sabato 26 dicembre 2020

Riscoprire la "realtà" - Articolo di Mario De Caro

 

Chiudiamo con questo post il 2020 del blog di CircolarMente. Dire che ci lasciamo alle spalle un anno quantomeno anomalo è dire cosa ovvia e persino limitata. In particolare per questo blog - nato con la finalità di affiancare le iniziative pubbliche di Circolarmente, preparando, accompagnando ed approfondendo, le loro varie tematiche - è stato un anno in cui ha dovuto, in qualche modo, supplire alla loro forzata assenza. Ed è’ possibile, purtroppo, che sia così ancora per alcuni mesi, nel corso dei quali vedremo di rimediare in qualche modo a questo “antipatico” stato di cose. In attesa di tornare ad iniziative, relatori e temi che, come sempre, ci aiutino a comprendere, in tutti i suoi aspetti, la realtà che ci circonda al fine di meglio affrontarla, questo post presenta un aspetto che sta “a monte” del nostro rapporto con la realtà. Pubblichiamo infatti un articolo, estrapolato dalla rivista on-line “Il tascabile”, che riteniamo offra una sintetica e chiara panoramica su come scienza e filosofia attualmente affrontino “la realtà”, sul contraddittorio concetto di “libero arbitrio” e sulla difficoltà di meglio comprenderla nell’epoca della “infodemia” (la “Parola del mese” di questo Dicembre 2020). L’immancabile e quanto mai sentito augurio di “Buon Anno nuovo” che il Blog di Circolarmente fa a tutti voi quest’anno vale davvero di più!!!!!!

Riscoprire la realtà

Un’intervista a Mario De Caro

(filosofo italiano, insegna filosofia morale presso l’Università Roma Tre)

Da diversi anni Mario De Caro si occupa di ripensare alcune delle categorie fondamentali della filosofia contemporanea: realismo e naturalismo. Le questioni di fondo di queste ricerche sono: perché dobbiamo difendere l’idea di “realtà” in filosofia e come bisogna intenderla? Qual è il contributo che la filosofia e le scienze possono dare per far progredire la nostra conoscenza della realtà, e in che modo possono collaborare? In che senso la conoscenza scientifica deve restare un punto di riferimento imprescindibile della filosofia, ma al tempo stesso non può esaurire i metodi e i concetti con cui conosciamo la realtà? De Caro ha esaminato questi temi concentrandosi sul problema classico del libero arbitrio e sulla teoria dell’azione, pubblicando diversi volumi tra cui “Il libero arbitrio. Un’introduzione” - Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio” -   “Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione (con Maurizio Ferraris)”. In questa conversazione attraversiamo questi temi, a partire dal suo ultimo libro “Realtà (Bollati Boringhieri, 2020).

Qualche anno fa hai curato, con Maurizio Ferraris, una miscellanea intitolata Bentornata realtà, in cui erano raccolti gli studi di diversi filosofi accomunati dalla difesa dell’idea di realtà in filosofia. Nel tuo ultimo libro difendi l’idea di “una realtà, internamente strutturata già prima che la mente la concettualizzi, che pone vincoli ineludibili alla correttezza dei nostri giudizi sul mondo esterno”. Come si è arrivati a preoccuparci di difendere questo presupposto della conoscenza?

Nelle versioni più serie, le filosofie antirealiste sostengono che la realtà non è qualcosa di già dato, qualcosa di internamente strutturato, indipendentemente dal pensiero: secondo queste filosofie, senza le categorie della mente o del linguaggio la realtà è amorfa, destrutturata. E questa è stata una prospettiva comune alla maggior parte delle concezioni filosofiche che hanno dominato la seconda metà del Novecento. I filosofi realisti in quegli anni erano come i marsupiali: bestie molto rare, viste come un bizzarro retaggio del passato. Nel frattempo, però, l’antirealismo, che originariamente era ispirato da nobili ragioni intellettuali e politiche, ha esaurito la sua forza propulsiva e oggi porta spesso a risultati, teorici e pratici, francamente dannosi, come il diffondersi di forme estreme di relativismo culturale e morale o di atteggiamenti radicalmente antiscientifici. Non c’è dubbio che in filosofia sia l’ora di tornare al realismo, ma il problema è: quale realismo?

Al centro della trattazione di Realtà c’è una dicotomia tra realismo ordinario e realismo scientifico. Come spieghi nel libro, il realismo ordinario “attribuisce realtà esclusivamente alle cose di cui possiamo avere esperienza” mentre il realismo scientifico afferma che “il mondo contiene soltanto le entità e gli eventi” – anche inosservabili – “che le scienze naturali possono descrivere e spiegare”. Tu poni l’origine di questa frattura nel conflitto tra l’aristotelismo e il platonismo matematico di Galilei: il problema dei due realismi può essere fatto risalire quindi alla rivoluzione scientifica, che avrebbe prodotto una rottura ancora non assorbita tra sensi e realtà?

Sì. La rivoluzione scientifica comportò il divorzio definitivo tra scienza e senso comune. I filosofi che da allora seguono la scienza guardano con sospetto alle credenze basate sulla percezione. Viceversa, quelli sospettosi della scienza, continuano a considerare la percezione come la nostra unica chiave d’accesso alla realtà naturale. La discussione tra aristotelici e i platonici del tardo Rinascimento (o almeno due sottogruppi di queste scuole, che allora erano molto variegate) segnò l’inizio di una discussione che continua ancora oggi.

Nel libro esamini pregi e difetti dei due realismi. Entrambi sembrano capaci di cogliere un aspetto difficilmente sopprimibile della nostra esperienza. Il realismo scientifico ha dalla sua il forte sostegno dell’efficacia delle teorie scientifiche. Ma per stabilire una misura comune dei nostri giudizi sulla realtà, deve affrontare quello che chiami “problema della collocazione”, che concerne fenomeni costitutivi della concezione ordinaria del mondo come il libero arbitrio, le proprietà morali, la coscienza, che sembrano appunto non avere posto nel mondo descritto dalla scienza.

Se si assume che le scienze naturali sono le nostre uniche chiavi di accesso genuino al mondo, si pone subito il problema che noti tu: cosa dire delle proprietà della visione ordinaria del mondo che, almeno a prima vista, non hanno a che fare con la visione scientifica del mondo? Così ha posto il problema John Searle (1932, filosofo statunitense): “Come possiamo far quadrare la concezione di noi stessi in quanto agenti dotati di mente, creatori di significati, liberi, razionali e così via, con un universo che consiste interamente di particelle fisiche brute, prive di mente, prive di significato, non libere né razionali?”. Questo è il cosiddetto “Problema della collocazione”. In questo senso, al naturalismo scientifico si aprono due vie: o si mostra che i fenomeni propri della visione ordinaria del mondo sono riducibili a fenomeni scientifici oppure questi fenomeni non vanno considerati come qualcosa di reale e dovrebbero essere trattati come nulla più che illusioni – magari socialmente o epistemicamente utili, ma pur sempre illusioni. Il gran numero di progetti che oggi vanno in queste due direzioni è l’espressione più chiara dell’attuale fortuna di questa concezione. Che poi i tentativi di riduzione dei fenomeni della visione ordinaria generalmente falliscano e quelli di eliminarli dalla nostra ontologia si dimostrino velleitari sono temi che i naturalisti scientifici tendono a ignorare.

La soluzione che proponi alla dicotomia tra i due realismi è il realismo liberalizzato, secondo cui possiamo ammettere che esistano metodi e oggetti diversi da quelli delle scienze naturali, ma dobbiamo costruire la nostra immagine del mondo sempre in accordo con i risultati delle migliori teorie scientifiche del presente. Come procede la “conciliazione” tra scienza e filosofia secondo questa concezione?

Per un naturalista liberalizzato, quando una concezione filosofica stride con una teoria scientifica, si pone un problema che occorre affrontare. Secondo i naturalisti scientifici, in questi casi, è sempre la scienza ad avere l’ultima parola. Il naturalista liberalizzato è meno radicale, da questo punto di vista. Si pensi al ruolo positivo che la filosofia ha giocato nell’evoluzione della scienza: per esempio, nelle discussioni sulla logica matematica, sulla teoria della probabilità o, oggi, nelle discussioni sulle interpretazioni della meccanica quantistica. Un altro aspetto da notare è che non basta che una teoria filosofica sia logicamente coerente con la scienza per essere accettabile. La concezione detta “disegno intelligente” è un ottimo esempio in questo senso. Secondo questa concezione, l’evoluzione biologica è guidata da un’intelligenza superiore. In realtà, però, non c’è affatto bisogno di postulare il ruolo di questa presunta intelligenza superiore perché il processo della selezione naturale scoperto da Darwin, insieme ai meccanismi genetici, può dare ottimamente conto dell’evoluzione delle specie. Pertanto, i fautori del naturalismo liberalizzato non possono che rifiutare la concezione del disegno intelligente, con le sue implicazioni ontologiche.

Un caso esemplare, di cui ti sei occupato a lungo, è il problema del libero arbitrio. Si tratta di un problema filosofico scientifico antico, che di nuovo ha avuto importanti sviluppi in base all’interazione con le scienze della natura, per esempio con il meccanicismo moderno e, nel Ventesimo secolo, con la meccanica quantistica. Prima di tutto ti chiederei di riassumere le principali opzioni in campo

Il determinismo è la tesi che tutti gli eventi sono determinati da eventi passati, secondo le leggi di natura: la meccanica newtoniana e la relatività generale sono teorie deterministiche. La negazione del determinismo è l’indeterminismo: la maggior parte delle interpretazioni della meccanica quantistica hanno questo carattere. Libertarismo e compatibilismo sono le due principali famiglie di teorie che difendono l’esistenza del libero arbitrio. Il libertarismo (difeso, per esempio, da Epicuro, Kant e oggi da John Searle) radica il libero arbitrio nell’indeterminismo; il compatibilismo, invece, sostiene che il libero arbitrio è compatibile con il determinismo – e secondo alcuni fautori di questa concezione, addirittura lo presuppone (Locke, Leibniz, Hume e oggi Daniel Dennett (1942, filosofo e psicologo statunitense). Tuttavia, tutte queste concezioni incontrano gravi difficoltà teoriche ed empiriche. E così molti oggi sostengono che il libero arbitrio non esiste affatto – una posizione che però, secondo me, è ancora meno convincente delle altre.

Un punto molto interessante è l’analisi degli esperimenti neuroscientifici come quelli di Benjamin Libet (1916-2007, psicologo e neurofisiologo statunitense) che proverebbero l’inesistenza del libero arbitrio. In questi esperimenti viene misurata una preparazione cerebrale di movimenti come la pressione di un pulsante che precede largamente la coscienza di prendere la decisione. In che misura questi esperimenti hanno influenzato la discussione filosofica sul libero arbitrio?

Nel più celebre dei suoi esperimenti, Libet chiese al soggetto sperimentale di compiere un semplice movimento come la flessione di un dito; questo movimento doveva essere compiuto spontaneamente, quando il soggetto abbia avvertito l’impulso a compierlo. Allo stesso tempo, il soggetto doveva controllare, usando uno speciale orologio, il momento esatto in cui avvertiva l’impulso a flettere il dito; nel frattempo, un’apparecchiatura misurava l’attività elettrica del suo cervello. Sulla base di centinaia di ripetizioni dell’esperimento, Libet osservò che i soggetti avvertivano l’impulso a flettere il dito circa 200 millisecondi prima dell’azione. Il dato più interessante, tuttavia, è che 550 millisecondi prima del compimento di quest’azione (e dunque 250 millisecondi prima che il soggetto sia consapevole dell’impulso a flettere il dito) nel cervello dei soggetti si verificava un rilevante incremento dell’attività elettrica (Readiness Potential, ovvero “potenziale di prontezza”) che l’analisi statistica mostrava essere causalmente correlato all’esecuzione dell’azione. Tutto ciò dovrebbe indurci a concludere, secondo Libet, che l’atto di esercitare una volontà in realtà ha una causa inconscia e dunque non può essere definito libero nel senso che la tradizione filosofica ha dato a questo termine. Al soggetto resta però, secondo Libet, una sorta di “libertà di veto”, nel senso che nei 200 millisecondi che separano la consapevolezza dell’impulso a piegare il dito e l’effettivo compimento di quest’azione l’agente può decidere di interrompere la catena causale che porterebbe a tale azione. Molti interpreti, tuttavia, sono stati più radicali di Libet e hanno concluso che i suoi esperimenti dimostrano, o almeno suggeriscono l’infondatezza dell’idea tradizionale del libero agire nel suo complesso.  In realtà varie ragioni dovrebbero portarci a ritenere che gli esperimenti di Libet, per quanto interessanti e certo degni di analisi, non hanno conseguenze tanto ovvie. In primo luogo, bisogna considerare che un imponente filone della filosofia occidentale (Agostino e Tommaso, Locke, Leibniz, Hume, Mill) ha sostenuto che la libertà è perfettamente compatibile con la determinazione e, anzi, secondo molti, addirittura la richiede. L’argomento è, nella sostanza, semplice: ciò che veramente conta nella nostra intuizione della libertà è che il soggetto possa fare quanto vuole fare ed, in questo senso, è irrilevante che la sua volontà possa essere predeterminata.). Contro il compatibilismo sono state mosse rilevanti obiezioni: ciò non significa però che lo si possa placidamente ignorare, come fanno invece quanti sulla base degli esperimenti di Libet concludono immediatamente che la libertà umana non esiste. Un analogo discorso si può fare per la famiglia di concezioni del libero arbitrio che si richiamano a Kant: secondo questo punto di vista, il discorso sulla libertà non va collocato al livello fenomenico ma su un piano puramente razionale, quello noumenico e, a questo livello, la libertà si dimostra condizione di possibilità della responsabilità morale e dell’imperativo categorico, dunque la sua realtà non può in alcun modo essere posta in dubbio. In tempi recenti sono stati sviluppati autorevoli tentativi di riprendere questa concezione in una direzione naturalistica e anche queste proposte non possono essere ignorate da chi voglia sostenere che gli esperimenti di Libet dimostrano l’illusorietà del libero arbitrio.

In ogni caso, diversi studi hanno messo in dubbio che gli esperimenti di Libet (e altri esperimenti simili condotti successivamente) siano in genere pertinenti per la questione del libero arbitrio.

Contro la tesi che gli esperimenti di Libet dimostrino l’illusorietà del libero arbitrio si possono muovere infatti obiezioni più specifiche. Per esempio, si pongono domande di carattere metodologico: è corretto equiparare la valutazione soggettiva delle esperienze coscienti con la misurazione oggettiva degli eventi neurali? E in che senso l’azione di piegare il dito “spontaneamente” può essere considerata il paradigma dell’azione libera? Inoltre, come va interpretato esattamente il cosiddetto “potenziale di prontezza”? Ma le obiezioni più importanti sono altre due. Innanzi tutto, l’esperimento sembra presupporre un’analisi fenomenologica poco accurata dei processi volitivi: l’esperimento di Libet si incentra sul momento in cui nel soggetto insorge la consapevolezza dell’impulso a piegare il proprio dito, in realtà il darsi di tale impulso non è né condizione necessaria né condizione sufficiente di un’azione volontaria. Non è condizione necessaria (e dunque possono esserci azioni volontarie senza l’impulso a compierle) perché spesso quando compiamo volontariamente un’azione non avvertiamo alcun impulso a compierla, si pensi a quando, guidando, sterziamo per curvare o a quando, mangiando portiamo una posata verso la bocca o, ancora, a quando pronunciamo intenzionalmente una frase durante una normale conversazione. D’altra parte, la presenza dell’impulso ad agire non è nemmeno sufficiente per agire volontariamente: spesso, infatti, un tale impulso precede azioni non volontarie, come quando ci viene da starnutire o quando sbadigliamo di fronte a un interlocutore poco brillante. Inoltre, chi interpreta gli esperimenti di Libet come se dimostrassero che le nostre azioni apparentemente volontarie discendono in realtà da cause inconsce dimentica che in realtà prima dell’attivazione del “potenziale di prontezza” si dà un altro momento causalmente molto rilevante ai fini del compimento dell’azione: ovvero il momento in cui il soggetto sperimentale accetta di seguire le indicazioni dello sperimentatore. Può darsi che anche tale momento abbia dei determinanti inconsci, ma nulla nell’esperimento di Libet prova che le cose stiano così; dunque, sino a quando non verranno portate prove in questo senso, i fautori del libero arbitrio saranno autorizzati a sostenere che, nella situazione sperimentale libetiana, una decisione volontaria del soggetto sperimentale inizia la catena causale che lo porta a piegare il dito

Nel libro sostieni che, come ha suggerito Hilary Putnam (1926-2016, filosofo e matematico statunitense), per risolvere la questione del libero arbitrio, bisogna prima di tutto imparare che ci sono tanti sensi diversi di rispondere alla domanda “perché?”. Puoi spiegarci di che si tratta?

In filosofia, si chiama monismo qualsiasi dottrina che tenda alla riduzione della pluralità degli esseri a un unico principio o a un unico processo. Il monismo causale, molto diffuso in ambito anglosassone, implica che tutti i casi di causazione siano riducibili alla causalità fisica (se non direttamente microfisica). Il pluralismo causale, rispolverato da Putnam, si ispira da una parte ad Aristotele e dall’altra al pragmatismo secondo cui “esistono tanti tipi di causa quanti i sono i sensi del termine perché”. Un esempio può aiutare a chiarire questa idea. Immaginiamo che un individuo abbia un infarto. Possiamo chiederci, naturalmente perché ciò sia accaduto. Se però questa domanda è chiara, non è chiaro quale sia la risposta giusta. Le possibili risposte legittime sono molte e per rispondere correttamente di volta in volta bisogna guardare al contesto in cui la domanda viene posta. Se, per esempio, la ragione dell’infarto viene chiesta a un fisiologo, la risposta si baserà sulla ricostruzione dei processi causali che hanno portato all’occlusione di un’arteria dell’infartuato; se a spiegare l’accaduto fosse invece il medico curante del poveretto, la causa dell’infarto potrebbe essere individuata, per esempio, nel fatto che il paziente non è stato diligente nell’assunzione dei farmaci che gli erano stati prescritti; uno studioso di statistica medica potrebbe fare riferimento ai fattori ereditari di rischio nella storia familiare dell’infartuato; un familiare potrebbe invece addossarsi la responsabilità dell’evento per non essere stato abbastanza convincente nello spiegare all’infartuato quali comportamenti avrebbe dovuto evitare; e così via. Tutte queste spiegazioni hanno carattere causale, ma sono molto diverse tra loro. E nessuna è la spiegazione corretta: tutte, prese nel giusto contesto, possono esserlo. Sono dunque i contesti in cui si cerca di spiegare un determinato evento a indicare quale tipo di spiegazione causale può essere, di volta in volta, adeguato allora scopo. In questo modo la nozione di causalità e quella di spiegazione sono intrecciate, ma nessuna delle due ha prevalenza sull’altra.

Vorrei proporti due riflessioni sul significato della questione del realismo nell’attuale contesto sociale e politico. A un certo punto sottolinei un importante collegamento tra esercizio del libero arbitrio e istruzione. Mi sembra un punto in comune con la tradizione razionalistica, rappresentata per esempio da Spinoza e Leibniz, in cui si insiste sul fatto che maggiore conoscenza corrisponde a maggiore libertà. Puoi spiegarci come la pensi e perché si tratta di una questione attuale?

In realtà, noi oggi sappiamo dalle scienze cognitive che siamo molto meno liberi di quanto ci piacerebbe credere. I condizionamenti che subiamo sono molto profondi e spesso prendiamo decisioni per ragioni che ci sono del tutto oscure (anche se non ce ne rendiamo conto). In realtà, però, per allargare questo limitato spazio di libertà qualcosa si può fare: quando abbiamo consapevolezza dei fattori in gioco in una scelta e ponderiamo con attenzione su quale sia la scelta migliore, facendo attenzione ai fattori che potrebbero fuorviarci, la nostra mente cosciente può in effetti giocare un ruolo importante. Solo che per fare ciò c’è bisogno di consapevolezza, capacità di analisi della realtà e abilità di ragionamento: elementi che solo l’istruzione può aiutarci a sviluppare.

Pensi che la questione abbia un nesso con quello delle due culture, scientifica e umanistica, e sull’esigenza di avvicinarle nella formazione scolastica e universitaria?

Oggi molti umanisti continuano a ignorare la scienza o a minimizzarla, errore terribile, ma la bilancia si è spostata: il peso della scienza a livello politico e culturale è diventato preponderante. Solo che oggi è anche la cultura scientifica a ignorare quella umanistica. Altro errore terribile. La cultura è una e una sola e non la si può dividere in una parte buona e in una da buttare, come fosse una banana. Un cittadino consapevole e, per quanto possibile, autonomo deve padroneggiare sia le scienze sia le discipline umanistiche.

A proposito del nesso tra scienza e realtà, sembra che la questione del realismo abbia un rilievo sociale e politico. Di recente si discute molto sul fatto che la rappresentazione del mondo sia condizionata dal meccanismo delle “bolle” sui social network, in cui ciascun individuo tende a trovare una conferma delle proprie concezioni, indipendente dalla rispettiva evidenza su cui queste si possono fondare. D’altra parte proliferano teorie alternative a quelle scientifiche, accusate o sospettate di essere il frutto di interessi di “poteri occulti”, e questo finisce col produrre diffusi e radicali conflitti di opinione che hanno importanti conseguenze politiche. Secondo alcuni osservatori questa situazione favorirebbe una polarizzazione lacerante nella società e metterebbe a repentaglio la democrazia. È una situazione che ricorda quella che un secolo fa ispirò la nascita della “filosofia scientifica” che mirava appunto a difendere uno spazio di ragioni universali e comuni in un’epoca di forti polarizzazioni ideologiche, irrazionalismo filosofico e crisi della democrazia. Pensi che il realismo filosofico possa o debba giocare un ruolo politico nel mondo di oggi?

Assolutamente sì: assumere che molti dei problemi che ci poniamo ogni giorno abbiano soluzioni oggettive e che esistono metodi razionali per trovare queste soluzioni è un elemento fondamentale di ogni decente discussione pubblica. Ci sono, però, difficoltà che non si possono ignorare: in particolare, alcuni aspetti della nostra complessa struttura cognitiva. Nel mondo ipercomunicativo dei social media tutti parlano di tutto, sempre. Il risultato è una cacofonia terribile, in cui il parere degli esperti è equiparato a quello dei neofiti e le discussioni degenerano spesso in risse da angiporto. Aristocraticamente, Umberto Eco scriveva che i social media “danno diritto di parola a legioni di imbecilli” (attirandosi così l’ira dei legionari).  Insomma, chi deve tacere e quando? Chi deve rimanere in silenzio mentre gli altri parlano? La risposta è semplice: dipende dalle situazioni. Per ognuno di noi ci sono casi in cui dovremmo rimanere in silenzio – o, al massimo, dovremmo parlare con grande prudenza, rispettando l’opinione di chi ne sa più di noi. Le cose non vanno però affatto così. E la ragione è che nessuno di noi – nessuno! – sa veramente quale sono i propri limiti conoscitivi. Pochi anni fa due psicologi hanno individuato sperimentalmente una comunissima (anzi universale) distorsione cognitiva: più un individuo è incompetente in un determinato campo, meno se ne rende conto. E ciò spiega perché ci sono milioni di epidemiologi, di commissari tecnici, di esperti di scienze dell’ambiente, di critici d’arte e di politologi. In tutti questi campi chi dovrebbe tacere e ascoltare i veri esperti (o, almeno, dovrebbe interloquire con grande rispetto), spesso straparla, pretendendo che la propria opinione sia considerata tanto rispettabile quanto quella dei veri esperti.

Quindi bisogna semplicemente contenersi e affidarsi agli esperti?

Due osservazioni. Primo, anche gli esperti sono vittime, e anche di frequente, di tale distorsione cognitiva perché si portano dietro la convinzione di essere esperti anche quando dicono la loro su campi di cui non sono padroni. E così l’autorevolezza si tramuta in sicumera (basti pensare all’attualità: agli esperti di anestesia e rianimazione che si autonominano esperti di epidemiologia, e viceversa). Secondo, non è che gli esperti siano infallibili: anche loro sbagliano, e frequentemente. Ma ciò non significa che le loro opinioni, quando concernono i campi di cui sono veramente esperti, non vadano prese in maggiore considerazione di quelle dei non esperti. Risultato: Umberto Eco aveva ragione. Internet dà la parola a legioni di imbecilli, che starnazzano invece di ascoltare chi ne sa di più. Solo che, a seconda dei casi, ognuno di noi può essere il legionario di turno.

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