Sembra proprio che si
stia purtroppo materializzando il rischio che l’invasione russa dell’Ucraina si
trasformi in un conflitto di lunga durata. Una
prospettiva che accentuerebbe, oltre al drammatico impatto sul popolo ucraino,
le tante problematiche legate, direttamente ed indirettamente, a questo tragico
evento. La reazione emotiva che ha attraversato, con accentuazioni anche molto
diverse, le opinioni pubbliche dell’intero Occidente si sta sempre più accompagnando
all’esigenza di andare oltre lo sdegno morale per l’aggressione per meglio
capire da una parte le dinamiche che possano spiegare quanto è successo e dall’altra
le prospettive che si potranno innescare. Ogni sforzo per raggiungere una pace
stabile e sostenibile deve necessariamente fare i conti con questi aspetti. Nel
nostro ambito abbiamo offerto, oltre ad alcuni post, un prezioso spunto di
riflessione con la conferenza di Gian Giacomo Migone dello scorso 14 Marzo, procediamo
in questo impegno con il seguente articolo/conversazione apparso sulla rivista
online La Tascabile che offre una competente panoramica ad ampio raggio sui
prossimi possibili sviluppi del conflitto e, più in generale, sugli scenari
geo-politici globali che ne potrebbero conseguire
Mappe mobili
Una conversazione con Alfonso Desiderio
su implicazioni e scenari dell’invasione russa in Ucraina (giornalista
professionista ed esperto di geopolitica e relazioni nternazionali. Lavora
per Gedi Digital / Limes ed è coordinatore del canale youtube
di Limes)
Partirei dalla Ucraina e da come, per identità e
cultura, prima della guerra fosse bene o male composta da due, o forse tre
zone: occidentale, orientale e meridionale.
Alfonso Desiderio (AD): Ucraina
significa terra di confine, nome azzeccatissimo perché nei secoli è
sempre stata contesa tra mondo russo e resto d’Europa. Da quando è
indipendente, in ogni elezione presidenziale ucraina si è sempre vista una spaccatura
elettorale tra parte sud orientale (filo-russa) e parte centro occidentale
(filo-occidentale) con un candidato che voleva l’Ucraina sempre collegata
all’Occidente (NATO, UE). E questo aveva una base storica perché da Kiev le
zone verso est sono state sotto il controllo russo a lungo, mentre invece le
parti occidentali hanno vissuto solo una breve occupazione russa. Anzi, il
grande problema di oggi l’ha causato Stalin, perché alla fine della seconda
guerra mondiale l’Unione Sovietica vincitrice non ha soltanto espanso la sua
area di influenza fino all’Europa centrale, ma ha voluto espandere i confini
della stessa URSS. Oltre poi a prendersi Kaliningrad sul Mar Baltico (che dopo
il 1991 è diventata un’exclave della Federazione Russa), nella parte meridionale
Stalin ha voluto inserire nella Repubblica Sovietica di Ucraina tutta una
regione che faceva parte dell’impero asburgico, il cui punto di riferimento è
Leopoli, che fu addirittura la quarta città dell’impero, e dove si era
sviluppato un sentimento nazionale ucraino in chiave anti-russa. All’inizio di
questa guerra molti analisti, me compreso, pensavano che alla fine Putin
sarebbe riuscito a conquistare facilmente la parte orientale. Questa è stata un
po’ la sorpresa di questa guerra, perché si è visto che c’è una fiera
resistenza anche nella parte orientale, come nella parte meridionale. Mariupol,
che non è ancora del tutto controllata dai russi, è fondamentale perché è una
città che in sostanza divide la parte delle Repubbliche Federate del Donbass,
rese autonome nel 2014 e ora riconosciute da Putin, con la Crimea – anche
quella annessa nel 2014 – e la provincia di Kerson nella parte meridionale già
conquistata. A Mariupol, che è un caso a sé, c’è il famigerato battaglione
Azov, o meglio reggimento, con molte implicazioni politiche, perché è un
battaglione che ha usato una simbologia nazista, e viene accusato dal punto di
vista ideologico e politico. Ma nelle altre province meridionali la città
chiave è Dnipro, dove vedevamo i video delle madri che preparavano molotov per
strada. Ora certo, c’è un effetto propaganda, però ecco non è che i russi
abbiano avanzato tranquillamente. In questi otto anni dal 2014 anche quella
parte di popolazione che consideravamo russofona in realtà si è trasformata e
sta combattendo contro i russi. Questa è una novità, perché abbiamo
sopravvalutato l’influenza storico-culturale della Russia in queste province.
La divisione sembra essere in tre parti: cittadini ucraini che si considerano
russi (Donbass e Crimea); la parte che parla russo abitualmente; e ucraini
occidentali che sanno entrambe le lingue ma parlano solo ucraino. La novità di
queste prime settimane di combattimenti? È diminuita l’influenza politica e
culturale russa in questa parte orientale di Ucraina; la resistenza ucraina
rappresenta una sconfitta per Putin. Altra sorpresa è che tutti si aspettavano
che Putin volesse mettere un governo fantoccio, si pensava che questa cosa
sarebbe stata facile, trovare cioè un politico ucraino che proclamasse una
Repubblica ucraina indipendente filo-russa. Al momento la sorpresa è che anche
nelle parti più legate alla Russia c’è molta resistenza, è uno dei motivi che
l’ha spinto a intervenire ora, la paura di perdere il paese.
L’obiettivo minimo adesso per Putin qual è?
Prendersi la Nuova Russia, intesa come regione storica, cioè tutta la parte a
nord del Mar Nero?
AD: Quello sta diventando l’obiettivo massimo. Sarebbe una conquista
importante. Non solo si conquisterebbe tutta la costa del Mar Nero (sbocco
mediterraneo che si aggiunge all’espansione russa in Siria, Libia, etc), ma
sarebbe un colpo gravissimo per quello che resta dell’Ucraina, che senza sbocco
al mare difficilmente riuscirebbe a sopravvivere. Questo paese già era povero
prima della guerra, affaticato dalle tensioni degli ultimi anni, senza sbocco
sul mare avrebbe delle difficoltà economiche. L’obiettivo sarebbe di creare uno
stato talmente debole che un domani si potrebbe convincere a tornare alla
Russia, vecchia tattica usata sull’Ucraina intera. Ora, conquistata Mariupol,
si tratterebbe di escludere Odessa e annettersi e riconoscere una Repubblica
del Donbass allargata fino alla Crimea. L’altra questione per i russi è che la
Crimea, anche se storicamente legata alla Russia, dal punto di vista
dell’approvvigionamento idrico ed elettrico dipende dall’Ucraina. Dal 2014 ci
sono stati problemi per i russi a fornire acqua e corrente elettrica alla
Crimea. Questo obiettivo minimo consentirebbe una vera annessione della Crimea
alla Russia.
Hai parlato di un sentimento nazionalista ucraino che
ha sorpreso gli analisti. Puoi parlarci delle sue origini? Quanto è legato alla
figura di Zelensky, e quanto dipende dai rapporti con l’Occidente, o piuttosto
da un senso di identità nazionale forte?
AD: All’inizio della guerra non era previsto da nessuno. Tutti pensavano
che le minacce fossero un modo per ottenere risultati dal punto di vista
politico e diplomatico. E la dimostrazione la si vede in questi giorni.
Militari mandati a fare esercitazioni in Bielorussia sono stati avvisati
all’ultimo o non avvisati. Lo stesso apparato russo, compresi generali nei vari
gradi, alla fine non erano informati o pronti a questa guerra. Quindi
sicuramente nella fase iniziale c’era un obiettivo negoziale anche perché dal
punto di vista militare è un’operazione illogica. Stiamo parlando di un paese
grande quanto la Francia con oltre 40 milioni di abitanti ed è difficile
riuscire a controllarlo con duecentomila soldati. L’unica speranza di vittoria
era che Putin venisse accolto come liberatore. Puoi vincere una guerra come gli
Usa in Iraq, ma poi mantenere il controllo del paese è un’altra questione.
Tutto ciò fa pensare che ci sia stata una decisione di avviare l’intervento da
parte di Putin. Che lui avesse già da tempo questa intenzione e l’abbia tenuta
nascosta, questo non lo sappiamo. Che fosse obiettivo di lungo termine è vero,
qui però entriamo nel campo delle ipotesi, un ping pong con gli Usa che hanno
fatto di tutto per non impedire l’invasione, perché con lo spostamento dei
diplomatici a Leopoli e gli annunci sul non-intervento per l’Ucraina hanno
lasciato agli europei il compito di sostenerla. Insomma, Putin ha pensato
che fosse il momento giusto. Con l’attacco al Congresso americano e con il
ritiro dall’Afghanistan ha intravisto una debolezza americana. Quando fece la
guerra in Georgia era il 2008, l’anno della crisi economica che portò al
fallimento di Lehman Brother. Forse pensava che Zelensky e il governo ucraino
entrassero subito in difficoltà e forse delle persone identificate come
alternativa a Zelensky sono venute meno. E quindi è rimasta solo l’opzione
militare. L’altra sorpresa è stata Zelensky, ex attore comico che Putin
probabilmente non considerava un leader capace di reggere, e che invece si è
rivelato in questa fase un grande leader; sa usare i mezzi social per
coinvolgere l’opinione pubblica occidentale, i governi europei e la stessa
popolazione. Non era scontato. Altro fattore: considerate anche che Biden e gli
Usa hanno tenuto un basso profilo. Dal punto di vista mediatico abbiamo
assistito al confronto tra un Putin che invade, l’uomo forte, e Zelensky la
vittima debole. Sui media è Davide contro Golia. Forse se ci fosse stata una
presa di posizione forte da parte Usa dal punto di vista mediatico sarebbe
stato un confronto tra Biden e Putin; nell’Europa occidentale questo avrebbe
creato manifestazioni di movimenti anti-americani, “Zelensky fantoccio degli
Usa”, però in questa situazione mediatica non è – almeno – sembrato così.
I telegiornali in giro per il mondo che differenze
hanno al di fuori della Russia su come stanno raccontando della guerra?
AD: Ovviamente non conosco tutti i media. Molti paesi subiscono l’influenza
dell’informazione occidentale, quella che noi vediamo filtra in tanti paesi del
mondo ad eccezione di due soggetti principali di questa guerra, Russia e Cina,
dove sono controllati. Quanto questi media sono pervasivi? Con i social ci sono
tanti modi per informarsi. Escludiamo la Cina per ora, parliamo della Russia.
La questione mediatica è questa: in Russia alla fine il settore della
popolazione che subisce l’effetto delle sanzioni è un settore limitato,
soprattutto urbano, e ha quindi un impatto relativo. Il grosso della
popolazione russa, meno legata agli standard occidentali, ha la carta prepagata
russa che non subisce sanzioni, guarda la tv russa filo-putiniana eccetera. C’è
una Russia profonda che in questo momento non viene intaccata dalle sanzioni,
ma ci vuole tempo; non conosce i fatti se non quelli che arrivano dal governo
russo. E conoscendo lo spirito russo è facile per Putin dare colpa
all’Occidente perché c’è un atavico complesso di inferiorità russo verso
l’Occidente. C’è una popolazione che da un lato può essere mobilitata verso
occidente, e dall’altro – pur essendo povera e in difficoltà – è pronta a
sacrifici per la potenza del proprio paese. L’impatto dei media è relativo,
considerando che l’opinione pubblica russa conta relativamente. È importante
l’impatto che ha sugli apparati, ministeri, gruppi di potere intorno a Putin.
Sono in corso delle purghe che sono da un lato effetto di come sta andando la
guerra, ma forse ci sono anche delle crepe all’interno del sistema. Importante
qui è stato rendere pubblico quel video del Consiglio di Sicurezza russo in cui
Putin mette in difficoltà i suoi collaboratori, segnale che da un lato
affermava la forza del leader, dall’altro faceva capire che su questa guerra
c’erano state delle divisioni interne alla Russia. Per la Cina c’è un altro
discorso. L’impatto dei media relativo, il regime è particolare. Molto
importante è quello che deciderà il governo cinese, che è l’unico che può salvare
la Russia.
Prima parlavi del momento giusto per attaccare,
l’altro giorno nel Mappa Mundi con Orietta Moscatelli parlavate di
questo come l’ultimo momento possibile; Moscatelli ipotizzava che
la caduta di Mariupol potesse essere sufficiente a innescare una tregua.
AD: Quello è il problema classico delle negoziazioni. Apriamo il quadro,
riguardo al momento giusto e quello non giusto. C’è stato un allargamento NATO
nel tempo, a danno di quella che era la sfera d’influenza dell’Unione Sovietica
e della Russia stessa. Si è passati dal contenimento a un rosicchiamento dei
vari pezzi, un allargamento fino alle Repubbliche baltiche nel 2004. C’è stata
la Georgia, l’Ucraina, si era arrivati a ipotizzare la caduta di Lukashenko in
Bielorussia, l’unico saldo alleato della Russia – anche se non è così semplice
il suo rapporto con la Russia, perché a lungo Putin e Lukashenko non hanno
avuto ottimi rapporti, Lukashenko aveva voluto rimarcare l’indipendenza della
Bielorussia dalla Russia… Detto ciò, con le manifestazioni contro Lukashenko in
Bielorussia dal punto di vista di Putin, e russo, c’era il rischio che anche la
Bielorussia potesse fare la fine dell’Ucraina. Nella visione russa, Bielorussia
e Kazakistan, al di là dell’allargamento della NATO (l’Ucraina non sarebbe mai
potuta entrare nella NATO per varie ragioni, assenza di confini chiari, stato
di guerra permanente etc), la sensazione da parte di Russia e Putin era di questo
continuo rosicchiamento, e ricordiamoci sempre che la Russia è un impero, non
uno stato nazione. Limes l’ha scritto in vari volumi. La
perdita di pezzi equivale a una frammentazione della Russia stessa.
Con Marco d’Eramo abbiamo parlato di temi simili,
quanto è importante la Siberia per esempio: se la Russia si disgrega, magari la
Cina si prende la Siberia e non è detto che gli Usa lo vogliano… Ci sono tante
nevrosi nel giornalismo italiano, puoi dirci un po’ la tua su questo disagio
davanti al fatto che veniamo da un lungo periodo di benevolenza per la Russia,
e questo imbarazzo di vedere gli Usa che hanno incalzato, fatto sentire
insicuro l’impero russo, e noi non sappiamo più come parlare… Come vedi questo
imbarazzo?
AD: Italia e Germania sono due paesi che storicamente, anche facendo parte dell’alleanza atlantica, hanno sempre avuto un rapporto di forte interscambio con la Russia. Il caso energetico è quello più evidente. Italia e Germania dipendono dal gas russo. Fatto economico e politico. Due esempi: Schröder, segretario del partito socialdemocratico tedesco, va a lavorare per Gazprom ed è uno dei personaggi chiave per la realizzazione del gasdotto che collega Germania e Russia saltando la Polonia. L’altro esempio è il nostro circa il rapporto tra Berlusconi e Putin, non a caso noi dipendiamo dal gas russo per più del 40 per cento, e così la Germania. Ci siamo presi delle libertà nel sistema atlantico. Il problema dell’Italia e degli altri paesi europei, seguendo un filone del post-storicismo, è che siamo entrati in una fase in cui si pensava solo ai lati economici e non politico-strategici, abbiamo delegato questi agli Stati Uniti. Ora ci svegliamo. Gli Usa non sono più disposti a difendersi come nella guerra fredda e scopriamo che per l’accordo del gas ci fu grande attenzione da parte di media e popolazione sugli aspetti che ci legavano alla Russia di Putin.
Intervenire nel Mar Nero significa anche interferire
nelle rotte dei “mari caldi”. Come si modificheranno le dinamiche dello
scacchiere mediterraneo a livello strategico, considerando anche la presenza
della Russia in Siria?
AD: Il Mediterraneo è stato considerato a lungo ai margini dello scacchiere
strategico internazionale. Gli Americani per anni non hanno più schierato
portaerei nel Mediteraneo, e adesso sono tornate: in questo momento sono in
corso esercitazioni tra la portaerei francese De Gaulle, la portaerei italiana
Cavour, la portaerei americana Truman. Quindi il Mediterraneo dal punto di
vista strategico torna importante, e anche a rischio. Si tratta di un problema
pratico, perché le navi russe vanno a vedere cosa fanno le navi occidentali
durante queste esercitazioni, c’è un confronto: molto spesso c’è un aereo che
entra, una nave che si avvicina all’altra… C’è un gioco delle parti che provoca
tensione, e un incidente può sempre accadere. Esiste poi un discorso strategico
e politico più ampio. Noi la Russia ce l’abbiamo al confine, perché da una
parte sostiene Haftar in Libia, dall’altra in Tripolitania abbiamo la Turchia.
Il rapporto tra Russia e Turchia è molto particolare, e se dovessero trovare un
accordo sulla Libia noi avremmo la Russia vicina alle nostre altre forniture di
gas ed energia algerine e nordafricane. Poi c’è la questione migratoria. La
Turchia ha usato l’arma migratoria nei confronti dell’Europa, e potrebbe usarla
anche contro l’Italia, facilitando gli sbarchi e provocando la reazione
dell’opinione pubblica. E poi ci sono i Balcani, che sono già in un equilibrio
molto instabile: basti pensare alla Bosnia negli ultimi mesi, e all’importante
rapporto storico che la Serbia ha con la Russia – anche se in questa crisi la
Serbia all’Onu ha una posizione non proprio filo-russa. Con Romania e Bulgaria
che sono sul Mar Nero, e vengono influenzate da questa guerra direttamente,
anche i Balcani entrano in fibrillazione: è possibile che nei prossimi mesi
esplodano delle crisi. E poi abbiamo una serie di effetti indiretti: noi
parliamo giustamente dei danni economici che le sanzioni e provocheranno
all’economia italiana ed europea, ma il rialzo dei prezzi avrà effetti
devastanti nei paesi dall’Africa e del Medio Oriente, quindi bisogna stare
attenti a crisi che potrebbero essere innescate dal rialzo dei prezzi delle
materie prime – grano, fertilizzanti, metalli e così via – e che
innescherebbero effetti anche politici nei Paesi con economie molto più fragili
della nostra, in aree instabili.
A proposito, c’è anche una questione mediorientale
poco raccontata ma che in realtà mi sembra fondamentale. La Russia ha un ruolo
chiave in Medio Oriente. Per la presenza militare e politica in Siria, come
dicevi, perché contiene l’Iran contro Israele, e per le tante connessioni che ha
proprio con Israele: il russo, per esempio, è la lingua madre non ufficiale del
paese; sono legami profondi, culturali. Per questo Israele sembrava, almeno
all’inizio, poter diventare una figura di intermediazione, anche per il fatto
che Zelensky è ebreo.
AD: All’inizio sembrava, sì, in questa fase sembra esserlo meno, però forse
ha un ruolo sotterraneo. Considerate che i russi in Israele si sentono russi.
C’è un legame forte poi di Israele con gli Usa che è scontato. C’è il discorso
dei flussi finanziari, i patrimoni degli oligarchi all’estero, metterei anche
Cipro che è una delle destinazioni privilegiate delle finanze; ricordiamo che è
divisa, la situazione è ambigua. E quindi Israele può avere un ruolo, ma non è
ancora chiaro di che tipo, dal punto di vista politico, perché i legami con gli
Usa sono fortissimi anche se si dà per scontato il luogo comune per cui Israele
sia influenzabile dagli Usa. Non è sempre così. I rapporti di forza tra i due
paesi è particolare, non è che Israele segue e basta, è un rapporto complicato
e quindi bisogna capire gli interessi in questa fase di Israele, che è appunto
interessato all’Iran. Siria: c’è una presenza russa che sostiene Assad, in
contrasto forte con la Turchia. Alcuni scontri sono tenuti nascosti. Noi abbiamo
visto anche meno di ciò che è stato tra Russia e Turchia. Entriamo nel capitolo
della Turchia, allora, paese chiave nei rapporti con la Russia: è un rapporto
ambiguo. La Turchia fa gioco tra Stati Uniti, Nato e Russia; quindi da un lato
la Russia sarebbe un’antagonista della Turchia (Libia, Mar Nero, controllo
degli stretti), hanno un problema nel Caucaso, hanno tantissimi contrasti in
atto… Nonostante ciò hanno anche delle collaborazioni: la Turchia ha comprato
il sistema missilistico russo S400, gli Usa non hanno dato gli F35 perché
temevano che la tecnologia potesse passare ai russi; collaborazione economica,
flusso turistico, un rapporto non nitido. È impossibile fare previsioni. Dal
punto di vista strategico la Turchia è antagonista della Russia per interessi
contrapposti; magari vedremo un avvicinamento tattico ora, in funzione
anti-americana, anche se lì Turchia e Russia hanno troppi problemi geopolitici
di lungo periodo per un riavvicinamento totale. Ci sono diversi dossier,
bisogna capire su quali si può trovare l’accordo. Discorso simile per la
Cina, anche lì sono impossibili le previsioni, non è scontato che la Cina
sostenga la Russia e viceversa.
Hai tirato fuori la parola “dossier”. La parola
dossier aiuta a capire la differenza tra il lavoro che fate a Limes e
quello di talk show e telegiornali che la buttano sul sentimentale. È
importante ricordarsi che ci sono una serie di faldoni con scritte delle
questioni, e bisogna un po’ trattare tra quelle. La domanda che ti vogliono
fare è: voi avete tradotto in italiano deep state, stato profondo, traduzione
di un termine turco che Trump ha usato per parlare male degli apparati. Voi
avete fatto un lavoro per far capire che per stato profondo si intende
continuità del rapporto tra collettività e amministrazione e comprensione di
quale deve essere la strategia. Con tutti questi personaggi, qual è il rapporto
tra i dossier che stanno in mano allo stato profondo e il lavoro dei politici?
Qual è equilibrio tra le due cose?
AD: Gli apparati svolgono una funzione fondamentale dal punto di vista
culturale storico e politico. Il consigliere del principe ha sempre avuto un
ruolo fondamentale. È difficile da soppesare. È più facile negli Usa, che hanno
un apparato evidente, che non è però compatto. Entriamo nella logica per cui
l’apparato americano è diviso in vari componenti; ma anche proprio all’interno
delle singole strutture c’è questo interscambio continuo tra mondo privato e
pubblico, questa attività di lobbying che fa sì che la divisione tra privato e
pubblico sia molto fragile. Ci sono poi i filoni culturali che vanno di moda
nell’apparato americano che in vario modo influenzano. Nell’apparato americano
c’è una tradizione anti-russa importante. E qui c’è una novità. A Limes abbiamo
fatto una carta sulla Russia nemico preferito degli Usa, tanto che alcuni
parlano nei termini di una collaborazione perché la divisione faceva comodo a
entrambi: era una guerra fredda, ma anche un’alleanza, per certi versi. E c’è
questo filone anti-russo molto forte legato alle comunità, ad esempio, di
polacchi negli Stati Uniti. La novità è che sta crescendo il filo-putinismo
negli Usa, c’è una crisi interna negli Usa, ecco anche la motivazione di un
profilo basso di fronte all’invasione di Putin. Sono spaccati al proprio interno.
Anche lì è complicato, perché è sempre complicato il rapporto tra apparato e
opinione pubblica americana: c’è un’America che da sempre non sopporta
Washington, una ridotta minoranza che sta diventando un concetto più ampio. Gli
apparati hanno problemi a mantenere il controllo della popolazione. Negli USA
c’è la stampa libera. È facile scambiare informazioni.
È pensabile immaginare uno scenario della Russia dopo
Putin?
AD: Anche nella migliore delle ipotesi per Putin, un passo geopolitico
duraturo nel tempo è stato fatto. La Russia resterà a lungo con le sanzioni.
Putin nei primi anni della sua presidenza guardava molto a occidente,
all’integrazione russa nel sistema occidentale. Poi si è rotta questa strada, e
la strategia è cambiata. È stato nel 2007-2008, quando a Monaco Putin fa un
discorso importante, dove dice alla NATO: “dove volete arrivare?”; e poi
l’applicazione pratica di questa logica è la guerra in Georgia nel 2008. Anche
gli ultimi discorsi, spinti dall’immediatezza della situazione attuale,
mostrano un odio verso l’Occidente. Un odio che marca uno spostamento della
Russia verso oriente, anche nella popolazione; quella più legata all’Occidente
è quella più colpita, più debole in futuro. L’effetto nel medio periodo è
importante. L’altro grosso effetto dal punto di vista geopolitico è il riarmo
tedesco, un elemento fondamentale che avrà un effetto sul futuro dell’Unione
Europea, ma ne parliamo un’altra volta.