Riprendiamo e pubblichiamo un articolo
apparso sul Sole 24 Ore del 19 Ottobre 2018 a firma di Enrico Marro che
sintetizza uno studio di Roberto Antoni (Professore
emerito di Scienza delle finanze alla Bocconi di Milano) sull’andamento storico del debito
pubblico italiano. Argomento da sempre al centro del dibattito politico ed
economico ma in questi giorni tornato sulle prime pagine dei giornali per il suo ulteriore
aggravamento. Può essere utile per tutti noi mettere meglio a fuoco una
questione fondamentale per il presente ed il futuro del nostro paese ma che,
come si potrà rilevare, ha origini ben precise nel nostro passato prossimo. Un
vecchio adagio citava “vizi privati, pubbliche virtù”, per quanto riguarda il
debito pubblico è impossibile individuare delle virtù, restano i vizi, pubblici
e privati
Debito
pubblico: come, quando e perché è esploso in Italia
Se l’Italia si ritrova
sempre nel mirino di mercati e agenzie di rating nonostante
le dimensioni della sua economia e l’avanzo primario è per due motivi: una
crescita stentata e un debito pubblico colossale, con la conseguente spesa per
interessi. Ma come, quando e perché si è formato questo macigno che pesa da
trent’anni sulle nostre vite? Un interessante studio di Roberto Artoni, ex
commissario Consob e docente emerito di Scienza delle finanze all’Università
Bocconi di Milano, analizza l’andamento del rapporto debito-Pil individuando quattro
fasi di impennata: le prime tre riassorbite nel giro di qualche anno, l’ultima
(quella che stiamo vivendo da trent’anni) ormai cronica, nonostante gli sforzi
compiuti.
Andamento storico
debito pubblico Italia
Il primo boom del debito
italiano si verifica nel 1897, con la crisi economica di fine Ottocento, quando
raggiunge il 117% del Pil nonostante un saldo primario positivo. Solo con la
tumultuosa crescita economica del periodo giolittiano torna a scendere a quota
70% (nonostante le spese legate alla guerra di Libia). Le altre due impennate
del debito si verificano durante i conflitti mondiali. Nel primo dopoguerra, in
particolare, l'enorme debito contratto per lo sforzo bellico tocca il 160% del
Pil, a livelli non lontani da quelli attuali della Grecia. Come nota Artoni, il
rapporto debito-Pil sale infatti dal 71% del 1913 al 99% del 1918, per poi
impennarsi nel “biennio rosso” 1919-1920, raggiungendo il massimo storico di
160% nel 1920. Riuscire a ridurlo è un’impresa: quattro anni dopo è ancora al
142%. Solo con la sistemazione, o la cancellazione di fatto, dei debiti di
guerra, oltre che con una rilevante caduta del debito interno, la seconda crisi
di finanza pubblica viene superata.
Gli effetti della crisi del 1929 e della Grande Depressione tornano a far
gonfiare il debito portandolo all'88% del Pil nel 1934, con una spesa costante
in termini nominali ma una rilevante diminuzione delle entrate. Nella seconda
metà degli anni Trenta, tuttavia, il buon andamento economico consente al Regno
d’Italia di ridurre il passivo al 79% del prodotto interno lordo, nonostante
l’aumento delle spese militari. L’ingresso dell’Italia nella seconda guerra
mondiale torna però ovviamente a gonfiare il debito, che raggiunge il 108% nel
1943. Negli ultimi due anni del conflitto e nell’immediato secondo dopoguerra
un’inflazione Nelle prime tre occasioni, quindi, inflazione e parziali
ristrutturazioni del debito hanno contribuito a riportare la situazione sotto
controllo: nel secondo dopoguerra il debito italiano si ritrova poco al di
sopra del 20% del Pil. Ancora nel 1964, in pieno boom economico, quando
l’economia italiana cresce in media del 5% annuo sostanzialmente senza
inflazione, il rapporto debito-Pil si trova al 33%. Per quale motivo? Semplice:
perché il costo del debito è inferiore al tasso di crescita e la politica
fiscale si mantiene molto equilibrata, un po’ per scelta ma soprattutto per
effetto del boom economico. «Se il debito aumenta ma aumenta anche la crescita
non è un problema – spiega l’economista Alessandro Tentori, di AXA - perché il
Paese può ripagarlo. Il problema si pone se la crescita nominale è più bassa
del tasso di interesse nominale sul debito perché, in questo caso, tende ad
aumentare». Queste condizioni favorevoli continuano bene o male fino alla fine
degli anni Sessanta. Attenzione però, perché nel 1968 il rapporto debito-Pil
già è aumentato dal 33% di cinque anni prima al 41%, mentre emergono le prime
tensioni finanziarie ed economiche, sia sul piano interno che su quello
internazionale. La quarta fase di boom del debito è quella di cui stiamo ancora
pagando le conseguenze. «È il problema veramente aperto», sottolinea Artoni,
visto che per la prima volta nella storia d’Italia non stiamo riuscendo a
riassorbirlo. Gli sforzi non sono mancati: il nostro Paese è stato l’unico in
Europa a chiudere in attivo (al netto degli interessi sul debito) 22 bilanci
pubblici su 23 tra il 1995 e il 2017. Nel 2007 siamo riusciti a riportare il
“mostro” al di sotto del confine del 100%, ma la Grande Crisi l’ha fatto
ripiombare al di sopra del 130% del Pil. Zavorrati verso il fondo dalla spesa
per interessi e da una crescita economica anemica, non riusciamo a uscire da
questa palude del debito creata in un’altra epoca. Ma vediamo in dettaglio come
si sono create le sabbie mobili nelle quali siamo imprigionati. Dal 1968 al
1983 la situazione delle nostre finanze pubbliche inizia a precipitare. La
crescita per fortuna resta buona, intorno al 3% medio annuo (anche se siamo
lontani dalle performance del “miracolo economico”) ma con la crisi petrolifera
del 1973 esplode un’inflazione galoppante (da noi ulteriormente “pompata” dalle
svalutazioni della lira). In Italia il carovita vola dal 5,2% del 1972 al 19%
del 1974, mantenendosi attorno al 15% fino alla fine del decennio, quando si
impenna di nuovo fino a toccare uno spaventoso 21,7%. In questo periodo va però
sottolineato come i tassi reali siano fortemente negativi grazie a una politica
monetaria statunitense molto permissiva. Intanto il miglioramento del welfare, processo
in atto dal decennio precedente, provoca un aumento della spesa pubblica che si
combina con la stagnazione delle entrate dando vita a un mix fatale che dal
1973 in poi ci porta a chiudere bilanci in pesante deficit (fino al 10%, più
del triplo rispetto alle soglie del Trattato di Maastricht). Il debito però non
esplode, aumentando sì nei primi anni Settanta per via della recessione ma
restando poi sostanzialmente stabile: nel 1981 si trova ancora al 60% del Pil.
Per quale motivo? Perché dal 1975 la Banca d’Italia si impegna a garantire il
successo delle aste dei titoli di Stato, stampando moneta per comprare le
obbligazioni rimaste invendute (dal 1975 al 1981 gli interessi che pagavamo
infatti erano in media inferiori del 10% rispetto all’inflazione, quindi
collocare “carta” governativa era un’impresa ardua). In questo modo il costo
dell’aumento del debito sparisce dai conti pubblici ma si scarica sulla lira,
che non a caso nella seconda metà degli anni Settanta si svaluta di un
impressionante 40% rispetto al dollaro. Nel 1981 esplode la bomba nucleare che
condanna l’Italia a morire di debito, complice la cronica avversione dei
Governi dell’epoca alla disciplina di bilancio. Viene innescata negli Stati
Uniti dal nuovo presidente Ronald Reagan e dal Governatore della Federal
Reserve Paul Volcker, che decidono di dichiarare guerra all’inflazione (allora
al 14% negli Usa). La Fed dà vita a una memorabile stretta sui tassi, passati
in sei mesi dal 9% a quasi il 19%, abbattendo il carovita (nel 1983 oltreoceano
al 3,2%) ma innescando una mini-recessione prima del boom economico. Tutte le
altre banche centrali del pianeta sono costrette a inseguire la Fed, compresa
Bankitalia. È in questo contesto che nel luglio 1981 il ministro del Tesoro
Beniamino Andreatta e il Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi
avviano il “divorzio”: via Nazionale, come altre banche centrali, si libera
dall’obbligo di acquistare i titoli di Stato invenduti, tornando a essere
indipendente nelle sue scelte di politica monetaria. La decisione, avversata da
tutti i principali partiti politici, permette alla lira di restare all’interno
del Sistema monetario europeo, la banda di fluttuazioni tra le valute del
Vecchio Continente introdotta nel 1979 e destinata a diventare il nucleo della
futura Unione monetaria. Il nostro Paese arriva al 1982 in condizioni
sudamericane: l’inflazione viaggia intorno al 17% divorando il potere
d’acquisto di stipendi, risparmi e pensioni, i tassi d’interesse all’inizio
dell’anno superano il 25%, lo spread tra i decennali italiani e quelli della
Repubblica federale tedesca tocca l’inimmaginabile record di 1175 punti base.
Una vetta mai più raggiunta nemmeno durante Tangentopoli e la crisi della lira
(769 punti base), o nella crisi del debito sovrano del 2011 che costò il posto
a Berlusconi e spianò la strada a Monti (574 punti base). Proprio nell’anno in
cui gli azzurri alzano al cielo la Coppa del Mondo a Madrid, Banca d'Italia
mette in guarda i Governi dall’usare l'arma della spesa pubblica con eccessiva
disinvoltura, rischiando di creare quel colossale debito che poi si è
materializzato e che da trent’anni ci pende, affilatissimo, sul collo,
rubandoci il futuro. «Nel biennio 1981-82 il prodotto interno lordo è rimasto
stazionario - scrive il Governatore Ciampi - ma il settore pubblico ha
aumentato del 14% il suo debito in termini reali, mentre il debito del Paese
verso l’estero è aumentato di 9 miliardi di dollari». Il disavanzo delle
amministrazioni pubbliche italiane nel quinquennio 1977-82 ha superato il 10%
del Pil, notava preoccupata Bankitalia, contro l’1% degli Stati Uniti. Su spesa
pubblica, deficit e debito bisogna correggere la rotta, sottolinea Ciampi: «La
correzione deve affrontare il problema della spesa, modificandone l’angolo di
rotta. I progressi nel campo della funzione sociale potranno essere
salvaguardati e resi duraturi solo se saranno posti in una vera cornice di
giustizia distributiva, di stabilità monetaria, di efficienza». Ma la realtà è
un’altra: nell’Italia del 1982 vengono allegramente «introdotti sistemi di
intervento pubblico che comportano nel presente, e ancor più nel futuro, spese
incompatibili con le più ottimistiche previsioni di crescita - conclude
amaramente il futuro presidente della Repubblica - promettendo la distribuzione
di un reddito non prodotto e non producibile in tempi brevi».
Andamento
rapporto deficit/Pil
Le parole di Ciampi cadono
nel vuoto. I Governi italiani che si succedono negli anni Ottanta continuano a
mantenere saldi primari negativi al limite dell’indecenza (si sfiora il 15%),
sorvolando allegramente sulla disciplina di bilancio. È in questi anni che il
debito decolla, anche perché con
un'inflazione che non scende sotto il 10% fino al 1985, per trovare
acquirenti di BoT e BTp il tasso medio dei nostri titoli di Stato resta sempre a
doppia cifra. Il mostro del debito diventa spaventoso: nel 1980 era appena
sotto il 60%, ma dieci anni dopo è già volato al 100% del Pil. E pensare che
quello degli anni Ottanta è un periodo di crescita economica apprezzabile, nota
Artoni, e soprattutto di incremento delle entrate, che aumentano di otto punti
percentuali. Il grande problema restano i tassi di interesse reali che dobbiamo
pagare sul debito. Spaventosamente alti. Viaggiano intorno al 5%, con
un’incidenza della spesa per interessi sul debito pubblico che nel 1994
raggiungerà il 12% del Pil. «In questo periodo deve essere sottolineata la
passività delle nostre autorità di politica economica - accusa Artoni - che
hanno assistito inerti all’evoluzione della nostra finanza pubblica, forse
soddisfatte del fatto che a tassi di interesse reali così elevati fosse
comunque possibile il finanziamento del Tesoro». Nell’estate del 1992, pochi
mesi dopo la firma del trattato di Maastricht, arriva la spallata sui mercati:
il finanziere George Soros mette alla prova la tenuta dello Sme con un violento
attacco speculativo, spingendo sterlina britannica e lira quasi fuori dal
sistema e costringendo Bankitalia a una svalutazione brusca del 7%. Nel 1994 il
debito pubblico raggiunge il 124% del Pil. Da allora è passato quasi un quarto
di secolo, ma siamo ancora all’anno zero. Anzi in condizioni peggiori, con un
passivo superiore al 130% del Pil. Condannati a morire di debito.
Nessun commento:
Posta un commento