sono stato ucciso nell’anno 1943, il 2 marzo”. Nelle
pagine di Zaseczij si trovano lunghe descrizioni di un’esistenza anomala e
carente, di un “mondo frammentato” in cui l’individuo assiste impotente allo
scollamento tra parole e cose, e la stessa immagine del proprio corpo è
continuamente a rischio di perdersi.
E quando chiudo gli
occhi non so nemmeno dove si trova la mia gamba destra, chissà perché ho sempre
l’impressione (e la sensazione) che si trovi da qualche parte al di sopra delle
mie spalle e persino al di sopra della mia testa; non riconosco mai la mia
gamba (dal piede fino al ginocchio), non ne ho coscienza […] Sono seduto su una
sedia e all’improvviso… divento alto, mentre il mio tronco di accorcia, la
testa ora è piccolissima, sembra quella di un pulcino, non è possibile
immaginare una cosa così nemmeno volendo!
In questa storia di
trasformazione del corpo e del mondo, che ricorda a tratti Alice nel paese
delle meraviglie, Zaseczij era al tempo stesso il tragico eroe e il
narratore. Il suo diario è anche la testimonianza di uno scrittore che consacra
la vita alla propria opera e trova in essa un percorso di realizzazione
altrimenti impraticabile. Scriveva di continuo per tornare a essere qualcuno
emergendo da un’esistenza di “ombra”, poiché solo scrivendo riusciva a pensare
e a comunicare:
Questo volevo
ottenere scrivendo quasi ogni giorno il mio unico racconto sul ferimento alla
testa subìto, sulla successiva malattia alla testa e su come volevo vincere
questa malattia per mezzo del mio racconto, affinché tutti lo sapessero… È già
il terzo anno che lavoro al racconto sulla mia disgrazia e su questa malattia.
Si tratta di una specie di riflessione, di studio, di uno scrivere di sé e di
un lavorare su se stesso. È un lavoro che tuttavia mi calma, perché comunque
sia io lavoro; inoltre grazie a questo lavoro ripetuto (quante volte nel corso
degli anni ho riscritto questo lavoro-racconto) il mio linguaggio migliora,
parlo meglio ricordando le parole frantumate dalla ferita e dalla malattia e
sparpagliate in disordine da qualche parte dentro la mia testa. L’importanza
della testimonianza autobiografica per comprendere gli stati patologici non era
nuova, anzi era un punto fermo fin dagli albori della neuropsicologia moderna
nel Settecento. In uno dei primi manuali di psicologia sperimentale (intesa
come la scienza fondata sull’osservazione, che non si occupa dell’anima in
senso metafisico) Jakob Friedrich Abel scriveva che lo studio sperimentale
della mente individuale richiede la stesura di un resoconto «individuale, lungo
e complesso» e una rivista di psicologia intitolata “Conosci te stesso”,
diretta da Karl Philipp Moritz, raccoglieva storie esemplari di stati anomali o
patologici come il sonnambulismo e la cleptomania. Non a caso Moritz fu anche
autore del “romanzo psicologico” Anton Reiser: il romanzo moderno
attinse moltissimo a queste ricerche, e lo sviluppo della neurofisiologia – che
nel corso dell’Ottocento cominciò a localizzare dettagliatamente le funzioni
cognitive nella corteccia cerebrale – continuò a alimentare di curiosità e
sgomento tra gli scrittori, portando sempre più alla luce le trasformazioni, le
lacune, e finanche lo sdoppiamento che la personalità può subire a causa di
avvenimenti cerebrali.
Biografie e
letteratura
Tra i prodotti
esemplari di questa interazione scientifico-letteraria si può includere
senz’altro Lo strano caso del dottor Jeckyll e del signor Hyde di
Stevenson (1886), che contiene un’ampia narrazione in prima persona di un
individuo sdoppiato. L’autore era interessato in prima persona al tema e aveva
personalmente inviato diversi resoconti autobiografici alla Society for Psychological
Research. In Un viaggio in canoa nei fiumi della Francia (1878),
Stevenson descriveva così la propria esperienza di smarrimento:
Ciò che i filosofi
chiamano l’io e il non io, l’ego e il non ego, mi preoccupava, che lo volessi o
meno. C’era meno io e più non-io di quanto ero abituato a aspettarmi. Osservavo
qualcun altro, mentre stava remando; io ero consapevole delle estremità di quel
qualcun altro poggiate contro il puntapiedi; il mio corpo sembrava non avere
più intima relazione con me di quanto avessero la canoa, il fiume e le rive. Né
ciò era tutto: qualcosa dentro la mia mente, una parte del mio cervello, una
zona del mio essere si era liberata dalla leale sudditanza e aveva preteso di
fare da sé, o forse di agire in favore di qualcun altro che continuava a
remare. Mi ero rimpicciolito a minutissimo essere in un angolo di me stesso.
Ero isolato nel mio stesso cranio. I pensieri si presentavano spontanei; ma non
erano i miei pensieri, erano semplicemente i pensieri di un altro, e li
consideravo come parte di un paesaggio.
Leggendo questa
pagina vengono in mente i diagrammi neurologici con cui pochi anni dopo Sigmund
Freud avrebbe illustrato la sua ipotesi sulla separazione tra l’io e le istanze
inconsce della psiche: Freud assegnava all’io una specifica area nel sistema
nervoso, separata dall’area dell’inconscio. Il conflitto tra le diverse
componenti dell’anima diveniva così un dramma neurologico. Freud avrebbe poi
abbandonato questa trascrizione della teoria psicanalitica, ritenendola
prematura, ma avrebbe ribadito la tesi secondo cui l’Io non è padrone in
casa propria. L’Io diveniva dunque un portavoce della coscienza
continuamente attraversato, se non dominato, da pulsioni e condizionamenti
inconsci di varia origine, sedimentati nella biologia della psiche. In questo
modo la stessa idea di responsabilità morale veniva messa in dubbio, mentre
prevaleva l’immagine di un soggetto permeabile e inaffidabile. L’enorme impatto
che queste idee ebbero sulla letteratura dell’epoca è ben noto, da Arthur Schnitzler
a Italo Svevo e oltre. Anche nel cinema questa situazione trovò numerose
espressioni. Basti pensare alle parole di Hans Beckert, l’assassino seriale di
bambine, che si difende davanti a una giuria di criminali che vogliono
linciarlo nel finale di M. Il mostro di Düsseldorf (1931) di Fritz Lang:
“Io ho fatto questo? Ma se non ricordo più nulla! Ma chi potrà mai credermi?
Chi può sapere come sono fatto dentro? Che cos’è che sento urlare dentro al mio
cervello? E come uccido: non voglio! Devo! Non voglio! Devo!”. Freud mostrava
come la narrazione non dovesse essere soltanto la forma di resoconti
storico-clinici – un metodo corrente in medicina fin da Ippocrate – ma potesse
far parte anche della terapia: l’analista doveva comprendere i racconti del
paziente e proporne di nuovi, mirati a riportare alla coscienza parti rimosse
del suo vissuto. Queste idee furono tra le fonti della «scienza romantica»
teorizzata da Lurija in Unione Sovietica (dove la psicoanalisi sarebbe stata
bandita), come necessario complemento dell’approccio «classico» fondato sulla
scomposizione dei fattori neuropsicologici. L’obiettivo di fondo era dar conto
della ricchezza del soggetto e della dimensione di «dramma» della vita
psichica, che nessuna conoscenza anatomica e fisiologica poteva descrivere
adeguatamente.
Lo sguardo di Sacks
Negli Stati Uniti fu
Oliver Sacks a riprendere questo approccio, parlando di “neurologia
dell’identità” o “dell’esperienza viva”, di approccio “esistenziale”, di
“fisiologia personale o proustiana”. Nei casi clinici narrati in un classico
come L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello (1985), Sacks mostra
come lo sforzo di comprendere il mondo interiore di un paziente neurologico,
ricostruendone la storia, portasse a risultati terapeutici straordinari. Come
la scrittura per il paziente di Lurija, seguire un’azione, un filo
drammaturgico, il tratto di un disegno, aiutava i pazienti “incurabili” di
Sacks a trovare una realizzazione emotiva altrimenti negata. Così Jimmie,
vittima di una irreversibile amnesia che lo costringe a vivere in un eterno
presente del 1945, recupera attenzione e pace soltanto quando ascolta musica o
partecipa a una liturgia. Rebecca – che per le gravi mancanze cognitive e
motorie era definita dalle cartelle cliniche “un fantoccio”, una “idiota
motoria” – aveva recuperato una serenità partecipando a un laboratorio di
teatro. Lei stessa aveva confessato a Sacks il suo bisogno di seguire una
sceneggiatura per evadere dalla sua condizione di paralisi esistenziale: “Sono
come un tappeto, un tappeto vivente. Ho bisogno di un motivo, di un disegno
come questo sul suo tappeto. Se non c’è un disegno, vado in pezzi, mi disfo».
Per Sacks, se il cervello è un “telaio incantato” come lo ha definito il grande
neurologo Sherrington, è necessario dunque che il suo funzionamento tessa
strutture narrative:
Ciascuno di noi è una
biografia, una storia. Ognuno di noi è un racconto peculiare, costruito di
continuo, inconsciamente da noi, in noi e attraverso di noi – attraverso le
nostre percezioni, i nostri sentimenti, i nostri pensieri, le nostre azioni; e,
non ultimo, il nostro discorso, i nostri racconti orali. Da un punto di vista
biologico, fisiologico, noi non differiamo molto l’uno dall’altro;
storicamente, come racconti, ognuno di noi è unico.
Allo sguardo di Sacks
quelle che dal punto di vista medico non sono che patologie – come la
discinesia e le stravaganze indotte dalla sindrome di Tourette o la
reminiscenza incontrollata di musiche d’infanzia o di fantasie erotiche –
apparivano come una componente essenziale a definire la personalità del
paziente, che non poteva essere del tutto eliminata senza sconvolgerla.
Casi di studio
La narrazione
neurologica, come stiamo vedendo, è stata soprattutto una narrazione elegiaca,
di smarrimenti irreversibili e tentativi di recupero, di sdoppiamenti e
trasformazioni, al cui centro c’è il rapporto della coscienza con la sua
matrice oscura. Attraverso i tanti personaggi di questo canone letterario è
possibile, come fa Sam Kean ne Il duello dei neurochirurghi (2017), illustrare
la nascita delle conoscenze neurologiche. Un famoso esempio di trasformazione,
ripreso anche da Kean, è quello di Phineas Gage. Gage era un operaio
ferroviario che ebbe un gravissimo incidente sul lavoro: una sbarra di ferro
gli attraversò la testa, distruggendo i lobi frontali della corteccia
cerebrale. Sopravvissuto, cambiò profondamente personalità. Divenne incostante,
sboccato, insolente, capriccioso. Perse il lavoro, finì a lavorare in un circo,
morì a trentotto anni. Un commovente dagherrotipo lo ritrae in piedi, con
l’orbita vuota che regge la sbarra del suo incidente, che aveva chiamato «il
compagno costante per il resto della mia vita». L’incidente, la lacuna, lo
avevano reso un’altra persona.
Mentre simili casi
neuroscientifici non smettono di interessare i ricercatori, il loro evidente
potenziale narrativo continua a ispirare gli scrittori. Un esempio recente è
Richard Powers, che ne Il fabbricante di eco (2006) narra la vicenda di
Mark, che una grave lesione cerebrale rende emotivamente incapace di
riconoscere la sorella Karin, facendogli sospettare che lei sia un impostore.
Karin chiede aiuto al dottor Weber, un noto neurologo (personaggio ispirato
probabilmente a Gerald Edelman, pioniere degli studi su coscienza e cervello),
che diagnostica in Mark una sindrome di Capgras. Partendo da queste premesse si
compone un racconto inquietante sulla fragilità e la mutevolezza dell’identità
personale, in cui Powers ha voluto “gettare uno sguardo sulla solida, continua,
stabile e perfetta storia che tentiamo di costruirci sul mondo e su noi stessi,
e al tempo stesso alzare il tappeto e scrutare la cosa amorfa, improvvisata,
disordinata e piena di crepe e lacune che sta sotto tutta questa narrazione”.
Mentre Mark infine recupera la verità sulla propria storia, è il dottor Weber a
perdere gradualmente le proprie certezze, rimuginando insonne sulla sua
scienza: il cervello si modifica continuamente con l’esperienza, mediante
processi biochimici e vere e proprie trasformazioni strutturali; così facendo modifica
i ricordi, mettendo continuamente in gioco l’identità che dovrebbe tenere
insieme e distinguere l’individuo dagli altri. Infine questa identità appare
come un equilibrio superficiale e transitorio: “L’io è un quadro dipinto su
quella superficie liquida”.
Scienza e coscienza
Ma il progresso delle
neuroscienze, oltre a ispirare visioni patologiche e perdita di certezze, ha
anche promesso un sapere che fornisca nuova padronanza della coscienza. Questo
itinerario è stato ben raffigurato dallo psichiatra Giulio Tononi in Phi. Un
viaggio dal cervello all’anima (2012), un vero e proprio romanzo
filosofico sulle neuroscienze presenti e future. Tononi narra un viaggio che
attraversa l’Inferno e il Purgatorio delle mancanze e delle perdite, per
giungere a un Paradiso del sapere capace di padroneggiare la coscienza mediante
le sue basi fisiche. Il protagonista della narrazione di Tononi è Galileo
Galilei, nei panni di un Dante della modernità scientifica chiamato a
interrogarsi sulla straordinaria capacità per cui un frammento di materia può
comprendere l’universo e – come si legge nei versi di Emily Dickinson – risulta
“più grande del cielo”:
Ogni cervello non è
che un’inezia nel vasto inventario dell’universo: una gelatina tremolante
alloggiata in una tazza d’osso, una pagnotta coperta da un cappello, una misera
spugna che un bicchiere di vino basta a ubriacare, e un pugno basta a farla a
pezzi. Come può il cervello contenere il cielo?
Nella prima parte del
viaggio, Galilei, accompagnato dal già citato Francis Crick, apprende come la
coscienza appaia e scompaia, subisca lacune, si sdoppi. In seguito la sua guida
diviene Alan Turing, pioniere dell’intelligenza artificiale, che lo introduce a
una teoria della coscienza, intesa come capacità di integrare le informazioni
propria di sistemi fisici e dotata di un grado misurabile. Istruito su questa
scienza futura, che permetterà di comprendere, modificare e riprodurre gli
stati coscienti, Galilei è guidato infine da Charles Darwin a esaminarne le
implicazioni, ovvero la piena comprensione di quella «luce interiore» che si
riflette nell’arte, nella letteratura, nelle esplorazioni e in altre imprese umane,
irradiandosi dal nostro cervello. Questo paradiso delle neuroscienze è lo
stesso territorio di cui parlano libri di futurologia in cui si immagina un
perfetto controllo delle emozioni e un enorme potenziamento cognitivo, come fa
per esempio Yuval Harari in Homo deus (2015). Come sempre, il passo
dall’utopia alla distopia è brevissimo, e la prospettiva del controllo e della
riproducibilità tecnica degli stati coscienti appare a molti come un sogno che
prefigura una società fortemente inegualitaria, dove l’individuo umano sarebbe
destinato a una crescente irrilevanza sociale e politica. Del resto lo stesso
Tononi, quando in Phi raffigura la possibilità che si possano indurre
nuovi artificiali stati di coscienza, lo fa inventando un episodio angosciante
che richiama il Kafka di Nella colonia penale: uno scienziato che opera
un macchinario capace di produrre un dolore innaturalmente intenso agendo sul
cervello degli individui. ’influenza onnipresente della neuroscienza è capace
di ispirare finanche l’immaginazione di condizioni che trascendono la
condizione umana. I casi di agnosia osservati in individui umani perfettamente
coscienti e intelligenti – come l’incapacità di riconoscere oggetti, parti del
corpo o espressioni facciali – suggeriscono l’esistenza di forme di coscienza
diverse e diversi modi di sentirsi identici, quali quelle che possono
caratterizzare altre specie animali. Così la
coscienza dei polpi, delle balene o dei pipistrelli diventano oggetto di
speculazione, anche se il pensiero resta incapace di immedesimarsi
in quell’alterità di mondi e esistenze, come a volte ha sognato di fare la
letteratura. Ma il confronto tra noi e gli individui che mancano delle nostre
capacità cognitive suggerisce, per analogia, l’immagine di stati mentali a cui
non possiamo accedere a causa dei nostri limiti cerebrali, e che pertanto sono
trascendenti ma nondimeno reali. Si tratta di un salto che è stato spesso
teorizzato dai filosofi – per esempio nell’immaginazione degli angeli (Tommaso)
o degli abitanti di altri pianeti (Kant), e che è stato recentemente ripreso,
in forma narrativa, da Mircea Cartarescu in Abbacinante. L’ala sinistra (2000).
Nel romanzo di Cartarescu è insistente l’indicazione del cervello come luogo
della percezione e del pensiero, “organo interno che riflette la totalità come
la perla riflette intorno a sé la polpa martoriata dell’ostrica”. Ma il
cervello è al tempo stesso condizione e limite. Invocando la possibilità di una
superiore condizione spirituale, ostacolata dalla gabbia materiale, Cartarescu
insiste sulla piccolezza e fragilità del nostro organo:
Che cosa possiamo
recuperare in noi stessi? L’anima? Il corpo stellare? La coscienza? Un banale
tumore li annulla, un nodulo epilettico turba la memoria, l’immagine delle
natiche di una donna ti blocca il pensiero, un’ingiustizia ti proietta in un
puro delirio paranoico, un incubo ti raggela dalla nuca alla fronte… E tutto
accade su un granello di sabbia di una spiaggia delle dimensioni dell’universo.
A questa limitatezza
Cartarescu oppone la fede in una realtà metafisica che oltrepassa le capacità
intellettive. È significativo che queste idee antiche trovino appoggio in
metafore neurologiche, a testimonianza di quanto questo sapere fornisca oggi i
termini per descrivere la condizione umana, anche quando lo si voglia
depotenziare o distruggere in nome della fede:
Esiste nel nostro cervello
una pompa a vuoto, un cuore neurale le cui lunghe tempeste di luce d’oro
veicolano in tutte le regioni, in tutte le province e in tutti i distretti del
nostro corpo graziosi messaggeri che nuotano nel siero della fede. Lo
stesso Giudizio universale appare a Cartarescu come effettuato sui neuroni che
identificano ogni individuo, e la comunità dei beati come «un cervello nuovo,
fantastico, universale, abbacinante, grazie al quale, incoscienti e felici,
saliremmo a un livello più alto nel frattale dell’Essere eterno». Il canone
della narrazione neurologica, di cui abbiamo ripercorso alcuni esemplari,
appare al tempo stesso come un patrimonio scientifico e un’epica moderna,
capace di attraversare scienza e finzione, razionalità e sogno. Il tratto unificante
di questa koinè culturale è il cervello come sede di memoria e
condizionamenti, segreti imbarazzanti che l’io mal sopporta e potenzialità
inesplorate che possono cambiare la vita. Già il maestro di Lurija, lo
psicologo Lev Vygotskij, sviluppando un’immagine di Freud paragonava il
neuropsicologo a uno storico, a un geologo e a un detective, poiché tutti
questi ricercatori “ricostruiscono i fatti che non ci sono più mediante metodi
indiretti”. In questo paradigma siamo oggi più che mai. La storia cerebrale è
il sottotesto costante di ogni racconto su noi stessi.
Nessun commento:
Posta un commento