domenica 6 dicembre 2020

Il "Saggio" del mese - Dicembre 2020

 

Il “Saggio” del mese

 DICEMBRE 2020


Prosegue con la sintesi della Parte Terza la nostra pubblicazione come “Saggio” del mese, in questo caso di più mesi, della monumentale opera di Thomas Piketty “Capitale ed Ideologia”. Dopo aver esaminato nella Parte Prima la forma delle disuguaglianze nelle società basate su tre ordini sociali, nobiltà-clero-lavoratori, e l’ideologia che le sosteneva, e nella successiva Parte Seconda il loro superamento, nel corso del XIX secolo, con l’affermarsi della “società dei proprietari”, espressione della sacralizzazione ideologica del “diritto alla proprietà”, in questa Parte Terza Piketty analizza quanto avvenuto nel corso del XX secolo, definito quello della “grande trasformazione”. Si completa così il percorso storico delle forme di disuguaglianze che hanno costruito, con il loro progressivo succedersi e con le profonde eredità comunque lasciate, l’attuale struttura delle disuguaglianze e della ideologia alla loro base, ossia la realtà di questo inizio del XXI secolo nel quale siamo chiamati a ideare e realizzare una nuova “giustizia sociale”. Ci scusiamo per la lunghezza di questa sintesi, ma non è stato possibile più di tanto riassumere non tanto le parti di commento ed analisi quanto la notevole mole di dati, raccolti in tabelle e grafici, che sostengono le valutazioni di Piketty (P.). Per orientare la vostra lettura, se eventualmente interessata a parti specifiche, il piano dell’opera di questa Parte Terza è il seguente:

*   Capitolo 10 = dedicato alla crisi della “società dei proprietari” avvenuta nella prima parte del secolo sulla spinta dei grandi mutamenti politici prodotti dai movimenti di lotta popolari e dalla tragedia dei due conflitti mondiali

*   Capitolo 11 = in cui si esaminano le società “socialdemocratiche”, intese in senso molto lato, la loro concreta incidenza sulle disuguaglianze ed i loro limiti e incompiutezze

*   Capitolo 12 = verte sull’analisi delle cause che hanno prodotto l’indiscutibile fallimento delle “società comuniste”, e delle evidenti contraddizioni presenti in quelle “post comuniste”, con una attenzione particolare all’attuale Russia e alla anomalia della Cina.

*   Capitolo 13 = chiude il percorso esaminando le caratteristiche delle “società ipercapitaliste” della attuale globalizzazione economica e ideologica a trazione neoliberista, delineando il quadro finale sul quale interverrà la Parte Quarta.

Va da sé che la lettura completa consente di meglio cogliere le relazioni fra i vari Capitoli.

Parte terza

La grande trasformazione del XX secolo

Capitolo 10

La crisi della società dei proprietari

(In cui P.  completata l’analisi delle precedenti forme di società ed individuate le loro possibili influenze sulla struttura contemporanea delle disuguaglianze prende in esame la sua evoluzione nel secolo dei grandi cambiamenti imposti dall’affermarsi totale del capitalismo maturo

Ripensare la grande trasformazione del XX secolo

Tra il 1914 ed il 1945 la struttura delle disuguaglianze globali conosce la trasformazione più rapida e più profonda mai avvenuta nella storia, sancendo la crisi definitiva delle società proprietaristiche esaminate nella Parte Prima. Sono tre i principali fattori che innescano questa crisi:

*      la gestione delle disuguaglianze interne, messe in discussione da movimenti popolari ispirati da ideologie alternative

*      la gestione delle disuguaglianze esterne, sottoposte alla contestazione dell’ordine coloniale

*      le sfide nazionalistiche ed identitarie che radicalizzano, fino al conflitto aperto, i contrasti tra Stati

Per comprenderli è utile una panoramica dei processi concretamente avvenuti in questo periodo per quanto concerne l’evoluzione dei livelli di disuguaglianza.  Un primo grafico illustra visivamente l’evoluzione della disuguaglianza di reddito nelle due aree maggiormente caratterizzate dalla società proprietaristica del XIX secolo, Europa ed USA

Grafico 34


Le due curve segnalano processi sostanzialmente simili, con una progressiva contrazione della ricchezza da reddito posseduta dal decile superiore fino al 1980 seguita poi da una significativa ripresa verso l’alto. Ad uno sguardo più attento emergono alcune rilevanti differenze: la curva europea, partita da livelli più alti di quelli americani, conosce una discesa decisamente più accentuata e una successiva risalita più moderata, al contrario quella statunitense presenta una discesa più contenuta seguita da una più accentuata ripresa, tale da quasi raggiungere le percentuali europee di inizio secolo. La situazione europea può essere meglio compresa valutando il singolo comportamento dei paesi che di più incidono  nel determinare il dato medio europeo, il seguente grafico aggiunge alle due curve di quello precedente quelle specifiche di Regno Unito, Francia, Germania, e Svezia

Grafico 35

Il dato europeo medio appare influenzato da due distinti percorsi: quello di Germania e Regno Unito, che vede, salvo limitati picchi temporanei, una maggiore percentuale di ricchezza rimasta in capo al decile superiore, al traguardo del 2010 il Regno Unito raggiunge infatti percentuali vicine a quelle statunitense, con la Germania appena sotto, e quello di Francia e della Svezia, che si assestano a livelli inferiori alla media europea. Per meglio comprendere questi percorsi storici è opportuno, vista la sua incidenza sulla curva del  reddito, evidenziare anche quella della ricchezza patrimoniale, il dato che, all’alba del XX secolo, ben più del reddito rappresentava il segno distintivo della società dei proprietari, in particolare in Europa. Il seguente grafico analizza l’evoluzione della quota percentuale di patrimonio privato posseduto dal decile superiore, nel periodo 1900–2010, in Europa, USA, ed in tre significative situazioni nazionali europee: Regno Unito, Francia e Svezia

Grafico 36


Emerge con chiarezza come l’iniziale concentrazione di ricchezza patrimoniale sia stata, soprattutto per l’Europa, decisamente più alta di quella del reddito (vedi grafico 35); raggiungendo agli inizi del secolo percentuali mediamente comprese fra l’85% ed il 90%, mentre leggermente più bassa, attorno all’80%, era quella americana. Nel corso del secolo questa situazione patrimoniale si è capovolta: la comune discesa delle curve si è infatti differenziata: la ricchezza patrimoniale del decile superiore statunitense flette molto meno, per poi ritornare, nel 2010, a livelli molto vicini a quelli di inizio 900, per contro il percorso europeo, omogeneo per i tre paesi in esame, è caratterizzato da una discesa progressiva e costante e da una successiva risalita molto più contenuta rispetto a quella americana

La fine delle società proprietaristiche. Analisi del collasso dei patrimoni privati (1914-1950)

Al di là delle pur rilevanti differenze il dato fondamentale che emerge è comunque una significativa contrazione delle percentuali di ricchezza, da reddito e patrimoniale, possedute dal decile superiore in Europa. Per la prima volta nella storia cambiamenti di fondo nella struttura delle disuguaglianze attestano una qualche redistribuzione verso il basso. Un cambiamento simile non può non evidenziare una trasformazione di fondo della idea stessa di “proprietà” e del suo significato sociale. Per comprenderla è però necessario per P. collocare questo percorso in quello più generale del peso della ricchezza privata sul reddito nazionale complessivo. Il seguente grafico evidenzia l’incidenza del valore totale dei patrimoni privati, posseduti dall’insieme della popolazione, sul totale del reddito nazionale nei tre paesi europei economicamente più rilevanti:

Grafico 37


La similitudine, visivamente evidente, con l’andamento delle curve dei precedenti grafici 35-36, è tale da rendere plausibile la constatazione che la contrazione della ricchezza privata complessiva sia stata determinata proprio dalla corrispondente perdita di ricchezza del decile più ricco. Il grafico 37 evidenzia, anche in questo caso, un trend comune per i tre paesi in esame, con una forte discesa nel periodo 1910–1920, una relativa stabilità sul basso fra il 1930–1940, una nuova discesa nel 1940–1950, una lenta ripresa fra il 1960 ed il 1990, seguita da un più deciso salto verso l’alto dal 1990 al 2010. E’ quindi il periodo 1910/1914-1950 quello che di più spiega la caduta del peso della ricchezza privata. I valori che questa aveva raggiunto al culmine della parabola storica delle società proprietaristiche, arrivando a valere ben sette annualità di reddito nazionale complessivo, scendono nell’arco di soli quattro decenni alla metà nel Regno Unito e ad un solo terzo in Francia e Germania. Questo storico crollo è dovuto ad un cumulo di fattori, fra i quali, contrariamente ad una opinione diffusa, non più di tanto vale l’incidenza diretta dei due conflitti, vale a dire che la distruzione materiale di case, edifici, fabbriche, e proprietà varie, per quanto significativa, non è nel suo complesso così determinante. I due tragici conflitti risultano invece   fondamentali per aver contribuito ad innescare, ovvero ad accelerare, alcuni radicali cambiamenti in campo economico, sociale, politico, e quindi ideologico.

Espropri, nazionalizzazioni, sanzioni

Un primo ordine dei fattori, innescati anche dall’eredità bellica e determinanti per il crollo della ricchezza privata nel periodo 1914-1950, consiste nel rilevante fenomeno degli “espropri”, vere e proprie pubbliche requisizioni di ricchezze private. Il più clamoroso dei quali è stato sicuramente quello attuato dallo Stato sovietico, immediatamente dopo la sua rivoluzionaria nascita, con la cancellazione totale di tutti i titoli di debito pubblico del precedente Stato zarista detenuti da investitori stranieri, in gran misura francesi ed inglesi. Un esproprio dalle proporzioni gigantesche che ha comportato in molti casi il totale azzeramento di numerosi patrimoni finanziari privati.  Una situazione analoga si è poi verificata, con disastri finanziari privati non meno rilevanti, nei primi anni 50 con l’altrettanto clamorosa nazionalizzazione del Canale di Suez ed il collegato esproprio di tutte le quote azionarie, anche in questo caso soprattutto in mani francesi ed inglesi, deciso dal neonato governo rivoluzionario di Nasser. Un episodio che inoltre ha simbolicamente testimoniato anche la fine della forma classica dello sfruttamento colonialistico. E’ importante evidenziare che la lunga catena di espropri, grandi e piccoli, del periodo 1914-1950, accanto all’impressionante incidenza sulle ricchezze private di buona parte dell’Europa attesta, congiuntamente con gli altri fattori che verranno qui di seguito analizzati, una svolta ideologica fondamentale: la sacralità del “diritto di proprietà” viene apertamente messa in discussione e svuotata della sua assoluta inviolabilità. L’insieme delle formidabili lotte sociali e politiche mosse da ideologie anti-proprietaristiche e dei provvedimenti, di fortissimo impatto, resi indispensabili dal disastro finanziario provocato dai due conflitti, tale in molti casi da mettere in discussione per molti paesi la stessa sopravvivenza dello Stato, fa aggio sulla precedente convinzione che la ricchezza privata dovesse godere di una inattaccabile protezione ideologica. E’ questa la svolta, fatta propria da governi e partiti di opposto segno politico, con alcuni più convinti ed altri obtorto collo, che P. giudica essere ispiratrice dei processi che sanciscono la fine della “società dei proprietari”, incidendo soprattutto sulle grandi ricchezze patrimoniali eredità di lungo termine della stessa società ternaria. Nella stessa direzione, e con identiche motivazioni, si muovono anche le ondate di nazionalizzazioni in diversi strategici settori economici e produttivi, analoghi veri e propri espropri di ricchezza in mani private, con la rilevante differenza che in questo caso sono state colpite soprattutto le fonti della ricchezza imprenditoriale e capitalistica. Questi processi di nazionalizzazione, attuati in alcuni casi per esigenze di natura bellica ovvero per fronteggiare i disastri delle crisi economiche e produttive degli anni Venti e Trenta, sono in aggiunta la significativa testimonianza dell’affermarsi di una nuova concezione ideologica dello Stato, e del suo diritto/dovere di interventismo diretto in economia. Una ulteriore importante conseguenza dei processi di nazionalizzazione e dell’interventismo statale in economia consiste infatti nella conseguente nascita di un “settore pubblico” di grande consistenza che ha caratterizzato, dirigendole in buona misura e rafforzandole per alcuni decenni ancora dopo il 1950, le economie di molti Stati europei. La delegittimizzazione ideologica della sacralità della proprietà privata sancita da espropri e nazionalizzazioni ha poi avuto significative estensioni nell’adozione di rigide regolamentazioni dei mercati finanziari, con l’adozione di pesanti sanzioni per le manovre speculative, di leggi normative del mercato degli affitti immobiliari finalizzate a contenerne i loro rendimenti e nel varo di diverse importanti riforme agrarie mirate a frazionare le grandi proprietà terriere. Risparmio privato, debito pubblico, inflazione

Un secondo ordine di fattori che ha giocato in ruolo importante nel processo di contrazione della ricchezza privata consiste nel mutato rapporto tra risparmio privato e debito pubblico. La società dei proprietari, lungo tutto l’asse della sua esistenza, si era monetariamente basata su due fondamentali capisaldi: stabilità monetaria, garantita da una immutata convertibilità in oro, e assenza pressochè totale di inflazione La Prima guerra mondiale, con la collegata esplosione dei debiti pubblici, mette fine a questo trend storico di totale stabilità aprendo la strada agli spaventosi fenomeni inflazionistici degli anni Venti. Il successivo secondo conflitto mondiale accentua poi a dismisura il peso dei debiti pubblici fino a divenire il volano per la definitiva inversione del loro rapporto con il risparmio privato. I due seguenti grafici aiutano a comprendere visivamente questi due processi: il primo evidenzia per i tre più importanti paesi europei e per gli Stati Uniti la curva del debito pubblico, nel periodo 1850-2020, calcolato in relazione percentuale con il loro reddito nazionale, il secondo quella dell’inflazione, come indice dei prezzi al consumo, sempre per lo stesso periodo:

Grafico 38


Si coglie bene la inziale sostanziale assenza di debito pubblico che per tutti i paesi in esame alla vigilia della Prima Guerra vale meno di un annualità di reddito nazionale e il successivo considerevole balzo in alto avvenuto negli anni 1920-1950, seguito fino al 1970 da una significativa contrazione e da una successiva ripresa verso l’alto

Grafico 39


Anche in questo caso impressiona la totale assenza fino al 1914 di fenomeni inflazionistici per tutti i paesi in questione. La Prima Guerra segna una radicale inversione: l’inflazione cresce per tutti ma con comportamenti differenziati che si possono comprendere solo se collegati alla corrispondente evoluzione del debito pubblico del grafico 38 . Mentre gli USA presentano, per ambedue le situazioni, curve meno accentuate, quella del  debito pubblico scende molto più rapidamente per i paesi, come la Francia e la Germania, che di più hanno fatto ricorso ad un alto tasso di inflazione, con una curva che quindi schizza di molto verso l’alto, al contrario nel Regno Unito la curva cala molto meno, ed ha una più lunga durata, proprio  in relazione ad un suo minor ricorso allo strumento inflattivo testimoniato da una curva quasi costante fino al 1970. Il dato più importante da cogliere secondo P., al di là delle singole parabole, consiste da una parte nella conseguente ricaduta sulla consistenza della ricchezza privata, intaccata dal processo inflattivo, dall’altra, sul versante più ideologico, nel fatto che la scelta di non più perseguire ad ogni costo la stabilità monetaria è spiegabile, anche in questo caso, con l’abbandono della “sacralità” della proprietà privata. Per meglio comprendere il primo aspetto, ossia la precisa scelta politica, ricorrendo all’inflazione, di de-valorizzare i debiti pubblici in mani private accumulati per sostenere i costi delle due guerre, si devono considerare i corrispondenti notevoli prelievi forzati sui patrimoni privati attuati sia nel primo sia nel secondo dopoguerra. Questi prelievi, molto rilevanti in Francia ed in Germania, soprattutto negli anni 1945-1950, hanno persino avuto una migliore efficacia per la contrazione del debito pubblico rispetto all’inflazione, essendo sicuramente di più e meglio mirati a quote elevate di ricchezza, ed, aspetto ideologicamente non meno innovativo, hanno aperto una radicale svolta nel rapporto tra ricchezza privata e debito pubblico, con quest’ultimo che fa aggio sulla prima. Su questa radicale inversione ideologica si innesta una corrispondente nuova visione dell’insieme delle politiche fiscali statali

Il ruolo della tassazione progressiva e l’affermazione dello Stato sociale e fiscale

L’effetto dei fattori esaminati è stato quindi quello di incidere pesantemente sul peso percentuale della ricchezza privata su quella generale, così come rilevabile dai grafici 34-35-36 i quali mostrano chiaramente che la contrazione di quest’ultima è spiegata soprattutto con quella che ha riguardato il decile più ricco, e che quindi negli anni 1914-1950 il processo di contrazione della ricchezza privata globale si è accompagnato con quello della sua concentrazione. Questo processo, unico nella storia delle disuguaglianze, di contrazione della ricchezza privata globale abbinato a quello della sua concentrazione trova, una sua ulteriore spiegazione nel contemporaneo affermarsi di sistemi fiscali basati su un prelievo progressivo, applicando cioè aliquote crescenti in rapporto al crescere del reddito. I seguenti grafici consentono di visualizzare questi processi: il primo evidenzia, nel periodo 1900-2010, la curva del tasso superiore di prelievo fiscale sul reddito in cinque paesi significativamente rilevanti, il secondo la corrispondente curva della aliquota massima sulle successioni sempre per gli stessi paesi

Grafico 40


Grafico 41


I due grafici evidenziano situazioni differenti: il Grafico 40, quello del tasso superiore di prelievo fiscale sul reddito, mostra un trend sostanzialmente omogeneo delle curve, ma con una importante diversità nei picchi raggiunti, il Grafico 41 presenta invece comportamenti già del loro dissimili non riconducibili ad una tendenza omogenea. Il grafico 40, più del grafico 41 presenta inoltre una corrispondenza dell’andamento delle curve, seppure con trend rovesciato, con quelle dei precedenti grafici 34–35–36, a testimonianza di un più evidente comune atteggiamento nei confronti della ricchezza privata. L’idea di una fiscalità progressiva, abbozzata nell’ultima parte del XIX secolo solo in alcuni limitate situazioni, era del tutto incompatibile che l’allora imperante ideologia proprietaristica, non a caso quindi si è potuta affermare solo nel corso del XX secolo sulla decisiva spinta delle sue tragedie belliche. E' soprattutto nei paesi “anglosassoni”, Regno Unito e Stati Uniti, che la svolta assume caratteri dirompenti: già negli anni venti le loro aliquote fiscali sul reddito arrivano a toccare il 60-70%, mentre negli altri paesi rimangono mediamente attorno al 40%, per poi raggiungere nel secondo dopo guerra aliquote, oggi inimmaginabili, dell’80-90% La sola Germania ha raggiunto tali percentuali ma solo per un breve periodo dopo il 1945 quando, era sotto tutela della Commissione alleata di controllo a guida americana. Questa significativa diversità trova spiegazione, per il Regno Unito, nella crisi definitiva della Camera dei Lord, baluardo così ottusamente ostinato nella difesa delle classi alte da innescare una reazione opposta e contraria, e per gli Stati Uniti nella considerazione che una disuguaglianza economica troppo alta fosse contraria agli ideali originari dei pionieri. Non a caso la loro svolta verso la progressività fiscale ha conosciuto alcuni primi passi già nel primo decennio del XX secolo, per essere poi più compiutamente messa in atto nel Regno Unito dopo lo shock finanziario della Prima Guerra e negli USA dopo le profonde tensioni sociali della grande crisi degli anni Venti. Se il Giappone registra una accelerazione solo nel secondo dopoguerra per sostenere una impressionante ricostruzione post bellica, Francia e Germania adottano un progressività fiscale meno accentuata con buona probabilità in relazione al fatto che i loro grandi patrimoni privati erano già notevolmente colpiti dall’insieme dai fattori esaminati in precedenza. E’ comunque comune per tutti questi paesi “ricchi” l’avvento di una ideologia anti-proprietaristica alla base sia dell’obiettivo di calibrare il contributo fiscale sull’effettiva ricchezza guadagnata e sia su quello di ridurre l’incidenza di quella ereditata. Ambedue questi obiettivi possono essere compresi, al di là delle parziali diversità di applicazione, solo se inseriti nell’affermarsi di una più generale idea del ruolo dello Stato nella gestione dell’economia e della giustizia sociale, un risultato sicuramente frutto dei possenti movimenti popolari di lotta che per tutto il periodo in esame accompagnano contrastandolo il progressivo affermarsi del capitalismo

L’affermazione dello Stato sociale e fiscale

L’accertata incidenza della fiscalità progressiva sul processo di contrazione delle disuguaglianze nel periodo 1914-1950 si inserisce, proprio grazie a queste lotte, in quello più generale di una progressiva maggiore fiscalità dello Stato finalizzata ad accrescere il suo ruolo nella gestione, via via più ampiata, dei servizi sociali. Aiutano a visualizzare il trend di questi processi il seguente grafico 42 che illustra la curva di crescita percentuale delle entrate fiscali sul reddito nazionale per cinque significativi paesi nel periodo 1900-2010, ed il successivo grafico 43 che ripartisce queste entrate fiscali, sempre in percentuale sul reddito nazionale, per le voci che compongono l’idea di “Stato sociale” in Europa nello stesso periodo

Grafico 42


Ancora agli inizi del XX secolo le entrate fiscali di tutti gli Stati non superavano il 10% del reddito nazionale, in linea con la percentuale degli ultimi decenni del XIX secolo nel pieno della società proprietaristica. Inizia dal 1910 una progressione a salire sostanzialmente omogenea fino al 1950  assestandosi  mediamente attorno al 40%, con ai due estremi gli USA fermi al 30% e la Svezia ad un livello superiore al 50%. Questo trend dei livelli percentuali di fiscalità va relazionato a due importanti evidenze:

*   tutti i paesi presi in esame hanno conosciuto la loro fase di maggior sviluppo economico in presenza di una consistente percentuale di prelievo fiscale, compresa in una fascia che va da un minimo del 30% ad un massimo del 55%

*   la maggior disponibilità di risorse fiscali si è dimostrata essenziale  per sostenere il decisivo ruolo del pubblico per lo sviluppo economico e per l’equilibrio sociale

La ripartizione della spesa resa possibile da questi livelli di risorse fiscali testimonia la seconda evidenza

Grafico 43


Il percorso illustrato dal grafico si presenta lineare, non essendo stati presi in considerazione gli scarti, in aumento o in diminuzione, di breve periodo, ed evidenzia quindi una crescita costante e significativa. Si è passati da una situazione di inizio secolo in cui le spese statali, pari al 10% del reddito, potevano coprire solo le attività statali “classiche” - esercito, polizia, giustizia, amministrazione centrale e locale, gestione infrastrutture – e solo in minima parte l’istruzione, al tempo ancora non di massa. Il risultato finale a fine secolo, oggetto oggi di un cruciale dibattito sulla sua validità e sostenibilità, attesta invece l’ampia gamma di servizi sociali coperti dallo “Stato fiscale” che conosce, soprattutto nella seconda metà del secolo, un suo importante incremento. Questa evoluzione è stata possibile solo per il radicale mutamento dei rapporti di forza politico-ideologici avvenuto nel periodo 1910-1950, frutto del lungo e intenso ciclo di lotte sociali, sindacali, politiche che, come si è già evidenziato, è alla base della crisi della società dei proprietari e del collegato crollo della ricchezza privata. Un’ultima specifica osservazione sulla struttura dello “Stato fiscale”,  che P. ritiene rilevante e sulla quale tornerà quindi nelle Parti conclusive del saggio: il complesso dei servizi coperti dallo Stato sociale in Europa vale mediamente il 47% del reddito nazionale, i sistemi fiscali diffusi nel vecchio continente necessari a coprire il correlato fabbisogno fiscale non puntano ad un unico prelievo percentuale ma si sono via via articolati in una miriade di tasse, imposte e contributi a formare un insieme così complesso ed opaco da offrire così spazio ad opposizioni e resistenze spesso di natura populista

Il ruolo delle lotte sociali e ideologiche

Come già più volte evidenziato è’ dato storico acquisito il decisivo peso dei movimenti di lotta in tutti i processi di trasformazione sociale del secolo XX. P.  si limita quindi in questo saggio a evidenziare un loro decisivo aspetto: l’opposizione  al duro sfruttamento capitalistico, ispirata e indirizzata dalle elaborazioni teorico-politiche di ispirazione socialista e comunista, individuano da subito nella sacralizzazione ideologica della “proprietà” il nemico principale da battere, diventando così il fattore principale nel determinare il suo significativo ridimensionamento sin qui esaminato. Alcuni aspetti specifici sono, a suo avviso, utili a meglio definire l’intreccio con i processi reali che hanno inciso sulla struttura delle disuguaglianze. Un primo aspetto consiste nel duplice effetto da esse provocato: da una parte sono evidenti i concreti risultati ottenuti nel contrastare, migliorando le condizioni di lavoro e di vita, l’accumulazione di ricchezza, dall’altra non meno importante è stato l’aver indotto altrettanto decisivi cambiamenti nelle politiche governative in materia di fiscalità e di gestione sociale. La Rivoluzione bolscevica del 1917, e la successiva presenza del blocco sovietico nel secondo dopoguerra, con il timore della loro diffusione, hanno fortemente accelerato ed ampliato molti dei processi, in precedenza esaminati, che hanno determinato la riduzione della ricchezza privata e la contrazione della quota in capo al decile superiore. Un esempio fra i tanti: la diffusa paura di una espropriazione generalizzata ha reso la tassazione progressiva una concessione alternativa molto meno spaventosa. La storia peraltro dimostra che non tutte le reazioni a questo timore abbiano segnato ricadute positive. Senza chiamare in causa la nascita delle dittature fasciste e nazista, in gran misura sorte proprie per contrastare le forti lotte popolari del primo dopoguerra, è bene ricordare che nel 1938 si tenne a Parigi un convegno di economisti ed intellettuali vari che si riproponevano, per fronteggiare la crescente richiesta di pianificazione economica e di collettivismo, di rilanciare una visione della società in linea con lo spirito capitalistico delle origini, una rinascita in quella circostanza già ufficialmente denominata “neo liberismo”. Alcuni decenni dopo uno dei più importanti partecipanti, l’economista tedesco Friedrich Hayek diventerà un punto di riferimento per Margaret Thatcher e le sue politiche di smantellamento dello Stato sociale, e addirittura uno stretto collaboratore di Augusto Pinochet. In questi stessi anni il nome “neoliberismo” acquisterà la diffusione planetaria che ben conosciamo.  P. ritiene inoltre che vada in qualche misura ridimensionato il peso della Prima Guerra sullo sviluppo delle lotte popolari. La stessa Rivoluzione bolscevica è stata sicuramente agevolata dalle tensioni interne prodotte dal conflitto, ma è altrettanto evidente che la disgregazione del regime zarista era già del suo in uno stadio avanzato ed irreversibile. Alcuni importanti movimenti di lotta non hanno neppure avuto un diretto collegamento con il conflitto mondiale del 1914. Così è stato per il movimento sindacale americano il cui incubatore è rappresentato dalla “Grande Depressione” del 1929-1933, magnificamente raccontata da Steinbeck nel suo romanzo “Furore” del 1939. Ma così è stato soprattutto per la Svezia, che non partecipa alla prima Guerra e che vede la sua parabola socialdemocratica realizzarsi come compimento di un lungo percorso di lotte popolari iniziate già nell’ultimo decennio del XIX secolo.

Capitolo 11

Le società socialdemocratiche:

 l’uguaglianza incompiuta

(In cui P.  inizia ad analizzare le alternative effettivamente concretizzatesi alla società dei proprietari e la loro reale capacità di realizzare una forma di società con una struttura delle disuguaglianze coerente con i loro presupposti ideologici. Iniziando in questo Capitolo 11 con le società socialdemocratiche per poi passare, nel successivo Capitolo 12, a quelle comuniste e post comuniste

Le società socialdemocratiche europee

Nel Capitolo precedente si è individuato nelle lotte popolari di opposizione al capitalismo e il protagonista fondamentale del cambiamento intervenuto nella struttura delle disuguaglianze nel corso del XX secolo nei paesi occidentali. Le fonti di ispirazione ideologica di tali lotte, e dei possenti movimenti sindacali e partiti che le ha attuate, possono essere divise, a grandi linee, in due filoni, fra di loro molto spesso intrecciati ma ancora più spesso in aperto contrasto: pensiero socialista e socialdemocratico, e pensiero comunista. All’indomani del secondo conflitto la scena politica mondiale si presenta divisa in due blocchi geograficamente definiti seppure con notevole approssimazione e qualche anomalia: quello occidentale, con economia di tipo capitalistico, e quello orientale, con economia di tipo collettivistico. Non pochi paesi del blocco occidentale sono tuttavia definibili “società socialdemocratiche” ovvero società che, con varie combinazioni e gradualità, attuano politiche di gestione dei sistemi pubblici di sanità, istruzione, welfare, politiche fiscali e di indirizzo economico e sociale che in qualche modo puntano a governare il “capitalismo” attutendone contraddizioni ed eccessi. Ciò avviene nell’ambito delle democrazie rappresentative che  implicano alternanze di governi e politiche, ma è comunque possibile, secondo P., sostenere che, per alcuni decenni dopo la Seconda Guerra, la struttura delle disuguaglianze in molti paesi del blocco occidentale è stata in buona misura impostata su una visione “socialdemocratica” della società, se in essa si includono  esperienze anche molto dissimili fra di loro: alcune di chiara ispirazione socialista, altre come quella statunitense lontane da tale ideologia ma in grado di attuare a più riprese politiche molto simili a quelle socialdemocratiche, si pensi al New Deal roosveltiano piuttosto che alla “war on poverty”, la “guerra alla povertà” degli anni sessanta. Nel periodo 1950–1980 questo insieme, per quanto variegato e disomogeneo, di politiche, secondo P. comunque definibili in senso ampio “socialdemocratiche”, realizza il livello più basso di disuguaglianze mai conosciuto nella storia. Dal 1980 si assiste però ad una radicale inversione: la disuguaglianza torna a salire con rapidità e consistenza, e la “socialdemocrazia”, ovvero tutte quelle definibili tali in senso ampio, non appare più in grado di orientare la società come nel trentennio precedente. Il seguente grafico evidenzia questo ritorno della disuguaglianza mettendo a confronto la quota parte del reddito annuale detenuta dal 10% più ricco e dal 50% più povero nel periodo 1980-2010 per le aree economicamente più rilevanti: USA-Europa-Cina-India

Grafico 44


Appare evidente la forte crescita del divario fra queste due parti della popolazione: il decile superiore passa da una forbice compresa tra il 27% ed il 34% nel 1980 ad una compresa tra il 34% dell’Europa ed il 52% dell’India nel 2010, negli stessi anni il cinquanta per cento più povero passa da una forbice compresa tra il 20% ed il 27% ad una compresa tra il 13% degli USA ed il 20% dell’Europa, la quale risulta pertanto quella che registra la minore impennata delle disuguaglianze. E’ quindi necessario interrogarsi sulla effettiva solidità delle realizzazioni “socialdemocratiche” e sulle ragioni che hanno determinato questa inversione di tendenza. P. lo fa analizzando quanto realizzato nei settori che di più concorrono a determinare disuguaglianza, a partire dal “lavoro” e dal suo rapporto con le forme di “proprietà”.

La “proprietà sociale”, una storia incompiuta

In Europa, nelle aree renane e nordiche, in particolare in Germania ed in Svezia, l’influenza della ideologia socialdemocratica in questo campo è misurabile soprattutto nell’istituto della “cogestione”, una forma istituzionalizzata di proprietà sociale delle imprese e di condivisione di potere tra dipendenti ed azionisti. Sull’onda della fortissima mobilitazione dei sindacati tedeschi, che già negli anni venti della Repubblica di Weimar aveva fortemente puntato sui diritti dei comitati aziendali, e superata la traumatica parentesi nazista, nel 1951 una legge, promulgata dal governo cristiano-democratico di Adenauer, a conferma della influenza “trasversale” di molte idee socialdemocratiche, sanciva per le grandi imprese dell’acciaio e del carbone l’obbligo di riservare metà dei seggi e dei diritti di voto nei consigli di amministrazione a rappresentanti dei dipendenti, di solito eletti in liste sindacali. Successivi aggiustamenti hanno portato alla definitiva legge generale sulla cogestione del 1976 che, in linea con quanto sancito dalla Costituzione tedesca del 1949, là dove afferma che il “diritto di proprietà” deve contribuire al benessere generale, ha esteso a tutte le aziende con oltre duemila dipendenti l’obbligo di riservare a rappresentanti dei lavoratori la metà dei seggi con diritto di voto, mentre per quelle che contano tra cinquecento e duemila dipendenti la quota è fissata in un terzo dei seggi. Non mancano limiti e problematiche, in particolare non sempre la parità di seggi nei consigli di amministrazione comporta un vero esercizio di potere, in caso di parità infatti il voto decisivo è comunque quello degli amministratori scelti dagli azionisti, ed inoltre gran parte delle decisioni operative è in capo ad un consiglio direttivo che affianca, in autonomia, quello di amministrazione. La cogestione tedesca è comunque considerata, dalle stesse proprietà azionarie, uno dei fattori fondamentali per la crescita e la solidità dell’economia tedesca, ed al tempo stesso è indubbio che essa abbia contribuito a contenere la disuguaglianza salariale imponendo tetti alle retribuzioni del management aziendale, al contrario esplose a partire dal 1980 nel resto dell’Occidente. All’esperienza tedesca, che ha influenzato anche la vicina Austria, si affianca quella svedese che, ancor più della Germania ed in modo più incisivo, ha fatto della cogestione una bandiera della sua idea complessiva di società. In Svezia infatti la legge del 1974 che la norma prevede che un terzo dei seggi dei consigli di amministrazione delle imprese azionarie con più di soli venticinque dipendenti sia riservato a rappresentanti dei dipendenti. Essendo poi in capo ai CdA la vera gestione operativa la quota detenuta dai lavoratori incide in misura maggiore rispetto a quella tedesca ed investe molte più aziende. Analoghe leggi sono presenti in Danimarca e Norvegia a caratterizzare il cosiddetto “capitalismo nordico”, vale a dire le società che vantano la minore disuguaglianza economica di tutta la storia moderna. L’indubbia incisività di queste esperienze sulla struttura delle disuguaglianze salariali, coniugata con un eccellente ritorno sulla produttività economica, non è stata però sufficiente per vederle estese ad altri paesi occidentali, i quali hanno tutti continuato a gestire le aziende private secondo l’immutabile regola delle società azionarie: “un’azione un voto”. Se qualche timido tentativo in tal senso è stato avviato in Francia, e se nel Regno Unito e negli Usa si è con molta cautela affacciata qualche ipotesi per ora senza esito alcuno, in generale il modello della “cogestione” non è divenuto patrimonio delle altre socialdemocrazie e dei movimenti e partiti che le sostengono. Due sembrano essere le principali spiegazioni: una sta nel campo dei proprietari capitalisti ed una in quello degli stessi rappresentanti dei lavoratori. La prima sostiene che la concessione di una rappresentanza con diritto di voto non giustificata da un reale possesso azionario vada respinta perché mette in discussione il concetto stesso di “proprietà privata”, con il conseguente rischio di poter rappresentare una operazione destabilizzante dell’intero ordine sociale. Se teoricamente nulla osta a che i dipendenti, o chi per essi, acquisiscano quote azionarie, così come è concretamente avvenuto seppure in casi limitati ed ininfluenti, la gestione aziendale deve essere ispirata unicamente dalla regola aurea che consegna agli azionisti di maggioranza il pieno potere decisionale. La cogestione però non è neppure entrata nel bagaglio di idee della stragrande maggioranza dei movimenti dei lavoratori che, seguendo un percorso ideologico molto condizionato dall’esperienza sovietica, hanno da sempre puntato in alternativa sulle “nazionalizzazioni”, sulla base della convinzione che solo quella statale possa davvero modificare i rapporti di forza tra dipendenti e proprietà. Discendono da questa concezione ideologica le forti critiche mosse alla cogestione, in particolare quella del rischio di ridursi ad essere un coinvolgimento nelle logiche aziendali che mina la combattività verso la proprietà. Anche se dagli anni Ottanta, specie dopo la fine del collettivismo sovietico ed indipendentemente dalla guerra neoliberista al ruolo del “pubblico”, l’idea della “nazionalizzazione” ha perso gran parte del suo vigore, le diversità storiche di percorso ideologico hanno sedimentato in tutti gli altri paesi occidentali una insuperata diffidenza verso la “cogestione”. L’accentuarsi dagli anni Ottanta delle curva delle disuguaglianze imporrebbe, secondo P. di riprendere con rinnovato vigore politiche del lavoro in grado di meglio fronteggiarla, anche riavviando una riflessione senza preconcetti sulla efficacia di modelli, come la “cogestione”, che la storia dimostra di essere in grado di incidere in qualche modo in tal senso. E’ quanto P. farà nella Parte Quarta anche con riferimento ad alcune concrete proposte, mirate proprio all’estensione della “proprietà sociale”, avviate dalla stessa Unione Europea. Accanto alla cogestione va poi citata una seconda forma di gestione alternativa del “lavoro”: la cooperazione. Nata e cresciuta nell’ambito dei movimenti di lotta in tutta Europa fin dalla fine del XIX secolo, in particolare nelle forme delle “società di mutuo soccorso” e delle “cooperative sociali”, ha mantenuto a lungo anche nel secondo dopoguerra una sua valenza, ma via via perdendo per strada la sua caratteristica iniziale di autogestione alternativa di importanti attività lavorative e riducendosi ad una “normale” forma societaria ormai priva di valenze ideologiche. 

La socialdemocrazia e l’istruzione

Ancora in questo inizio del XXI secolo rappresenta una sfida, per le stesse società socialdemocratiche, il garantire a tutti i cittadini pari opportunità di pieno accesso all’istruzione, alla formazione e qualificazione professionale. P. estrapola dall’esperienza globale concretamente avvenuta nel periodo storico in esame due aspetti utili a suo avviso a meglio comprendere i limiti della gestione socialdemocratica dell’istruzione: la fine del vantaggio statunitense nel campo dell’istruzione mantenuto per la maggior parte del XX secolo, e l’imporsi generalizzato della sfida del passaggio dal semplice “obbligo scolastico” al paradigma di una istruzione “alta” accessibile a tutti. Per comprenderli è utile analizzare la parallela evoluzione di un indicatore strettamente collegato all’istruzione: la produttività del lavoro. Il seguente grafico mette a confronto la produttività media del lavoro, misurata in base alla quota di PIL prodotto in un’ora di lavoro a parità di potere d’acquisto in euro, negli USA – Germania – Francia – Regno Unito nel periodo 1950 – 2010

Grafico 45


Si può cogliere bene come la produttività media europea, partita da una situazione che nel 1950 valeva il 50% di quella statunitense, sia poi progressivamente salita di più di quella USA. Il livello medio di istruzione di un paese, oltre ad essere un fondamentale valore morale e civile, ha una forte incidenza diretta sulla produttività in particolare là dove intervengano continue innovazioni tecnologiche, le quali richiedono, per rendere al meglio, personale formato in modo adeguato. Il calo o l’aumento di produttività sono quindi, come logica ricaduta, indicatori importanti del livello di istruzione di un paese e della sua qualità. Quello statunitense è stato a lungo indubbiamente migliore di quello europeo grazie al un consolidato percorso storico di maggiore investimento sull’istruzione diffusa, attestato dai seguenti dati:

·      già a metà del secolo XIX l’80% dei bambini americani frequentava e completava la scuola primaria, mentre in Europa mediamente non si andava oltre il 20%-30%

·      nei primi decenni del 1900, mentre  l’Europa recuperava faticosamente tale gap, negli Stati Uniti si consolidavano la diffusione di quella secondaria che già toccava il 30% dei giovani fra i 12 ed i 17 anni

·      nel secondo dopoguerra negli USA si completava la realizzazione di una istruzione secondaria universale, in questi stessi anni il corrispondente tasso di iscrizione europeo si fermava mediamente al 30%

Questi dati spiegano la storica migliore capacità degli USA di assecondare la costante immissione di nuova tecnologia con una società generalmente più istruita e quindi con una forza lavoro più attrezzata ad usarla in modo ottimale. A partire dagli anni cinquanta, e con una forte accentuazione dal Settanta, si assiste però ad una inversione di tendenza: da una parte le socialdemocrazie europee di più e meglio individuano nell’istruzione un fattore decisivo per la crescita sociale e produttiva, avviando estese politiche di investimento in questo settore, dall’altra negli Stati Uniti si registra al contrario ad un processo inverso. Queste traiettorie contrapposte sono meglio comprensibili se in aggiunta alla curva di crescita della produttività si analizza quella della ripartizione del reddito. Il seguente grafico evidenzia la quota di reddito posseduta dal 50% più povero della popolazione negli Stati Uniti ed in Europa, dato medio, nel periodo 1960 – 2010.

                                                                Grafico 46


La situazione al 1960 vede il 50% più povero negli Stati Uniti contare su una quota di reddito nazionale significativamente superiore a quella posseduta dal  corrispondente europeo, solo dieci anni dopo però le due curve coincidono per poi dividersi con quella europea che ha un balzo in alto fino al 1980 seguito da una contenuta discesa e quella statunitense che inizia una costante discesa con un ritmo che si accentua a cavallo del cambio di secolo,fino  a registrare una notevole diversità finale. Questo processo è importante per comprendere le dinamiche legate al peso degli investimenti per l’istruzione in quanto certifica che la scelta delle società socialdemocratiche di investire su di essa è compensata non solo in termini di aumento della produttività media, ma per il fatto di costituire, come logica conseguenza, un significativo volano per la crescita del reddito medio dei ceti che, grazie al miglioramento della loro istruzione, meglio possono concorrere nel mercato del lavoro puntando a professionalità meglio retribuite. Un processo che al contrario negli Stati Uniti si è esattamente invertito proprio a partire dagli anni Cinquanta/Sessanta. Un altro grafico aiuta a visualizzare questa significativa ricaduta evidenziando la curva di crescita del salario minimo medio per ora di lavoro in Francia e negli USA nel periodo in esame (rapportato in euro)

Grafico 47


Si tratta di un dato ovviamente influenzato da diversi fattori, quali la contrattazione sindacale e la legislazione in materia di lavoro, ma è, come il precedente grafico 46, in grado di fornire una indicazione utile a comprendere la diversità di ricaduta delle due diverse traiettorie sulle condizioni di vita dei salariati statunitensi e francesi, e che conferma quindi la migliore qualità delle politiche per l’istruzione europee rispetto a quelle statunitensi. La crescente incidenza della tecnologia sui processi produttivi ha però progressivamente alzato l’asticella del livello di istruzione ed ha così visto divenire decisivo quella di livello universitario, innescando nuove domande che stanno mettendo a dura prova ambedue i sistemi. Se l’istruzione universitaria aveva per molto tempo interessato solo una quota privilegiata, meno dell’1% agli inizi del XX secolo e meno del 10% fino agli Sessanta, oggi investe il 50% dei giovani adulti negli USA e in buona parte dell’Europa per arrivare al 60-70% in Giappone e in Corea ed impone un ulteriore salto di qualità nelle politiche di facilitazione al suo accesso. Il quadro da considerare è quanto mai complesso, influenzato da fattori di diversa natura che chiamano in causa non solo le possibilità di accesso ma anche la qualità della formazione.  Soprattutto negli USA la formazione universitaria di alto livello comporta un “investimento” delle famiglie tale da far emergere il peso delle diversità di reddito e l’importanza del sostegno pubblico. Riprendiamo il seguente grafico, già inserito nell’Introduzione, che offre un preciso spaccato del rapporto reddito dei genitori e accesso all’università

Grafico 7


Appare evidente il peso del reddito famigliare sulla possibilità di accesso all’offerta formativa di qualità, negli USA, ma anche in Europa più questa cresce più si restringe la fascia di popolazione che può utilizzarla. Incide poi in modo rilevante la grande differenza fra Stato e Stato del peso del finanziamento privato, rispetto a quello pubblico, per la formazione di livello superiore. Il seguente grafico evidenzia la quota percentuale del finanziamento privato (tasse di iscrizione e costi collegati di frequenza) sul totale del finanziamento totale per l’offerta di istruzione universitaria per una parte significativa dei paesi “ricchi” del mondo (dati 2014-2016)

Grafico 48


L’evidente disparità fra i paesi di cultura “anglosassone”, in cui il finanziamento privato è preponderante, e quelli europei di maggior tradizione socialdemocratica è alla base di un circolo vizioso: maggiori sono i contributi privati maggiore è la qualità dell’offerta formativa, ma al tempo stesso più alti sono i costi per accedere a tale offerta e più è bassa la parte della popolazione in grado di sostenerli. Con una evidente ricaduta sulla disuguaglianza: il Grafico 7, combinato con il Grafico 48, attesta che solo la parte più ricca della popolazione accede ai titoli di studio che garantiscono professioni con alti livelli di reddito perpetuando, se non accentuando, in questo modo il divario elitario. Mediamente la situazione europea garantisce al contrario maggiori possibilità di accesso ma al tempo stesso, non godendo di identiche risorse, non è in grado di concorrere con la qualità dell’offerta formativa dei paesi “anglosassoni”. Un dato di fatto che è confermato dalle classifiche internazionali di questa qualità: i primi venti posti sono tutti occupati dalle università statunitensi di maggiore prestigio, ma se si considerano i primi cento o cinquecento posti diventa maggiore il numero di quelle europee, le quali quindi formano una élite universitaria più diffusa, anche se meno concorrenziale, mentre quelle USA rafforzano unicamente quella di vertice garantendole alta concorrenzialità. In conclusione si può quindi affermare che il modello americano ha smesso di essere quello vincente, nel contrasto alla disuguaglianza, sia per l’istruzione secondaria che per quella universitaria, mentre il modello socialdemocratico europeo se ha ottenuto sul lungo periodo migliori risultati per la prima dimostra una certa difficoltà a ottimizzare la seconda, la cui sfida richiede un salto di qualità politico ed ideologico. Una sfida che non sembra essere stata sufficientemente raccolta: la spesa pubblica per l’istruzione, compresa quella universitaria, cresciuta nel corso del XX secolo dall’iniziale 1-2% del reddito nazionale al 5-6% negli anni Ottanta si è poi fermata a queste percentuali con una inevitabile ricaduta negativa sulla qualità dell’offerta formativa, specie di livello superiore.

Socialdemocrazia e giustizia fiscale: un incontro imperfetto

I limiti evidenziati da P. delle società socialdemocratiche nell’attuare più incisive politiche di contrasto delle disuguaglianze nel campo del lavoro e dell’istruzione rimandano ad una comune spiegazione: l’inadeguata disponibilità di risorse pubbliche per fronteggiarle al meglio, fattore che a sua volta chiama in causa il tema della giustizia fiscale. Ed anche in questo caso il concreto percorso storico evidenzia una cesura fra il significativo sviluppo nel periodo 1914-1950 delle forma di imposizione che di più può contrastare la disuguaglianza, quella progressiva su reddito e successioni, e la successiva ritrosia ad adeguarlo alle nuove sfide sociali, a dimostrazione di una inadeguata elaborazione politica ed ideologica. Due punti meritano una attenzione particolare: in primo luogo le varie socialdemocrazie non sono state in grado di elaborare comuni strategie fiscali lasciando campo ad una penalizzante competitività fra singoli paesi, ancor più grave quella avvenuta nell’ambito dell’Unione Europea, ed in secondo luogo la progressività fiscale ha smesso di essere lo strumento fondamentale per qualsiasi tentativo minimamente ambizioso di superamento del capitalismo privato. Emerge, a spiegare questo stato di cose, una contraddizione ideologica di vitale importanza: la socialdemocrazia del XX secolo è stata “internazionalista” nei principi, ma fortemente “nazionalista” nella pratica. Questa contraddizione ha avuto una pesante ricaduta sulla capacità, e sulla stessa volontà, di articolare politiche fiscali più efficaci. La stessa costruzione dell’unità europea nel periodo 1950-2000 si è di fatto configurata, al di là degli intenti ideali, come una operazione di “salvataggio della forma Stato nazione”, dei singoli Stati aderenti. La costruzione europea si è infatti basata sull’illusione che la libera circolazione di merci e capitali fosse sufficiente a garantire una ricaduta sociale positiva e che quindi non fosse necessario supportarla con comuni politiche fiscali. Ciò ha comportato gravi limiti per la reale capacità di incidere sulla struttura delle disuguaglianze. Un fallimento divenuto poi clamorosamente evidente nella cruciale svolta del 1980-1990, allorquando, nel momento in cui di più sarebbero state utili comuni politiche fiscali, si è all’opposto puntato di fatto su una accentuata concorrenza fiscale specie sugli utili aziendali. Va detto inoltre che questa svolta negativa non può essere spiegata solo con la pressione ideologica del nascente neo-liberismo perché è documentato il ruolo assunto, in questa direzione, proprio dai principali partiti socialdemocratici europei, mettendo ancor più in luce l’assurdità ideologica che le grandi sfide imposte dalla globalizzazione neo-liberista fossero affrontabili singolarmente da ogni “Stato nazione” europeo. Ed era già allora evidente che i primi settori che avrebbero sofferto l’inadeguatezza di adeguate risorse finanziarie sarebbero stati, congiuntamente con tutti quelli che configurano l’idea di “stato sociale” europeo, proprio quelli che di più incidono sulla struttura delle disuguaglianze: istruzione e lavoro. Non a caso n questo quadro ha poi avuto gioco facile l’irruzione dirompente dell’ideologia neo-liberista di contrasto al ruolo del pubblico e di rifiuto della tassazione necessaria a sostenerlo. Una fotografia aiuta a comprendere come l’articolazione delle imposte si sia conseguentemente strutturata a favore dei redditi più alti: un seguente grafico evidenzia, prendendo in esame il caso francese nel 2010, del tutto applicabile alla media degli Stati europei, la composizione del prelievo fiscale nelle sue varie voci relazionata alla popolazione suddivisa per centili di reddito:

Grafico 49


Si può rilevare come, a fronte di un prelievo fiscale totale pari al 45-50% per il 50% più povero, del 50-55% per il 40% mediano, e solo del 45% del decile e centile più ricchi, le quote di imposta progressiva e di tasse sul capitale di questi ultimi non compensano il ridotto importo dovuto per le altre voci impositive. Una fotografia che richiama prepotentemente in causa il ruolo della fiscalità progressiva e della tassazione sulla proprietà concretamente attuato nelle società “socialdemocratiche” subentrate, in teorica piena alternativa, a quella proprietaristica. La progressività della tassazione è una scelta ideologica finalizzata in generale al contenimento delle disuguaglianze economiche, ma a seconda della tipologia di ricchezza sulla quale agisce ha incidenze diverse. Quella sul reddito, da lavoro e da capitale, è il contributo, relazionato all’ammontare del reddito, con cui tutti concorrono alla spesa pubblica, quella sulle successioni incide sui patrimoni trasmissibili in via ereditaria riducendo quindi la concentrazione dei patrimoni tramite la perpetuazione intergenerazionale. Tutte hanno una loro efficacia sulla struttura delle disuguaglianze, ma quella che di più ha una valenza in tal senso è senza dubbio l’imposta annuale sulle proprietà, altrimenti definita sulla ricchezza, sul capitale, sul patrimonio. La disuguaglianza economica ha un processo standard di formazione che parte da una differenza di reddito prolungata nel tempo, ma che si consolida divenendo stabile nell’accumulo di una ricchezza, trasmissibile in via ereditaria, composta in gran prevalenza da beni immobili e capitali finanziari di vario genere. Una attiva politica fiscale, che si ponga l’obiettivo del contenimento della disuguaglianza, deve realizzare un equilibrio tra queste tre forme di imposta progressiva, ben sapendo però che quella che di più attesta la volontà egualitaria è sicuramente quella sulle proprietà. Non a caso, proprio in relazione alla sua valenza ed alla conseguente opposizione che può suscitare, è anche quella che di meno è stata attuata nelle stesse società socialdemocratiche. La storia del XX secolo racconta di imposte sul patrimonio attuate, con carattere di prelievo straordinario, negli immediati dopoguerra al fine di ripianare gli altissimi debiti pubblici. In diversi paesi, anche nella forma di “riforme agrarie”, furono messi atto prelievi che sulle grandi ricchezze sono arrivate a percentuali attorno al 45-50%. Ma nella seconda metà del Novecento, e tantomeno nei decenni a cavallo del cambio di secolo, non si è più assistito, praticamente in tutti i paesi ricchi del mondo, ad un ricorso significativamente consistente e con carattere di continuità basato su imposizioni progressive sulle ricchezze accumulate. La questione rimasta irrisolta si presenta pertanto come un tema centrale per la lotta delle disuguaglianze nel XXI secolo, e come tale verrà ripresa da P. nella Parte Quarta. Nel corso degli anni Novanta, per motivi connessi alla concorrenza fiscale tra paesi e alla vincente ideologia neo-liberista buona parte di queste imposte sono state semplicemente abolite. Sul piano quindi della reale capacità di incidere sulla struttura delle disuguaglianze le società socialdemocratiche, nel senso ampio del termine qui utilizzato, non hanno quindi ottenuto risultati sufficientemente significativi, ma soprattutto stabilmente fondati, tali da reggere l’urto dirompente delle ideologie che a partire dagli anni Ottanta si sono mosse al loro attacco. E’ il tema che P. affronterà nel successivo Capitolo 13. Per intanto nel prossimo Capitolo 12 verranno esaminate le società comuniste, e post-comuniste, ossia l’altro percorso storico di uscita dalla società dei proprietari

Capitolo 12

Le società comuniste e post-comuniste

(In cui P.  dopo aver analizzato i limiti delle esperienze socialdemocratiche esamina la seconda forma di  società subentrata alla società dei proprietari in alternativa concorrenziale con quella socialdemocratica: quella comunista e post comunista

E’ possibile prendere il potere senza aderire a una teoria della proprietà?

Studiare l’esperienza del comunismo sovietico significa cercare di capire le ragioni di un drammatico fallimento che P. non misura da un punto di vista politico ma nella sua reale capacità di incidere, in modo efficace e duraturo, sulla struttura delle disuguaglianze e, al tempo stesso, nella sua universale valenza ideologica. All’indomani della Rivoluzione di Ottobre, avvenuta come è noto sull’onda di avvenimenti eccezionali, era stato quasi automatico proclamare l’abolizione della proprietà privata, in teoria quindi la massima uguaglianza possibile, ma da subito si è rivelato molto più complesso costruire dal nulla un’organizzazione alternativa della società. Nel confuso periodo post rivoluzionario alcune correnti bolsceviche, e probabilmente lo stesso Lenin, ritenevano che la NEP, Nuova Politica Economica, potesse avere come obiettivo di lungo periodo, superate le prime temperie, una forma strettamente regolamentata di economia di mercato, comprensiva quindi anche di limitati spazi per la proprietà privata, ma l’avvento al potere di Stalin sancì, a partire dal 1928 ed in via definitiva con il prevalere del ruolo del Partito Comunista come fulcro del potere statale, di impostare la struttura economica russa sulla collettivizzazione dell’agricoltura e sulla statalizzazione di tutte le forme di produzione e di proprietà. In un paese in cui l’industrializzazione era ancora agli albori e in agricoltura la servitù della gleba era un retaggio ancora recente l’abolizione dell’iniziativa privata aveva su questi settori una ricaduta tutto sommato gestibile, ma colpiva in modo dirompente la vasta parte della popolazione dedita all’artigianato, al commercio ed ai piccoli servizi. La storia del trentennio che va dalla Rivoluzione al secondo dopoguerra racconta, come conseguenza tanto inevitabile quanto feroce, una pesante costrizione da parte del regime su questi ceti sociali, basti pensare che ancora alla morte di Stalin, nel 1953, oltre il 5% della popolazione adulta era in carcere per “furto di proprietà socialista”, in realtà piccoli reati commessi nella gestione di queste attività collaterali. La realizzazione di questa idea di economia statalizzata fortemente centralizzata sotto la direzione del Partito non si è però basata sulla sola capacità repressiva, perché oggettivamente è stata in grado di coinvolgere in modo persuasivo, rafforzato dal ricordo sempre vivo del tragico regime zarista, la maggioranza del popolo sovietico presentandosi come un progetto ideologico di utopico radicale cambiamento. Va riconosciuto che, proprio grazie a questo forte coinvolgimento della stragrande maggioranza della popolazione, nei decenni dal 1920 al 1950 il connubio fra ideali sociali e concrete politiche economiche è stato in grado di realizzare una straordinaria modernizzazione del paese capace di colmare il secolare ritardo rispetto all’Europa occidentale. E’ questo, in estrema sintesi, lo sfondo storico sul quale poggiare le valutazioni di merito sulla evoluzione storica della struttura della disuguaglianza che, sulla base dei dati disponibili purtroppo per quella sovietica scarsi e frammentari, può essere sintetizzata in questo grafico che confronta le curve della quota di reddito nazionale detenuta dal decile superiore della popolazione in Russia, in Europa e negli USA nel periodo 1900 – 2010

Grafico 50


L’evoluzione della ricchezza detenuta dal decile superiore in Unione Sovietica ha un visibile andamento caratterizzato dal rapido crollo nel tormentato periodo prerivoluzionario, seguito da un andamento costante per tutto il periodo sovietico e da un successivo balzo verso l’alto, ad URSS implosa, fino a superare i livelli statunitensi già del loro molto elevati. E’ però fondamentale chiarire che il dato del periodo sovietico, 1920-1980, non è costituito dalla sola componente monetaria, la quale da sola avrebbe determinato percentuali decisamente più basse – la gerarchia salariale è stata infatti lungo tutto questo periodo decisamente contenuta - ma, affinché il confronto con USA ed Europa poggi su basi più omogenee, per P. è stato necessario  includere anche le rilevanti integrazioni al salario, sotto forma di “benefit”  e di accesso privilegiato a determinati servizi, concesse alle figure sociali che componevano l’articolato decile superiore russo (élite politiche, tecnici di alto livello, direzioni produttive). La cui percentuale media di ricchezza detenuta non si è mai comunque discostata, se non per limitate variazioni congiunturali, dal 25% del reddito nazionale. Sembrerebbe emergere quindi un contenuto livello di disuguaglianza ma, se determinato su queste basi, non così più basso dei livelli raggiunti, nello stesso periodo, in Europa, ed in particolare nei paesi dell’area nordica, così come si può rilevare dai precedenti grafici 34 e 35.  Si deve infatti considerare, anche in questo caso sulla base di dati di non automatica comparazione, che il tenore di vita medio nel periodo in esame, partito nel 1920 da un livello pari al 35% rispetto a quello medio occidentale, è progressivamente cresciuto in modo importante ma senza mai superare la quota del 65%, come dimostra il seguente grafico relativo al rapporto tra il reddito medio in Russia ed Europa nel periodo 1900 – 2010. Questo significa che in termini assoluti di comparazione anche il 25% mediamente posseduto dal decile superiore sovietico non ha mai rappresentato un identico tenore di vita rispetto a quello occidentale e quindi una ricchezza da reddito di effettivo pari valore

Grafico 51


Si nota infatti come la crescita di questo rapporto sia avvenuta in buona misura nel periodo 1920–1950 per poi arrestarsi e stagnare attorno al 60-65% fino al 1980 e quindi riprendere a risalire dopo la fine dell’URSS. Per meglio comprendere questo andamento è necessario considerare che uno dei maggiori pregi del regime sovietico è consistito nel massiccio investimento sull’istruzione, che in URSS ha effettivamente raggiunto, ed in alcuni campi superato, il livello occidentale, un fattore che, come si è visto, teoricamente può, grazie al possibile correlato aumento di produttività, incidere in misura decisiva sulla ricchezza da reddito. Ricaduta che non pare essersi realizzata in URSS, addirittura entrata a partire dagli anni Sessanta in regime di stagnazione, e la spiegazione di questa contraddizione non può che consistere nella scadente organizzazione del sistema produttivo fortemente centralizzata e mirata ad obiettivi più politici che economici. E’ quanto, superata la baldanzosa fase storica di avvio del comunismo, lasciata alle spalle la grande spinta connessa allo sforzo bellico del secondo conflitto ed avviata una “normalità” economica, si è verificato per l’esperienza sovietica. La quale, raggiunti i suoi massimi livelli nell’immediato dopoguerra, ha da lì in poi iniziato a dare evidenti, e mai più recuperati, segnali di stasi e di regressione con la conseguente ricaduta sul tenore di vita che, in colpevole aggiunta, si è sempre più manifestato, a partire dal 1950/1960, proprio in coincidenza con l’opposta esplosione del consumismo di massa occidentale. In un quadro che, riprendendo la considerazione con la quale P. ha aperto questo Capitolo, già del suo dimostrava quanto sia complesso costruire una idea alternativa di società, la guerra fredda ha poi comportato un ulteriore pesante aggravio: le ipertrofiche spese militari, comprensive di quelle per la concorrenza spaziale, sono arrivate a costituire il 20% del prodotto interno lordo rispetto al 5-7% negli USA. Ma mentre questa voce di spesa statale ha rappresentato per l’Occidente un importante incentivo per la crescita economica, nell’URSS tale ricaduta non solo non si è realizzata ma ha al contrario impedito altri più efficaci investimenti, ad ulteriore conferma del fallimento dell’organizzazione sovietica dell’economia. Va poi aggiunto che tale realizzazione non pare aver neppure sedimentato una significativa eredità ideologica: il crollo del regime sovietico è stato non  a caso seguito da un frenetico e incontrastato affermarsi delle più ciniche logiche di mercato che, come i due precedenti grafici 50 e 51 raccontano, hanno nel giro di un solo decennio visto formarsi una Russia in cui la curva del reddito medio non è cresciuta più di tanto, mentre quella della quota di ricchezza del decile superiore è rapidamente schizzata verso l’alto a ricreare un livello di disuguaglianze fra i più alti nel mondo. Questo contraddittorio percorso storico non poteva non avere una diretta conseguenza sulla stessa capacità attrattiva dell’ideologia alla sua base, il fallimento della concreta esperienza sociale, economica e politica si è infatti accompagnato a quello parallelo dell’influenza ideologica del modello sovietico nel resto del mondo. In un eventuale grafico anche questa curva disegnerebbe una indubbia crescita fino ai primissimi decenni del secondo dopoguerra per poi declinare tanto rapidamente quanto irreversibilmente. I fattori specifici che possono spiegare questo declino sono molti, a partire dalla ingiustificabile morsa di ferro con la quale sono stati gestiti i rapporti con i paesi “satelliti”, soprattutto quelli europei, ma ha sicuramente inciso, ben oltre le problematiche economiche e sociali, lo “svuotamento interno” di molti dei cavalli di battaglia che a lungo avevano testimoniato la bontà ideologica sovietica esercitando una profonda e diffusa influenza tanto in Occidente  quanto nelle vaste aree del mondo che nell’immediato secondo dopoguerra stavano uscendo dal dramma delle dominazioni coloniali. Uno fra i tanti, il peso della donna nella gestione della società: per tutta la fase fino al 1950 nelle istituzioni politiche sovietiche le donne ricoprivano un buon 40% dei posti, a testimoniare un significativo coinvolgimento paritario, nel decennio 1960-1970, proprio mentre in Occidente esplodeva il movimento femminista, tale percentuale crollava a meno del 10%. Tutte le considerazioni sin qui svolte attestano l’incapacità dell’esperienza del comunismo sovietico di creare un modello di società, adeguatamente sostenuto da una sedimentata e condivisa ideologia, capace di tradursi in una concreta realizzazione sufficientemente vincente sui tempi lunghi. E di conseguenza in grado di determinare, per quanto riguarda la ricchezza prodotta, il reddito, una diversa struttura delle disuguaglianze stabile e irreversibile. Se è impossibile negare questo verdetto storico resta utile per P. approfondire le ragioni che, per quanto concerne la disuguaglianze di ricchezza posseduta, hanno indotto il potere sovietico ad assumere una posizione così radicale nei confronti di qualsiasi forma di proprietà privata, compresa quella dei mezzi di produzione di piccole e piccolissime dimensioni. Una prima ragione consiste proprio in un eccesso di esaltazione ideologica del “diritto alla proprietà” seppure in chiave negativa. Se l’ideologia proprietaristica fa della sacralità della proprietà un valore tale da non consentirne alcuna incrinatura, allo stesso modo, in una prospettiva capovolta, il comunismo sovietico ha visto nel diritto alla proprietà il nemico per eccellenza al quale non va concesso il minimo spazio nell’identico timore che una seppure timida concessione apra la breccia. Ha inoltre inciso una seconda visione ideologica: l’idea di una umanità di “uguali” così potentemente pervasiva da non consentire percorsi individuali, di qualsiasi genere, non riconducibili all’identità unificante ed unificata dal comunismo e dalla comunanza dei bisogni elementari. E’ chiaro che in una visione così ferrea ogni iniziativa individuale, a partire da quelle economiche per quanto di scarso valore, non poteva non essere vista come un esempio negativo da evitare ad ogni costo. Non è da escludere che questi due granitici presupposti ideologici potessero essere declinati con un certo grado di apertura, come quella già richiamata in precedenza della NEP leninista, ma l’impatto dirompente del “socialismo in un solo paese” accerchiato dai nemici di classe, specie nella sua declinazione stalinista, ha poi di fatto impedito ogni minima tolleranza. L’insostenibilità storica di una visione ideologica così rigida non poteva non sfociare in un reazione opposta e contraria non appena il sistema sociale sovietico non ha più retto alla sfida del tempo e dei tempi. Ed in effetti la fragilità della costruzione comunista è stata ancor più evidenziata dalla deriva oligarchica e dal vero e proprio saccheggio dei beni pubblici avvenuto negli anni immediatamente successivi alla fine dell’URSS. La Russia di Eltsin prima e di Putin poi ha messa da subito in atto una sorta di “terapia d’urto” privatizzando la quasi totalità delle proprietà pubbliche, anche mediante un sistema di “voucher”, una sorta di “buono di privatizzazione”, di parcellizzato titolo di proprietà di imprese pubbliche, consegnato a buona parte della popolazione. Peccato però che nel contesto di iperinflazione(2.500%!!!) nell’immediato dopo comunismo, questi voucher siano stati rastrellati a valore svenduto da pochi ed abili azionisti rapidamente divenuti i nuovi “oligarchi” del paese. In pochi anni la rivista Forbes li ha sanciti in testa alla classifiche dei miliardari di ogni categoria! Una classe di superricchi (vedi il grafico 50 per la ricchezza da reddito, per quella patrimoniale si veda il successivo grafico 55) oltretutto protetta e coccolata dal potere: in Russia non esiste imposta progressiva sul reddito, non esiste tassazione sulle eredità, e non si trova traccia di una seria anagrafe delle ricchezze patrimoniali. Un percorso tutt’altro che scontato: la fine del regime comunista poteva, in teoria, aprire la strada ad una correzione della società in forma “socialdemocratica”, ma il timore, condiviso a livello internazionale e concretizzatosi in fortissime pressioni e ricatti, di lasciare margini ad un qualche ritorno al comunismo, ha azzerato tale prospettiva imponendo una struttura sociale totalmente verticale fondata su gerarchie rigide e su un autoritario controllo personale del potere.

La Cina: un’economia mista autoritaria

L’altro paese comunista per eccellenza, la Cina, ha fatto tesoro del fallimento dell’URS e delle contraddizioni emerse nel periodo maoista (1949-1976) per avviare dal 1978, con una serie di radicali riforme, una forma inedita di regime politico ed economico, i cui fondamenti sono: in politica la ferrea guida del Partito Comunista ed in economia una forma mista tra proprietà pubblica e privata. Occorre partire da questo secondo aspetto, per capire la specificità cinese. Il seguente grafico mette a confronto il trend storico della consistenza della proprietà pubblica in sei significativi paesi nel periodo 1978-2010

Grafico 52


Nella definizione di “proprietà pubblica”: rientrano i beni detenuti dallo Stato, in tutte le sua articolazioni, che possono essere immessi sul mercato, avendo quindi un loro valore realizzabile, a formare un capitale “teorico” al netto del debito pubblico consolidato. In parole povero rappresenta il capitale che si potrebbe ottenere con la sua vendita a prezzi di mercato e dopo aver pagato i debiti che gravano sullo Stato. Il dato cinese emerge come quello di gran lunga il più alto, ma nel periodo in esame, quello dopo la svolta del 1978, è costantemente sceso dall’iniziale 70% fino al 30% del 2006 per poi stabilizzarsi su questo livello. La proprietà pubblica cinese, pur essendosi quindi più che dimezzata, vale ancora al 2010 almeno tre volte tanto quella di tutti gli altri paesi racchiusi in una forbice che va dallo 0% a meno del 10%.Tenendo conto che il 40% della proprietà pubblica cinese passata in mani private è costituito in grandissima prevalenza da immobili residenziali e che nelle mani pubbliche, a comporre il restante 30%, concorre il possesso del 60% delle imprese emerge con chiarezza che il percorso seguito è stato quello di “regolarizzare” la proprietà privata degli immobili di residenza mantenendo invece una quota delle imprese tale da garantire un adeguato controllo del sistema produttivo da parte dello Stato. Lo si può bene cogliere con il seguente grafico che mostra l’evoluzione della proprietà di imprese cinesi sempre nel periodo 1978 – 2010

Grafico 53

E’ questa la prima componente che precisa l’idea di “economia mista” cinese. Il grafico 52 evidenzia inoltre che in tutte le altre economie la significativa quota di proprietà pubblica che mediamente ancora valeva dal 15% al 30% nel 1978 è continuamente discesa fino a una insignificante quota molto vicina allo zero. (P. riprenderà questo dato, con le dinamiche che lo sottendono, e la sua stretta relazione con il debito pubblico nel successivo Capitolo 13, vale la pena di anticipare il dato italiano: nel 2010 l’Italia è il solo paese tra quelli “sviluppati” ad avere un debito pubblico superiore al capitale pubblico). Tornando alla specifico cinese un altro importante dato va tenuto nella giusta considerazione: la proprietà dei terreni agricoli. Già prima delle riforme del 1978 una buona parte dei terreni agricoli, quasi tutti di limitate estensioni a conduzione familiare, era di proprietà privata in quanto requisito indispensabile per la condizione di “residenza rurale”. Lo straordinario sviluppo degli ultimi decenni del secolo scorso ha, come è noto, accelerato a dismisura il fenomeno dell’inurbamento, ma la condizione di “residenza urbana”, necessaria per accedere a certe scuole e servizi, è riconosciuta solo a fronte della rinuncia alla “residenza agricola” tramite la cessione dei terreni posseduti a titolo gratuito allo Stato, il quale provvede poi a riassegnarli ad altri soggetti. Si tratta quindi di una forma di proprietà “intermedia” flessibile e in continuo mutamento. Quali sono le ricadute sulla struttura delle disuguaglianze cinesi della “economia mista” così come si è venuta conformando dal 1978? Il seguente grafico mette a confronto il dato cinese della quota di ricchezza posseduta dal decile superiore e dal 50% della popolazione più povero con quello analogo degli USA e dell’Europa.

Grafico 54


Anche se per la Cina non è facile il reperimento di dati di buona affidabilità il quadro che emerge è sicuramente indicativo: la forbice fra la ricchezza, da reddito, detenuta dal decile superiore e dal 50% più povero si è allargata in tutte le tre situazioni in esame, ma mentre per l’Europa il divario è cresciuto in modo più contenuto e per gli USA si è al contrario assistito ad una impressionante accentuazione, la situazione cinese si è evoluta con una curva intermedia più vicina a quella americana che a quella europea. Un dato che per un paese “comunista” non può non rappresentare una evidente contraddizione; l’economia mista cinese, con la crescita della proprietà privata evidenziata dai precedenti grafici 52 e 53, ha prodotto una struttura delle disuguaglianze molto simile a quella del turbocapitalismo statunitense. Non dissimile pare essere la situazione della ricchezza patrimoniale posseduta dal decile superiore cinese consolidatasi in pochi decenni così come dimostra il seguente grafico

Grafico 55


Le riforme avviate nel 1978 erano deliberatamente mirate ad ampliare i margini della proprietà privata, in buona misura costituita da piccoli appezzamenti agricoli a conduzione familiare, che al tempo era pari al 30% della ricchezza totale cinese. La quota parte di questo 30% detenuta dal decile superiore era, mancando dati certi al riguardo, presumibilmente calcolabile al massimo in un 20%. Nel giro di soli tre decenni, sulla base di dati già più consolidati, il decile superiore è passato a detenere il 65% di tutta la ricchezza patrimoniale privata cinese, un dato molto prossimo a quello statunitense e della Russia oligarchica. Si deve poi tenere conto di una importante specificità: questa ricchezza è costituita quasi esclusivamente dalle voci che compongono la “ricchezza urbana” essendo quella del resto della popolazione ancora costituita da piccoli possedimenti agricoli. Vale a dire che la ricchezza patrimoniale del decile superiore è interamente frutto della impressionante crescita dell’economia cinese, quella commerciale, produttiva, tecnologica, immobiliare, azionaria. Questo quadro sembra aver raggiunto una sua qualche stabilità nell’ultimo decennio, ma va ancora precisato che al momento in Cina non esiste alcuna imposta sulle successioni e che quindi tale ricchezza se, al momento, non pare più crescere con la stessa intensità è, salvo improvvise inversioni di rotta politica, destinata comunque a consolidarsi e persino a divenire attrattiva per lo spostamento in Cina, vale a dire in prima battuta ad Hong Kong, di ricchezze finanziarie straniere. Come si concilia questa indubitabile crescita delle disuguaglianze cinesi con il rigore ideologico di un regime che non rinuncia a definirsi comunista? Per capirlo P. prende in esame gli scritti teorici del presidente Xi Jinping, il cui nome figura nel preambolo della Costituzione cinese dopo quelli di Mao Zedond e di Deng Xiaoping a testimoniare un suo pieno riconoscimento di guida suprema.  Nella pagine dedicate a definire il “socialismo con caratteristiche cinesi” non si fa cenno di fiscalità progressiva piuttosto che di cogestioni, ma abbondano i passaggi in cui si afferma che la “mano invisibile del mercato”, contesto ormai dato per acquisito, deve essere equilibrata dalla “mano visibile del partito”, del governo, per evitare abusi e degenerazioni. Ed in effetti alcuni sporadici casi di condanne per eccessi di profitto non regolamentare si sono verificati, ma i dati evidenziati sembrano dimostrare un’idea molto elastica di abusi e degenerazioni. D’altronde lo stesso partito comunista cinese, il custode dell’ideologia che guida il paese, non appare essere così compatto ed omogeneo nel difendere i valori alla sua base. Pesa ancora, a giudizio di P., l’eredità lasciata dal furore ideologico della Rivoluzione Culturale. Ampi strati della stessa classe dirigente cinese sono figli di una generazione terribilmente vessata in ogni aspetto, non solo economico, di possibile individualismo. E quindi anche all’interno del partito comunista non manca, come forma di reazione, una certa accondiscendenza a logiche di accumulazione. Un romanzo dello scrittore Yu Hua con titolo “Brothers” descrive molto bene questa contraddittoria fase di transizione ideologica, attraverso il racconto degli opposti percorsi di due fratelli, uno ancora ligio alla pura tradizione comunista e l’altro invece così abile a sfruttare il nuovo corso da divenire un ricco miliardario. La solidità della direzione comunista sembra paradossalmente poggiare più che su chiare visioni interne sul diffuso convinto rifiuto delle democrazie elettorali occidentali incapaci di garantire, con l’alternarsi di elezioni e governi, un efficace e coinvolgente dibattito politico, come quello che avviene nel PCC all’insegna della “democrazia controllata”, capace di produrre politiche realmente condivise. Ma resta evidente che l’esperienza cinese dell’economia mista è un processo ancora in piena evoluzione con esiti tutt’altro che definiti

L’Europa orientale: un laboratorio della disillusione post-comunista

L’influenza comunista sui paesi dell’Europa orientale entrati dopo il secondo conflitto nell’orbita dell’URSS si è fatta sentire per un periodo storico di pochi decenni ma, congiuntamente con i processi che si sono innestati successivamente al crollo del muro di Berlino, comunque rilevante e tale da aver non poco influito sulla loro attuale struttura delle disuguaglianze. Anche in questo caso l’attenzione di P. è concentrata su questo specifico aspetto e, accomunando in un unico blocco realtà nazionali ed etniche tutt’altro che omogenee, non entra più di tanto nel merito delle molte collegate tematiche di vario ordine. Il comune dato geopolitico consiste nella loro totale adesione all’Unione Europea avvenuta nell’ambito di un processo tutt’altro che lineare e non privo di stridenti contraddizioni. Il controllo sovietico, solo in minima parte coniugato ad una autonoma adesione all’ideologia comunista e oltretutto avvenuto nella fase già discendente del comunismo russo evidenziata in precedenza, ha di fatto bloccato nei primi decenni del secondo dopoguerra lo sviluppo economico e la crescita dei rispettivi redditi nazionali, determinando un livello di disuguaglianza molto simile a quello della Russia sovietica. Da questa iniziale situazione di arretratezza economica, ma coniugata con un basso livello di disuguaglianza, inizia, dai primi anni Ottanta, un percorso con evidenti chiaroscuri. Il seguente grafico lo evidenzia mettendo a confronto le curve di crescita della ricchezza da reddito detenuta dal decile superiore e dal 50% più povero per tre macro aree: USA – Europa Ovest – Europa Ovest + Est nel periodo 1980-2010:

Grafico 56


Tutte le curve rappresentate nel grafico hanno un analogo andamento: la forbice della differenza fra la quota di ricchezza detenuta dal decile superiore e quella del 50% più povero tende ad accentuarsi in modo significativo. Quella statunitense, già più ampia nel 1980, si allarga tantissimo, mentre le due europee, già molto simili in partenza, mantengono una progressione tutto sommato analoga e di molto inferiore a quella americana, con una leggera maggiore ampiezza di divario per quella dell’Europa Ovest+Est. E’ quindi possibile sostenere che la curva delle disuguaglianze nei paesi ex-comunisti dell’Europa dell’Est non è esplosa verso l’alto così come nella Russia degli oligarchi (grafico 50). Hanno concorso a questo contenimento due fattori fra di loro concatenati: da una parte il permanere di sistemi di istruzione e di protezione sociali eredità del periodo comunista paradossalmente meglio mantenuti che nella stessa Russia e dall’altra l’influenza degli indirizzi politici ed economici della UE e della parte occidentale europea. Un livello di disuguaglianza più contenuto e simile a quello medio dell’Europa Ovest quindi, anche se è corretto relazionarlo ad un livello di reddito medio ancora inferiore, quello dei paesi dell’Europa orientale che ancora nel 1990 valeva solo il 45% di quello occidentale è salito a circa il 65-70% nel 2010, con uno scarto quindi ancora significativo. L’insieme di questi dati sembrerebbe attestare che “l’ombrello UE” ha rappresentato un punto di appoggio fondamentale nella fase post-comunista. Un aspetto che è confermato dal seguente grafico che evidenzia per quattro significativi paesi dell’Europa dell’Est i flussi in entrata dalla UE (finanziamenti europei, al netto delle quote versate, e investimenti privati) ed in uscita verso la UE (profitti e altri redditi in capo ad investitori europei) rilevati a cavallo del 2010 ed espressi in % del loro PIL

Grafico 57


Se da una parte il flusso degli investimenti e dei contributi UE vale in media dal 2% al 4% del PIL dall’altra quello dei profitti e dei ricavi che tornano verso i paesi investitori europei sta in un range che va dal 4% a più del 7%. Se quindi da una parte il sostegno europeo ha contribuito in modo significativo alla crescita del reddito medio, ed al contenimento delle disuguaglianze, dall’altra appare evidente che questo apporto, nelle logiche di mercato, ha comportato un ritorno importante in termini di profitto verso l’estero. Questa situazione ha contribuito non poco a rafforzare la diffusa percezione che le potenze economiche della UE vedano i paesi ex-comunisti come una fonte di guadagno, ed è vero che mediamente gli investitori stranieri detengono un quarto del loro capitale, e che quindi li trattino come cittadini di serie B buoni a costituire un serbatoio di manodopera a buon mercato. Un sentire diffuso che si coniuga inoltre con una comune forte identità etnica di stampo tradizionalista e di chiusura nazionalistica. L’insieme di questi sentimenti è alla base di una sorta di disillusione che spiega al contempo il rifiuto di ogni proposta ideologica e politica che in qualche modo sia assimilabile a ideali socialisti e socialdemocratici e l’affermarsi di una specifica ideologia “social-nativista”, ossia una visione della società sostanzialmente conservatrice e etnicamente orientata verso una netta chiusura. Difficile al momento immaginare la futura evoluzione di queste società sia in termini ideologici che per quanto concerne la struttura delle disuguaglianze, al momento ambedue ancora troppo condizionate dalla volontà di chiudere definitivamente i conti l’eredità della parentesi comunista e dalla contemporanea diffidenza verso la sacralizzazione occidentale del mercato.

Capitolo 13

L’ipercapitalismo: tra modernità ed arcadia

(In cui P.  conclude la panoramica della “grande trasformazione del XX secolo”  analizzando le caratteristiche della radicale evoluzione delle disuguaglianze avvenuta negli ultimi decenni del secolo, conseguenza dei limiti delle società socialdemocratiche, del fallimento di quelle comuniste, e dell’affermarsi globale del neo-liberismo. Completando così il quadro sul quale inserire le proposte di uscita che analizzerà nella seguente Parte Quarta

Le forme della disuguaglianza nel mondo nel XXI secolo

Nei Capitoli precedenti si sono analizzate le ideologie che hanno sostenuto le forme di società, e le loro specifiche strutture delle disuguaglianze, subentrate nel corso del XX secolo alla società dei proprietari che aveva caratterizzato l’intero secolo precedente. In ogni percorso preso in esame si è anche visto che gli ultimi due decenni del Novecento segnano in qualche modo una netta cesura collegata all’indubbia affermazione della globalizzazione neoliberista ed alla svolta tecnologica della digitalizzazione e delle Rete. Per meglio comprendere le sfide che una migliore e più diffusa giustizia sociale dovrà affrontare nel corso del XXI secolo è necessario iniziare a fissare alcune delle caratteristiche di questo nuovo quadro mondiale del regime delle disuguaglianze, che vanno in primo luogo relazionate ad una impressionante e diseguale crescita demografica. Il seguente grafico la evidenzia con le curve della crescita, in miliardi di abitanti, già avvenuta nei diversi continenti dal 1700 ad oggi e completata con quella prevista da qui al 2050.

Grafico 58


In un pianeta dalle risorse limitate una popolazione mondiale di più di nove miliardi di persone rende ancor più ambizioso, ma al tempo stesso davvero molto complicato, l’immaginare un adeguato livello diffuso di uguaglianza. Anche perché si parte da una situazione che al momento vede al contrario una distribuzione della ricchezza molto disomogenea con conseguenti livelli di disuguaglianza altrettanto differenziati come dimostra il seguente grafico che fotografa la quota di reddito totale detenuta nel 2018 dal decile superiore in nove situazioni rappresentative del quadro generale

Grafico 59


E’ evidente la disparità di situazioni, in una scala a salire si va dal 33% del dato europeo, il più basso in assoluto, a quelli clamorosamente più alti, mediamente il doppio, del M.O., del Sudafrica e del Quatar con ben il 69%. Non diversa è la situazione se si passa a considerare con il successivo grafico la ripartizione del reddito totale, sempre al 2018, fra il decile superiore, il 40% intermedio ed il 50% più povero nelle tre aree più indicative

 Grafico 60


Ancora una volta l’Europa si rivela la più egualitaria e quella con la maggiore incidenza della classe media, mentre invece, con gli USA in una situazione intermedia, il M.O. è l’area con la più accentuata disuguaglianza. Il seguente grafico visualizza in modo ancor più impattante la differenza del rapporto fra la quota del reddito posseduta, sempre al 2018, dal 50% più povero con quella del centile superiore ossia l’1% più ricco per quattro macro aree

                                                                 Grafico 61

Sono evidenti le differenze del livello di disuguaglianza nel mondo al 2018, ed è importante sottolineare che queste situazioni si sono determinate nell’arco ristretto dei decenni a cavallo del cambio di secolo e che vedono tuttora una loro costante accentuazione. Il precedente grafico 59 attesta poi che le regioni del mondo in cui si registrano le più alte disuguaglianze corrispondono, non a caso, a regimi politico-ideologico che sostengono visioni di disparità di status, di discriminazione razziale, di residui coloniali se non di vera e propria schiavitù. Questa indubbia consistente ripresa delle disuguaglianze deve essere collegata non solo al complesso quadro demografico visto in precedenza ma anche alla drammatica situazione ambientale e climatica. Se sono evidenti le sue ricadute sull’intera umanità, e sull’intero pianeta, non è però semplice determinare in modo adeguato quelle sull’economia, sulla società, e sulla struttura delle disuguaglianze. I parametri normalmente utilizzati rischiano non solo di essere inadeguati ma addirittura fuorvianti. Il primo parametro insoddisfacente da questo punto di vita è il PIL. Non a caso in tutti grafici del saggio P. utilizza al suo posto la nozione di “reddito nazionale”, ossia il dato del PIL decurtato del deprezzamento del capitale e bilanciato con il flusso dei redditi in entrata ed uscita con l’estero. Questa nozione consente, per tornare all’incidenza dell’emergenza ambientale e climatica, anche di meglio valutare le sue possibili ricadute: ad esempio un paese impegnato con notevoli investimenti a rimediare ad ingenti danni ambientali ha una ricaduta importante sul PIL, ma al tempo stesso ha subito una evidente decurtazione del suo capitale reale. Va inoltre aggiunto che al momento i modelli matematici applicati all’economia non tengono adeguatamente conto del consumo di capitale naturale, ad esempio l’industria mineraria ed estrattiva genera PIL ma consuma una risorsa naturale, una perdita di valore che però non viene conteggiata. Alcuni studi hanno valutato in una quota che va dal 5% al 20% del PIL mondiale l’impatto complessivo dell’ambiente sull’economia non rilevato dal solo PIL. Non solo: esiste una evidente “disuguaglianza ambientale” per i danni all’ambiente sia causati che subiti. Le emissioni di CO2 in primis non implicano pari responsabilità per tutti i paesi, se si valutano quelle emesse direttamente (produzione, trasporti interni, riscaldamento, etc.) e indirettamente (quelle emesse per produrre e trasportare, in quota parte, le merci importate/esportate) si ha un quadro globale fortemente diseguale. Il seguente grafico evidenzia la quota in % di CO2 emessa, nel periodo 2010-2018, per quattro macro-aree mondiali: la prima pila indica la % di CO2, diretta e indiretta, la seconda pila la % emessa solo direttamente, quella più determinata dai consumi interni

Grafico 62


L’alta percentuale di emissioni statunitensi è sicuramente attribuibile al grande divario di reddito ed ai collegati stili di vita molto energivori, la stessa considerazione, anche se in misura ridotta, vale per l’Europa, mentre Cina e Resto del mondo hanno percentuali di emissione diretta inferiori a quelle calcolate considerando anche quelle indirette, a testimoniare il peso della “disuguaglianza ambientale”. Tornando a quelle economiche i grafici 59-60-61 ne hanno evidenziato la crescita esaminando dati relativi alla ricchezza da  reddito, ma non dissimile è quella della ricchezza patrimoniale come si può evincere dal seguente grafico che traccia le curve della crescita della quota di proprietà in capo al decile superiore in sei paesi rappresentativi della tendenza globale 1900-2010

Grafico 63


Ancora una volta P. ripropone, giudicandola fondamentale, una panoramica sul lungo periodo dell’andamento delle disuguaglianze, in questo caso quelle relative alla ricchezza patrimoniale posseduta dal 10% più ricco, per evidenziare sia l’importante contrazione avvenuta per buona parte del XX secolo sia l’improvvisa, e accelerata, risalita avvenuta ovunque a partire dal 1980. Occorre inoltre tenere nella giusta considerazione che questi dati rappresentano la realtà “per difetto”, sono infatti molto consistenti le forme di ricchezza patrimoniale che, nell’era dei big data!, sfuggono ad un più accurato censimento: sono quasi ovunque molto opachi i catasti finanziari, sottostimati quelli immobiliari per lo più riferiti a valori teorici molto inferiori a quelli di mercato, per non dire poi dell’ancora intatto ruolo dei paradisi fiscali. Al punto da rendere sostenibile una integrazione dei dati ufficiali, sui quali è costruito il grafico 63, con quelli reperibili in una fonte particolare: le classifiche dei patrimoni mondiali regolarmente stilata ogni anno dalla rivista americana Forbes, la quale attesta un tasso annuale di crescita dei patrimoni più ingenti dell’ordine del 6-7% (al netto dell’inflazione) nel periodo 1987-2017 come evidenzia la seguente tabella 4 costruita proprio sui dati Forbes:

Tabella 4


Si coglie bene la differenza della progressione: i patrimoni nel mondo sono cresciuti ad un tasso annuale molto più alto di quello della crescita del PIL o reddito totale, per il centomilionesimo più ricco addirittura del doppio esatto. Nelle tre aree più ricche la crescita è stata ancora più impressionante: a fronte di un aumento inferiore del PIL i patrimoni dei più ricchi sono cresciuti anche più del doppio. Il ritorno di una altissima concentrazione della proprietà, per quanto difficilmente individuabile nella sua esatta consistenza, sancisce in definitiva nei primi decenni del XXI secolo, dopo l’opposta parabola di buona parte del XX secolo, l’affermarsi di un regime “neoproprietarista” mondiale che, se non combattuto e governato, rischia seriamente di ricreare i livelli di diseguaglianza registrati al culmine della società proprietaristica “classica”. Lo evidenzia il seguente grafico che fotografa la ripartizione della ricchezza patrimoniale fra il decile più ricco, il 40% intermedio ed il 50% più povero nell’Europa del 1913, nell’Europa del 2018 e negli USA del 2018

Grafico 64


Anche in questo caso l’Europa evidenzia una maggiore resistenza alla crescita della concentrazione della ricchezza patrimoniale, a fronte di una situazione statunitense molto vicina al picco di inizio secolo. In buona parte questa migliore tenuta è spiegabile con la significativa quota di ricchezza detenuta dal 40% medio. A questa fotografia del livello delle disuguaglianze di inizio XXI secolo P. aggiunge un ulteriore importante dato: quello della disuguaglianza di genere che si evidenzia con specifiche caratteristiche, anche molto differenziate, in ogni singolo paese. La situazione francese può però essere assunta come fotografia valida in generale del permanere di una sostanziale forma di “patriarcato”. Il seguente grafico evidenzia la percentuale di donne che rientrano nel gruppi del 50%, del 10% e dell’1% più ricchi, relativamente alla ricchezza da reddito nel periodo 1970-2015

Grafico 65


Appare evidente che la realizzazione di una completa uguaglianza di genere è ben lungi dall’essere pienamente realizzata nonostante alcuni significativi miglioramenti avvenuti nel corso del XX secolo soprattutto nei paesi occidentali più ricchi. Restando alla sola disuguaglianza da reddito il grafico 65 comunque non consente repliche: più si sale la scala della ricchezza meno consistente è la presenza femminile. Al culmine del periodo preso in esame, nel 2015, e nonostante una costante crescita della curva, la ricchezza da reddito che, in una situazione di piena parità, dovrebbe ripartirsi in pari misura fra i due generi vede quella detenuta dalle donne ferma a poco più del 40% nell’ampio gruppo del 50% più ricco, per crollare al 30% ed al 15% in quelli del 10% e dell’1% più ricchi. Se per il primo gruppo la spiegazione può consistere in prevalenza nella differenza di trattamento salariale, per i due gruppi più ricchi è evidente il permanere di un pregiudizio storico per l’accesso delle donne alle posizioni più alte di responsabilità e potere. La concentrazione verso l’alto della ricchezza da reddito evidenzia quindi una pesante disparità di genere che si manifesta allo stesso modo anche per la ricchezza patrimoniale là dove questa, fatta salva l’incidenza delle norme che regolano la ripartizione ereditaria e della ricchezza familiare molto dissimili fra paese e paese, si consolida come ovvia ricaduta sul lungo periodo delle differenze di redditi evidenziate nel grafico 65. A completare il quadro delle disuguaglianze all’alba del XXI secolo interviene inoltre un preoccupante ulteriore impoverimento degli Stati più poveri a sancire evidenti linee di una “disuguaglianza geografica”. E’ scorretta una eccessiva generalizzazione perché il processo di formazione di ogni singolo Stato è lungo, complesso e specifico, sono infatti molte le variabili in grado di influenzarlo. Si deve poi tenere conto che buona parte degli Stati “poveri” sono usciti solo nella seconda metà del Novecento dal dominio coloniale spesso ritrovandosi privi di una minima autonoma organizzazione statale, alle prese con notevoli pressioni demografiche, e quasi sempre comunque condizionati da interessi esterni. Un indicatore utile a fornire un quadro di riferimento è costituito dal gettito fiscale la cui entità può misurare sia il reddito nazionale che la conseguente capacità di spesa, condizione base fondamentale per attive politiche statali. Il seguente grafico misura il gettito fiscale medio, relazionato al PIL, mettendo a confronto quello dei paesi ricchi e dei paesi poveri, nel periodo 1970-2018, e precisando l’incidenza al suo interno delle tasse sugli scambi internazionali

Grafico 66


Si nota che mentre per i paesi ricchi le entrate fiscali sono mediamente salite da un iniziale 30% al 40% quelle dei paesi poveri non si sono mai discostate da una percentuale sul PIL di molto inferiore e pari al 15%. In molti paesi africani queste percentuali scendono addirittura al 6-8%, ma in ogni caso sono importi che a malapena consentono di sostenere i servizi pubblici minimi e che non sono quindi assolutamente in grado di effettuare investimenti finalizzati ad una reale uscita dalla povertà. Il grafico 66 consente inoltre di rilevare che la liberalizzazione degli scambi internazionali, legata alla globalizzazione, ha inciso in modo più consistente sui paesi poveri per i quali questa voce negli anni settanta valeva un importante 6% del gettito fiscale e che nel periodo in esame si è progressivamente dimezzata. L’insieme di questi fattori non apre quindi prospettive realistiche di contenimento della “disuguaglianza geografica”, destinata anzi, sul breve e medio periodo, ad aumentare incentivando inoltre il drammatico fenomeno della “migrazione per ragioni economiche”. I primi decenni del XXI secolo caratterizzati da questo insieme di disuguaglianze - in questo Capitolo esaminate da P. in estrema sintesi allo scopo di fornire una prima iniziale visione d’insieme, per essere meglio approfondite nella successiva Parte Quarta – hanno poi visto il succedersi di crisi sistemiche, di cui quella del 2007/2008 è stata solo la più eclatante, indubbiamente legate alla esasperata influenza neoliberista sull’intero ciclo economico mondiale. Uno degli indicatori più importanti di questa influenza consiste di certo nella finanziarizzazione dell’economia mondiale, un fenomeno di dimensioni impressionanti con inevitabili e importanti ricadute sulla struttura delle disuguaglianze, e che quindi sarà oggetto di specifica attenzione nella successiva Parte Quarta. Un solo dato per dimensionarne l’impatto: nell’Eurozona tutte le attività finanziarie che, nel loro complesso, nel 1980 già valevano la consistente quota del 300%, hanno nel 2018 superato del 1.100% il PIL europeo. Vale a dire che in Europa esiste una ricchezza finanziaria pari a undici annualità di PIL, una ricchezza quindi di dimensioni impressionanti ma priva di basi reali su cui poggiare e che, paradossalmente, è cresciuta nel periodo in esame anche grazie alla stessa massiccia immissione di liquidità operata dalle Banche centrali proprio per fronteggiare le crisi economiche in buona misura generate proprio dall’eccesso di finanziarizzazione dell’economia. Anche in relazione a quest’ultimo aspetto P. individua, anche in questo caso come prima valutazione, le narrazioni ideologiche che sostengono il quadro delle disuguaglianze sin qui sinteticamente evidenziato. Confluiscono in queste narrazioni diversi elementi di pensiero economico e sociale. Centrale è sicuramente il ritorno alla “sacralizzazione” della proprietà privata, ed il conseguente rifiuto dell’invadenza su di essa di qualsiasi politica statale. Secondo il pensiero mainstream il ruolo della Stato deve infatti consistere, garantendo il diritto alla proprietà, esclusivamente nel creare e mantenere le condizioni per una concorrenza sul mercato libera e non falsata. Lo Stato deve pertanto ritirarsi dalla gestione pubblica di servizi e attività favorendo la loro privatizzazione totale. La fiscalità non può quindi essere concepita come un correttivo della distribuzione di ricchezza evitando qualsiasi ipotesi di progressività (Friedrich von Hayek, già citato in precedenza, uno dei principali teorici del neoliberismo, sosteneva che l’interdizione della progressività fiscale fosse inserito come principio inamovibile nelle Costituzioni e che i redditi più alti dovessero essere tassati ad una aliquota pari alla media dei tassi fiscali praticati sulle fasce più povere). Ma la narrazione ideologica neoliberista non si limita alla pur fondamentale sacralizzazione della proprietà privata, in un ritorno all’ideologica proprietaristica ottocentesca, ma in relazione al mutato quadro sociale introduce una ideologia meritocratica estrema. Il mercato è fatto di vincenti e perdenti, si vince possedendo i meriti per farlo e si perde per mancanza di meriti. Ognuno deve gareggiare, divenendo “imprenditore di sé stesso”, per dimostrare di possedere meriti adeguati, e chi perde, e tantomeno lo Stato, hanno il diritto di incidere sulle disuguaglianze che, correttamente, ne derivano. Nessun dubbio quindi sul fatto che meriti e capacità possano essere determinati da privilegi sociali preesistenti e che pertanto lo Stato debba in qualche modo garantire pari condizioni di partenza. La crescita delle disuguaglianze diventa in questo quadro una conseguenza fisiologica insopprimibile ed anzi le concentrazione della ricchezza verso l’alto, favorendo in condizioni di mercato libero la domanda, può avere ricadute positive anche sugli strati bassi della popolazione. In tempi di Rete e social queste narrazioni hanno trovato sponde amplificative straordinarie, fra le altre quella dell’autentica glorificazione di imprenditori e miliardari, divisi fra i buoni californiani innovativi ed i cattivi oligarchi russi, come se gli uni e gli altri non godessero delle stesse favorevoli condizioni di quasi monopolio. Rientra in questa glorificazione, a compensazione dello svuotamento del ruolo dello Stato, l’ammirevole filantropia di molti di loro.  “Destino” un romanzo del 2008 dello scrittore messicano Carlos Fuentes è un efficace quadro del rampante capitalismo neoliberista e delle figure che lo personificano



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