Uno degli slogan sempre più utilizzati per semplificare situazioni al
contrario quanto mai complesse è quello della “green economy”, presentata come
una soluzione facilmente adottabile che, magicamente, consentirà di salvare il
pianeta, l’ambiente e, al contempo, l’economia, la sempiterna crescita, e quindi
gli stessi nostri stili di vita. Peccato che al momento non solo non si stia andando
molto oltre il citarlo a dismisura, ma che, se appena appena si cerca di
tradurlo in percorsi virtuosi concretamente attivabili, si manifestano non
poche complicazioni di ordine tecnico e politico. Il seguente articolo
evidenzia con rigore e chiarezza quelle che stanno emergendo nella auspicata
transizione energetica, ossia nell’abbandono dell’energia prodotta con combustibili
fossili. Lo pubblichiamo, convinti della sua validità, perchè:
- evidenzia molto bene che, scientificamente e tecnicamente, andare oltre
gli illusori slogan non è, e non sarà, operazione facile, ammesso e non
concesso che quantomeno le volontà politiche a livello mondiale convergano in
questa direzione, aspetto tutt’altro che scontato;
- fa conoscere, grazie ad una ricostruzione storica molto dettagliata, tutte
queste notevoli difficoltà di ordine
tecnico-politico nell’individuare e attivare alternative soddisfacenti;
- ed infine, nella parte finale che abbiamo evidenziato in carattere blu, sollecita
alla consapevolezza che, se anche si arriverà ad una vera svolta energetica,
questa non potrà soddisfare la propensione energivora di una umanità di otto
miliardi di individui sempre più votati a consumi energeticamente insostenibili
Richiamando quindi alla consapevolezza che la transizione energetica,
come più in generale un nuovo modello di sviluppo, non potranno realizzarsi
solo con l’ennesimo soccorso della scienza e della tecnologia, e che gli slogan
vuoti dovranno quindi essere riempiti da un radicale ripensamento delle idee di
fondo che guidano l’economia, la società, le nostre vite.

La transizione energetica
non sarà facile né indolore
Le tante incognite
attorno all'abbandono,
sempre più urgente,
dei combustibili fossili.
Articolo di Alessio Giacometti (Sociologo dell’ambiente collabora con diverse riviste online) – Rivista
online “Il Tascabile”
In Una fantasia del dottor Ox (1872), racconto breve tra i meno noti di Jules Verne, uno scienziato scaltro e affabulatore si offre di rinnovare il sistema di illuminazione di Quinquendone, la più placida tra le città fiamminghe. A convincere i flemmatici abitanti è la mirabolante prospettiva di alimentare il loro piccolo borgo con una nuova fonte di energia – il gas ossidrico – che il dottor Ox promette di ricavare in abbondanza scomponendo l’acqua in idrogeno e ossigeno. Per di più, millanta di poterlo fare senza “nessuna sostanza costosa, né platino né storte, né combustibile, nessuna apparecchiatura delicata per produrre isolatamente i due gas”. A Quinquendone rimangono stupefatti: hanno di fronte l’utopia di ogni civiltà, la soluzione facile e lungamente attesa all’annoso problema dell’approvvigionamento energetico. Nel giro di poco si scopre che la fantasia del diabolico Ox è in verità quella di indurre nella cittadina uno stato di diffusa sovreccitazione attraverso un esperimento di perturbazione atmosferica. La brama energetica che Verne relega sullo sfondo del suo racconto rimane così sospesa, e giunge insoluta fino ai giorni nostri: come i quinquendoniani, anche noi siamo sedotti dall’idea che addomesticheremo presto e definitivamente una nuova fonte di energia, copiosa in natura ed eternamente rinnovabile, pulita e riparatrice delle tante avarie che guastano il mondo. Si presentasse un nuovo Ox, agitando in mano la tecnologia per catturare l’energia del futuro, ne finiremmo tutti infatuati e forse circuìti. Oggi sono diverse le fonti energetiche candidate a rimpiazzare le concorrenti fossili, che tuttavia tanto fatichiamo ad abbandonare. Per quanto i propositi della decarbonizzazione siano lodevoli e necessari, i numeri del fossile appaiono invalicabili e fanno decisamente impressione: ad ogni secondo che passa, bruciamo complessivamente 250 tonnellate di carbone, 1.000 barili di petrolio e 105.000 metri cubi di gas metano, per un totale 1.000 tonnellate di anidride carbonica riversate in un’atmosfera già satura di gas serra. Tradotto in consumi percentuali, il 34% dell’energia che alimenta il mondo proviene ancora dalla combustione del petrolio, il 27% dal carbone, il 24% dal gas, con solo un misero 15% da nucleare e fonti rinnovabili. Eppure tendiamo a persuaderci che l’abbandono dei combustibili fossili possa essere roseo e gestibile, controllabile e indolore. Inquadriamo il rompicapo della sostenibilità delle fonti in una razionalità manageriale e ingegneristica, che per il momento ci pacifica e rassicura. Parliamo di energia soltanto nei termini normalizzanti e consolatori della “transizione”, con l’effetto di oscurare il profondo disorientamento che accompagna in realtà la corsa alla decarbonizzazione. L’esercizio di immaginare una transizione energetica globale spalanca infatti la vertigine di un futuro che rimane incerto, in cui l’energia disponibile tra qualche decennio potrebbe anche essere inferiore a quella che abbiamo conosciuto in due secoli di “società del carbonio”. Usciamo da un vecchio mondo fossile inebriato dall’opulenza energetica, ed entriamo in quello nuovo in cui potremmo ritrovarci a non avere abbastanza energia per sostenere gli alti scopi che ci siamo prefissi di raggiungere e un tenore dei consumi che non cessa di espandersi.
Petrolio resiliente
Il petrolio viene estratto perforando lo
scisto di arenaria che lo imprigiona, da cui stilla per gradiente di pressione.
Fino all’80% del liquido ristagna sotto terra, ma esistono diversi sistemi per
recuperarne una parte ulteriore con iniezioni di acqua o gas che la spingono in
superficie. “Oggi i giacimenti
tradizionali hanno perciò fattori di recupero tra il 20 e il 40%”, osserva
nel suo Elogio del petrolio (Feltrinelli, 2019) Massimo
Nicolazzi, professore di economia energetica all’Università di Torino. “Il perfezionamento tecnologico, il fattore
‘T’, in questi anni ci ha fatto più che raddoppiare il petrolio che c’era”.
Sembrava lì lì per finire, e invece ne abbiamo ancora in abbondanza. Specie
dopo l’introduzione della tecnica della fratturazione idraulica, o fracking,
che ricorre a liquidi chimici sparati lateralmente ad alta pressione per
frantumare la roccia impermeabile e aumentare così il liquido che può essere
risucchiato dalla dolina. La storia recente del petrolio ha conosciuto diversi
momenti di carenza dell’offerta, ma in generale la domanda è sempre rimasta
inferiore alla disponibilità potenziale.
“Il problema del petrolio”, spiega Nicolazzi, “è che strutturalmente ce ne è (quasi) sempre troppo”. La sua fine
dipenderà da ragioni di tipo economico più che dalla disponibilità reale della
materia prima: “più aumentano i prezzi e
più aumenta il petrolio; perché all’aumentare dei prezzi fa riscontro la
possibilità di valorizzare e commercializzare petrolio con costi di produzione
più alti”. E tuttavia, come le crisi energetiche e
diplomatiche dei decenni scorsi, neanche la pandemia di COVID-19 è per ora
riuscita a sfiancare l’industria petrolifera fino al dissesto, sebbene il
crollo dei prezzi abbia messo fuori mercato diversi produttori di greggio
negli Stati Uniti e in Medio Oriente. A dispetto del perdurante stato di
incertezza e della minaccia di lockdown localizzati per contenere nuove ondate
di contagi, l’ultimo Oil Market Report redatto a inizio settembre
dall’International Energy Agency (IEA) conferma – non senza cautele – che è in
corso un “delicato riassestamento” del mercato: nel 2020 la domanda globale di
petrolio si è contratta di 8,4 milioni di barili al giorno rispetto al 2019, ma
con la graduale ripresa delle attività produttive i consumi potrebbero tornare
quasi ai livelli pre-crisi già entro la fine dell’anno. Anche se le previsioni
variano di giorno in giorno, sempre secondo l’IEA il prezzo contenuto
del greggio rischia poi di rallentare gli investimenti in fonti rinnovabili: un
fenomeno opposto a quel che avvenne negli anni Settanta, quando i falsi allarmi
circa la fine del petrolio, il freno al suo libero commercio internazionale e la
conseguente impennata dei costi spinsero i Paesi importatori a guardare con
interesse crescente alle fonti di energia alternative. Tra queste, quella
che in quegli anni sembrò essere più promettente fu indubbiamente l’energia
nucleare, ricavata in grandi quantità dalla scissione dei nuclei di atomi
pesanti come l’uranio e il plutonio. Parallelamente si cominciò a sperimentare
anche la fusione di atomi leggeri quali il deuterio e il trizio, simulando
reazioni analoghe a quelle che avvengono nel nocciolo incandescente delle
stelle. Nonostante oltre mezzo secolo di tentativi, però, la fusione atomica
controllata non è ancora oggi possibile: all’Università del Nuovo Galles del
Sud ci stanno provando senza combustibili radioattivi e a
temperature più basse, mentre all’International Thermonuclear Experimental
Reactor (ITER) hanno da poco avviato l’assemblaggio del primo rettore a
plasma autoriscaldante al mondo e promettono di concludere i lavori entro
il 2025, anche se le previsioni attestano che si potrà entrare in produzione di
energia soltanto nel 2035. “Sarebbe
[questa] la soluzione a tutti i nostri problemi?”, si chiede in No
Planet B (Il Saggiatore, 2020) Mike Berners-Lee, professore al Social
Future Institute dell’Università di Lancaster. “Si può credere che la fusione nucleare risolverebbe tutti i nostri
problemi oppure che sarebbe un disastro totale. Nel primo caso, significa che
ci fidiamo di ciò che farebbe la nostra specie se disponesse di ancor più
energia. Nel secondo, pensiamo che faccia già abbastanza danni con quella che
ha”. Che valga la pena accontentarsi della più collaudata, ma meno
entusiasmante fissione? Non vi è poi alcuna sicurezza che si possa arrivare a
controllare la fusione nucleare in tempo utile. “Gli esempi ben noti del radar, degli Spitfire e delle bombe nucleari
dimostrano che spesso è anche possibile sviluppare una tecnologia molto
rapidamente. Tuttavia le ricerche sul cancro mostrano che talvolta, a dispetto
dei nostri sforzi, non siamo in grado di arrivare alla svolta immediata che
vorremmo raggiungere”. Chissà se il clima avrà la clemenza di tollerare
tanto a lungo la nostra inadempienza.
Ascesa e declino del nucleare
Che fosse possibile ricavare una grande
quantità di energia dalla scissione dei legami atomici divenne evidente il 2
dicembre 1943. “Quel giorno”,
scrivono gli storici dell’ambiente John McNeil e Peter Engelke nella Grande
accelerazione (Einaudi, 2018), “il
rifugiato politico Enrico Fermi sovrintendette alla prima reazione nucleare
controllata [della storia]”. L’energia sprigionata dalla frantumazione di
atomi pesanti fece subito sembrare ridicole tutte le altre fonti note, comprese
quelle fossili. Il battesimo della nuova forma di energia fu militare, con le
bombe sganciate di lì a poco su Hiroshima e Nagasaki. Nei quarantacinque anni
successivi Stati Uniti e Unione Sovietica produssero complessivamente circa
115.000 armi nucleari e ne testarono 1.715, ma nessun altro ordigno atomico
venne più impiegato in una vera operazione militare. Dopo Hiroshima e Nagasaki,
ci volle un altro decennio prima che la stessa energia prodotta per caricare le
bombe atomiche fosse utilizzata per rifornire di elettricità la rete pubblica.
Il primo reattore nucleare a uso civile venne costruito nei pressi di Mosca nel
1954, ma subito seguirono centrali dalle dimensioni decisamente più imponenti
in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. “A
metà degli anni Cinquanta”, ricordano McNeil e Engelke, “le prospettive dell’energia nucleare
sembravano radiose e inesauribili”. In una manciata di lustri si raggiunse
il 10% di energia mondiale prodotta da fonte atomica, ma poi si verificarono i
meltdown di Three Mile Island e Černobyl’ che ridimensionarono enormemente le
aspettative sul nucleare civile. “Dopo
Černobyl”, notano McNeil ed Engelke, “la
logica ecologica ed economica che sosteneva la costruzione di centrali nucleari
apparve improvvisamente meno convincente. La percentuale di elettricità che il
mondo ricavava dall’energia nucleare, che era velocemente cresciuta, si
stabilizzò per i vent’anni successivi”. La fame di elettricità –
globalmente, +70% nell’ultimo ventennio – ha vinto però sulla paura, e dai
primi anni Duemila molti paesi tecnologicamente avanzati ma sprovvisti di
riserve fossili proprietarie hanno inaugurato la costruzione di nuovi reattori.
“Le preoccupazioni per la sicurezza
nucleare portarono a riforme, a controlli più rigidi e a maggiori costi di
costruzione e di utilizzo”, aggiungono McNeil ed Engelke, il tutto con
l’obiettivo di far tornare a essere socialmente desiderato e dunque
politicamente realizzabile il ricorso all’energia nucleare. Nel 2011, però, il
disastro alla centrale di Fukushima Dai-ichi spinse il Giappone e diversi altri
Paesi a chiuderla definitivamente con il nucleare – l’Italia, si ricorderà, via
referendum. Oggi il nucleare vale ancora il 10% della generazione elettrica
mondiale, e dove viene praticato le emissioni pro capite di CO₂ sono effettivamente più basse. “Dopo le sindromi del male che hanno indotto (in
Occidente) coazione a chiudere”, commenta Nicolazzi, “spira aria di ripensamento”, persino tra gli ambientalisti. Nel
suo ultimo libro, Novacene. L’età dell’iperintelligenza (2020),
lo scienziato centenario e fautore della teoria di Gaia, James Lovelock, avanza
un programma in quattro punti per far fronte al riscaldamento globale, uno dei
quali è proprio il ritorno massiccio all’energia nucleare: “è il metodo più efficace per produrre elettricità”, spiega Lovelock,
“e l’indice di mortalità nei siti di produzione dell’energia nucleare è di gran
lunga inferiore a quello delle altre forme di energia, comprese le
rinnovabili”. Nel “Novacene”, l’epoca geologica che Lovelock immagina
susseguire l’Antropocene sarà l’energia nucleare ad alimentare le megalopoli
iperconcentrate, i sistemi di intelligenza artificiale per il controllo della
temperatura terrestre e i poderosi progetti di geoingegneria – gli
altri tre punti del suo discutibile piano per salvare l’umanità dal collasso
climatico. Per la decarbonizzazione del settore energetico si stima sarebbe
sufficiente aumentare la produzione di elettricità da fonte nucleare dell’80%,
ma rimangono due asperità ancora irrisolte: la gestione delle scorie e il
consenso dell’opinione pubblica. In sessant’anni di produzione nucleare, i soli
Stati Uniti hanno accumulat oltre 200 milioni di litri di carburante
nucleare esausto e radioattivo, per i quali il governo centrale non ha ancora
trovato un sito di stoccaggio sicuro e definitivo. Per quanto riguarda
l’accettazione da parte dell’opinione pubblica, la generazione di centrali oggi
in fase di progettazione sta virando verso combustibili resistenti agli
incidenti e reattori modulari “intelligenti” di più piccole dimensioni,
meno produttivi ma pare sicuri abbastanza da poter essere addirittura
inseriti in contesti urbani. L’elettorato sensibile alla crisi climatica sembra
tuttavia prediligere le fonti rinnovabili e in particolare l’energia solare, al
punto che il “rinascimento nucleare” propugnato da Lovelock rimane decisamente
poco probabile. L’abbandono dei combustibili fossili significa piuttosto
ritorno a sole, vento e acqua. “Li
abbiamo emarginati in nome della superiore efficienza del fossile”,
rivendica Nicolazzi nel suo libro, “e ora
li stiamo chiamando a sostituirlo”.
Via dai fossili
Contrariamente a quanto si possa pensare,
l’interesse per le fonti energetiche rinnovabili è un fatto tutt’altro che
recente. Già nell’Ottocento erano in azione mulini a vento o ad acqua
per la molitura dei cereali, con la corrente dei fiumi che dal 1878 cominciò
anche a essere incanalata in turbine per la produzione di elettricità. Fu però
solo dopo il 1945, chiariscono McNeil ed Engelke, che “il mondo conobbe un periodo di sfrenata costruzione di dighe, che ebbe
il suo apice negli anni Sessanta e Settanta, quando la maggior parte dei siti
migliori nei paesi ricchi era già stata utilizzata”. Con le centrali
idroelettriche viene eluso il problema dell’intermittenza dell’acqua dei fiumi,
accumulata in grossi bacini utilizzabili anche per l’irrigazione o
l’itticoltura. Non mancano tuttavia gli inconvenienti: i bacini idrici e le
dighe possono cedere, causando enormi disastri. Per non parlare poi della
deturpazione del paesaggio naturale e del trasferimento coatto delle
popolazioni rivierasche che la creazione di una centrale idroelettrica quasi
sempre comporta. I corsi d’acqua attraversano infine le nazioni, e non è raro
che la costruzione di una diga inneschi crisi diplomatiche e geopolitiche, come
sta accadendo con la più grande diga d’Africa in fase di riempimento in
Etiopia. Nonostante i limiti evidenti, nei decenni scorsi l’idroelettrico ha
trovato sostenitori entusiasti un po’ in tutto il mondo, soprattutto nei paesi
emergenti. Metà delle centrali costruite dopo il 1950 si trova in Cina,
dove primeggia la diga delle Tre Gole, bersaglio di critiche recenti per
l’incapacità di contenere le esondazioni del Fiume Azzurro dovute alle
precipitazioni record degli ultimi mesi. In India, invece, il primo
ministro degli anni Cinquanta Jawaharlal Nehru definì le centrali
idroelettriche i “templi dell’India moderna” e puntò forte sull’energia
elettrica prodotta dall’acqua. Ma tra le rinnovabili l’idroelettrico – così
come l’energia mareomotrice o quella ricavata dalla cinetica delle piogge –
ricopre oggi un ruolo soltanto vicariante, e con ogni probabilità non può
essere protagonista della transizione energetica che ci dovrebbe condurre fuori
dalla parentesi fossile. Neanche l’energia eolica pare avere tutti i
requisiti per mettere fuori dai giochi da sola petrolio, carbone e gas
naturale, sebbene impianti on- e offshore permettano di generare energia
elettrica a prezzi ormai competitivi. Sulla Terra il vento certamente non
scarseggia: si stima che se solo il 20% delle raffiche che spirano sulla
stratosfera fosse catturato, sarebbe possibile produrre sette volte più energia
elettrica di quanta ne viene oggi utilizzata in tutto il mondo. In basso però,
nella mite atmosfera, le raffiche sono decisamente più blande e intermittenti,
anche se la loro intensità sta aumentando proprio per via del riscaldamento
globale. Le turbine eoliche attualmente in uso generano una quantità di energia
elettrica equivalente a quella di 270 centrali nucleari, ma lavorano a tassi di
entropia ancora elevati: come scrive l’economista indiano Prem Shankar Jha nel
suo L’alba dell’era solare (Neri Pozza, 2019), “la trasformazione dell’energia eolica passa
attraverso un numero così alto di fasi di conversione che, alla fine del
processo, l’energia utilizzabile è solo una frazione di quella originaria”.
Esistono tuttavia dei prototipi di impianti eolici galleggianti e
mini-eolici particolarmente efficienti, che sfruttano l’azione di magneti per
moltiplicare la frequenza di oscillazione indotta dal vento e dunque la
produzione di energia. La fuoriuscita dal fossile dovrà passare
principalmente dall’energia catturata dal sole, “l’unica risorsa di cui abbiamo certezza che ci ecceda”, assicura
Nicolazzi. “Il resto è nicchia” –
anche se c’è chi sostiene che potremmo andare per il 100% a geotermico, nonostante
i rischi per la salute e un impatto ambientale tutt’altro che
trascurabile. L’energia solare piove sul nostro pianeta in modo continuo e
abbondante, con livelli di concentrazione sufficientemente bassi da permettere
la vita di piante e animali. “In un’ora
il Sole regala alla Terra più energia di quanta il genere umano non ne consumi
in un anno”, comparano McNeil ed Engelke, “e un anno di generosità solare equivale a una quantità di energia
superiore a quella contenuta in tutti i combustibili fossili e nell’uranio
presenti nella crosta terrestre”. La grande sfida è allora quella di
carpire l’energia del sole per via diretta e non più solo indiretta, tramite
fotosintesi o combustibili fossili. Da quando è cominciata la produzione
quarant’anni fa, il costo di una singola cella fotovoltaica è precipitato
grosso modo da 70 dollari a 70 centesimi, ma come per l’eolico la possibilità
di ricavare elettricità dall’irraggiamento solare è limitata da una densità di
potenza – l’energia prodotta per unità di spazio occupato da pannelli o pale
eoliche – per sua natura finita. Certo, “se
[oggi] coprissimo di pannelli solari meno dello 0,1 per cento della superficie
delle terre emerse”, osserva Berners-Lee, “saremmo in grado di soddisfare il fabbisogno energetico attuale”.
Ma da mezzo secolo a questa parte i nostri consumi di energia crescono del 2,4%
l’anno, un ritmo esponenziale che entro il 2050 richiederebbe l’installazione
di 700 miliardi di pannelli solari per azzerare le emissioni di gas serra. Per
quanto l’efficienza delle tecnologie possa aumentare – al momento le frontiere
sono l’agro-fotovoltaico, i pannelli flessibili in perovskite, quelli
bifacciali con celle su entrambi i lati, trasparenti da sostituire
alle finestre degli edifici e “antisolari” per funzionare anche al buio – è
evidente già da oggi che prima o poi raggiungeremo un limite di saturazione. “Tutto dipende dalla nostra capacità, per la
prima volta nella storia, di limitare intenzionalmente la crescita della
richiesta energetica”. Per catturare l’energia solare con le celle
fotovoltaiche e convertirla in elettricità accumulata in batterie servono poi
tellurio, litio e cobalto in abbondanza, tre metalli rari (o “minerali
critici”) di cui non è chiaro se la Terra disponga a sufficienza. Secondo
Shankar Jha, “anche qualora tutto il
tellurio presente nel mondo fosse conservato per costruire i pannelli
fotovoltaici, la loro efficienza dovrebbe essere almeno duecento volte maggiore
per soddisfare l’attuale domanda di energia ricavata dai combustibili fossili”.
L’estrazione del cobalto è pressoché monopolio della Cina, che ha in
concessione il 90% dei giacimenti mondiali e sta per questo spingendo i
competitor statunitensi a progettare batterie cobalt-free, mentre il prezzo del
litio – che all’Università di Stanford stanno cercando di filtrare di
filtrare dall’acqua di mare – ha preso a essere imprevedibilmente volatile
negli ultimi anni. “Qualcuno forse sta
cominciando a giocare forte con produzione e scorte”, ipotizza Nicolazzi, “sembra quasi di parlare di petrolio”.
Certo, i minerali critici possono potenzialmente essere riciclati, ma ad oggi
mancano le tecnologie e un piano internazionale per la gestione a fine ciclo di
batterie e pannelli solari esausti. Sole e vento circolano poi sulla
superficie terrestre in modo intermittente, il che vuol dire che non generano
energia in forma continua. Pareggiare l’elettricità che entra attualmente nella
rete elettrica con quella che esce impiegando soltanto le rinnovabili è dunque
implausibile, a patto che non si riesca a immagazzinare l’energia elettrica di
origine solare ed eolica in dei grossi accumulatori (in Regno Unito ne stanno
costruendo uno ad aria compressa) da cui attingere per alimentare la rete
quando vento e sole sono scarsi. “Su come
evolverà e con che tempi e costi la tecnologia dell’accumulo”, commenta
Nicolazzi, “ci giocheremo la misura della
nostra capacità di dispensarci dal fossile nella generazione elettrica”. Ma
nel mondo si sperimentano anche altri sistemi di cattura e accumulo dell’energia
solare, senza bisogno di passare da elettricità e batterie al litio. Il più
incoraggiante è probabilmente quello degli impianti solari termodinamici, che
immagazzinano l’energia sotto forma di calore. Per mezzo di specchi
riflettenti, i raggi del Sole vengono concentrati su una matrice di sali fusi,
principalmente nitrati di sodio e potassio, in grado di accumulare fino a
1.000° C il 95% dell’energia irradiata e di trattenerla per oltre 24 ore.
Heliogen, una delle principali compagnie di produzione di energia solare
concentrata, asicura di riuscire a concentrare l’energia solare fino
a 1.500° C, una quantità di calore che sarebbe sufficiente a produrre senza
l’impiego di combustibili fossili il cemento, una delle industre in
assoluto più inquinanti.“Il mondo ha
bisogno sia dell’energia fotovoltaica sia di quella solare termodinamica”,
afferma conciliante Shankar Jha. “L’esigenza
dell’umanità di trovare alternative al carbone e al gas naturale è così forte
da lasciare spazio a entrambe le tecnologie”. I sistemi di produzione
dell’energia solare concentrata sono però ancora in via di sviluppo e
necessitano di ulteriori perfezionamenti. In questo tempo di passaggio, sarà
bene diversificare gli investimenti e finanziare la ricerca anche di altre
fonti di energia. Il rischio di finire in vicoli ciechi energetici è tutt’altro
che trascurabile.
Vicoli ciechi energetici
Secondo Shakar Jha, sono diversi i vicoli
ciechi in cui rischiamo di incappare nella complicata corsa alla
decarbonizzazione. Il primo è quello dell’idrogeno prodotto per via
elettrolitica dall’acqua. Nonostante i massicci finanziamenti pubblici e i
numerosi tentativi in corso da parte di diverse compagnie energetiche, il
costo dell’elettrolisi rimane per ora insostenibile, per questo diverse
start-up del settore hanno ripiegato sulle più convenzionali tecniche di
gassificazione. Alcuni grandi marchi del trasporto su gomma stanno
investendo forte sullo sviluppo di automobili a idrogeno, ma il suo
impiego ideale riguarda potenzialmente lo stoccaggio dell’energia tramite
conversione dell’elettricità prodotta da impianti solari ed eolici, così come
l’alimentazione diretta di navi merci e aerei, per ovvie ragioni inadatti a
tollerare il peso di gravose batterie al litio.
Anche le tecnologie a emissioni negative,
di cattura e stoccaggio del carbonio (CCS o CCUS, se si include anche il suo
possibile utilizzo), sono ancora acerbe: l’idea di fondo è quella di filtrare
l’anidride carbonica dai gas di scarico – o direttamente dall’aria nel caso
delle DAC, direct-air capture units – farne combustibile
sintetico per l’aviazione oppure comprimerla e stoccarla in profondità,
dove la pressione elevata dovrebbe riuscire a immobilizzare il carbonio in modo
permanente. Nella sperimentazione di CCS e DAC investiamo globalmente 50
miliardi di dollari l’anno, ma catturare la CO₂ con tecnologie a emissioni negative ci
costa ancora troppo perché il sistema si autosostenga (circa 100 dollari a
tonnellata di anidride carbonica per 2.000 miliardi di tonnellate emesse dalla rivoluzione
industriale a oggi fa 200 000 miliardi di dollari). Più di recente si è
iniziato a discutere di bioenergia ricavata dalla combustione di fitomasse con
cattura e stoccaggio del carbonio (BECCS). Un esempio di cui si sente spesso
parlare è quello del biochar, un tipo di carbone sintetico prodotto per
mezzo della pirolisi, processo di combustione a bassa densità di ossigeno che
produce energia ma al tempo stesso imprigiona la CO₂. In alternativa, il carbonio sequestrato dalla
crescita di alberi e altre fitomasse potrebbe essere sepolto senza passare
dalla combustione, ma per ora ogni ipotesi di ingabbiare efficacemente
l’anidride carbonica con CCS, DAC o BECCS rimane allo stadio di
supposizione. Già praticabile sembra essere invece “meteorizzazione arricchita”,
che consiste nello spargimento ambientale di polvere di rocce alcaline come
basalto, dunite e olivina, capaci di assorbire naturalmente la CO₂ e di trattenerla in maniera stabile
– a quanto pare più della silvicoltura, perché gli alberi possono
sempre bruciare, e del carbonio interrato, che potrebbe inquinare le falde
acquifere o riaffiorare in superfice. “Investire
in ricerca e sviluppo ci permetterà di trovare rapidamente la soluzione?”,
si chiede Berners-Lee a proposito di tutte queste diverse tecniche di
sequestro, note anche come scrubbing del carbonio. “Sarà come costruire la bomba atomica o come
trovare una cura per il cancro? Dobbiamo scoprirlo”. Ne va della vita di
tutti sapere se, in un modo o nell’altro, saremo in grado di ridurre la
concentrazione atmosferica di anidride carbonica oppure no. Come fonte
energetica di passaggio che dia tempo a fusione nucleare, solare termodinamico
e altre fonti rinnovabili di fare i conti con i propri limiti, Shankar Jha
suggerisce di guardare ai gas sintetici (tra i quali compare anche l’evocativo
“carburante solare”), compatibili con la rete di fornitura degli idrocarburi e
con i serbatoi delle auto oggi in circolazione. Fino a dieci anni fa pareva
fosse l’etanolo – l’alcol estratto dalla fermentazione dell’amido – il
combustibile “semi-rinnovabile” che ci avrebbe traghettati fuori dal fossile.
Veniva utilizzato per diluire la benzina in miscele fino al 20% (un po’ come
l’olio di palma per il biodiesel) ma, con una densità di potenza di 0,5-0,6 watt
di energia sprigionata per metro quadro coltivato a fitomasse, bisognerebbe
avere qualche pianeta di scorta per produrre biogas sufficiente a soddisfare i
consumi attuali. C’è il rischio che coltivare monocolture energetiche
(rinnovabili ma non per questo sostenibili) per le BECCS o per i gas sintetici
faccia schizzare in alto il prezzo delle colture e diventi più lucrativo
che seminare cereali per l’alimentazione umana, come peraltro sta già
succedendo nelle campagne venete e lombarde. Ecco che all’etanolo Shankar
Jha dichiara fermamente di preferire il metanolo, un biocarburante ottenuto
dalla gassificazione di “pressoché ogni tipo di biomassa di scarto, che si
tratti di liquami, rifiuti solidi urbani (inclusa la plastica) o residui
colturali”. Tant’è, ma sembra quasi che a parlare sia un nuovo Ox. Cercando di
fare ordine e un po’ di sintesi, appare evidente sin da ora che la ricetta per
l’abbandono dei combustibili fossili debba gioco forza contemplare un variegato
assortimento di fonti energetiche diverse, ma singolarmente insufficienti a
scalzare petrolio, carbone e gas naturale. Il tutto nell’attesa che “Madama Tecnologia” – come la chiama
Nicolazzi nel suo libro – trovi la quadratura del cerchio e indichi la via di
fuga meno dolorosa dalla parentesi fossile. Certo anche la politica deve fare
la sua parte, e lo stesso Nicolazzi ricorda che sono essenzialmente tre gli
strumenti di governance energetica cui fare ricorso per incoraggiare il
passaggio dalle fonti fossili a quelle rinnovabili: il divieto, la tassazione e il sussidio. Il divieto piace poco
agli economisti ortodossi, dal momento che il controllo centralizzato della
produzione di idrocarburi (offerta) ha un che di economia comunista
pianificata, mentre il contingentamento dei consumi (domanda) odora
inequivocabilmente di decrescita. L’ipotesi della tassazione poggia invece
sulla teoria economica secondo cui nel costo dei combustibili fossili
dovrebbero essere incluse le loro esternalità negative. Il problema è, in
questo caso, attribuire un valore economico preciso al danno ambientale
prodotto dalle emissioni di gas serra: alcuni studi lo stimano complessivamente
a circa 5.300 miliardi di dollari, una cifra poco superiore agli attuali 5.000
miliardi di spesa energetica mondiale. Includere le esternalità ambientali nel
costo finale dei combustibili fossili con una tassa piatta e regressiva
significherebbe quindi raddoppiare il prezzo dell’energia fossile, al netto
delle accise già esistenti. In alternativa alla carbon tax,
gli economisti che provano a fare i conti con il riscaldamento globale hanno
proposto il sistema dei “permessi di emissione”, o cap and trade: “con la carbon tax”, spiega Nicolazzi, “lo Stato fissa il prezzo ottimo, e al mercato lascia decidere la
quantità (di emissioni). Con il cap
and trade lo Stato decide la quantità (per definizione diversa da
zero) di emissioni e lascia che il mercato decida il prezzo”. In Unione
Europea, dove il sistema è stato introdotto nel 2005, si pagano mediamente 20
euro a tonnellata di CO₂ emessa e all’ultima COP25 di
Madrid si è a lungo discusso l’inasprimento delle quote di emissione,
purtroppo senza giungere a un accordo condiviso. Restano infine i sussidi, perché le
energie rinnovabili hanno un prezzo d’ingresso (ancora) alto per l’acquisto di
pannelli solari, sistemi di accumulo domestici e auto elettriche, ma il costo
marginale dell’energia prodotta è quasi zero e il ritorno sull’investimento,
alla lunga, certo. Basteranno tasse e sussidi a metterci tutti nelle condizioni
di dispensarci dai combustibili fossili? “Le
fonti rinnovabili sono elementi irrinunciabili per la costruzione di un regime
energetico fondato sulla giustizia climatica e sociale”, scrive su Effimera Samadhi
Lipari, sociologo dell’ambiente all’Università di Leeds. “Ne sono, però, anche condizione sufficiente?”.
L’ultima transizione
Siamo ormai al capolinea della società
termoindustriale, alimentata dai combustibili fossili. La tecnologia
“prometeica” per la prossima transizione energetica stenta a manifestarsi e
questo ci relega in un tempo di stallo, al quale potrebbe seguire una nuova
espansione o, al contrario, un’eventuale obbligata regressione. In quest’ansa della
storia dovremmo forse occuparci di immaginare un modo diverso di stare assieme,
meno avido di energia, magari più sobrio ed equo nelle aspirazioni materiali.
Viviamo invece come se una fonte inestinguibile e a zero emissioni di carbonio
dovesse fare la sua comparsa da un momento all’altro, anche se nessuno sa
prevedere esattamente quando. Continuiamo a bruciare le spoglie di creature
vissute milioni di anni fa aspergendone le ceneri nell’aria, consci del calore
che verrà e persuasi che il progresso tecnologico escogiterà da sé un
espediente improvviso e risolutorio, senza bisogno di sacrificare neanche i
consumi più immoderati. Già diversi anni fa, al Politecnico di Zurigo
hanno calcolato che con una potenza media pro capite di 2000 watt a
livello di energia primaria potremmo tutti condurre una vita sostenibile e più
che dignitosa, e tuttavia un cittadino medio europeo consuma oggi una quantità
di energia sei volte maggiore e uno statunitense addirittura dodici. Il “paradosso
di Jevons” e “l’effetto rimbalzo” ci invitano a diffidare di chi
punta tutto sull’efficientamento tecnico delle fonti, cui in genere consegue un
aumento dei consumi. “Funziona così”,
spiega Berners-Lee nel suo libro: “più
energia abbiamo, più ne possiamo usare per procurarcene altra e per inventare
metodi più efficienti e diversificati per acquisirla e utilizzarla”. In
assenza di un limite massimo globale ai consumi di energia, i miglioramenti
tecnologici nell’efficienza delle fonti non solo non riducono le emissioni di
anidride carbonica, ma finiscono addirittura per aumentarle. “Quasi ogni anno da quando esistono
testimonianze scritte, la nostra specie ha avuto a disposizione una quantità
maggiore di energia rispetto all’anno precedente”. Per Berners-Lee la
questione energetica si pone allora quale problema di bastevolezza: “come facciamo ad accorgerci che ciò che
abbiamo è sufficiente se volerne di più diventa controproducente?”. Oggi
l’abbondanza di calore, elettricità e combustibili di cui disponiamo è tale che
limitare i consumi, anziché provare di tutto per decarbonizzarli, ci pare
ancora un’assurdità. Le scienze sociali hanno appurato da tempo che oltre una
certa soglia benessere e felicità non sono più proporzionali ai consumi, siano
essi materiali o energetici, ma come indurre a vivere con meno energia chi ha
ormai maturato l’abitudine a sprecarla? Guardando alla storia delle transizioni
energetiche passate ci accorgiamo poi di come ogni nuova fonte di energia
addomesticata non vanifichi né supplisca l’uso delle precedenti, e al tempo
stesso renda necessario il passaggio alla forma successiva e più evoluta, in
una rincorsa tecnologica continua e apparentemente senza fine. In più, “i grandi cicli dell’addomesticamento delle
fonti energetiche si fanno sempre più brevi”, come avverte giustamente
Nicolazzi, e forse per la prima volta nella storia sappiamo di dover realizzare
una transizione energetica inaggirabile, vuoi perché le fonti fossili un giorno
finiranno, oppure perché ci risolveremo noi stessi ad accantonarle prima che ci
alterino troppo il clima. C’è da chiedersi se le prossime tecnologie di conversione
e utilizzo dell’energia che inventeremo riusciranno a essere un passo avanti
rispetto ai nuovi problemi generati. Esauriti o dimessi i fossili ed entrati
sperabilmente nell’era solare senza troppi smottamenti, è probabile che ci
ritroveremo in ogni caso con una disponibilità energetica ridotta, allora
dovremo coartare i consumi anziché contenerli spontaneamente e, per quanto
possibile, gradualmente. “Non abbiamo
nessuna certezza”, avvisa Nicolazzi, “che
vivere senza fossili sia compatibile con la crescita che i fossili ci hanno
garantito”. Al contrario, stiamo avviando una transizione energetica da
combustibili di maggiore a fonti di minore densità e potenza, un fatto che
l’umanità non ha mai sperimentato prima. L’alba dell’era solare ci riporta alle
fonti organiche originarie, vento e sole: “stiamo
avanzando verso il passato”, chiosa Nicolazzi, “il che a prima vista ci suggerisce l’idea che la transizione sia
intimamente retrograda”. Vien da pensare che la crescita compiutasi
nella parentesi fossile, la grande accelerazione dei consumi energetici e del
benessere materiale, non sia replicabile in alcun modo e sia stata soltanto un
inebriante e fugace deviazione collettiva di cui solo ora cominciamo a
ravvederci. Ci piace cullare il sogno di grandi avanzamenti tecnologici, ma se
non catturiamo abbastanza sole c’è da aspettarsi che col procedere della
decarbonizzazione avremo anche finito di crescere. Allora scopriremo quanto può
essere rovinosa, o liberatoria, l’inversione di marcia nella corsa del progresso.
Chiamiamola senza alcuna vergogna “decrescita”, felice o infelice avrà davvero
poca rilevanza.